I fondamenti del comunismo rivoluzionario marxista nella dottrina e nella storia della lotta proletaria internazionale (1)

Prima parte

Prefazione del 1970

Il testo che qui riproduciamo è il resoconto integrale, già apparso sul nostro quindicinale Il Programma Comunista, nn. 13-14-15 del 1957, del rapporto omonimo tenuto ad una nostra riunione generale in Francia. Nella lunga opera di ripresentazione della dottrina marxista integrale, che il Partito svolge ormai da decenni contro le ricorrenti ondate revisionistiche, esso occupa un posto tanto più importante, in quanto le deviazioni e gli sviamenti qui denunziati alla luce del marxismo in gruppetti italiani e francesi di falsa sinistra hanno ripreso nuovo vigore e sono anzi divenuti il pane quotidiano sia dei cosiddetti partiti "comunisti" di affiliazione russa o cinese o altra, sia delle innumerevoli conventicole di "contestatori". È un segno della vitalità e insieme della invarianza della dottrina marxista, di contro alle pretese di scoperta degli "innovatori", che la nostra feroce polemica di oggi possa riprendere tali e quali le classiche strigliate di Marx e di Engels a Proudhon nel 1847 e al nascente partito tedesco impeciato di lassallismo nel 1875, oltre che, naturalmente, nel Manifesto.

Si tratta di malattie croniche (e altrettanto "invarianti") del movimento operaio, destinate a riaffiorare nella stessa misura in cui l'influenza ideologica, se non il peso sociale, della piccola borghesia continua ad infiltrarsi e a serpeggiare nelle file del proletariato, e a sopravvivere in esse per una specie di inerzia storica - nel che è, fra parentesi, una delle ragioni della necessità dell'esercizio dittatoriale del potere conquistato ad opera del partito comunista.

Due sono i bersagli contro i quali è diretto, in questo ambito, lo strale della nostra critica demolitrice. Il primo è l'antica pretesa, svolta fino alle estreme conseguenze dagli anarchici, di privare la classe e la sua lotta di emancipazione delle armi senza le quali la prima non è neanche classe in senso proprio e la seconda è impossibile, cioè il Partito e lo Stato della dittatura e del terrore rosso; "errore" (ma "errore" fatale) in cui precipitano anche coloro che, pur rivendicando la lotta di classe, la rivoluzione violenta e la dittatura, sacrificano il partito, nella sua funzione primaria di guida della classe ed anzi di incarnazione della classe stessa nel suo cammino storico, al mito di una gestione "diretta" del potere attraverso organi sedicentemente rappresentativi della "volontà" autentica, non "burocraticamente" deformata, dei lavoratori: mito oggi diffuso un po' in tutto il mondo con l'aiuto di filosofi, professori e... studenti.

Il secondo bersaglio, strettamente legato al primo sebbene apparentemente isolabile da esso, è la visione distorta di un'economia socialista che, lungi dall'essere un'organizzazione della produzione "alla scala della società" e quindi, tendenzialmente, della specie, si svolgerebbe in isole locali chiuse e gelosamente "autonome", nel che riaffiora l'ideologia individualista e democratica propria dell'economia borghese e del suo necessario palcoscenico, il mercato. Questa visione non è soltanto tipica dell'anarchismo classico, del rivoluzionarsindacalismo e della sua variante ordinovista, nonché di tutti i gruppi o gruppetti "innovatori" e "contestatori" che iscrivono sulla loro bandiera la rivendicazione di diritti e "poteri" periferici - nella fabbrica, nel quartiere, dovunque (e, a ben guardare, prima di tutto nel sacrosanto Io del borghese grande, medio e piccolo) - ma anche dello stalinismo nelle sue molteplici proliferazioni, come è del resto naturale per chi ha scoperto che nell'economia socialista ("edificabile in un paese solo"!) continua a vigere la legge del valore - con il suo codazzo di categorie economico-sociali: merce, lavoro salariato, profitto ecc. - e non alludiamo soltanto alla ideologia jugoslava dell'autogestione, ma alle riforme degli stessi Krusciov e Kossighin, dei Kadar e Ceausescu, o della vagheggiata "primavera praghese" tutte ispirate all'"ideale" dell'autonomia crescente delle unità produttive, e in primo luogo dell'azienda.

Gli anelli ferrei della dottrina marxista sono, qui, tutti spezzati, e, partendo da orizzonti spesso opposti (lo stalinismo e l'... antistalinismo), tutti gli "innovatori" piombano nel comune pantano del democratismo, del proudhonismo e in definitiva dell'individualismo, rispolverano i logori miti di liberté, égalité e fraternité, convinti ogni volta di aver scoperto continenti inesplorati e di aver "creativamente" contribuito a dare "un volto umano" al socialismo e al comunismo, e beatamente ignari di essere semplicemente tornati in braccio a Santa Madre Chiesa - la chiesa, ben s'intende, del Capitale.

I. Premessa

Piano dell'esposizione

Introduciamo prima di tutto la nostra esposizione facendo osservare come non ci si possa attendere una trattazione sistematica che abbracci tutti gli aspetti della concezione e del programma comunista, sotto il riflesso economico, storico e politico e sotto quello che potrebbe dirsi il tessuto connettivo degli altri, rispondente all'originalità del nostro metodo, al modo del tutto esclusivo con cui il marxismo - con risposte complete e definitive date fin dalla primissima sua apparizione, che si pone nella prima metà del secolo scorso - scioglie a nostro credere per sempre i nodi del legame fra teoria ed azione, economia e ideologia, causalità determinante e dinamica della società umana: quello che per brevità diciamo talvolta aspetto filosofico dei marxismo, o materialismo dialettico.

Saremmo di più esposti all'abituale censura di astrattismo ove volessimo, sistemando tali concetti, chiarire la nostra originale veduta della funzione dell'individuo nella società, e del legame dell'uno e dell'altra con l'ente Stato, e del significato nel regolare questa dottrina dell'ente classe. Ci esporremmo quindi al rischio di essere fraintesi, lasciando dimenticare un dato basilare della nostra soluzione, ossia quello che le formule che sciolgono quelle domande non sono permanenti nel tempo ma variano col succedersi di grandi periodi della storia, che sono per noi quelli delle diverse forme sociali e modi di produzione.

La nostra riproposizione sarà quindi, pur rivendicando la costanza delle risposte marxiste al di sopra degli episodi svolti delle situazioni storiche, più legata alla fase disgraziata che oggi attraversa in tutto il mondo, da decenni e certo per decenni, il movimento rivoluzionario contro il capitale; e metteremo nella giusta posizione le pietre angolari della nostra scienza, raddrizzando quelle che più insistentemente i nemici tentano di abbattere, e agendo nella direzione opposta alla loro spinta deformante.

Per far ciò, porremo l'occhio su tre principali gruppi dei critici della posizione dottrinale che è la sola rivoluzionaria, e nel fare ciò ci preoccuperà maggiormente quella critica che più tenacemente pretende di far leva sugli stessi principii e movimenti a cui noi ci richiamiamo.

Ricordiamo ai lettori che un simile tema fu svolto nella riunione di Milano del 1952 (Invarianza storica del marxismo nel corso rivoluzionario, in Programma Comunista, nn. 1-5 del 1953, riprodotto nei nn. 5-6 del 1969), che in una prima parte rivendicò la storica invarianza del marxismo sostenendo che esso non è una dottrina in continua formazione, ma si completò nel tempo storico a ciò adatto, ossia all'apparire del moderno proletariato, ed è pietra di paragone per la nostra visione storica la riprova che tale classe percorrerà tutto l'arco storico dall'apparizione alla caduta del regime del capitale usando intatte le stesse armi teoriche. La seconda parte trattò della "falsa risorsa dell'attivismo" svolgendo la critica, cui anche qui ci dedicheremo, dei ritorni delle illusioni "volontariste", forma degenerante pericolosissima del marxismo sempre sfruttata nelle ondate delle epidemie opportuniste.

Rassegna degli avversari

In quella prima parte dividemmo i nemici della nostra posizione tra: negatori, falsificatori, aggiornatori.

I primi sono oggi rappresentati dai difensori aperti e dagli apologeti del capitalismo come forma definitiva della "civiltà" umana. Noi non dedichiamo più ad essi troppa attenzione; la nostra considerazione è che sono già stati messi knock-out dai colpi di Carlo Marx, e ce ne liberiamo ripetendo quei colpi, a suo tempo appresi, contro gli altri due gruppi. (Poniamo qui in parentesi, una volta per sempre, che il compito di questa nostra dichiarata "riproposizione" non aspira tanto ad essere definitiva vittoria in un agone polemico, ma tende, specie fino a che siamo nei limiti di un sunto, a chiaramente autodefinirci e a fornire i nostri connotati critici, con il carico di provare che sono tali da non essere mutati in ben più di cento anni).

I negatori di Marx del primo gruppo vedono confermata la loro disfatta, per ora solo dottrinale (e domani sociale), dal fatto che ogni giorno più passano tra quelli che "rubano" le verità che Marx scoprì, e convinti di non poterle abbattere quando siano fermamente enunciate (come invece noi rivoluzionari procuriamo senza tema di fare con le loro tesi classiche) si presentano nella forma della seconda schiera, dei falsificatori, e (perché no?) della terza.

I falsificatori sono quelli che vengono storicamente indicati come "opportunisti", revisionisti, riformisti, quelli che tolsero dal complesso delle teorie di Marx, assumendo che fosse possibile senza tutto annientare, l'attesa della catastrofe rivoluzionaria e l'uso della violenza armata. Vi sono però, e lo si richiamerà subito, schiere di falsificatori del tutto paralleli ai primi (e del pari nella superstizione dell'attivismo) anche tra quelli che mostrano accettare la violenza ribelle: ma dove gli uni e gli altri rinculano è davanti al contenuto esclusivo e discriminante della teoria di Marx: la forza armata nel pugno non più del solo individuo o gruppo oppresso, ma della classe vittoriosa e liberata, la dittatura di classe, bestia nera di socialdemocratici e di anarchici. Possiamo avere avuto intorno al 1917 l'illusione che anche questo secondo lurido gruppo fosse andato al tappeto sotto i colpi di Lenin, ma, mentre consideriamo definitiva quella vittoria in dottrina fummo tra i primi ad avvertire la presenza delle condizioni da cui quella genìa infame sarebbe risorta, ed oggi la definiamo nello stalinismo, e nel post-stalinismo russo in circolazione dal XX Congresso in poi.

