Storia della Sinistra comunista Vol. I - Parte seconda
La linea storica della Sinistra Comunista dalle origini fino al 1919 in Italia

7. Roma 1900, data di nascita ufficiale del riformismo

Il VI congresso socialista si aprì l'8 settembre del 1900. La relazione del Gruppo parlamentare, che negli anni seguenti finirà col divenire il punto ardente, ebbe in quella situazione una calda accoglienza, ed era facile spiegarselo: i deputati venivano, più che dal parlamento, dalle piazze dove avevano lottato con gli operai, e dalle carceri borghesi. Per essi riferì un Andrea Costa che ricordò le battaglie del famoso ostruzionismo (un vero illegalismo in parlamento: si ricordi che destri del calibro di Bissolati giunsero a infrangere le urne), il grido "né un uomo né un soldo" lanciato non solo per le spedizioni in Africa ma anche per quella in Cina (rivolta dei Boxer) quando le donne proletarie si sdraiavano sulle rotaie dei treni militari; e la coraggiosa condotta tenuta dopo l'attentato a Umberto (il de Marinis che andò in gramaglie al Quirinale era stato messo alla porta:il congresso unanime ratificò l'espulsione di costui decisa dalla sezione di Napoli).

Il congresso discusse quindi la tattica elettorale, che era in quel tempo il vero tema politico. Non ci dilunghiamo sull'interessante dibattito circa la lotta per i comuni, che dette luogo a spunti notevoli, tra cui il concetto di non andare alla gestione dei comune che con maggioranze del solo partito, e nel caso di alleanze nelle elezioni vittoriose restare all'opposizione di controllo su giunte formate da alleati non socialisti. Lo diciamo solo per mostrare che il classico riformismo era più sano dello sfrontato opportunismo di oggi.

Circa la tattica nelle elezioni parlamentari trionfò la destra con 109 voti contro 69 e 2 astenuti. L'ordine del giorno di Treves, Modigliani e Prampolini, dopo aver riaffermato che nella battaglia elettorale si doveva far propaganda dei principi del partito, ridotti a "lotta di classe e socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio", proclamava nettamente "la piena autonomia delle organizzazioni collegiali nel contrarre alleanze coi partiti dell'Estrema Sinistra"

in considerazione della grande varietà delle condizioni sociali e locali in Italia.

Cominciamo a trarre da questi dati positivi storici due caratteri immancabili di ogni revisionismo. Uno è la famosa autonomia delle sezioni locali rispetto al partito tutto - che annienta il fondamentale centralismo marxista -, l'altra è la grande varietà delle situazioni locali che alla scala nazionale serviva a giustificare il metodo dei "blocchi", come alla scala mondiale servirà nel 1914 e poi nel 1939 a spezzare l'unità rivoluzionaria internazionale.

Ma quale il valore dell'ordine del giorno respinto, opera del reciso rivoluzionario Ciotti sostenuto da varie delegazioni di tutta Italia? Non molto. Nessuna questione di principio, ma solo la timida affermazione che in base ai deliberati dei precedenti congressi si statuisce l'"intransigenza nelle lotte amministrative e politiche", ammettendo tuttavia eccezioni in quelle politiche per qualche repubblicano o radicale, purché iscritto regolarmente al proprio partito, in caso di ballottaggio.

Si deve dunque riconoscere che l'ala sinistra nulla di meglio seppe dire sulle scarne tesi di principio concesse dagli stessi riformisti vincitori, portati sulla cresta del trionfo della democrazia elettorale e parlamentare.

Lotta di classe? Il riformista la concepisce come conflitto dì interessi fra i padroni capitalisti e le maestranze operaie, fra i quali lo Stato interviene secondo l'influenza dei partiti borghesi ed operai in lotta nel parlamento. Non troviamo un solo congressista che ricordi la tesi marxista che lo Stato democratico e parlamentare difende per sua natura gli interessi del capitale. Quando poi si ammette la famosa "socializzazione", i riformisti non escludono che sia realizzata dallo Stato attuale (nazionalizzazione) e tutt'al più concepiscono il trapasso futuro come curato da uno Stato a maggioranza parlamentare socialista, echeggiando la formula di Genova 1892 di trasformare i pubblici poteri da mezzi per lo sfruttamento del proletariato in mezzi per la sua emancipazione.

Ma il problema storico fu visto più da vicino nella delicata discussione sul programma minimo del partito. Questo tema scabroso si era trascinato di congresso in congresso, e ancora a Roma viene solo approvato, come schema provvisorio da rinviare ad una commissione, il testo redatto con opera del tutto apprezzabile da Turati, Treves e Sambucco. La premessa è condotta da mano non estranea alla buona dottrina marxista, e ammette che il programma non può essere piattaforma di accordo con altri partiti e che, mentre il programma massimo vale come fine, quello minimo non è che mezzo. Notevole nella parte generale questa tesi: "...preparare il proletariato ad assumere e mantenere la gestione della società collettivizzata" accogliendo "tutte le riforme e tutte le istituzioni che ponendo un argine allo sfruttamento capitalistico, elevano le condizioni economiche e politiche del proletariato e lo iniziano alla amministrazione ed al governo della cosa pubblica, secondo leggi che siano emanazione della sua classe".

Si può qui trovare un eco del "proletariato classe dominante" di Marx e del Manifesto, e se si vuole della sua dittatura; come, altrimenti, le leggi della futura società saranno "emanazione della sua classe"?

Ma la parte speciale, pur volendo essere solo un'elencazione non completa, viene certo a contraddire la parte generale e il programma massimo: "Stato democratico dove il proletario si senta realmente uguale, politicamente e giuridicamente, al capitalista".

Si dirà che questo Stato è di transizione, ossia precede la vittoria del proletariato, ma appunto nel presentare questa ipotesi il partito usa un mezzo che uccide i suoi fini e i suoi principi (si ricordi Lenin al II congresso dell'Internazionale e la nostra chiosa).

Per il marxismo, vi è uno Stato in cui il proletario è inferiore al capitalista; e se ne prevede uno in cui il capitalista è inferiore al proletario, anzi in cui il primo è nulla e il secondo è tutto: l'assurdo sta nel ritenere che ci si arrivi passando per una forma di Stato storico in cui il proletario e il capitalista siano "giuridicamente e politicamente eguali". Qui il nocciolo della demolizione della democrazia in cui la dottrina marxista consiste, e qui la centrale scoperta di Marx: la dittatura proletaria.

A Roma la sinistra non avanza nessun controprogetto; l'atmosfera le è troppo sfavorevole (quanto dopo la vittoria dell'antifascismo stramaledetto sul fascismo, maledetto lui pure in quanto generò il primo, come dal 1922 noi vedemmo).

Il breve testo di cui disponiamo contiene qualche monco ma non trascurabile spunto: Soldi fu per un programma unico e contrario allo sdoppiamento tra massimo e minimo, chiara intuizione della tesi dialettica marxista e leninista: unico programma e quello massimo: conquista violenta del potere, rottura dell'apparato di Stato attuale, e dittatura di classe; dopo, nel senso economico e sociale, si può e si deve formulare un programma minimo e concreto. Labriola vide nella richiesta di nazionalizzazione il pericolo di un socialismo di Stato "traducentesi in una forma di socialismo capitalistico...".

Nell'eleggere la direzione non vi fu scontro di tendenze; furono eletti cinque elementi della sinistra e sei deputati (tra cui il direttore dell'Avanti!, Bissolati) in prevalenza della destra.

Sotto il ministero Saracco, di tendenza ibrida tra i reazionari di prima e la nuova maggioranza parlamentare, ci furono vivaci lotte per il riconoscimento dei sindacati (erano sorte le gloriose "Camere del Lavoro") e per la facoltà di sciopero, e il governo dovette cedere su tale fronte più per la forza delle masse che per la manovra parlamentare. Infatti, nel 1901 Saracco cadde contro una maggioranza formata da estrema sinistra (socialisti inclusi) centro e destra (non si ripete forse la storia?) e il nuovo re chiamò al governo il democratico costituzionale Zanardelli (Giolitti agli interni).

Nel partito si cominciò a discutere se si poteva appoggiare il gabinetto Zanardelli-Giolitti per evitare che, votandogli contro (come sempre fin allora si era fatto per principio), la destra potesse tornare al potere.

Il VII congresso si trovò di fronte a questo problema. Era già buona cosa che si riconoscesse che non lo doveva risolvere il gruppo parlamentare, ma il partito. Le opinioni erano molto discordi. Non si trattava ancora del problema di accettare posti in un gabinetto borghese (metodo infausto del francese "millerandismo" designato con la brutta parola di ministeriabilismo) ma del ministerialismo inteso come partecipazione a una maggioranza ministeriale. Allora si arricciava il naso, magari, anche da un Turati; oggi l'una e l'altra cosa sono più innocenti che sorbire un uovo fresco.

