Come siamo venuti allo sciopero e cosa esso insegna

La polemica sullo sciopero generale nazionale si scatena in termini furiosi. Ogni gruppo politico ed ogni giornale ne attribuiscono la paternità a chi fa loro più comodo. Da Nitti a Malatesta, i promotori dello sciopero sono cercati sulle più opposte sponde politiche.

Confederazione del Lavoro e socialisti di destra e sinistra non hanno ancora parlato. Non si sa come sono andate le cose in seno al Comitato nazionale dell'Alleanza del Lavoro. La composizione di questo comitato è nota. Vi sono per la Confederazione del Lavoro dei socialisti di destra, per il Sindacato Ferrovieri dei socialisti massimalisti e anarchici, per l'USI anche degli anarchici. La maggioranza è dei riformisti.

Si può subito concludere che se lo sciopero è stato deliberato, i collaborazionisti dovevano essere favorevoli. Si deve ritenere che anche gli altri siano stati favorevoli, sebbene si dica che il delegato dell'Unione Sindacale fosse contrario, voce che non possiamo controllare.

Diremo subito che cosa pensavano e dissero i comunisti - poiché ebbero il modo di dire il loro pensiero oltreché attraverso la nota campagna sulla loro stampa e proteste pubbliche indirizzate all'Alleanza del Lavoro, anche direttamente agli organi e ai delegati autorizzati di questi.

Non certo prenderemo parte a un gioco di scarica barile. Stabiliamo subito in faccia a chiunque che siamo stati per lo sciopero e in esso il nostro partito ha assunto tutte le responsabilità. Di più: crediamo che lo sciopero sia stato utile per il proletariato; che è riuscito, perché ha dimostrato un'intensa combattività proletaria; perché la sua esperienza servirà ad evitare per l'avvenire i gravissimi errori commessi dai suoi dirigenti.

Ma il Partito Comunista ha il diritto e il dovere di criticare a fondo la scelta del momento per lo sciopero, la sua preparazione come propaganda e come organizzazione, il modo della sua direzione, la decisione di farlo cessare dopo due giorni e mezzo.

Da una simile discussione non può uscire che una chiarificazione utilissima delle idee e dei metodi delle varie frazioni politiche proletarie in modo che la classe lavoratrice possa finalmente scegliere la sua via con unità di intenti e di forze. In tutta la nostra propaganda noi abbiamo sempre dimostrato la inconciliabilità dei due metodi preconizzati per liberare il proletariato dalle strettoie dolorose della presente situazione: quello dell'impiego della legalità e della speranza di poter influenzare utilmente l'attuale organismo statale, e quello dell'impiego diretto della forza della classe lavoratrice per la sua difesa.

Che cosa fecero tutti coloro che si opponevano a noi? Per attirare il proletariato sulla via legalitaria e collaborazionista, lavorarono per togliergli la fiducia nella lotta di classe, predicarono il pacifismo e la non risposta alla violenza fascista, denigrarono la possibilità di riuscita e di successo dello sciopero generale nazionale da noi proposto: in altri termini condussero tutta una propaganda di disfattismo dell'azione di massa. La responsabilità di costoro è condivisa dai massimalisti del PSI i quali, benché avversi al collaborazionismo, fecero anch'essi questa propaganda di sfiducia nell'azione diretta contro il fascismo e la reazione, tanto più insidiosa in quanto dissimulata dalle frasi di un estremismo filisteo apportatore solo di illusioni e di delusioni.

Ad un certo momento i collaborazionisti credettero possibile utilizzare la forza delle masse per la loro tattica legalitaria che non aveva successo nelle manovre parlamentari e nella gestione della crisi ministeriale da essi provocata. Lo sciopero generale fu proclamato da quelli che lo avevano condannato come pazzesco e criminale e fu proclamato all'improvviso, ad ora fissa, senza una parola che animasse e orientasse le masse alla vigilia della lotta.