Infine nel terzo settore degli aggiornatori noi collochiamo quei gruppi che, pur considerando lo stalinismo di cui sopra come una nuova forma del classico opportunismo battuto da Lenin, attribuiscono questo pauroso rovescio del movimento rivoluzionario operaio a forme difettose ed insufficienti contenute nella prima costruzione di Marx, e si assumono di rettificarla pretendendo di poterlo fare sui dati della evoluzione storica successiva alla formazione della teoria; evoluzione che, a loro dire, l'ha contraddetta.

Esistono in Italia, in Francia ed ovunque molti di questi gruppi e gruppetti nei quali si disperdono con esito disastroso le prime reazioni proletarie contro i terribili disinganni dovuti alle deformazioni e alle decomposizioni prodotte dallo stalinismo, dalla tabe opportunista che ha ucciso la Terza Internazionale di Lenin. Uno di essi si collega al trotzkismo, ma in realtà non intende come Trotzky abbia sempre condannato in Stalin la deviazione da Marx, anche se abusando di giudizi personali e morali; via sterile, come ha mostrato la sfacciataggine con cui la imbocca il XX Congresso, per prostituire le tradizioni assai peggio dello stesso Stalin.

Tutti questi gruppi cadono, in blocco nell'altra malattia dell'attivismo, e la loro enorme distanza critica dal marxismo non fa loro intendere che è lo stesso errore dei Bernstein tedeschi che volevano fabbricare il socialismo entro la democrazia parlamentare contrapponendo la quotidiana prassi alla (per loro) fredda teoria, e dei figli di Stalin che hanno fatto a pezzi la posizione e di Marx e di Lenin e di Trotzky sulla internazionalità della trasformazione economica socialista, in una sconcia esibizione di pugni muscolati con cui l'avrebbero, esasperando la loro volontà di dominio, già fabbricata!

Stalin è il padre teorico del metodo dell'arricchimento e dell'aggiornamento del marxismo, che ogni volta che si presenta equivale alla distruzione della visione della forza rivoluzionaria proletaria mondiale.

Quindi la nostra posizione è contro i tre gruppi allo stesso tempo, ma la rimessa in ordine ed a punto più essenziale la dovremo fare nei riguardi delle speciose deformazioni e presuntuose neo-costruzioni del terzo gruppo, che per essere contemporanee sono più note, e che non è facile per i lavoratori di oggi, dopo la devastazione stalinista, ricondurre a vecchie storiche insidie, contro le quali noi proponiamo una sola attitudine: il ritorno integrale alle posizioni del comunismo del Manifesto del 1848, che contengono in potenza tutta la nostra critica sociale e storica, dimostrando che tutta la susseguente vicenda, con le sanguinose lotte e sconfitte del proletariato lungo un secolo, ribadisce la solidità di quanto si vorrebbe follemente abbandonare.

II. Partito e Stato di classe come forme essenziali della rivoluzione comunista

La grande questione del potere

Portando, al solo fine di alleggerire la deduzione teoretica, la nostra attenzione sulla numerosa schiera dei critici delle degenerazioni moscovite, la quale si è andata allargando malgrado le contromisure preventive del XX Congresso dopo gli avvenimenti di Ungheria, Polonia, della Germania orientale, agli stessi margini dei partiti stalinisti ufficiali in occidente con sfilamenti, a nostro parere, di materiale più che equivoco e piccolo-borghese come può essere quello dei Sartre o dei Picasso, dobbiamo osservare che, non senza successo, la condanna ha questo suono: abuso della dittatura, abuso della forma del partito politico soggetto a disciplina centrale, abuso del potere di Stato nella forma dittatoriale. Tutta questa genterella cerca il rimedio in questa direzione: più libertà, più democrazia, riporto del socialismo nella atmosfera ideologica e politica della legalità liberale ed elettorale, rinunzia all'uso della forza di Stato, in generale, nei rapporti tra le diverse proposte, e dunque opinioni, politiche. Al solito noi diamo il primo posto come obiettivo dei nostri colpi non a chi tanto dice come aperto difensore del modo borghese di produzione tenuto a battesimo da quel sistema ideologico giuridico e politico, ma a chi vuole innestare questo cianciare senza senso al troncone marxista.

E poniamo giù subito la nostra opposta assunzione. Il movimento rivoluzionario scevro da servile ammirazione del mondo libero americano, da soggezione alla corruzione moscovita, da vulnerabilità alla lue tremenda dell'opportunismo, risorgerà solo in quanto ritroverà la radicale piattaforma originaria marxista, e sulla decisa formula che il socialismo, per suo contenuto, supera, nega e disonora come concetti adatti alla difesa e conservazione del capitalismo la libertà, la democrazia, il parlamentarismo elettivo, la suprema menzogna e risorsa controrivoluzionaria di rivendicare uno Stato inerte e neutrale davanti agli interessi delle classi ed alle proposte dei partiti, e quindi alla balorda libertà delle opinioni - essendo un tale Stato e una tale libertà mostruose invenzioni che la storia non ha mai conosciute né conoscerà.

Non solo è pacifico che tanto ha stabilito e dichiarato il marxismo fin dai primi anni, ma va aggiunto che il concetto dell'uso del potere fisico, contro le minoranze - e anche le maggioranze - avverse, presume l'intervento di due forme essenziali contenute nello "schema" storico marxista: Partito e Stato.

Vi è uno "schema storico marxista" in quanto, in altre parole, la dottrina marxista si basa sulla possibilità di tracciare uno schema alla storia. Se non si arriva a trovare qual è lo schema, o se quello trovato fallisce, il marxismo sarà caduto e avranno ragione i negatori del primo tipo; forse non basterà nemmeno questo per far capitolare i marxisti falsificati e "arrangiati"!

Chi si oppone alla nostra tesi che nello schema marxista Partito e Stato sono elementi non accessori, ma principali, e volesse affermare che l'elemento principale è la classe, mentre il Partito e lo Stato sono accessori della storia e della lotta di essa, che egli ha stabilito di "cambiare" come le gomme o i fanali di un'automobile, sarebbe smentito, per ora e per direttissima, dallo stesso Marx, nella lettera a Weydemeyer citata classicamente da Lenin in Stato e Rivoluzione, di cui noi rivendichiamo integralmente la costruzione storica. Che ci siano le classi, dice Marx, non io l'ho scoperto, ma molti scrittori e storici borghesi (al 1852). Nemmeno la lotta delle classi l'ho scoperta io, ma molti altri, che non sono per questo né comunisti né rivoluzionari. Il contenuto della mia dottrina sta nel concetto storico della "dittatura" del proletariato, stadio necessario nel passaggio dal capitalismo al socialismo. Così dice Marx, una delle rare volte che parla di sé.

La classe operaia statisticamente definita dunque non ci interessa gran che. Poco più la classe operaia che a gruppi si muove per dipanare sue divergenze di interessi con le altre classi (sono sempre più di due). A noi interessa la classe che ha preso la dittatura, ossia ha vinto il potere, ha distrutto lo Stato borghese, ha eretto il suo, come Lenin da maestro enuclea svergognando i "dimenticatori" del marxismo della II Internazionale. Come, su una classe, si poggia un potere di Stato dittatoriale totalitario, una macchina di Stato opposta alla vecchia come l'esercito vincitore nelle posizioni dello sconfitto? Quale l'organo? I filistei risposero subito che per noi era l'uomo, per la Russia era Lenin, di cui si osa fare un paio con lo sciagurato Stalin, bruciato oggi e, dicono, assassinato ieri dai suoi cagnotti. La nostra risposta era ed è più che mai altra.

L'organo della dittatura e del maneggio dell'arma-Stato è il Partito politico della classe, il partito che, nella sua dottrina e nella lunga catena storica della sua azione, possiede in potenza il compito di trasformazione della società, che è proprio della classe. Il Partito. Noi non ci limitiamo a dire che la lotta e il compito storico della classe non si potranno attuare se non sono affidati a queste due forme: Stato dittatoriale (ossia che espelle da sé, fin che esistono, le altre classi ormai vinte e soggiogate) e Partito politico. Noi diciamo che nel nostro linguaggio dialettico e rivoluzionario si comincia a parlare di classe, a stabilire un legame dinamico tra una classe oggi compressa nella società e una forma sociale futura e rivoluzionata, a prendere in considerazione la lotta tra la classe che detiene lo Stato e quella che deve rovesciarlo e sostituirlo col suo, solo quando la classe non è una fredda constatazione statistica, che resta alla pedestre altezza del pensiero borghese, ma si manifesta nel suo Partito, organo senza il quale non ha vita né forza di battaglia.

Non solo dunque non si può staccare il partito dalla classe come un accessorio da un principale; ma i nuovi deformatori del marxismo, proponendoci una classe proletaria priva di partito, o con un partito sterilizzato e impotente, o cercando surrogati al partito, hanno fatto scomparire la classe, uccisa la possibilità che la classe lotti per il socialismo, e peranco per un suo tozzo di pane.

Errore smascherato da un secolo

A simili enormità sono stati spinti i moderni arricchitori da uno smarrimento critico che li ha indotti senza saperlo a fare proprie le insinuazioni borghesi e piccolo-borghesi che sorsero quando la rivoluzione di Russia procedeva ancora su quella linea, che anche secondo essi fu gloriosa, e in cui Classe, Stato, Partito ed uomini del partito stavano sullo stesso piano rivoluzionario, appunto in quanto su quelle posizioni essenziali non vi erano esitazioni di sorta.