Sta di fatto che, prima del congresso che si aprì ad Imola il 16 settembre 1902, già varie volte i voti del gruppo parlamentare, andando al ministero Zanardelli-Giolitti, ne avevano assicurata la vittoria contro la destra. Non erano mancate nel partito le critiche; tuttavia esse non si manifestarono in sede di relazione del Gruppo parlamentare e della Direzione del partito, in quanto nessuno si sentiva di proporre il biasimo, e fu respinta la proposta del rivoluzionario Soldi di discutere, come era nell'ordine del giorno, prima tali relazioni, poi la tattica del partito. I rivoluzionari non erano molto risoluti, tanto che Rigola, che primo parlò per essi (notoriamente poi aperto riformista sindacale), ammise che in casi eccezionali si votasse per i go-verni. Del suo primo intervento, notevole la difesa dei rivoluzionari dall'accusa di essere contro l'azione nei sindacati, che mostra come le stesse questioni di tattica si ripresentino in modo ciclico nella storia proletaria.

I riformisti furono agevolmente rappresentati da Chiesa, Turati e Treves. Ma il futuro avrebbe detto che dei tre rappresentanti rivoluzionari nessuno era di tempra genuina: Rigola (Turati stesso esclamò: è un altro dei nostri), Arturo Labriola ed Enrico Ferri! Treves teorizzò elegantemente, non senza un buon maneggio di dialettica (hegeliana più che marxista; ma il dirgli questo lo fece sempre scattare, dato che del marxismo non gli si poteva negare ampia conoscenza), che il socialismo nei suoi principi avanza ipotesi solidamente scientifiche sul futuro, poi con l'azione riformista le saggia con metodo sperimentale per darne la prova. Egli è un campione del metodo che era già di Bernstein e che sarà di Gramsci e della falsa versione corrente del leninismo in una filosofia della prassi non marxista, ma pragmatista.

Labriola fece la vecchia critica del riformismo che chiedeva concessioni per il proletariato ma non lo conduceva a strapparle e conquistarle "lottando contro lo Stato". Turati mal confutò Labriola dando della di lui posizione questa formula: che il partito debba essere politico e antilegalitario, più che economico e legalitario. Presto l'agilissimo Labriola evolverà verso il sindacalismo rivoluzionario, che sarà antilegalitario sì, ma economico. In queste formule di tanto tempo fa si vede la parentela fra i due opportunismi, riformista e sindacalista, che mal si diranno destra e sinistra.

Ferri fu, come sempre, vuoto di contenuto. L'ordine del giorno riformista ebbe 456 voti contro 279 a quello intransigente. Questo era debole: affermava in principio il concetto che "ogni forma alla quale il Partito tende deve essere conquista diretta della massa lavoratrice e deve coordinarsi e subordinarsi allo scopo generale della trasformazione della società politica ed economica attuale da compiersi per opera del proletariato organizzato in partito di classe",

formule valide ma che non giungono al secondo stadio del Manifesto: "organizzazione del proletariato in classe dominante", il che vuol dire presa del potere fuori dal parlamento; e concludeva di seguire in tutti i campi (senza nominare il parlamento) un indirizzo autonomo da quello di ogni altra classe e partito.

L'altro ordine del giorno nega le tendenze (vecchio chiodo dei destri), e afferma come principi "assoluti" solo proprietà collettiva e lotta di classe, poi conclude per l'"azione autonoma del gruppo parlamentare" approvandone i voti al ministero borghese di sinistra e solo giustificando le coalizioni come transitorie (vi sono pidocchi che trattano a questa stregua l'ammissione dei compromessi in Lenin!).

Ma v'è un passo di questo ordine del giorno, vertice delle fortune dell'opportunismo in Italia, che a distanza storica di 60 anni è significativo citare: nelle sue azioni autonome (collaborazioniste) il gruppo parlamentare a mezzo del partito (cui si lascia una funzione di stimolo) deve "tenersi continuamente in corrispondenza con la coscienza e la volontà della grande massa proletaria".

Quando noi, a riformismo che credevamo per sempre debellato, udimmo levare a chiave delle questioni di tattica del partito di classe questa specie di consultazione della coscienza e volontà delle grandi masse, avemmo ragione di sentire, venti anni dopo, a Mosca, odore di bruciaticcio! Chi ci disse che questo era leninismo non poté ingannarci, perché Lenin aveva imparato da Marx e insegnato a noi, giovani allora, che la coscienza e la volontà sono del partito e non delle masse, e nemmeno della classe proletaria, prima che il partito l'abbia resa capace non di sola forza fisica, ma di potenza rivoluzionaria.

Menò la destra gran scalpore e non esitò ad abusare della sua vittoria. Ma presto riprese vigore la tendenza rivoluzionaria, e vive critiche all'indirizzo dell'Avanti! condussero Bissolati a dimettersi dalla sua direzione, che fu presa da Ferri. Ma questi non fece che mosse demagogiche, come una grande campagna contro Bettolo, ministro della marina con Zanardelli. Al solito, non si trattava di stabilire una norma tattica come quella di non appoggiare alcun governo, quali che ne fossero i nomi, ma si gridava sui casi personali e concreti, accusando Bettolo di aver favorito contratti con le acciaierie dannosi per lo Stato. I giovani hanno creduto che Fiumicino fosse una trovata originale di battaglieri onorevoli; la storia invece è antica.

8. Inizio della lotta al riformismo: appare la falsa sinistra sindacalista

Il partito fu riconvocato a congresso nell'aprile 1904 a Bologna.

Era già avvenuta nel partito francese la scissione fra marxisti e possibilisti. Una grave tensione fra le due tendenze era avvertita pure nel partito italiano, ma si cominciò ad organizzare la tendenza dell'unità a tutti i costi; anche questa, una novità di mezzo secolo e più.

Fu un congresso movimentatissimo. In una prima votazione si affrontarono due ordini del giorno estremi che ebbero circa pari voti, 12 mila (iscritti) ognuno, mentre circa 7.000 furono gli astenuti. Seguì una seconda votazione su due ordini del giorno detti di centrosinistra (Ferri) e di centro-destra (Rigola) e prevalse il primo con 16.304 voti contro 14.844. Non vi fu scissione. L'ordine del giorno Bissolati era per l'aperta ammissione del possibilismo parlamentare, o voto di appoggio a ministeri; i due intermedi non meritano lungo esame; quello di sinistra afferma principi antimonarchici, sostiene l'uso della violenza, esclude che "nei parlamenti sia risoluta l'abolizione della proprietà capitalistica".

Qualche rara formula è esatta, ma non si può dire che in questo testo sia tradotta la posizione marxista sulla questione dello Stato e della rivoluzione.

Dopo il 1904 la lotta di classe in Italia si sviluppa con scontri violenti: nelle campagne, sistematicamente, le forze dello Stato borghese reprimono in sanguinosi eccidi le ribellioni del proletariato rurale (che mal si definiscono azioni contadine), numeroso, diffuso, aggressivo ed istintivamente rivoluzionario: il proletariato dei grandi centri sempre più validamente organizzato nelle Camere del Lavoro sperimenta spesso con successo lo sciopero generale. Ma la grande Confederazione Generale del Lavoro cade poco dopo la sua fondazione nelle mani dei riformisti e ne costituisce la base più solida, sconfessando e stroncando le azioni di portata nazionale (come un grande sciopero dei ferrovieri) che naturalmente ponevano al proletariato il problema del potere.

In questo periodo di grande attività operaia la borghesia italiana tende a tornare alla maniera forte, e per il pericolo socialista la Chiesa allenta il non expedit di Pio IX (divieto agli elettori italiani di partecipare alla vita dello stato liberale). Giolitti è nel cuore di questa manovra. Entrano così alla Camera i primi cattolici, precursori dell'odierna democrazia cristiana con cui, magari al livello delle solite coglionatissime grandi masse, oggi 1963 i socialisti e comunisti amoreggiano.

Il proletariato reagisce anche con eroismo, ma la vigoria delle masse è tradita dalla deviazione del partito dalla linea rivoluzionaria. L'indignazione nelle file del partito stesso contro il destrismo parlamentare prende la forma errata del sindacalismo rivoluzionario, che dà allora una sua formula definitiva e una sua dottrina storica e attira sotto quella bandiera le forze di sinistra. Nel congresso di Roma del 1906 scoppia il conflitto tra le due potenti ali dei riformisti e dei sindacalisti; la voce della sinistra marxista vi sarà fioca e debolissima.