Non si voleva certo dire: abbandoniamo ogni speranza di risolvere il problema del tormento e dell'oppressione del proletariato sul terreno legalitario, e vi chiamiamo alla lotta diretta essendoci convinti che è in questa l'unica via di salute del proletariato. Solo una simile propaganda, che è quella che noi comunisti facciamo, può preparare il successo decisivo delle grandi azioni di massa. E questa propaganda deve essere apertamente accompagnata dalla condanna del pacifismo e dall'incitamento ad armarsi rivolto alle masse, da un'adatta organizzazione del loro inquadramento di lotta.

Invece le masse si vedevano chiamate all'azione da quegli stessi che non solo non avevano fatto la preparazione delle menti e delle braccia, ma l'avevano negata e derisa.

Nemmeno essi ebbero il coraggio di dire, con una campagna preparatoria dello sciopero, che lo facevano per influire sulla crisi e per sostenere la politica di collaborazione giunta al culmine con l'andata di Turati al Quirinale. Ma un bel giorno diramarono in segreto l'ordine di sciopero ai loro fiduciari. Se Il Lavoro di Genova non avesse pubblicato la notizia, non sarebbe stato permesso dall'Alleanza del Lavoro ai giornali proletari nemmeno di renderla nota la sera del lunedì. Nemmeno si volle accettare, come noi proponemmo, di pubblicare che l'Alleanza del Lavoro aveva deciso di massima lo sciopero nazionale, salvo a farlo scoppiare di sorpresa, visto che si attribuiva una grande importanza alla sorpresa, mentre non si era pensato nemmeno per un millesimo a una organizzazione tale da trascinare le masse con ordini dati per "via interna".

D'altra parte lo sciopero non coincideva coi momenti in cui il proletariato lo avrebbe di colpo compreso: difesa dei metallurgici, dei lavoratori delle Marche, del Piemonte, della Romagna, lievito sentimentale e obiettivo tattico preciso al tempo stesso. Noi facemmo le nostre riserve sul momento scelto e sul modo di annunziare lo sciopero: non eravamo contrari perché fosse troppo presto, ma perché era troppo tardi. Se in modo indipendente dalla crisi si fosse dichiarato che si preparava lo sciopero generale, una settimana di intensa propaganda pubblica, aperta, decisa, che non esclude nessuna preparazione illegale, se se ne sa fare (noi siamo soli a farne e abbiamo sempre data la parola pubblica dell'armamento e della violenza), avrebbe portato le masse ad una preparazione sufficiente; oppure l'azione avrebbe dovuto scoppiare con ordine pubblico e clamoroso ad uno degli episodi salienti della lotta contro la reazione, come quelli che abbiamo indicato e che purtroppo non sono radi.

Ma veniamo all'avvenire. Che cosa ha mostrato lo sciopero e il suo svolgimento connesso a quello della crisi? Che effettivamente le due vie sono inconciliabili: o collaborazione o azione di massa.

L'illusione della prima aveva disorientato e paralizzato la lotta aperta del proletariato. La mobilitazione di esso anche da parte dei "legalitari" è bastata ad approfondire l'abisso tra le due classi: tra gli operai in sciopero e la fortezza delle istituzioni statali borghesi. Turati, cortigiano e scioperaiolo, è stato buttato fuori dalle manipolazioni ministeriali.

Quindi il proletariato ha gli elementi per scegliere: o l'azione legalitaria attuabile solo col disarmo e la disgregazione delle sue forze organizzate e che si rivela un vicolo cieco e che sarà possibile (vedere la stampa nittiana) solo quando socialdemocratici e fascisti diverranno alleati e lo Stato borghese continuerà con essi la sua funzione antiproletaria - oppure l'azione delle masse.

Questa può e deve essere allestita solo condannando ogni illusionismo democratico e ogni pacifismo, armando e organizzando la guerra di classe.

Non può, fra le due vie, giocare alcun equivoco; altrimenti resteranno per sempre entrambe sbarrate. La via che noi proponiamo è ardua e difficile: ma è la sola che non sbocchi nel nulla. Le masse hanno oggi gli elementi per decidere.

Fonte L'Ordine Nuovo del 5 agosto 1922
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