Essi non si rendono conto che annacquando il partito e la sua funzione di primo organo della rivoluzione essi declassano il proletariato e lo portano impotente sotto il giogo della classe dominatrice, che non potrà abbattere e nemmeno mitigare anche sotto angoli visuali ristretti. Essi credono di avere davvero migliorato il marxismo per avere imparato dalla storia un banale: chi troppo la tira la spezza! degno dell'ultimo cerottaio, e non si accorgono che non si tratta di una correzione ma di un livragamento; meglio, di un complesso d'inferiorità da incomprensione impotente.

La forma Partito e la forma Stato sono punti essenziali nei primi testi della nostra dottrina; e sono due tappe di base dello svolgimento epico dato dal Manifesto dei Comunisti.

Due sono i trapassi rivoluzionari del capitolo Proletari e Comunisti. Il primo, già indicato nel precedente capitolo Borghesi e Proletari, è la organizzazione del proletariato in partito politico. Questa affermazione segue l'altra notissima: Ogni lotta di classe è lotta politica. La sua espressione è anzi ancora più netta e collima con la nostra tesi: il proletariato è storicamente una classe quando arriva a dar vita alla lotta politica e di partito. Il testo dice infatti: Questa organizzazione dei proletari in classe, quindi in partito politico.

Il secondo dei trapassi rivoluzionari è l'organizzazione del proletariato in classe dominante: qui viene sollevata la questione del potere e dello Stato. "Abbiamo già visto sopra che il primo passo nella rivoluzione operaia è l'elevarsi del proletariato a classe dominante".

Segue di poco più oltre la secca definizione dello Stato di classe: "Il proletariato stesso organizzato come classe dominante".

Né abbiamo qui bisogno di anticipare come un'altra delle tesi essenziali rimesse in piedi da Lenin, la sparizione dello Stato in tempo ulteriore, è contenuta anch'essa in quel primo testo famoso. La definizione generale: "Il potere politico è la forza organizzata di una classe per l'oppressione di un'altra", sottolinea le classiche affermazioni: il potere pubblico perderà il suo carattere politico, spariranno le classi ed ogni dominio di classe, anche quello proletario.

Dunque, al centro della visione marxista vi è il Partito e lo Stato. Si tratta di prendere o lasciare. Cercare la classe fuori del suo Partito e del suo Stato è opera vana, privarla di essi significa volgere le terga al comunismo e alla rivoluzione.

Questo tentativo demente, che gli "aggiornatori" considerano una scoperta originale fatta dopo la Seconda Guerra Mondiale, era già stata fatta prima del Manifesto, e prima di questo dispersa col formidabile pamphlet polemico di Marx contro Proudhon: Miseria della Filosofia. Questa fondamentale opera distrugge la concezione, avanzatissima per quei tempi, che la trasformazione sociale e l'abolizione della proprietà privata siano conquiste raggiungibili al di fuori della lotta per il potere politico. Vi è, nella fine, la famosa frase: "Non dite che il movimento sociale esclude il movimento politico", che conduce alla inequivocabile tesi nostra: Non intendiamo per politica una gara pacifica di opinioni o peggio che mai una contesa costituzionale, ma "l'urto corpo a corpo", la "rivoluzione totale", e infine, con le parole della poetessa Sand: "Il combattimento o la morte".

Proudhon rifugge dalla conclusione della battaglia politica in quanto la sua posizione della trasformazione sociale è monca, non contiene il superamento integrale dei rapporti capitalisti di produzione, è concorrentista, è localmente cooperativa, resta bloccata alla visione borghese della azienda o del mercato. Egli gridò che la proprietà era un furto, ma il suo sistema, restando un sistema mercantile, resta un sistema proprietario e borghese. La sua miopìa sulla rivoluzione economica è la stessa dei moderni "aziendisti", che ripetono in forma meno vigorosa la vecchia utopia di Owen che voleva liberare gli operai dando loro la gestione della fabbrica in piena società borghese. Si chiamino questi signori ordinovisti all'italiana o barbaristi alla francese, uno stampo proudhoniano li accompagna nella remota origine, e come a Stalin si potrebbe loro lanciare la invettiva: O miseria degli arricchitori!

Proudhonismo risorgente e tenace!

Nel sistema di Proudhon è esaltato al massimo lo scambio individuale, il mercato, il libero arbitrio del compratore e del venditore, e si afferma che basterà adeguare il valore di scambio di ogni merce a quello del lavoro che essa contiene, per avere eliminato tutta la iniquità sociale. Marx mostra - e sarà mostrato contro Bakunin, contro Lassalle, contro Dühring, contro Sorel, contro i pigmei più recenti cui abbiamo accennato - che sotto tutto questo non vi è che l'apologia e la conservazione dell'economia borghese, come altro non vi è nell'affermazione staliniana che in una società socialista, quale egli pretende sia la russa, continua a vigere la legge dello scambio di valori equivalenti.

Fin da quel testo in poche righe Marx segna l'abisso tra queste ripisciatine del sistema capitalista e la visione colossale della società comunista di domani. Ciò è in risposta alla costruzione di Proudhon di una società in cui il gioco illimitato della concorrenza e l'equilibrio dell'offerta e della domanda facciano il miracolo di assicurare a tutti le cose più utili e di prima necessità al "minimo costo", eterno sogno piccolo-borghese dei servi sciocchi del capitale. Marx rivoluziona facilmente questo sofisma e lo deride col paragonarlo alla pretesa, dato che col tempo bello tutti passeggiano, di far passeggiare la gente proudhoniana per ottenere che faccia bel tempo.

"In una società futura, in cui l'antagonismo di classe fosse cessato, in cui non esistessero più classi, l'uso non sarebbe più determinato dal minimo di tempo di produzione ma il tempo di produzione sociale che si destinerebbe ai diversi oggetti sarebbe determinato dal loro grado di utilità sociale".

È una delle tante gemme che si traggono dagli scritti classici della nostra grande scuola, e che provano l'insulsaggine del luogo comune: Marx amava descrivere nelle sue leggi il capitalismo, ma non ha mai descritta la società socialista: sarebbe ricaduto... nell'utopismo. Comune a Stalin e ad antistalinisti da dozzina.

L'utopismo è invece da contestare ai Proudhon-Stalin che vogliono emancipare il proletariato e conservare lo scambio mercantile. Ultima edizione del tentativo è la riforma Krusciov della industria russa.

Lo scambio individuale e libero su cui poggia la metafisica di Proudhon si sviluppa nello scambio aziendale, della officina, della intrapresa gestita dagli operai, nella rancida banalità che pone il contenuto del socialismo nella conquista della azienda da parte dei suoi operai locali.

Nella sua crociata in difesa della concorrenza il vecchio Proudhon precorre la modernissima ubbìa dell'emulazione produttiva. Il progresso, si soleva dire dai benpensanti di quel tempo, che non sapevano di essere meno codini dei moderni Krusciov, nasce dalla sana "emulazione". Ma Proudhon identifica la emulazione produttiva, "industriale", con la concorrenza stessa. Tendono ad emularsi quanti concorrono ad un medesimo scopo, quale può essere "la donna per l'amante". Marx osserva con sarcasmo: Se l'oggetto immediato dell'amante è la donna, l'oggetto immediato dell'emulazione industriale dovrebbe essere il prodotto e non il profitto. Ma siccome la corsa è al profitto, nel mondo borghese (e la cosa vale dopo oltre cento anni) la pretesa emulazione produttiva si risolve in una concorrenza commerciale. Che è quella stessa cui anelano, nei sorrisi seducenti che si scambiano in questa gonfia estate, americani e moscoviti.

Oltre che nella monca visione della società rivoluzionaria Proudhon appare il precursore dei modernissimi neo-aziendisti anche nella più circospetta delle loro posizioni: la messa in mora del Partito e dello Stato perché creano dei dirigenti, dei gerarchi, dei consegnatari del potere, e la debolezza della umana natura rende inevitabile la loro trasformazione in un gruppo di privilegiati, in una nuova classe (o casta?) dominante, alle spalle del proletariato.

Queste ubbìe sulla "natura umana" Marx le aveva già allora ricacciate in gola al ponzatore di sistemi Proudhon. La frase è tanto breve quanto scultorea: Il signor Proudhon ignora che la storia tutta intera non è che una continua trasformazione della natura umana.

Sotto questa massiccia pietra sepolcrale possono dormire cento schiere di idioti antimarxisti passati, presenti e futuri.

A corroborare la nostra dichiarazione che nessuna riserva o limitazione anche secondaria poniamo al "pieno impiego" delle armi Partito e Stato nella rivoluzione operaia, aggiungeremo, per liquidare questi scrupoli ipocriti, che alle inevitabili manifestazioni individuali della patologia psicologica che deriva a proletari e a militanti comunisti dalle eredità della natura non dell'uomo, ma del suddito della società capitalistica e della sua orribile ideologia e mitologia individualistica e "persondignitaria", una sola organizzazione è in grado di opporre rimedio efficace e risolutivo, e questa è proprio il partito politico comunista durante la lotta rivoluzionaria e nell'esercizio, che integralmente ad esso compete, della dittatura di classe. Altri organismi che lo vogliano surrogare non vanno solo scartati per la loro impotenza rivoluzionaria, ma anche perché cento volte più accessibili del partito politico alle influenze degenerative piccolo-borghesi e borghesi. E la critica a tali organismi, da vari lati e da tempo immemorabile già proposti, va fatta in linea storica più che in linea "filosofica", restando tuttavia di prima importanza far vedere come le ragioni addotte dai loro fautori facilmente rivelano, sotto la nostra indagine, che costoro giacciono nella tenebra di un'ideologia di origine e di essenza borghese e perfino meno che borghese, come quella degli intellettualoidi che infestano pericolosamente i margini del movimento operaio.

La forma-partito, portando organizzativamente il non proletario allo stesso grado del proletario, è la sola in cui il primo può raggiungere la posizione teoretica e storica poggiata sugli interessi rivoluzionari della classe lavoratrice, e finalmente, pure dopo duri storici travagli, servire come mina rivoluzionaria e non come contromina borghese nelle nostre file.