Facciamo tema di commento solo gli ordini del giorno, dopo aver detto che il riformismo si mimetizza, come ha sempre fatto, sotto le vesti del nuovo integralismo di Oddino Morgari (il cui solo merito fu di organizzare i fischi allo zar massacratore a Pietroburgo nel 1905, facendone disdire la visita ufficiale che, vedi ironia, era una tappa degli amori italici con la… democrazia europea dell'intesa franco-inglese e quindi della duplice franco-russa, in nome di quell'odio al tedesco che ancora nutre di sé la tendenza-carogna) e vince con ben 26.493 voti contro 5.278 dei sindacalisti e 1.161 all'o.d.g. Lerda (intransigente). Morgari aveva ottenuto da Turati e Treves molte concessioni, ammettendo una transigenza solo per eccezione ma regalando loro la disfatta dei sindacalisti.

L'o.d.g. sindacalista é questa volta più completo. Chi lo legga tutto a pag. 75 del 2° volumetto de Il Partito Socialista Italiano nei suoi Congressi, ed. Avanti!, Milano, 1959, potrà studiarvi un nostro rilievo: esso anticipa la costruzione propria di Gramsci, che noi sinistri combattiamo come ordinovismo e, come vedremo nel seguito, abbiamo denunziata appena sorta, nel 1919.

Gli scopi della rivoluzione sono qui due: espropriazione della classe capitalista; decomposizione del potere politico. È dunque non compreso che questo si può decomporre solo dopo di avere non solo spezzato lo Stato borghese (e sta bene) ma anche storicamente fondato sulle sue rovine la dittatura politica proletaria, che è uno Stato a sua volta. Seguiamo il testo: lo strumento è la potenza della classe operaia nel suo "organo sindacale". Si è delineato il processo al partito e alla sua funzione rivoluzionaria.

Gli organismi di mestiere devono evolvere fino a rappresentare la totalità degli interessi operai non solo per la finale azione rivoluzionaria ma anche per "i miglioramenti compatibili con la esistenza della società presente".

Questo non è altri che il "controllo operaio" dei torinesi di 15 anni dopo.

Il compito del partito è ridotto alla funzione di "educare e promuovere la costituzione sindacale, cioè in classe, del proletariato".

L'azione rivoluzionaria si esplica con lo sciopero generale (questa è una verità storica), ma "mira a togliere alle classi capitalistiche le difese materiali dello Stato, trasferendone le funzioni agli organi sindacali o all'individuo".

Era chiaro che gente del calibro di un Treves, Modigliani, Turati, Mondolfo e simili, destri politici ma anche validi studiosi, avevano buon gioco nel combattere questa che derisero come mitologia soreliana, e nel dire che si tornava alle aberrazioni bakuniniane per tema delle parole potere e partito.

Noi aggiungiamo oggi che questo non era se non un nuovo tipo di gradualismo dalle pose rivoluzionarie, che con i suoi decisi avversari del tempo aveva in comune di rendere graduale anche quella sola cosa che graduale non può essere, ossia il salto violento nel maneggio dello Stato, arma che l'umanità, per buttarla via, deve aver impugnata in direzione rovesciata. Lo stesso errore sta alle basi del gramscismo, che vede una serie pragmatica nel controllo dei consigli operai di azienda, nella loro gestione, e in un loro progressivo sostituirsi allo Stato capitalistico, concezione che ha fatto ricadere i suoi epigoni nello stesso errore comune ai due contendenti del 1906, e infine in forme indegnamente inferiori a quelle della destra di allora.

Non citeremo l'ordine del giorno degli intransigenti, che è scarno, educazionista per il compito del partito e agnostico sulle forme in cui si attuerà l'abolizione delle classi, che dice non potersi definire "scientificamente" facendo così gioco ai travisatori del marxismo. Migliore è il breve resoconto del discorso di Giovanni Lerda, i cui meriti, diciamo subito, non valsero ad evitare nel 1914 la sua eliminazione dal partito perché "massone" ostinato. Nella posizione del marxismo rivoluzionario autentico è sempre stato purtroppo difficile invecchiare!

Lerda ebbe i soliti cinque minuti dei congressi stanchi e non poté dire molto di più del testo che ne dà in forma riassuntiva il volumetto già citato (p. 72): "I socialisti rivoluzionari, mentre rifiutavano il sindacalismo come concezione teorica essa sola capace di condurre all'emancipazione del proletariato, accettavano alcuni punti dell'azione pratica dei compagni sindacalisti, specialmente quelli riguardanti una più salda integrazione della azione socialista col principio della lotta di classe. Per questo egli non poteva accettare né l'ordine del giorno sindacalista né quello integralista che lasciava aperta la possibilità a una collaborazione coi partiti borghesi".

Questa posizione del tutto chiara risponde pienamente alla linea storica, che qui andiamo ravvisando, della sinistra marxista rivoluzionaria.

In sostanza, al congresso di Roma vinse ancora la tendenza riformista, perché Prampolini annunziò l'adesione di quest'ultima agli integralisti dopo che per lunghe sedute la sua frazione li aveva combattuti: perfino il poco rettilineo Ferri poté allora deplorare che l'integralismo fosse divenuto l'ovile del riformismo, e che i riformisti non avessero nemmeno la sincerità di votare il proprio ordine del giorno.

Nel luglio 1907, in un loro congresso a Ferrara, i sindacalisti decidevano di uscire dal partito, sebbene vari gruppi, con Lazzari che a Roma aveva votato per il loro ordine del giorno, non per quello di Lerda, rifiutassero di seguirli.

Il biennio successivo fu contrassegnato da vivacissime agitazioni operaie, non senza conflitti violenti con la forza pubblica e vittime proletarie, fenomeno incessante della democratica Italia. I sindacalisti rivoluzionari (Michele Bianchi, poi fascista, a Bologna; Alceste de Ambris; poi interventista, a Parma) condussero anche vigorosi scioperi dei braccianti agricoli, che però ne uscirono sconfitti. I rifiuti della Confederazione del Lavoro allo sciopero generale in tutti questi casi acuirono l'urto fra le due correnti: i sindacalisti avevano fondato l'Unione Sindacale Italiana, e a Modena nel 1908 i riformisti si imponevano al congresso della C.G.L.

Ma l'urto era, oltre che fuori, dentro il partito. Il riformismo era in rapidissima ascesa, avendo come fulcri principali il Gruppo parlamentare e la Confederazione del Lavoro: a nome di entrambi, già a Roma, Rigola aveva propugnato l'"autonomia temperata" del primo e, quanto alla seconda, l'impegno della Direzione, "quando si tratti di cose interessanti non solo il Partito socialista ma anche e principalmente il proletariato", di "sentire anche le organizzazioni di mestiere":

il risultato si vide quando, nell'ottobre 1907, Direzione ed esecutivo confederale andarono a gara nel decidere di respingere la richiesta del Sindacato Ferrovieri di uno sciopero generale di protesta per l'uccisione di un operaio a Milano durante l'agitazione dei gasisti. All'autonomia sempre più accentuata del Gruppo parlamentare corrispondeva, d'altra parte, una tendenza all'autonomia delle sezioni: a Milano, contro lo statuto, se ne ebbero perfino due, sotto patrocinio turatiano.

In questa situazione si aprì a Firenze, nel settembre del 1908, il X congresso del Partito. La destra giocò a carte scoperte, forte della vittoria di Roma e della fragilità dell'ala sinistra intransigente. Turati proclamò, nel difendere apertamente la versione evoluzionistica del socialismo data dalla sua corrente contro gli attacchi dell'ala sinistra, per debole che fosse: "Ci si dica: voi dovete andare fuori; e ce ne andremo, senza ira e senza rancore; altrimenti, ci si accetti per quello che siamo, per le idee che rappresentiamo".

Rigola svolse la tesi, infiorata di pseudo-richiami al marxismo, che "le organizzazioni economiche non possono essere più sotto la dipendenza del Partito Socialista"

e propugnò in effetti una chiara preponderanza della Confederazione sul Partito, primo sintomo di quello che giustamente fu detto "sindacalismo riformista". La frazione intransigente espresse per bocca soprattutto di Lazzari e Ratti la sana, ma confusa, reazione di proletari e militanti non corrotti a questo andazzo; il primo dichiarando: "Dobbiamo avere tutto il rispetto per gli interessi immediati trattati dalla Confederazione del Lavoro, ma noi siamo Partito socialista e la visuale che dobbiamo avere per guida nella nostra azione deve essere tale da non lasciare possibilità di subordinare i nostri grandi interessi ideali alle diverse necessità transitorie che quotidianamente, per la difesa e tutela degli interessi immediati dei lavoratori, possono anche essere necessarie" e rivendicando di fronte ai milanesi la necessità di "un solo programma, un solo principio, un solo metodo, una sola disciplina, che ci deve legare tutti";

il secondo respingendo il mito sindacalista dello sciopero generale ma, nello stesso tempo, il pretesto che i confederali ne traevano per espellerlo definitivamente dall'armamentario di lotta del proletariato: "Noi diciamo:lo sciopero generale è un'arma potente: facciamo la propaganda perché diventi un utile strumento contro la borghesia. Ma se cominciamo prima a distruggere l'efficacia dello sciopero generale dicendo che non lo faremo né fra dieci, né fra venti, né fra cinquant'anni, non lo faremo più, e distruggeremo in mezzo alle masse il sentimento della sua utilità".