La superiorità del partito è proprio quella che esso supera l'infezione del laburismo, dell'operaismo. Si entra nel partito per effetto della propria posizione nel corpo a corpo delle forze storiche in lotta per una forma sociale rivoluzionaria, non per il solitamente vantato servile ricalcamento della posizione personale del militante, dell'organizzato, "rispetto al meccanismo produttivo", ossia a quello creato dalla società borghese, e "fisiologico" per essa e per la sua classe dominante.

III. Le organizzazioni economiche del proletariato schiavo come squallidi surrogati del Partito rivoluzionario

Storia di sistemi impotenti

Nella lotta contro il tradimento stalinista e le sue deformazioni della teoria economica, aspetti mille volte più gravi degli "eccessi di potere" che hanno scandalizzato trotzkisti e kruscioviani a così diversi stadi, e dei famosi "crimini" con cui ha gonfiato le scatole tutto il filisteismo mondiale, quacquero e mondoliberista, abbiamo sempre fatto leva sulla classica tesi di Marx contro Proudhon, come è formulata nel Libro Primo del Capitale, capitolo XXIII, nota 24: "Si ammiri la furberia di Proudhon, che vuole abolire la proprietà capitalistica facendo valere di contro ad essa [...] le eterne leggi di proprietà della produzione di merci".

Tutta la schiera dei pretesi antistalinisti fa leva nella sua critica e nel suo tentativo di rinnovati programmi, sulla ridicola esigenza di disintossicare - isterilendoli rivoluzionariamente - il Partito e lo Stato, forme di cui Stalin avrebbe abusato per effetto della eterna libidine di potere (in Italia si dà questa rancidissima tesi come testo agli esami di latino: il tiranno, i suoi servi e la Patria! Cicerone "aggiornatore" di Marx sulla storia vissuta!). È importante mostrare come tutti quelli che nutrono questa preoccupazione bigotta (sono, a grattarli, tutti aspiranti a capi, stravolti dalla libidine del successo personale) ricadono, nella costruzione economico-sociale, nella reazionaria illusione di Proudhon e hanno gli occhi chiusi alla opposizione storica del comunismo al capitalismo, che vale opposizione del comunismo e del socialismo al mercantilismo.

Una prima esposizione di questa prova deve essere quella storica, che mostri la fine miserabile di tutte le versioni che cercarono di proporre, al fine di respingere i mostri del Partito e dello Stato politico, organizzazioni di natura diversa per inquadrare la classe proletaria nella sua lotta contro il capitale, e per raggiungere la formazione della società post-capitalista.

Nella terza parte di questo esposto tratteremo l'aspetto economico, ossia mostreremo che il traguardo, il programma, che tutti quei movimenti apartitici e "astatali" si ponevano, era non un'economia socialista e comunista, ma un'illusione economica piccolo-borghese, che li ha tutti riaffondati nel gioco di forze dei partiti e degli Stati del moderno capitalismo.

Una prima tesi pregiudiziale accomuna come antimarxisti tutti questi conati, basati sulle formule o "ricette" per svariate forme organizzativi dagli effetti miracolosi. Essa orecchia le vecchie e semisecolari banalità dei trafficanti politici e degli imbonitori, che riducevano le vicende della lotta storica ad un succedersi di figurini, come nella "moda" del vestire. Cianciavano questi saputelli: Nella grande rivoluzione francese il motore fu il club politico, e la lotta tra questi (giacobini, girondini, ecc.) fu la chiave degli eventi. Poi quella foggia passò di moda e si ebbero i partiti elettorali... poi si passò ad organismi locali, comunali, preconizzati dagli anarchici... oggi (pensiamo al 1900) si ha la ricetta modernissima: il sindacato operaio di professione, che tende a soppiantare tutto e si contrappone (Giorgio Sorel) col suo potenziale rivoluzionario a Partito e Stato. Vecchissima canzone. Oggi (1957) sentiamo vantare altra forma "autosufficiente": il consiglio di fabbrica, in diversi modi portato sul primo piano rispetto ad ogni altra forma, da "tribunisti" olandesi, gramsciani italiani, titini jugoslavi, cosiddetti trotzkisti, gruppetti di "sinistra" da batracomiomachia.

Tutto questo vuoto discorrere è sepolto da una sola tesi (Marx, Engels, Lenin): "La rivoluzione non è una questione di forma di organizzazione".

La questione della rivoluzione sta nell'urto delle forze storiche, nel programma sociale di arrivo che sta alla fine del lungo ciclo del modo capitalista di produzione. Inventare il fine invece di scoprirlo nelle determinanti passate e presenti, scientificamente, fu il vecchio utopismo premarxista. Uccidere il fine e mettere l'organizzazione dimenantesi al suo posto è il nuovo utopismo post-marxista (Bernstein, capo del revisioniamo socialdemocratico: il fine è nulla; il movimento è tutto).

Ricorderemo brevemente quelle "proposte" di figurinisti, che presero il proletariato come "indossatore" e lo caricarono in dure sconfitte del giogo rinsaldato del capitale.

L'ubbia della "comune" locale

Le dottrine anarchiche sono la espressione della tesi: il male è il potere centrale; e assumono che nella rimozione di questo sta tutto il problema della liberazione degli oppressi. L'anarchico non arriva che come concetto accessorio alla classe; egli vuole liberare l'individuo, l'uomo, facendo proprio il programma della rivoluzione liberale e borghese. Le imputa solo di avere eretta una nuova forma di potere, senza osservare che ciò è necessaria conseguenza del fatto che non ha avuto per contenuto e per forza motrice la liberazione della persona o del cittadino, ma la conquista del dominio di una nuova classe sociale sui mezzi di produzione. L'anarchia, il libertarismo - e se si fa un'analisi appena acuta anche lo stalinismo come è propagandato in Occidente - non sono che il classico liberalismo rivoluzionario borghese più qualche altra cosa (che chiamano autonomia locale, Stato amministrativo, ingresso delle classi lavoratrici nei poteri costituzionali). Con simili balordate piccolo-borghesi il liberalismo borghese, che nel suo tempo storico è una cosa reale e seria, diventa una pura illusione castratrice della rivoluzione operaia, nell'oggi di essa abbeverata fino alla feccia.

Il marxismo invece è la negazione dialettica del liberalismo capitalista che non vuole conservare in parte per aggiungervi dei correttivi, ma che vuole di fatto schiantare nelle istituzioni che ne sono sorte e che, locali e soprattutto centrali, hanno carattere di classe. Questo compito non è affidato a satollate di brumose autonomia e indipendenza, ma alla formazione di una forza distruttrice centrale, le cui forme sono appunto il Partito e lo Stato rivoluzionari, insostituibili da qualunque altra.

L'idea di svincolare e autonomizzare l'individuo, la persona, si riduce prima alla ridicola formula del refrattario soggettivo, che chiude gli occhi e ignora la società e la sua struttura pesante, che non può infrangere, o nella quale sogna di inserire un giorno una macchina infernale; tutto per finire nel contemporaneo esistenzialismo improducente ad ogni effetto sociale.

Questa esigenza piccolo-borghese, che nacque dalla rabbia del piccolo produttore autonomo espropriato dal grande capitale e quindi da una difesa della proprietà (che per Stirner e altri puri individualisti è un "prolungamento della persona" che non va conculcato) si adattò al grande fatto storico dell'avanzata delle masse lavoratrici, riconoscendo nell'andare del tempo alcune forme organizzate. Al tempo della crisi nella Prima Internazionale (dopo il 1870), gli anarchici si staccano dai marxisti negando ancora le organizzazioni economiche e perfino gli scioperi: da allora Engels stabilisce che sindacato economico e sciopero non bastano a risolvere la questione della rivoluzione, ma che il partito rivoluzionario deve appoggiarli, in quanto, come già nel Manifesto, il loro valore sta nella estensione della organizzazione proletaria verso una forma unica e centrale, che è politica.

In questa fase la proposta dei libertari è la non ben definita "comune" rivoluzionaria locale, organo presentato a volta a volta come forza in lotta contro il potere costituito, che afferma la sua autonomia rompendo ogni legame con lo Stato centrale, e come forma che gestisce una nuova economia. Non si trattava che di un ritorno alla prima forma capitalista dei Comuni autonomi della fine del Medioevo in Italia e nelle Fiandre tedesche ove una giovane borghesia lottava contro l'Impero; come sempre, era allora fatto rivoluzionario in riguardo allo sviluppo dell'economia produttiva, oggi è vuoto rigurgito ammantato di falso estremismo.

Per gli anarchici, in cinquanta anni di commemorazioni, il modello di questo organo locale era stato la Comune di Parigi del 1871, che nella ben più potente irrevocabile analisi di Marx e di Lenin è invece il primo esempio storico grandissimo della dittatura del proletariato, di Stato centrale e per ora territoriale del proletariato.

Lo Stato capitalista francese, nella forma della Terza Repubblica di Thiers, si portò per abbattere Parigi proletaria, fuori della sua capitale, e si dispose a farlo anche da oltre la cinta delle forze prussiane; Marx poté scrivere, dopo la disperata resistenza e lo spaventoso massacro, che da quel giorno tutti gli eserciti nazionali delle borghesie sono confederati contro il proletariato.