Lo stesso Ratti doveva proclamare che "il sindacalismo riformista... è peggiore del sindacalismo rivoluzionario"

e Longobardi accusare la Confederazione Generale del Lavoro d'essere un "movimento di aristocrazia" operaia. Come già a Roma, ma in forma più accentuata, si cominciava a lasciar intravedere la possibilità, sia pure remota, di una partecipazione al governo; la risposta degli intransigenti, se fu decisa, non si distinse altrettanto per chiarezza teorica.

Al congresso vinsero ancora i riformisti con 18 mila voti circa su un ordine del giorno detto concordato, mentre gli integralisti ne ottennero un po' meno di 6.000, e quasi 5.400 gli intransigenti su un ordine del giorno recante le firme di Lerda, Serrati, Musatti e altri. Questo testo non è il più esplicito, ma afferma l'unità di organizzazione sindacale, lo sciopero generale anche come "strumento poderoso della rivoluzione sociale, da adoperarsi soltanto quando lo richiedano gravi necessità",

afferma l'intransigenza elettorale con eccezioni nei ballottaggi, e nega l'autonomia del Gruppo parlamentare e l'appoggio ai governi. Dalle votazioni per la Direzione i rivoluzionari si astennero giustamente, "riconoscendo l'utilità che la frazione vincente debba assumere esclusivamente la responsabilità delle funzioni direttive del Partito".

9. Si delinea la sinistra marxista

La nostra rassegna di storia del partito socialista in Italia é giunta al congresso di Firenze del 1908, caratterizzato dal fatto che la tendenza riformista ebbe partita vinta sulla "falsa sinistra" dei militanti di scuola soreliana, anche perché questi, senza attendere altro congresso dopo quello di Roma 1906 in cui erano stati battuti, avevano preferito a Ferrara dichiarare che uscivano dal partito senza tuttavia fondame uno proprio, in quanto nella loro dottrina il movimento proletario non aveva bisogno di partito politico, e suo organo erano i sindacati, salvo ad esistere nelle varie località gruppi sindacalisti senza organizzazione centralizzata.

Il dilemma riformismo-sindacalismo che riempiva di sé il principio di questo secolo, e che non doveva resistere alla prima guerra mondiale, non avrebbe più fatto da sfondo ai congressi del partito, ma i riformisti, ossia la destra, ne conservarono il controllo, in quanto a Firenze 1908, contro i loro 26 mila voti (contandovi quelli dell'integralismo, inutile equivoco unitario che non cessa mai di risorgere sempre più pestifero), i rivoluzionari ne ebbero un numero superiore a quello di Roma ma pur sempre esiguo, e, assorbiti dal problema della delimitazione dai sindacalisti e della loro espulsione, non avevano elaborato a loro volta una chiara e solida piattaforma programmatica sul filo del marxismo.

Dal 1906 al 1912 durerà la lotta per battere nel partito i riformisti. Ma con questo non si sarà ancora formata e delineata bene la sinistra marxista cui qui ci richiamiamo nel tracciarne una linea storica riconoscibile nel lungo decorso. La lotta che stiamo per descrivere avrà purtroppo, secondo la maniera convenzionale di stendere le storie, un nome: quello di Mussolini. Siccome noi seguiamo maniera opposta, e anche senza poter ignorare i nomi, almeno dei morti, teniamo a mostrare le derivazioni sociali e collettive, ci permettiamo a questo livello storico 1910 una breve ricapitolazione dello sviluppo del movimento già ricordato in quanto precede.

Per la chiarezza dell'esposizione di un processo storico bisogna seguirne le tappe o le fasi distinguendole con qualche cosa di non tanto misero e banale quanto l'apparire, il vincere o l'essere sopraffatti di uomini coi loro nomi segnati da un alto grado di notorietà, tanto più che a noi preme di porre in evidenza non quello che le fasi hanno di diverso, ma proprio quello che hanno di comune e anche di costante nel tempo; nel che sta la sola ragione per cui a un movimento politico è necessario conoscerle. Un movimento politico è la "fabbrica del futuro" ma la nostra dottrina è che sarebbe vano impiantare questa strana fabbrica ignorando il passato, o solo maledicendolo, e, con la formula che distingue gli stolti di questo tempo borghese, proclamandolo di fase in fase e di tappa in tappa "superato".

Sembra quindi a noi che le tappe o fasi si possano segnare con buona approssimazione e tenendo a freno ogni fantasia inventiva (quando, o signori, verrete a regalarci la fantastoria?), seguendo lungo la non breve vita del movimento di una classe sociale ben stabilita (e per noi del proletariato) le separazioni o, per usare una parola che nel linguaggio comune si direbbe più tecnica, le scissioni tra ali, correnti, tendenze, che, prima unite o perfino confuse, divengono poi distinte e infine nemiche, prendendo vie diverse ed opposte. Un simile corso sarà stato felicemente descritto quando queste correnti, nel loro contenuto di forze reali (quello che più volte piacque chiamare con abuso di retorica le loro anime), saranno state ricondotte a figure costanti nel tempo e non ravvisate di accadimento in accadimento come novità o sorprese o parole nuove. In fondo il nostro movimento studia da quasi un secolo e mezzo il processo storico del modo capitalistico, e noi spingiamo il nostro candore fino a dichiarare che in tanto tempo, che scavalca vite di persone e generazioni, la nostra scuola non ha trovato da registrare nelle cronache nessuna sorpresa o novità: è una volta per sempre che abbiamo scoperto che il modo borghese è un modo transitorio, caduco, nemico ad una parte della specie umana, e che da una parte di essa deve venire combattuto ed ucciso. La catena delle scissioni va valutata e tenuta presente con gran cura, ma esse non sono venute perché si sia "scoperto", o peggio "inventato", che l'anima del modo capitalista e il suo ciclo superno ed infernale ricevevano una interpretazione e descrizione nuova rispetto a quella già meritata.

Chiediamo dunque scusa di questa dichiarazione, che ci si rinfaccerà, al solito, dogmatica o talmudica, e che starà in piedi solo se tutta la catena storica degli eventi, anteriori e posteriori al nostro conoscere e annotare, si lascerà incastrare soddisfacentemente nella trama che senza dubbi o incertezze premettiamo al nostro lavoro, che non è di un giudice ma di una parte nella storia. Checché sia di quella cretinata suprema che sono gli autori, è certo che la verifica sarà tanto più utile quanto più a lungo si avrà avuto lo stomaco di subordinarla e legarla allo stesso presupposto di metodo.

Da quando fu in maniera più o meno chiara ed evidente che l'inquadratura del movimento storico della classe proletaria si traccia nell'ambiente e nell'azione della classe stessa, ossia da quando la critica del capitalismo usci dalla fase utopistica, la dottrina fu rivoluzionaria nel senso iniziale che, se una rivoluzione nella società e nelle sue forme tutte aveva fatto vincere gli interessi e le pretese del terzo stato, della classe borghese, una rivoluzione storica avrebbe accompagnato il mutare delle condizioni di vita della classe proletaria.

La prima scissione a cui ci siamo riferiti fu quella della Prima Internazionale dopo la Comune di Parigi del 1871. La scissione da Bakunin e dagli anarchici è solo dagli ignoranti spiegata come il distacco dai violenti ed insurrezionisti di una corrente di socialismo evoluzionista e pacifista tra le classi, che (vivo ancora Carlo Marx) avrebbe abbandonato la dottrina della catastrofe rivoluzionaria, della guerra civile. Le note distintive furono altre, e, secondo queste, la tradizione-di sinistra sta dalla parte di Marx, di Engels e del Consiglio Generale.

Circa la questione del centralismo, errore definitivo è quello dei libertari che, ovunque esistano un gruppo di lavoratori e un padrone o un ricco, sia possibile attaccare con l'azione violenta e vincere localmente, mentre la verità storica rivoluzionaria è che questi urti si svolgono all'altezza del centrale ed unico Stato borghese, che con tutto il suo peso tutela il diritto di ogni sfruttamento locale e parziale.

Circa poi la questione dello Stato, l'errore sta nel non intendere come per abbattere lo Stato borghese non solo occorre azione e organizzazione centrale, dunque partito politico, ma occorre prendere e tenere il potere tolto agli sfruttatori (dittatura di classe).

La scissione, che, come sempre, ha una forma momentanea che non sembra investire il fondo del dissenso, fu utile e necessaria. Tra le altre gravi posizioni, solo in apparenza estreme, degli anarchici, vi era quella di negare le leghe economiche per il miglioramento delle condizioni dei salariati. Essa derivava dal pregiudizio che non bisogni associarsi perché ogni organizzazione è una negazione della libertà del socio. Ma questo è vero, ed è perciò che il movimento proletario non ha bandiera di libertà, ma di distruzione della libertà di oppressione dei borghesi, e quindi la rivoluzione che vinca non può che essere autoritaria. Noi ci diciamo autoritari.