Non si trattò di rimpicciolire la lotta storica da nazionale a comunale (e si pensi ad un povero inerme comune di periferia!) ma di ingrandirla ad internazionale. Negli anni della Seconda Internazionale affiorò perfino una nuova versione del socialismo (che colpì perfino la mente inquieta di Mussolini anteguerra) detta "comunalismo", che voleva costruire la cellula della società socialista attraverso la conquista del comune autonomo, ahimè nemmeno dinamitarda come per gli anarchici, ma col mezzo delle elezioni municipali! Le obiezioni di allora sarebbero inutili oggi che l'inesorabile sviluppo economico ben noto a chi segue Marx ha avvolto ogni struttura locale in una sempre più inestricabile rete di legature al centro, economiche, amministrative, politiche: basti pensare al ridicolo di ogni piccolo comune ribelle che costruisce una stazione radio TV almeno per disturbare quelle del nemicissimo Stato centrale. L'idea di organizzazioni che confederano i lavoratori di un comune, o di un comune che si dichiara indipendente politicamente e autarchico economicamente, è morta da sé; ma la illusione borghese della "autonomia" avrà ancora gioco nello imbastardire la testa e paralizzare le mani di militanti della classe operaia.

Storia più lunga e complessa avranno le altre forme di organizzazione "immediata" dei lavoratori, che tenderanno a concludersi nel giro del sindacato di professione e di mestiere, del sindacato di industria, del consiglio di officina. In quanto tali forme sono presentate in alternanza col prevalere del partito rivoluzionario politico, la storia dei loro movimenti e delle dottrine che più o meno disordinatamente vi si poggiarono, coincide con la storia (cui abbiamo dedicato ampie trattazioni) dell'opportunismo della Seconda e della Terza Internazionale, e procureremo di ridurci a pochi richiami, sebbene sia grave la scarsezza di conoscenza, nelle masse di Europa, di questa storia di immani sacrifici sostenuti dal proletariato del continente, ed è necessario che esso giunga un giorno a rifare tesoro di queste tremende esperienze.

La storia del localismo e del cosiddetto comunismo anarchico o libertario è storia dell'opportunismo nel seno della stessa Prima Internazionale, di cui Marx si dovette liberare sia con la critica dottrinale che con una dura lotta organizzativa contro Bakunin e i suoi tenaci sostenitori in Francia, Svizzera, Spagna e Italia.

Nonostante la storia della stessa Rivoluzione Russa, molti "sinistri" e dichiarati nemici dello stalinismo guardano ancora agli anarchici come ad un possibile punto d'appoggio; era necessario ristabilire che il liberalismo è una prima forma di malattia del movimento proletario, ed ha precorso gli altri opportunismi, e quello stalinista stesso, nello spostare le posizioni politiche e storiche su un terreno spurio, tale da attirare a fianco del proletariato gli strati piccolo-borghesi e anche medio-borghesi della società, nel che è stata sempre la sede di tutti gli errori e la fonte di tutte le rovine. Non si è avuta la direzione proletaria sulla "massa popolare", ma la distruzione di ogni carattere proletario nel movimento generale e la servitù del proletariato al capitale.

Questo pericolo è denunziato fin dai primi anni del marxismo; e il dire che per affrontarlo abbiamo oggi più dati di Marx, mentre si fraintende quello che un secolo addietro era già chiaro, è cosa penosa. Della versione "popolare" della rivoluzione operaia inorridiva anche Engels, tra cento passi, nella prefazione alle Lotte di classe in Francia: "Dopo la sconfitta del 1849 noi non condividemmo in nessun modo le illusioni della democrazia volgare... Essa contava su una vittoria rapida, decisiva una volta per tutte, del 'popolo' sugli 'oppressori'; noi, su una lotta lunga, dopo l'eliminazione degli 'oppressori', tra gli elementi antagonistici che si celavano appunto in questo 'popolo'".

Per la dottrina marxista, da allora esistono i fondamenti per condannare le odierne versioni popolari di 'tutti' gli opportunisti, compresi i gruppetti quadrifogliari e barbaristi, che agli eventi ungheresi hanno testé dedicato lunghe palinodie, in cui come sempre falsano un moto "popolare" in moto di classe.

Mette il "popolo" al posto della classe ognuno che, mettendo la classe proletaria prima e sopra il partito comunista, crede renderle omaggio supremo, mentre la declassa, la annega nella incertezza "popolare", e l'immola alla controrivoluzione.

Mito del sindacato rivoluzionario

Sulla fine dell'Ottocento i partiti politici del proletariato erano divenuti organizzativamente potenti e numerosi in tutta l'Europa; loro modello era la germanica "Sozialdemokratie", che dopo una lunga lotta contro le leggi eccezionali antisocialiste di Bismarck aveva costretto lo Stato kaiserista-borghese ad abolire, e vedeva ad ogni elezione aumentare i suoi voti e il numero dei suoi seggi nei parlamento. Questo partito avrebbe dovuto essere il depositario della tradizione di Marx e di Engels, ed a ciò era dovuto il suo prestigio nel seno della Seconda Internazionale ricostituita nel 1889.

Ma proprio nel seno di questo partito si era sviluppata una nuova corrente detta revisionista, di cui massimo teorico fu Edoardo Bernstein, la quale apertamente sosteneva che lo sviluppo della società borghese e i suoi nuovi aspetti, durante l'epoca di relativa tranquillità sociale ed internazionale succeduta alla grande guerra franco-prussiana, indicavano "nuove vie al socialismo", diverse da quella di Marx.

Fu adoperata allora, e non se ne meraviglino i giovani militanti operai di oggi, proprio la medesima frase lanciata dopo il XX Congresso russo del 1956, con le stessissime parole che tutti credono coniate adesso, nuove di zecca! Il revisionista italiano Bonomi, espulso dal partito socialista nel 1912, ministro della guerra che sotto Giolitti sbrigò il compito di far mitragliare non i fascisti ma i proletari che combattevano contro di essi, poi uno dei capi del governo della repubblica antifascista, scrisse mezzo secolo fa un libro con quel titolo: Le nuove vie del socialismo. Giolitti ne trasse la bella frase che i socialisti avevano messo Marx in soffitta. Il presente movimento della sinistra internazionale comunista si ricollega ai gruppi della frazione di sinistra che, in quei lontani anni, risposero chiamando il loro giornale La soffitta.

I revisionisti sostenevano che nella nuova situazione dell'Europa e del mondo capitalista il passaggio al socialismo e la emancipazione della classe operaia non avrebbero richiesto lotte insurrezionali, impiego di violenza armata, conquista rivoluzionaria del potere politico, e tolsero di mezzo del tutto la tesi centrale di Marx: la dittatura del proletariato.

Al posto di questa "visione catastrofica" fu posta l'azione legalitaria ed elettorale, quella legislativa in parlamento, e si giunse fino alla partecipazione di eletti socialisti ai ministeri borghesi (possibilismo, millerandismo) al fine di promulgare leggi favorevoli al proletariato, sebbene i Congressi internazionali fino alla Prima Guerra Mondiale avessero sempre condannato tale tattica, e fin da prima di essa i collaborazionisti alla Bonomi (non i Bernstein, o in Italia i Turati) venissero messi fuori dal partito.

A tale degenerazione della politica oltre che della dottrina dei partiti socialisti, di cui non possiamo qui occuparci più a lungo, seguì in larghi strati operai una ondata di sfiducia verso la forma del partito politico, che dette gioco favorevole ai critici antimarxisti ed anarchici; e in un primo tempo solo correnti meno importanti si posero sul terreno di lotta al revisionismo con l'indirizzo di restare fedeli alla dottrina originaria del marxismo (radicali in Germania, intransigenti rivoluzionari in Italia, altrove duri, stretti, ortodossi e simili).

Queste correnti, a cui per la Russia corrispondeva il bolscevismo con Plekhanov (finito male con la guerra, al pari del germanico Kautsky) e Lenin, non cessarono un istante di rivendicare la forma Partito, e - del tutto chiaramente solo con Lenin - la forma Stato, ossia la forma Dittatura. Ma per un decennio forse si accampò in lotta contro il revisionismo socialdemocratico un'altra scuola, che fu il sindacalismo rivoluzionario, le cui origini sono certo più antiche, ma che ebbe il suo capo teorico in Giorgio Sorel. Le correnti di tale scuola furono forti nei paesi latini; lottarono dapprima nelle file dei partiti socialisti, poi ne uscirono sia per le vicende delle lotte, sia per coerenza alla loro dottrina che escludeva il Partito come organo della rivoluzione di classe.

La forma primogenita dell'organizzazione proletaria era per essi il sindacato economico, che in prima linea doveva non solo condurre la lotta di classe per la difesa degli immediati interessi operai, ma anche prepararsi, senza alcuna soggezione ad un partito politico, alla direzione della guerra rivoluzionaria finale per l'abbattimento del sistema capitalistico.

I soreliani e il marxismo

Ci condurrebbe assai lontano l'analisi dell'impostazione e della evoluzione di tale dottrina, sia nel suo capo ideologico Sorel che nei gruppi multiformi che in vari paesi la seguirono; e come abbiamo chiarito non tratteremo in sintesi che il suo bilancio storico e la sua molto discutibile prospettiva di una società non-capitalista futura.

Sorel e non pochi dei suoi seguaci, anche in Italia, dichiararono all'inizio di essere i veri continuatori di Marx contro il travestimento pacifistico ed evoluzionistico dei revisionisti legalitari. Finirono poi col dover ammettere che essi rappresentavano un altro revisionismo, a prima vista da sinistra anziché da destra, ma che in realtà era legato alle stesse origini e conteneva gli stessi pericoli.

Ciò che Sorel assumeva di ritenere da Marx era l'impiego della violenza e l'urto della classe proletaria contro gli istituti ed i poteri borghesi, e soprattutto contro lo Stato. Egli mostrava così di aver mantenuto fede alla critica di Marx, giusta la quale lo Stato contemporaneo uscito dalla rivoluzione liberale, nelle sue forme democratiche e parlamentari, non cessa di essere lo squisito organo di difesa degli interessi della classe dominante, il potere della quale non può essere abbattuto per le vie costituzionali. I soreliani rivendicarono l'azione illegale, l'uso della violenza, lo sciopero generale rivoluzionario, e fecero di tale parola il loro massimo ideale, in un tempo in cui nella maggioranza dei partiti socialisti tali consegne venivano fieramente sconfessate.