Seconda tappa. Passando all'Italia, abbiamo visto che le forze della Prima Internazionale vi seguirono tutte o quasi la scissione di Bakunin, e quindi si svuotarono di ogni forza storica malgrado cruente e coraggiose azioni e lotte. Siamo quindi andati alla scissione di Genova 1892 tra socialisti ed anarchici, mostrando ancora come sarebbe errore porre i socialisti a destra, e ridurre la distinzione alla tattica elettorale e parlamentare che gli anarchici non accettavano. Già nel 1889 si era costituita la Seconda Internazionale sulla base della dottrina marxista e con la guida di Engels.

La questione pratica delle elezioni dominò la scissione, e quindi abbiamo rilevato come non si potesse definire il programma di Genova come un testo della sinistra marxista. Esso affermava la lotta di classe e ne distingueva due campi di applicazione: quello delle leghe economiche di resistenza, che si erano ormai storicamente imposte in tutto il mondo contro le sterili riserve di pochi anarchici detti "antiorganizzatori", e quello della lotta per la conquista dei pubblici poteri. Ma la posizione di Marx per l'elevamento della lotta economica a lotta politica non è certo tutta qui. Il nostro concetto è che la lotta di gruppi locali, di categoria, di azienda o di mestiere è un fatto fisico insopprimibile ed è base dell'azione socialista, ma non è ancora lotta di classe e prova che il proletariato si sia organizzato in classe. Il Manifesto del 1848 aggiunge: e quindi in partito politico; abbiamo poco fa visto che in una mozione sindacalista si diceva: in classe e quindi in sindacati.

Azione solo economica e solo sindacale significa azione che accetti di restare nei confini delle istituzioni politiche del tempo, dello Stato parlamentare e democratico quale fondato dalla borghesia liberale. Il marxismo insegna che, se non si passa al piano politico (che significa rompere i confini statali democratici), la stessa azione economica fallisce e non si può parlare di classe e di classe proletaria. Bisogna dunque salire al partito che pone la questione del potere di classe, che non è la questione delle elezioni e dei pubblici poteri del 1892 o del 1963 (ecco che la linea chiarificata serve a cavallo di settant'anni, per il momento!) ma è la questione marx-leninista della dittatura e della "organizzazione del proletariato in classe dominante".

Se la questione era incompleta storicamente in Italia nei moti di Romagna e del Mezzogiorno, che vagamente tendevano a far vacillare lo Stato nazionale sabaudo del 1860, lo era anche nella formazione del partito socialista italiano. Una spinta a questo veniva dai sani seguaci delle teorie di Marx ed Engels (Bignami) e dal partito rivoluzionario di Romagna (Costa), ma l'altro fattore era una spinta ancora impura, ed era proprio il fattore che veniva dalle famose "masse", con la quale parola non si intendevano più turbe in rivolta, bensì maestranze organizzate e in attesa di miglioramenti economici immediati.

Infatti il partito in Piemonte, in Lombardia, e nel resto del Nord, veniva dal movimento delle mutue (difesa dell'operaio dalla miseria a solo carico dei compagni di lavoro e di sventura) svoltosi poi in leghe di resistenza (difesa dell'operaio nel quantum del salario da chiedere a un capitalismo divenuto più florido, in genere anche a carico di altre miserie nazionali e regionali, o di masse sottoproletarie e pseudo-proletarie), che, divenuto importante, sollevava problemi che il potere pubblico doveva e poteva risolvere. Dato che questo tradizionalmente li risolveva sempre contro il lavoratore, venne la richiesta del partito politico. Ecco come i rivoluzionari d'istinto, come Lazzari giovane, dicevano prima di Genova: Elezioni no, perché a noi non importa il potere. - Era una grossa sciocchezza, ma Lazzari intendeva:- Non importa influire perché il partito al potere sia di destra o di sinistra liberale, di monarchia o di repubblica, tanto lo Stato è lo Stato dei capitalisti. Solo egli non ne deduceva che occorre rovesciarlo e fondare lo Stato dei proletari.

È quindi indiscutibile che la esigenza di una rappresentanza nel parlamento si collegava a quella, sia pure non del tutto esplicita, dì possedere un'influenza sui poteri esecutivi dello Stato in modo che a mano a mano questi potessero almeno in parte favorire le richieste delle organizzazioni proletarie. In ciò era l'origine del partito riformista, perché era facile la conclusione che per raggiungere tali finalità non era indifferente l'eventuale appoggio a un governo parlamentare disposto a prendere talune misure utili al proletariato.

Evitare questo sviluppo in base alla sola norma programmatica che il partito politico si debba ispirare al principio della lotta di classe ed essere indipendente da ogni altro partito, era una debole speranza finché non si dichiarava che la vera azione politica é la lotta per il potere fuori dal parlamento e con la violenza insurrezionale: il che non fu chiaramente detto dalla sinistra del partito tra il 1892 e il 1914. Quindi il socialismo parlamentare, vantandosi a ragione di essere il solo a comprendere le masse, a tenerle attive e a soddisfarne le rivendicazioni economiche, si avviò deciso alla collaborazione parlamentare. La reazione a questo indirizzo tra il 1892 e il 1906 prese la forma sindacalista, ossia sostenne l'azione diretta dei proletari contro la borghesia. Diretta voleva dire senza intermediari, ossia senza deputati, e infine senza partito politico, in quanto "politica" aveva preso a significare "azione solo elettorale". E quindi si giungeva all'errore della tattica locale, periferica, non centrale, che significava concedere alla difesa conservatrice dell'ordine borghese un enorme vantaggio "strategico" votando alla disfatta i conati del proletariato e delle sue organizzazioni sindacali che non rifuggissero dall'azione violenta.

La situazione del proletariato italiano nell'anteguerra fu dunque di sostanziale impotenza. Il partito era dominato dalla destra parlamentare poggiante sulle organizzazioni della maggioritaria Confederazione Generale del Lavoro; la sinistra del partito non vantava un gran seguito, avendo nel gruppo pochi deputati che man mano subivano la forza di attrazione dell'ambiente, e poca influenza nei sindacati, una cui ala distaccata e scissionista era diretta dai sindacalisti libertari ormai in piena rotta col partito e in alleanza con gli anarchici. Con giusta ragione, fra gli operai socialisti il malcontento era grande e il ritorno a una buona chiarezza programmatica difficile e stentato.

10. 1910: prima riscossa dei marxisti rivoluzionari

Nel 1909 vi erano state le elezioni generali politiche con notevole successo socialista e della estrema di allora (socialisti, repubblicani e radicali di ispirazione massonica). Ai gabinetti di Giolitti e di Sonnino seguì quello di Luzzatti, che si presentò con programma di estensione del suffragio, di riforme tributarie nel senso progressivo e scolastiche nel senso laico, sfidando la resistenza dei cattolici che Giolitti aveva chiamato alla Camera.

Il gruppo parlamentare si lasciò trascinare da Turati a concedere per tali motivi l'appoggio a Luzzatti contro la destra, e la direzione del partito giustificò la cosa in base alla famigerata autonomia del gruppo parlamentare.

Frattanto saliva il malcontento contro i riformisti di estrema destra che avevano preso coraggio dalla rottura coi sindacalisti anarchici e dalla vittoria al congresso di Firenze. Bissolati, loro capo, era giunto a far propria la tesi di un ex-anarchico, Comunardo Braccialarghe,- che riconosceva la necessità della difesa della patria in caso di aggressione straniera, nel qual caso Bissolati aveva addirittura preconizzato l'abbandono del tradizionale voto socialista contro i bilanci militari.

D'altra parte si delineava un'ala della stessa frazione riformista meno proclive a concessioni di principio e rappresentata da Modigliani e da altri, che, sia pure per motivi non radicali, proponeva al partito una maggiore intransigenza politica e parlamentare.

In questa situazione si aprì nell'ottobre 1910 il congresso di Milano, che partì da vivaci dissensi ma non giunse ancora a battere i riformisti.

Una prima battaglia vinta da questi ultimi fu il rifiuto di discutere l'opera passata del Gruppo e della Direzione prima della questione generale di tattica. Essi infatti temevano di essere battuti sul terreno della critica, come doveva avvenire due anni dopo, e di avere miglior gioco (contro un avversario teoricamente incerto) sul terreno dei metodi generali.

L'inversione fu respinta con 12 mila voti contro 6 mila. Le forze numeriche del partito erano in quegli anni in lieve diminuzione. Dal massimo di oltre quarantamila iscritti si era scesi a 32 mila circa.

Nella discussione, il sempre forte Turati si differenziò non solo dai rivoluzionari, che mai la sua ironia risparmiò, ma sia dai riformisti di destra che da quelli di sinistra. Infatti si pronunciò contro il "bloccardismo" che a suo dire era giustificabile solo in caso di offensiva della reazione (da questo il nostro diritto di bollare nell'interguerra come turatiana la politica del blocco antifascista) e più innanzi svolse un altro punto notevole respingendo l'accusa di sostenere una "aristocrazia proletaria" del Nord, avida di legislazione sociale positiva, contro le necessità delle più misere plebi del Sud, per le quali si levava il gruppo di Salvemini ed altri, che dette poi origine al meridionalismo (edizione peggiorata del riformismo, in cui il futuro partito comunista, quando cadrà nelle mani del centrismo, avrà gravissime pecche). Turati non negò che quello fosse un problema non regionale ma socialista, tuttavia fece l'ortodosso rivendicando che il proletariato industriale era l'avanguardia naturale del movimento. Ortodossia vana, di fronte alle posizioni già assunte da Marx ed Engels, e che lo saranno poi da Lenin, di fronte al grasso proletariato inglese.

Salvemini parlò con forza contro il riformismo ufficiale, accusandolo di "socialismo di Stato", e contro i pericoli di corporativismo e protezione di gruppi privilegiati; ma si dichiarò non meno vivacemente contro i rivoluzionari. In questo era coerente, in quanto, nutrito di solidi studi economici, esprimeva la tendenza, che avrà largo influsso sul partito comunista d'oggi, di sottrarre ai rivoluzionari, che pongono come pregiudiziale ai benefici per i lavoratori la caduta dell'ordine capitalistico, la buona conoscenza dei fatti sociali e dei problemi economici; nel che sta la più efficiente e scientifica delle posizioni di controrivoluzione, dal non breve e molteplice sviluppo in Italia dal quale punto di vista si potrebbe redigere un lungo elenco di conservatori progressisti, unendo nomi che al comune osservatore sembrano antitetici, come Nitti o Mussolini.

Restiamo a quel congresso di Milano. Lazzari svolse la critica ben valida dell'azione parlamentare ed extraparlamentare dei riformisti, e in ciò il vecchio rivoluzionario, che poi non ebbe poche pecche, sarà sempre reciso. Si scagliò contro la tendenza a sacrificare all'opera contingente di legislazione sociale gli obiettivi finali e programmatici del partito, denunziò in quella "una specie di sudditanza di fronte al grande apparato dello Stato della classe dominante",

bollò come scandaloso il voto per Luzzatti come per ogni ministero, e stigmatizzò la tesi turatiana di una crescente partecipazione del proletariato ai benefici del moderno processo economico, del quale invece esso era "la massima vittima". Oggi Lazzari sarebbe di gran lunga più a sinistra, nella sua leale ingenuità, dei comunisti stile 1963! Reina, riformista di sinistra, svolse la difesa dalle varie accuse. È a questo punto che fa la sua prima apparizione Mussolini.

In "poche dichiarazioni telegrafiche", egli ricorda "a quelli che qui hanno decantato il suffragio universale, che il suffragio universale l'hanno nazioni avanzate come l'Austria e la Germania, e non è detto ancora che attraverso ad esso si debba giungere al socialismo"; a quelli "che hanno decantato la legislazione sociale, che nei paesi dove essa è più intensa, siamo ancora ben lontani dal socialismo: l'Inghilterra informi"; che, "se il proletariato italiano non fosse più rappresentato da deputati al parlamento, il male sarebbe lieve" e infine che "l'affare della patria, questo vecchio cliché della patria in pericolo, è il cliché ideologico di tutte le democrazie borghesi, col quale da 30 anni a questa parte si pompa il sangue della miseria del proletariato".

È chiaro che i signori uomini politici non sogliono mai rileggere i loro discorsi ai congressi di vari anni prima!

Parlando a nome dei sinistri romagnoli condannò con efficacia la tregua corsa fra socialisti e repubblicani in Romagna. Quella violenta lotta politica aveva una seria base economica e di classe, in cui è una delle pagine gloriose del socialismo italiano: socialisti e rossi erano i generosi, eroici braccianti, veri e squisiti proletari della terra e militi armati del socialismo, per cui versarono sangue senza risparmio; repubblicani, massoni e gialli, i grassi e sfruttatori mezzadri, cui i comunisti del 1963 fanno la corte. "Non avete capito nulla, disse Mussolini, col vostro concordato; lì si vive in piena rivoluzione!"

Non si poteva dire lo stesso nel 1921 della schifosa pacificazione e relativo patto tra repubblicani, socialisti e fascisti? Anche allora la friggente Romagna fu tradita e castrata. Essa ruggiva ancora quando, nel 1914, Mussolini passò alla causa della guerra democratica.

L'ultrariformista Cabrini difese poi i sindacati confederali, la Lega delle Cooperative, la Banca del Lavoro, e tutte le conquiste dovute a quella "dei pubblici poteri" da parte del proletariato della Valle Padana. La sua apologia dei sindacati fu smaccata: la Confederazione del Lavoro fa la vera "politica proletaria" (dando ordini, dicevano allora i rivoluzionari, ai deputati del partito, ed è questo che rendeva vuote di vita le sezioni politiche). Concluse - anticipando il grido degli odierni innovatori - invocando una trasformazione radicale della impalcatura del partito: "O rinnovarsi o perire!".

Perfino più audace di Cabrini fu Bissolati nel porre in punti precisi il programma dei destrissimi di sottomettersi il partito. Autonomia locale nella tattica per le elezioni. Autonomia del gruppo parlamentare di fronte al partito. Libero appoggio a ministeri se il gruppo lo creda. Approvazione di quello passato e futuro al governo Luzzatti col motivo di ottenere il suffragio per altri due milioni di elettori. Infine, in un vicino avvenire, modificazione del partito, il quale divenendo "partito dei lavoratori" deve cedere il campo "alla rappresentanza diretta del proletariato", ossia "trasmissione di poteri" dal partito politico alla Confederazione sindacale: doveva quindi cessare l'organizzazione del partito sulla base di adesioni personali. A dire di Bissolati, questo era vero marxismo perché il proletariato deve interpretare le proprie necessità senza consiglieri, apostoli o interpreti autobrevettati; é ora che "la classe lavoratrice formuli a sé medesima i criteri della propria tattica e trovi in sé quella coscienza politica che ora in noi va rabbuiandosi".

Se noi seguiamo come elemento di giudizio oggettivo il corso storico che nel seguito avrà Bissolati e il suo gruppo, ci è lecito a questo punto stabilire una conclusione sicura, tratta non da "dogmi" ma dalla forza materiale dei fatti e dei rapporti di forze storiche; conclusione che allora traemmo e che un lungo futuro dimostrò giustamente tratta. Nessuna differenza nell'argomentare dei due gruppi, per gli ingenui e i superficiali tra loro opposti, degli immediatisti, ossia di quelli che non vedono tra il proletariato e la rivoluzione la necessaria medianza del partito, organo di opinione che nel senso universale è la sovrastruttura dell'antagonismo di interessi, non in un senso pedestre e pettegolo, o automatistico. Sono i due nefasti gruppi dei sindacalisti libertari e dei riformisti possibilisti e collaboratori con la borghesia, che fanno la stessissima falsaria speculazione demagogica sulla formula marxista che l'emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi; grandissima verità storica, purché non la castri l'immediatismo.

Da queste vicende traevano i rivoluzionari la loro forza, seppure ancora immaturi. Ricordiamo che Angelica Balabanoff, nel confutare altra asserzione banale di Maria Giudice contro le discussioni e per un lavoro pratico, rivendicò la necessità più che il diritto di affrontare i temi teorici, e si disse solidale con gli intransigenti, a giusta ragione tuttavia rimproverandoli di non sufficiente "coesione teorica".

Anche questa volta vinse il riformismo, ma sotto il nome di Turati, ché i bissolatiani non si vollero contare. Ben 13 mila voti contro 4.557 a Modigliani (intransigenza di massima) e soli 6.000 circa a Lazzari. Ancora una volta l'ordine del giorno è debole e sola parola nuova è il sottolineare la lotta del partito contro le istituzioni economiche e politiche della società borghese, indicate come "religiose, laiche e militari" con riferimento a Chiesa, Massoneria e Militarismo. È un passo che dette utili sviluppi politici, sebbene non fosse basato su vera chiarezza marxista.

L'Avanti! passò da Bissolati a Treves, ma i rivoluzionari per bocca di Musatti (deputato di Venezia) si astennero. Fu rinviata la questione massonica.