Sebbene lo sciopero generale soreliano, in cui culmina la teoria dell'"azione diretta" (ossia senza intermediari legalmente eletti tra proletariato e borghesia), venga concepito come simultaneo per tutti i mestieri operai, tutte le città di uno Stato, ed anche come internazionale, in realtà la insurrezione dei sindacalisti conserva la forma e il limite di una azione di singoli, o al più di gruppi sporadici; e non assurge al concetto di una azione di classe. Ciò è dovuto al suo orrore di una organizzazione politica rivoluzionaria che non può non avere anche forme militari, e, dopo la vittoria, statali (Stato proletario, Dittatura), mentre i soreliani, ricalcando le orme dei bakuniniani di trent'anni prima, non vogliono Partito, Stato, Dittatura. Lo sciopero generale nazionale dato per vittorioso coincide (nello stesso giorno?) con la espropriazione (nozione di sciopero espropriatore) e la visione del passaggio da una forma sociale all'altra è tanto nebulosa e labile, quanto fu deludente e caduca.

Nel 1920 in Italia - in piena fioritura di entusiasmi per Lenin, la forma Partito, la centrale conquista del potere, e la dittatura "espropriatrice" - fu trasposta in strati sia "massimalisti" che "ordinovisti", questa parola falsamente estrema di "sciopero espropriatore"; e fu una delle tante volte che si dovè dar di piglio a striglia marxista, senza pietà e senza tema di passare per pompieri.

Sorel e tutti questi suoi epigoni in sostanza sono fuori dal determinismo marxista, e il gioco degli effetti tra sfera economica e politica resta per loro lettera morta; essendo individualisti e volontaristi, vedono nella rivoluzione un atto di forza solo dopo che vi hanno visto un impossibile atto di coscienza. Sono dei capovolgitori del marxismo, come mostra Lenin in Che fare? Fatta scattare nel foro interiore della persona coscienza e volontà, dato che ci sono, di un solo balzo radono al suolo lo Stato borghese, la divisione in classi, la psicologia di classe. Non intendono l'alternativa: dittatura capitalista o comunista, e ne escono per la sola via storica possibile: rimettono in piedi la prima. Se coscientemente o no, è problema che per essi è tutto, per noi zero.

Non ci interessa seguire oltre Giorgio Sorel nella sua logica strada: idealismo, spiritualismo, grembo della Chiesa cattolica.

La prova della guerra mondiale

Come già più volte avvertito, non possiamo certo dare qui tutta la storia critica del disastro socialista allo scoppio (agosto 1914) della Prima Guerra Mondiale. Va solo ricordato se la rovina travolse soltanto i partiti politici o anche le organizzazioni sindacali, e gli stessi ideologi della scuola sindacalista, che non si volevano chiamare partito, ma in effetti lo erano, con una base di classe piccolo-borghese a dispetto della loro superstizione di purezza operaia. Allora essi formavano, come del resto dal più al meno hanno sempre fatto gli anarchici, dei non meglio definiti "gruppi" che si dichiaravano apolitici, aelezionisti, aparlamentari, apartitici (perdonate tutte queste orribili parole all'abuso dell'alfa privativo). Abbiamo esempi del tutto contemporanei come tutto questo pudore per il Partito e la politica rivoluzionaria finisca col permettere a questi labili e rilasciati aggruppati di stare nei partiti opportunisti e borghesi e fare campagne elettorali per sporchi traditori di classe. Autonomia soprattutto!

È indiscutibile, ed è materiale di base di tutta la restaurazione del marxismo rivoluzionario condotta al tempo di Lenin, che i più grandi partiti socialisti dell'Europa ci fecero assistere ad una schifosa bancarotta. Non dovremo raccontare ancora di Vladimiro che per tre settimane fu inavvicinabile anche dalla incomparabile compagna, calpestava i giornali non credendo alle notizie, si aggirava torvo nella stanzetta svizzera come una belva in gabbia.

Non togliamo nulla a quanto abbiamo sempre detto e fatto contro i parlamentari traditori che avevano votato i crediti di guerra ed erano entrati nei governi di unione sacra. Ma in Italia si svolse, con il vantaggio di nove mesi di attesa, la zuffa per impedire la defezione dei capi del partito a pochi giorni dall'ordine di mobilitazione. La dirigenza del partito teneva bene, il gruppo parlamentare sebbene in maggioranza di corrente riformista era contrario allo sciopero generale nazionale, ma si impegnava a votare contro i crediti e il governo, e lo fece unanime: quelli che tennero la posizione più disfattista furono i capi della Confederazione del Lavoro, che dovemmo smascherare nel loro sabotaggio della proposta di sciopero: dicevano che ne temevano il fallimento; invece ne temevano la riuscita per motivi di patriottismo borghese.

In tutti i paesi furono le grandi centrali sindacali che rimorchiarono i partiti politici sulla strada della incommensurabile vergogna. Così in Francia e in Germania ed in Austria. In Inghilterra il mostro di tutti i tempi, il campione dell'antirivoluzione, il Labour Party, cui sono affiliate le Trade Unions, ossia i sindacati economici, passò compatto dalla parte della guerra, mentre il piccolo partito socialista britannico teneva atteggiamento di opposizione.

I critici soreliani del parlamentarismo avevano giustamente denunziate molte vergogne, ma non avevano pensato che i deputati operai bazzicanti le anticamere dell'amministrazione borghese vi erano sospinti dagli organizzatori sindacali che volevano portare concessioni materiali ai loro associati. L'opportunismo di cui allora scoppiò il più classico bubbone - come avvertito da Lenin, e da Engels e Marx fin dalle lettere sulla controrivoluzione tedesca nel 1850 - non ha la sua origine, ma solo una sua inseparabile manifestazione, nel tradimento o nella viltà dei capi rivoluzionari. L'opportunismo è un fatto sociale, un compromesso tra le classi che avviene in profondità, e sarebbe follia non vederlo. Il capitalismo offrì un patto agli operai industriali esonerati dal servizio militare. Se in Italia il Sindacato Ferrovieri si oppose alla Confederazione del Lavoro sulla questione dello sciopero, in cui i suoi soci giocavano il "bracciale azzurro", fu per forza politica e per gli aperti legami tra questo combattivo organismo e l'ala estrema del partito marxista.

Nella crisi del 1914, come in tutte le altre analoghe anche se meno clamorose, i sindacati economici furono - nelle loro cerchie direttive, ma che gli operai non spazzarono via come non fecero i militanti di partito con i capi, né gli elettori socialisti coi deputati, se non dopo lunghi anni di lotte - palle di piombo ai piedi dei partiti di classe. I soreliani non avevano vista tutta questa congerie di fenomeni evidenti, quando avevano proposto come rimedio al revisioniamo di boicottare i partiti e rifugiarsi nei sindacati operai.

Ben più accadde in Francia e in Italia, ove vi erano confederazioni sindacali anche della corrente sindacalista-anarchica. In Francia questa era maggioritaria, col suo segretario Jouhaux, soreliano per la pelle e nemico del partito e del suo gruppo parlamentare. Ma non solo Jouhaux, seguito da tutta la sua organizzazione e le sue masse, salvo minoranze al primo stadio assolutamente trascurabili, seguì la politica patriottarda dei deputati socialisti, quanto perfino il famoso e colto anarchico Eliseo Reclus, e il più famoso (sebbene asino) Gustavo Hervé, capo degli antimilitaristi europei, direttore della Guerra sociale, organizzatore del citoyen-Browning, o cittadino-revolver, che aveva preso l'impegno di piantare le drapeau tricolore dans le fumier, la bandiera francese nel letame. Cambiò in Victoire il titolo del giornale, avviò la più velenosa campagna di odio ai boches, e andò ad arruolarsi nel fumier, degno di lui.

Dalle file soreliane non uscì dunque nulla di meglio che da quelle del partito SFIO, sebbene fin da allora come marxismo non valesse tre soldi falsi. I sindacalisti "apartitici" fecero la fine dei Guesde e dei Cachin, che vennero a comprare coi franchi dello Stato francese il giornale di Mussolini (si tratta del secondo, più recente comunista e antifascista resistente, dopo parentesi hitleriana).

In Italia vi era, di fronte alla Confederazione del Lavoro, la Unione Sindacale Italiana. Per imbevuta che fosse di basso riformismo, mai la prima aderì alla politica di guerra. Ma i sindacalisti anarchici si scissero in due Unioni sindacali: una contraria alla guerra, l'altra con De Ambris e Corridoni dichiaratamente interventista. Migliore prova dette il partito; perché, quando ne uscì Mussolini nell'ottobre 1914, nella seduta di espulsione dalla sezione di Milano non una voce si levò a difenderlo.

L'organizzazione di fabbrica

La proposta di rinunziare al partito politico proletario per portare il baricentro della lotta rivoluzionaria sul sindacato di mestiere, da un primo lato comporta teoricamente l'abbandono totale delle basi della dottrina marxista, e non è proponibile se non da chi - come fecero alla fine i soreliani e come avevano fatto i bakuniniani - ne abiuri il credo filosofico ed economico; mentre nel suo bilancio storico si dimostra priva di qualunque fondamento. Il ragionamento che nei partiti possono entrare elementi non aventi stretta origine dalla classe proletaria, che finiscono con assumere i posti direttivi, mentre questo non avverrebbe nei sindacati - e non è vero - rimane svuotato, dagli esempi storici più clamorosi, di qualunque consistenza.

La limitatezza dell'orizzonte sindacale rispetto a quello politico sta nel fatto che esso non ha uno sfondo di classe, ma appena di categoria, e risente della medioevale rigida separazione dei mestieri. Non rappresenta un passo innanzi la più recente trasformazione del sindacato di mestiere (o professionale) in sindacato di industria. In questa forma, ad esempio, un operaio falegname ma che lavora nella fabbrica di automobili farà parte della federazione del metallo e non di quella del legno. Ma le due forme hanno di comune il fatto che alla base il contatto tra gli associati avviene soltanto tra elementi che hanno di comune, e quindi trattano, solo i problemi di uno stretto settore produttivo, e non tutti i problemi sociali. La sintesi degli interessi dei gruppi proletari locali professionali ed industriali si fa solo tramite un apparato di funzionari delle organizzazioni.