Di questo congresso vogliamo ricordare che Lerda, il quale doveva poi scusare la sua ostinata appartenenza alla massoneria, ebbe uno spunto felice nel ribattere Cabrini e Bissolati sul laburismo ed operaismo di tipo sindacale. Egli, dopo di essersi levato contro coloro che vogliono "fare del vero socialismo solo facendo delle riforme" e sostengono che "il socialismo è quello che si produce giorno per giorno per la forza delle cose con l'opera e con l'azione parlamentare", disse che la nuova società socialista non poteva sorgere soltanto "dalla forza amorfa e bruta di bisogni ed avidità nuove emergenti da mutate condizioni economiche" ma anche "dalla forza del pensiero che coordina e guida le energie umane e sociali verso nuovi orizzonti".

La formula può essere migliore e forse anche lo fu; non si tratta della forza del pensiero contrapposta a quella del bisogno alla scala della persona individua; ma del passaggio dall'appetito materiale che muove il singolo (senza coscienza di pensiero) nella giusta via, alla funzione del partito, anticipazione di una umanità nuova, che possiede dottrina volontà e coscienza; l'originale posizione con cui Marx spezzò l'incantesimo dei millenari enigmi umani, la generosa risposta nostra in tutti i tempi alla falsificazione del sistema grandioso del determinismo dialettico nelle basse dimensioni di un utilitarismo immediatista e borghese.

11. Gli intransigenti prevalgono

Quello che dette al partito socialista un violento scossone fu un fatto storico d'importanza non solo locale ed italiana ma collegato al corso dell'imperialismo mondiale, e gli effetti furono favorevoli alla posizione che il partito italiano potrà prendere nel 1914. Giolitti, tornato al potere (con audace manovra, egli aveva fatto di tutto per avere Bissolati nel ministero, ma non vi riuscì, e forse il più serio ostacolo si ridusse, nella pacchiana Italia, a una questione di giacca e non frac al Quirinale!), il 29 settembre 1911 dichiarava guerra alla Turchia e la flotta italiana occupava Tripoli. Non è fuori luogo notare che il pretesto fu la vittoria dei Giovani Turchi, accusati di "nazionalismo". Non si dimentichi che quella rivoluzione, popolare e non proletaria, contro il regime feudale turco, fu altamente apprezzata da Lenin.

Il movimento proletario si era fieramente levato contro l'impresa nazionalista di Tripoli, secondo le sue non recenti tradizioni anticoloniali. Lo sciopero generale non ebbe esito completo, ma vivissime furono le dimostrazioni contro la partenza delle truppe. Il gruppo socialista votò un ordine del giorno Turati contro la guerra, ma ne dissentirono i destri de Felice, Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca. È da notare che non pochi "sindacalisti rivoluzionari" si dichiararono fautori dell'impresa libica, in prima linea Arturo Labriola, Orano ed Olivetti.

Il congresso straordinario si riunì il 15 ottobre 1911 a Modena sotto l'influenza di questa situazione generale. Bussi, per Treves e per i riformisti di sinistra, deprecò la guerra e sostenne il passaggio alla decisa opposizione a Giolitti, non per questo rinunziando in linea teorica all'antico possibilismo. Lerda ancora una volta (e qui meglio che altrove) ribatté felicemente che, quanto alla prima, non si trattava di una qualunque congiuntura politica, ma dell'origine del fatto bellico dalla essenza del capitalismo e che, quanto al secondo, non ci si poteva fermare ad esso, ma ungeva constatare il fallimento della colpevole illusione di attendersi vantaggi per il proletariato e per il socialismo dallo Stato borghese, e condannare la tendenza a subordinare le finalità ultime del movimento agli interessi immediati della classe operaia espressi nelle sue organizzazioni economiche: "Se vogliamo adattare l'ideale o quella che potrebbe dirsi la dottrina del socialismo, gli atteggiamenti del Partito e quello degli uomini del Partito, alle contingenze della vita degli altri Partiti e all'opportunismo che è necessariamente nella pratica quotidiana, nella lotta per la vita, certo avremo distrutto in noi ogni ragione teorica del socialismo, e certo ha ragione l'on. Bissolati, ed ha anche ragione Armando Bussi, quando-considerano l'evoluzione come forza sufficiente per se stessa a regolare l'avvenire sociale".

(Come sempre, Lerda e in genere i rivoluzionari intransigenti dell'epoca, acuti nel rilevare e combattere il divorzio fra azione economica e azione politica, fra rivendicazioni minime e programma massimo, peccano poi di insufficienza teorica nel definire la natura di quest'ultimo: esso è "l'ideale, il pensiero, l'anima socialista", alla quale bisogna "educare" le masse proteggendole contro il pericolo cooperativistico; il riflesso pratico di questa insufficienza teorica apparirà in piena luce durante la guerra, quando si "salverà l'anima" del socialismo, ma non si brandirà il programma come strumento di attacco alla società capitalistica e alla sua manifestazione estrema: l'imperialismo).

Per i rivoluzionari anche Francesco Ciccotti sostenne che l'opposizione alla guerra di Libia doveva basarsi non su motivi contingenti come le spese deviate dall'opera di riforme, ma sui principi internazionalisti. Turati parlò pure abilmente contro Tripoli. Lazzari con ragione disse che non era contento neppure dell'ordine del giorno (Lerda) della sua frazione. Questo, molto breve, diceva che dall'azione parlamentare possono conseguire certi vantaggi, ma essi mantengono tra gli sfruttati l'illusione che si possano rinnovare gli istituti sociali per via parlamentare. Chiudeva però col solito debole accenno alla sola opera di "educazione ed elevazione" proletaria affidata al partito.

La lotta fu tra ben cinque correnti: riformisti di destra, con 1954 voti; di sinistra, Treves e Turati, 7818; idem Modigliani (senza l'avverbio sistematicamente nel capoverso che vietava al gruppo di sostenere coi propri voti "il Gabinetto attuale"!), 1736; integralisti o centristi di Pescetti, 1073; infine rivoluzionari, 8646. Questi avevano finalmente raggiunto la vittoria relativa, e per essi giustamente il compagno Elia Musatti rinunziò al ballottaggio, di modo che gli organi di partito restarono ai riformisti turatiani. (Purtroppo i due deputati di sinistra Musatti ed Agnini nel dopoguerra soggiacquero all'influenza morale di Turati e Treves). Ieri eravamo, disse Musatti, la minoranza della minoranza, oggi possiamo ritenerci soddisfatti dei risultati ottenuti con la nostra lotta contro il "ministerialismo" e il ministeriabilismo"!

Il 23 febbraio del 1912 tutto il Gruppo socialista, ma con ben diversa intonazione nei discorsi di Turati e Bissolati, vota contro l'annessione della Libia al Regno d'Italia. In quest'occasione si liquida finalmente il gran pagliaccio Enrico Ferri, che aveva votato a favore. Già nelle piazze lo avevamo fischiato via.

Ma il 14 maggio vi fu altro evento, sia pure non di peso storico. Il muratore Antonio d'Alba sparò contro il Re. Tutti andarono al Quirinale su proposta del repubblicano Pantano, e dei socialisti ruppero la disciplina del gruppo Bonomi, Bissolati e Cabrini. Scoppiò l'indignazione nel partito; Mussolini, che al tempo di Modena era in carcere per le azioni antibelliche, sulla "Lotta di Classe" di Forlì, che insieme al settimanale nazionale "La Soffitta" ed altri giornali locali era coi rivoluzionari, a gran voce chiese l'espulsione dei tre al congresso previsto per il 7-10 luglio 1912 a Reggio Emilia.

In questo congresso ebbero importanza le riunioni della frazione intransigente rivoluzionaria, in cui gli elementi più giovani presero posizioni di avanguardia che hanno relazione con gli sviluppi ulteriori di un'effettiva sinistra. Questa volta fu subito imposta la discussione sugli errori della Direzione e del Gruppo parlamentare. Infatti, il processo di elaborazione programmatica non è che una conseguenza ritardata della battaglia contro le degenerazioni dell'opportunismo e della condanna risoluta delle tattiche disfattiste. La sinistra del partito italiano elaborò in questo campo una ben felice e particolare esperienza nel vivo di tali lotte, e qui ne vogliamo lumeggiare le tappe tra il 1912 e il 1919.

Lazzari fu molto deciso nel chiedere la condanna degli organi centrali del partito, che Modigliani debolmente difese, attaccandone la destra. Serrati deprecò che le agitazioni contro la guerra fossero state subite piuttosto che dirette e guidate dal Partito; disse che anche di fronte allo sciopero generale la Direzione si era "dimostrata fredda, incerta e titubante e aveva dovuto aspettare che la Confederazione del Lavoro la richiamasse al dovere", mentre la propaganda antibellicista "non era stata ispirata a criteri generali né fatta in modo preciso ed uniforme ma saltuariamente".