Il superamento della limitatezza degli interessi si attua quindi solo nell'organizzazione di partito che non separa i proletari per professione né per settore produttivo.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, essendo a tutti palese che il tradimento della causa sociale risaliva non solo ai gruppi parlamentari e ai partiti, ma anche alle grandi organizzazioni e confederazioni sindacali, ebbe grande impulso la sopravvalutazione di una nuova forma di organismo immediato dei proletari industriali: il consiglio di fabbrica.

I teorizzatori di questo sistema vollero sostenere che meglio di ogni altro esso potesse esprimere la funzione storica della moderna classe lavoratrice, su un duplice piano. La difesa degli interessi degli operai nei confronti del padrone passava dal Sindacato al Consiglio di fabbrica, sia pure collegato con gli altri nel "Sistema dei Consigli" secondo località, regioni e nazione, e secondo settori d'industria. Ma una nuova rivendicazione sorgeva: quella del controllo della produzione, e, più lontana, quella della gestione. I Consigli avrebbero rivendicato di avere voce non solo nel trattamento degli operai da parte della ditta quanto a salari, orari ed ogni altro rapporto, ma anche nelle operazioni tecnico-economiche finora lasciate alla decisione dell'azienda: programmi di produzione, acquisto di materie prime, destinazione dei prodotti. Una serie di "conquiste" in questa direzione si poneva come traguardo la totale gestione operaia, ossia la effettiva eliminazione, espropriazione dei padroni.

Questo miraggio in un primo tempo seducente fu subito, almeno in Italia, considerato dai marxisti rivoluzionari come del tutto ingannevole. Da questa prospettiva restava eliminata la questione del potere centrale, poiché si ammettevano coesistenti (un primo esempio di coesistenza, del lupo e della pecora!) il potere dello Stato borghese ed un grado avanzato di controllo operaio; ed una rata perfino di gestione operaia su un certo numero o aggruppamento di aziende.

Non si tratta che di un nuovo revisioniamo, di un riformismo in edizione piuttosto peggiorata che migliorata, se si tiene conto che in questo sistema ipotetico viene meno, nello incrociarsi delle gestioni locali, il piano sociale della produzione e dell'economia, che i revisionisti classici affidavano ad uno Stato politico conquistato con mezzi pacifici dalla classe operaia.

È facile stabilire in dottrina che si tratta di un sistema tanto antimarxista quanto quello del sindacalismo soreliano. Con procedimento non dissimile vediamo i sospettati personaggi: Partito di classe e Stato di classe, eliminati dal succedersi delle scene del dramma; mentre i revisionisti classici si limitavano al sabotaggio aperto della violenza di classe e della dittatura di classe, sotto l'aspetto formale. Nella sostanza, sono la rivoluzione e il socialismo che in ambo i casi se ne vanno.

Seguitando nei decenni successivi a dare credito alla diffidenza banale verso le due forme Partito e Stato, si è venuto a confondere il "contenuto del socialismo" con questi due postulati: controllo operaio sulla produzione, gestione operaia della produzione. E questa roba sarebbe il nuovo marxismo.

Ha Marx detto qual è il "contenuto del socialismo "? Marx non ha risposto ad un quesito tanto metafisico. Il contenuto di un recipiente può essere tanto l'acqua che il vino o un liquido ignobile. Ci possiamo da marxisti chiedere quale sia il processo storico che conduce al socialismo, e ci possiamo chiedere quali siano i rapporti tra gli uomini che si avranno "nel socialismo", ossia nella società non più capitalista.

Sotto questi due profili sono pure sciocchezze le risposte: controllo della produzione nella fabbrica, gestione della fabbrica, o l'altra che spesso le accompagna: autonomia del proletariato.

Se ci riferiamo al processo storico che conduce al socialismo, esso, a partire da una società pienamente industriale capitalistica, abbiamo detto come lo vediamo, da un secolo: formazione del proletariato, organizzazione del proletariato in partito politico di classe, organizzazione del proletariato in classe dominante. Da questo momento solo comincia il controllo e la gestione della produzione non nell'azienda e da parte del consiglio del personale, ma nella società, e da parte dello Stato di classe, condotto dal Partito di classe.

Se questa ricerca del risibile "contenuto" si riferisce alla società pienamente socialista, a più forte ragione le formule di controllo operaio e gestione operaia perdono ogni senso. Nel socialismo non vi è più la società sezionata tra produttori e non produttori, perché non vi è più società divisa in classi. Il contenuto (se si vuole usare questa bolsa espressione) del socialismo non sarà l'autonomia, il controllo e la gestione del proletariato, ma la sparizione del proletariato. Del salariato. Dello scambio, anche dell'ultimo: tra moneta e forza-lavoro. E infine, dell'azienda. Nulla vi sarà da controllare e gestire, nessuno rispetto a cui chiedere autonomia. Questi ideologismi mostrano in chi li adopera solo la totale impotenza teorica e pratica a lottare per una società che non sia una cattiva copia di quella borghese. Chiedono l'autonomia (di essi stessi) solo da un compito arduo, dalla forza del Partito di classe, dalla dittatura rivoluzionaria. Il giovanissimo Marx fresco di formule hegeliane (in cui quella gente crede ancora oggi) avrebbe risposto che chi cerca l'autonomia del proletariato trova l'autonomia del borghese, eterno modello dell'uomo (vedi Questione ebraica).

Storia della formula aziendale

I Consigli degli ordinovisti italiani hanno precedenti in paesi anglosassoni, e hanno i loro antenati nelle antiche gilde di maestranze, che non nascono per la guerra a un padrone borghese ma per la guerra ad altre gilde e a forme signorili e terriere.

Quando si dette della Rivoluzione Russa il travisamento sciagurato, da primo capitolo della rivoluzione proletaria europea a lotta dei contadini per la "conquista della terra", si creò il superficiale parallelo della "conquista della fabbrica". Per queste vie si tralignò e si traligna dalla via maestra della conquista del potere, e della società.

A suo luogo abbiamo trattato la liquidazione leninista di questo problema per la Russia, nella questione agraria e in quella industriale, e non occorre ripeterci. Sindacalisti e anarchici di tutto il mondo revocarono le loro simpatie alla Rivoluzione Russa quando capirono che il "controllo operaio e contadino" di Lenin era derivato dal troncone possente del controllo del potere e si riferiva ad aziende che lo Stato russo non poteva ancora espropriare. I tentativi di gestione autonoma delle fabbriche dovettero essere repressi, e talvolta con la forza, per evitare disastri economici e assurdi, antisocialisti negli stessi effetti politici e militari, di guerra civile.

Fu presto dispersa la confusione tra lo Stato dei Consigli operai, organi territoriali e politici, e la finzione ordinovista dello Stato dei Consigli di azienda, autonomi nella propria gestione. A tal riguardo basta leggere le tesi del II Congresso dell'Internazionale Comunista sui sindacati e consigli di fabbrica, che definiscono il compito di tali organi prima e dopo la rivoluzione. Chiave della soluzione marxista è la penetrazione negli uni e negli altri del partito rivoluzionario, e la loro subordinazione (altro che autonomia!) rispetto allo Stato rivoluzionario. Nello studio russo abbiamo a suo luogo riportate le successive discussioni al riguardo nel partito.

Ci interessa dare un cenno della esperienza italiana. Nel 1920 si ebbe il celebre episodio dell'occupazione delle fabbriche. Gli operai, apertamente scontenti del contegno imbelle dei grandi sindacati confederali, e spinti dalla situazione economica e dalle pretese offensive degli industriali dopo la prima euforia postbellica, si asserragliarono nelle fabbriche, dopo averne espulsi i dirigenti, mettendole in stato di difesa, e tentando in molte località di continuare il lavoro, e talvolta di disporre dei prodotti manufatti in via commerciale.

Questo movimento avrebbe potuto avere sviluppi grandiosi se a quel momento, nel settembre del 1920, il proletariato italiano avesse avuto un partito rivoluzionario forte e deciso: era invece in pieno sviluppo la crisi del partito socialista, dopo il Congresso unitario di Bologna del 1919, seguito dalla strepitosa vittoria elettorale coi 150 deputati al parlamento, e si svolgeva la crisi del falso estremismo dei "massimalisti" di Serrati, che si doveva risolvere solo nel gennaio del 1921 con la scissione di Livorno. Le decisioni erano sempre rimesse ad ibride convocazioni della dirigenza del partito (con alcune organizzazioni periferiche di esso, contese fra le varie tendenze), dei parlamentari socialisti e dei capi della Confederazione del Lavoro. Invano la Sinistra sostenne che il solo partito doveva affrontare simili problemi della lotta politica operaia e dare le consegne: deputati ed organizzatori sindacali non avrebbero dovuto che eseguirle, in quanto membri del partito. Si trattava di azioni a scala nazionale e squisitamente politiche.

D'altra parte in un'orgia di false posizioni estremiste si ebbe la prova di quanto sia rovinosa nel partito la mancanza di salde basi dottrinarie. Si confuse il generoso moto di invasione delle fabbriche con la costituzione in Italia dei Soviet, o Consigli operai, si parlò di proclamarla da parte di quelli stessi, che si opponevano alla parola di azione della conquista del potere. Si dimenticarono le nettissime posizioni di Lenin e dei Congressi mondiali per cui i Soviet non sono organismi che possano coesistere con lo Stato tradizionale, ma sorgono in un periodo di aperta lotta per il potere e quando lo Stato vacilla, per sostituirsi ai suoi organi esecutivi e legislativi borghesi. Nella generale confusione e nella assurda collaborazione tra rivoluzionari e legalitari il moto cadde nella impotenza.