Vi fu poi il famoso discorso Mussolini, ben sostenuto dalle energiche richieste venute fuori nelle lunghe sedute notturne di frazione, che fecero tacere molti degli esitanti. Finalmente fu condannata in tutte lettere ogni autonomia del gruppo parlamentare del partito. Mussolini svolse una vivace critica del parlamentarismo e della sopravalutazione del suffragio universale offerto da Giolitti in contropartita all'impresa libica ("il sacco di ossigeno che prolunga la vita dell'agonizzante"); proclamò che l'uso di quest'ultimo deve soltanto "dimostrare al proletariato che neanche quella è l'arma che gli basta per conquistare la sua emancipazione totale", e disse senza ambagi ch'era tempo di "celebrare solennemente con un atto di sincerità quella scissione che si è ormai compiuta nelle cose e negli uomini".

Ma il suo forte non furono mai le costruzioni teoriche bensì le posizioni di battaglia. Si scagliò contro la visita al Quirinale: noi non siamo per l'attentato personale, ma gli infortuni dei re sono gli attentati, come le cadute dai ponti quelli dei muratori (d'Alba era muratore). Lesse infine tra applausi frenetici la mozione che espelleva dal partito Bissolati, Bonomi e Cabrini, ma nella fretta scordò una parte delle decisioni di frazione della notte: fu necessario gridargli: e Podrecca? e allora afferrò il lapis e scrisse sul foglietto che tendeva al presidente "la stessa misura colpisce il deputato Podrecca per i suoi atteggiamenti nazionalisti e guerrafondai", sollevando tra lo sbigottimento dei destri e dei centristi alte acclamazioni.

Un'altra frase famosa fu quella, che ben si attagliò al Mussolini futuro: "il partito non è una vetrina per gli uomini illustri!".

Morale, diremmo: le verità non sono tali per virtù di chi le afferma, ma per virtù propria...

Cabrini tentò di parlare e il congresso gli cantò la Marcia Reale. Bonomi, altro oratore di forza, tentò pure la difesa: Noi, disse, non vogliamo più rovesciare lo Stato, anzi ci siamo riconciliati con esso in quanto ormai "permeabile alle forze del proletariato". Il nostro socialismo riformistico è un fatto concreto: poggia sul movimento dei lavoratori. È poi un movimento nazionale, perché i bisogni del proletariato vanno intesi "d'accordo con i bisogni più ampi della nazione". È infine una "concezione libera ed eclettica del processo politico economico ed etico attraverso il quale si attua il socialismo", e quindi non assegna "alcun binario prestabilito al movimento proletario" (una chiara eco bernsteiniana nell'aggiunta: "dal moto, solo dal moto, esso deve trarre le norme per l'avvenire"). L'oratore profetizzò che, anche senza le loro persone, il riformismo sarebbe risorto nel partito: essi non facevano che svolgere le conclusioni delle premesse turatiane; se quindi espulsione doveva esserci, fosse la definitiva "separazione di due metodi, di due modi di intendere il divenire socialista, talché d'ora innanzi non ci sarà più un solo socialismo italiano, ma un socialismo rivoluzionario e un socialismo riformista".

Non aveva affatto torto! Concreto, popolare, nazionale, forza delle classi lavoratrici nello Stato, nessun binario prestabilito: non pare un discorso di Togliatti in una domenica, elettorale o no, del corrente 1963?

Podrecca si difese bene invocando Antonio Labriola che molti avevano la debolezza di presentare come teorico del marxismo in Italia: Antonio, diciamo (e non Arturo), che in nome di una diffusione mondiale del capitalismo avanzato, base del socialismo, aveva difeso le conquiste coloniali. Altro uomo abile, Podrecca gridò che non avrebbe firmato un articolo dell'Avanti! che augurava lo sventolio del tricolore sulle balze trentine. Non siamo in grado di dire se la diabolica allusione volesse colpire Mussolini che aveva lavorato nel Trentino perseguitato dagli austriaci, i quali tra patrioti e socialisti non andavano forse per il sottile: Mussolini, comunque, non disse nulla.

Berenini per i destrissimi dichiarò che questi avrebbero seguito gli espulsi. Reina e Modigliani presentarono ordini del giorno senza la parola espulsione, ma che constatavano essersi i destri messi fuori dal partito. Il voto: Mussolini 12.556, Reina 5.633, Modigliani 3.250, astenuti 2.027.

Lerda presentò il solito ordine del giorno sulla tattica elettorale, che il congresso approvò senza votazione. Esso non era felice, ma la buona dottrina viene dopo le buone azioni, e la buona azione era stata quella di defenestrare i traditori. La formula teorica restava da affinare dopo, non andando bene questa: "il partito socialista non può essere per la sua essenza rivoluzionaria che un partito di agitazione ed educazione, mai un partito di governo".

Ma il partito è proprio l'organo la cui funzione è il governo!

Nelle adunanze di frazione si disputò, ma su altri punti tattici in cui si decise di andare più avanti: intransigenza non solo nelle elezioni politiche e nella attività parlamentare (come nell'ordine del giorno approvato), ma in tutte le elezioni amministrative e nei ballottaggi, ed espulsione dei massoni. Tali punti si dovettero demandare al futuro congresso. Gli "esperti" spiegarono che ogni congresso vive di una sola grande battaglia.

In realtà, la maggioranza che aveva stravinto era a sua volta divisa in due ali. Ne troviamo questa traccia nel libercolo già citato sui Congressi del P.S.I.: "Seguì una lunga schermaglia provocata dall'accusa fatta ai rivoluzionari da Nino Mazzoni di avere ripiegato dall'ordine del giorno estremamente intransigente preparato da Ciccotti e votato a maggioranza dall'assemblea della frazione, all'ordine dei giorno Lerda che, non affrontando il problema delle elezioni amministrative, era meno intransigente di quello di Modigliani. Parlarono sull'argomento Modigliani, che espresse il proprio compiacimento per il fatto che tra i rivoluzionari una corrente più estrema si fosse arresa all'altra meno intransigente, e Ciccotti e Maffioli che smentirono le affermazioni di Mazzoni".

La verità era quella di Mazzoni, e nella riunione di frazione era stato nettamente sostenuto (tra l'altro Serrati disse in aula di essere di tale avviso) che si dovevano evitare i blocchi amministrativi, lavoro speciale dell'influenza massonica.

Fu approvato un ordine del giorno antimassonico di Zibordi ed altri, e respinto un tentativo di scioglimento della Federazione Giovanile, che era stato dai riformisti ventilato per la sua direttiva ultrasinistra. All'Avanti! fu designato Bacci, ma poi vi andò Mussolini.

La lunga lotta contro i riformisti si chiudeva con successo. Scrivendo sulla "Pravda" il 28 luglio, Lenin, che seguiva da tempo con vivissimo interesse le vicende interne del partito italiano, annotava: "Una scissione è cosa grave e dolorosa. Ma qualche volta è necessaria e, in questi casi, ogni debolezza, ogni sentimentalismo... è un delitto. Se per la difesa dell'errore si forma un gruppo che calpesta tutte le decisioni del partito, tutta la disciplina dell'esercito proletario, la scissione è indispensabile. Il Partito Socialista Italiano, allontanando da sé i sindacalisti e i riformisti di destra, ha preso la strada giusta".

Lerda reiterò la sua dichiarazione di dimissioni dal partito. La storia della sinistra non si tesse su nomi di persone: lo stesso ora citato Ciccotti fu, in guerra, un centrista: Lerda, Lazzari, Mussolini, esponenti finora, poi rottami dispersi e talvolta mal ripescati.

Note:

(1) È un testo che andrebbe riprodotto in luogo proprio, e non resisteremo alla tentazione di darne un passo che giustificherebbe da parte di giovani nosiri collaboratori l'asserzione che anche il Mehring lesse cento anni prima i programmi russi! "Dai precedenti tipi di lavoro non pagato il lavoro salariato si distingue in ciò che il movimento del capitale è smisurato e la sua avidità di pluslavoro insaziabile. In formazioni economiche della società in cui predomina non il valore di scambio ma il valore d'uso del prodotto, il pluslavoro è limitato da una cerchia più o meno vasta di bisogni, ma dal carattere della produzione non deriva un bisogno illimitato di pluslavoro. Ben altrimenti stanno le cose là dove predomina il valore di scambio. Come produttore di laboriosità altrui, come spremitore di pluslavoro e sfruttatore di forza-lavoro. Il capitale supera in energia, smodatezza ed efficacia tutti i processi di produzione precedenti, fondati direttamente sul lavoro coatto. Al capitale interessa non il processo di lavoro, la produzione di valori d'uso, bensì il processo di valorizzazione, la produzione di valori di scambio dai quali trarre un valore superiore a quello che vi ha immesso. L'avidità di plusvalore non conosce senso di sazietà; la produzione di valori di scambio ignora il limite che alla produzione di valori d'uso è posto dal soddisfacimento dei bisogni".

Archivio storico 1952 - 1970