Il capo borghese Giolitti ebbe una molto più chiara visione. Anche sotto il profilo costituzionale egli avrebbe potuto disporre la espulsione con la forza armata degli operai che avevano occupato gli stabilimenti: si guardò bene dal farlo malgrado gli incitamenti di forze di destra e del nascente fascismo. Gli operai e le loro organizzazioni non mostravano intenzione alcuna di uscire armati dalle officine occupate e praticamente inerti, per attaccare le forze borghesi e tentare di occupare le sedi della amministrazione e della polizia; la fame li avrebbe spinti fuori dalla insostenibile posizione assunta. Giolitti non fece praticamente sparare una fucilata sola, ma il moto fallì miseramente e ben presto i dirigenti e padroni capitalisti riebbero il possesso e la direzione delle fabbriche negli stessi rapporti di prima, dopo un trascurabile numero di incidenti. La bufera era passata senza alcun serio disturbo per il potere ed il privilegio di classe.

Tutta la storia degli anni italiani del dopoguerra dimostra chiaramente come anche in condizioni favorevoli la lotta proletaria sia votata al fallimento quando manca il partito rivoluzionario che sia in grado di porre la questione del potere in maniera radicale; e lo dimostra la storia del fascismo.

Si trattò della bancarotta della formula che vuole sostituire alla rivoluzione per il controllo politico della società, all'assalto contro lo Stato borghese, e alla istituzione della dittatura proletaria, l'illusione meschina del controllo e della conquista dell'azienda di produzione da parte degli operai, organizzati in consigli di azienda che raccolgono tutta la maestranza, senza tener conto di direttive politiche ed appartenenza a partiti.

La corrente italiana dell'ordinovismo non giunse allora a sostenere l'inutilità del partito, perché le vicende della Terza Internazionale la condussero a convergere sulla tattica di contatti tra i vari partiti proletari anche riformisti ed opportunisti, e perché la sua ideologia era quella di un fronte unico di classe tra operai, industriali e piccolo-borghesi. Ma gli eventi ulteriori e la storia del trionfo dell'opportunismo in Italia e nell'Internazionale mostrarono quale pericoloso punto di partenza fosse la dottrina del Consiglio di azienda sufficiente a se stesso e alla causa rivoluzionaria, e l'illusione che basti alla vittoria del comunismo il passaggio della singola impresa di produzione dalle mani del padrone a quelle del personale, al di fuori della questione generale di una nuova organizzazione di tutta la vita umana, in cui il vecchio schema produttivo cui aderiscono le reti immediate degli organismi sindacali e aziendali deve essere prima denunziato e poi frantumato da cima a fondo.

Vano ritorno a formule svuotate

Ad ogni ondata del processo di involuzione che la grande tragedia russa ci ha presentato e ci presenta, si succedono i tentativi di ridare vita a forme di organizzazione proletaria diverse da quella su cui i grandi pionieri della Rivoluzione d'Ottobre fondarono tutto l'immenso sforzo che li portò alla testa della minacciosa avanzata proletaria e anticapitalista alla fine della prima grande guerra mondiale: il Partito politico e la Dittatura proletaria.

Nessuna utile costruzione teorica e pratica di una grande ripresa del movimento di classe uscirà mai da questa trepida diffidenza per le forme di organizzazione indispensabili al capovolgimento storico del rapporto di dominazione di classe: Partito e Stato. L'obiezione puerile si riduce tutta alla convinzione che vi sia nella natura dell'uomo una insuperabile condanna a volgere l'esercizio del potere, dalla difesa della causa delle forze sociali che hanno dato il mandato alla rete "gerarchica" (la parola è esatta), alla difesa dell'interesse individuale e della libidine vanesia del soggetto rivestito nel Partito e nello Stato da funzioni di potere.

Il marxismo consiste nella dimostrazione dell'inesistenza di questa fatua condanna, e della dipendenza delle azioni del singolo da forze svolte dagli interessi generali, tanto quando si tratta di azioni di singoli che reagiscono come semplici molecole della massa in parallelo ad altre, quanto - e soprattutto - quando si tratta di unità collocate dalla dinamica sociale nei punti nodali, cruciali, della lotta storica.

O leggiamo la storia da marxisti, o ricadiamo nelle masturbazioni scolastiche che spiegano colossali eventi con la manovre del monarca che riesce a legarle come causa efficiente alla trasmissione della corona all'erede o al lignaggio, coi capolavori del condottiero a cui ne detta la capacità l'intento di essere glorificato ed immortalato dai posteri! Il legame tra una antiveggenza cosciente, una volontà motrice, e un risultato diretto che "plasma" la società e la storia, noi lo consideriamo vietato all'individuo, non solo al povero cristo-molecola sperso nel magma sociale, ma soprattutto al coronato, allo scettrato, al rivestito di cariche, di onori e dal nome costellato di titoli prefissi ed iniziali maiuscole. È proprio costui che non sa quello che vuole e non ottiene quello cui pensava, e al quale, se si scusa la nobile immagine, il determinismo storico riserva la più alta dose delle sue pedate nel sedere. È il capo - se si accetta la nostra dottrina - che riveste al massimo la funzione di marionetta della storia.

Il succedersi di tutte le rivoluzioni, quando studiate con la chiave del sopraffarsi delle forme produttive, ci mostra una fase dinamica in cui la regola è che i combattenti, forze espresse da una determinante sociale verso un maggiore benessere, reggono nei ranghi e nelle prime file con alto sacrificio ed immolano, oltre la vita fisica, la "carriera verso il potere", obbedendo alle forze ancora indecifrate che accompagnano il parto storico della forma di domani. Nella fase finale di ogni forma questa dinamica sociale si scompone perché un'altra opposta ne sta sorgendo, e la difesa conservativa della forma tradizionale tende a mostrarsi assicurata da personali egoismi, da panciafichismo individuale, da crassa corruzione, come ne dettero esempio concussori, pretoriani, cortigiani feudali, sacerdoti in deboscia, bassi burocrati dell'affarismo borghese odierno.

E malgrado questo la difesa della forma capitalistica contro la sua caduta, pure in un lago sociale di cinismo e di strafottenza esistenziale di tutti i suoi sgherri e sguatteri di cucina, viene ancora condotta con continuità e vigore dalle reti organizzate degli Stati e dagli stessi partiti politici della classe dominante, che a più svolte storiche hanno mostrato come si organizzino saldamente in una forza unica controrivoluzionaria (e in questo non alludiamo solo alla Germania ed Italia fasciste, ma alla stessa Inghilterra, America e Russia contemporanee, se si sa guardare un poco oltre la ipocrisia corticale). E tra l'altro ci hanno mostrato come osino venire a rubarci la potenza ardente dei nostri segreti sulla geologia dei sottosuoli storici!

Noi, proprio noi, dovremmo essere tanto imbelli da disonorare la forza e la forma che questa nostra propria e irrefrenabile energia dovrà rivestire, il Partito rivoluzionario e lo Stato di ferro della dittatura, che avranno nei nodi della rete indubbiamente persone anche in funzioni singole, ma che riveleranno come esse non manovrino e non decidano segreti intrighi e sorprese, ma procedano sulla ferrea linea del compito che il divenire storico ha prescritto agli organi della irreversibile rivoluzione tra le forme economiche e sociali?

La proposta di cercare garanzie contro il tralignare di un capo o di un incaricato di una qualunque funzione in organismi diversi dal partito dimostra il rinnegamento di tutta la nostra costruzione dottrinale, e non altro.

Infatti la rete dei "capi" e dei "gerarchi" esiste in tali organismi non diversamente che nel partito; in genere nemmeno essa è formata di soli operai; e un lato chiaro e doloroso dell'esperienza storica ha insegnato che l'ex operaio che ha lasciato il lavoro per la carica sindacale è in genere più proclive a tradire la sua classe che non l'elemento venuto da strati non proletari; gli esempi si potrebbero dare a migliaia.

Tutta questa palinodia viene di solito presentata come accostamento, legame più stretto, più serrata aderenza alle "masse". Cosa sono le masse? Sono la classe ancora senza energia storica, ossia senza partito che la saldi alla sua via storica rivoluzionaria, e quindi la classe legata ed aderente solo alla sua situazione di soggezione, alle catene della sua distribuzione nell'organamento sociale borghese. Oppure, in date situazioni storiche, le masse quantitativamente debordano dalla "classe" operaia perché comprendono strati semiproletari.

Il nostro svolgimento, con fedeltà assoluta ai dettami della scuola marxista, mostra un duplice momento storico di questa situazione, e nella distinzione si può sintetizzare quanto precede.

Quando la rivoluzione borghese doveva ancora esplodere e si trattava di abbattere le forme feudali, come nell'esempio della Russia del 1917, in questi strati di "popolo" non ancora proletario vi erano forze ed energie dirette contro il potere dello Stato e i vertici della società: in un deciso trapasso tali strati potevano integrare il proletariato del tempo non solo aumentando l'effettivo numerico, ma aggiungendo un fattore di potenziale rivoluzionario, utilizzabile nella fase di transizione, sotto la condizione della chiara visione storica e della potente organizzazione autonoma del partito della dittatura operaia, e della sua egemonia, garantita dai legami col proletariato mondiale. Esaurita la pressione rivoluzionaria antifeudale, questa "cornice" che attornia il proletariato rivoluzionario e classista diventa reazionaria non quanto, ma ben più dell'alta borghesia. Ogni passo per legarsi ad essa è opportunismo, distruzione della forza rivoluzionaria, solidarietà con la conservazione capitalista. Ciò vale oggi per tutto il contemporaneo mondo bianco.

Gli odierni opportunisti russi nella loro corsa travolgente verso il rinnegamento di ogni indirizzo rivoluzionario non hanno, è vero, ancora buttata tra i ferri vecchi la forma partito, ma ad ogni tappa della loro involuzione si giustificano col richiamo alle masse, e fanno vanto a loro comodo della solidarietà di esse.

Altra prova a posteriori, e storica, non ci occorre della completa inconsistenza di quella antica, subdola, e fastidiosa ricetta, e del come essa sia stata alla base della liquidazione del partito rivoluzionario.

Archivio storico 1952 - 1970