Lettera ai "tre"

Cari compagni,

ho ricevuto la vostra lettera del 5 maggio. Vi ringrazio molto per questo studio del comunismo italiano in generale e delle diverse tendenze che vi esistono in particolare. Mi era molto necessario e mi è stato di grande utilità. Sarebbe ingiusto dare al lavoro, così profondo, il valore d'una semplice lettera. Con qualche modifica o qualche piccolo ritaglio, questa lettera potrebbe senz'altro trovare posto nelle colonne de La Lutte de classes.

Se me lo consentite, comincerò con una conclusione politica generale: io penso che nel futuro la nostra collaborazione reciproca sarà perfettamente possibile ed anche estremamente augurabile. Nessuno di noi possiede o può possedere delle formule politiche prestabilite, che possono servire in ogni occasione della vita. Ma credo che il metodo con il quale voi cercate di determinare le formule politiche necessarie, è quello corretto.

Mi domandate che cosa penso di tutta una serie di gravi problemi. Ma prima di cercare di rispondere a qualcuno di essi, devo esprimere una riserva molto importante. Io non ho mai conosciuto da vicino la vita politica italiana perché non sono stato in Italia che pochissimo tempo, leggo assai scorrettamente l'italiano e durante il periodo che sono stato all'Internazionale Comunista non ho avuto l'occasione di penetrare più in profondità nell'esame degli affari italiani.

Del resto voi già sapete questo fatto, perché altrimenti come spiegare che avete intrapreso un lavoro così dettagliato per mettermi al corrente delle questioni italiane? Ancora una volta vi esprimo la mia riconoscenza.

Risulta da ciò che precede che le mie risposte nella maggior parte dei casi devono avere un valore assolutamente ipotetico. In nessun caso considero le riflessioni che seguono come definitive. È possibile e perfino probabile che esaminando questo o quel problema io perda di vista alcune circostanze concrete di luogo e di tempo moto importanti. Aspetterò dunque le vostre obiezioni, delucidazioni supplementari e correttive. Poiché, come spero, il nostro metodo è identico, arriveremo alla soluzione giusta.

Voi mi ricordate che ho criticato a suo temo la formula "Assemblea repubblicana sulla base dei Comitati operai e contadini", formula lanciata a suo tempo dal Partito comunista italiano. Voi mi dite che questa formula non aveva avuto che un valore del tutto episodico e che attualmente è stata abbandonata. Voglio tuttavia dirvi perché reputo questa formula come sbagliata o almeno equivoca in quanto formula politica. L'"Assemblea repubblicana" costituisce innegabilmente un organismo dello Stato borghese. Che cosa sono invece i "Comitati operai e contadini"? è evidente che in qualche modo sono un equivalente dei Soviet operai e contadini. Allora bisogna dirlo. In quanto organismi di classe delle masse povere operaie e contadine -sia che voi li chiamate Soviet o Comitati- costituiscono sempre delle organizzazioni di lotta contro lo Stato borghese per diventare poi organismi insurrezionali e trasformarli, infine, dopo la vittoria, in organismi di dittatura proletaria. Come è possibile in queste condizioni, che un'Assemblea repubblicana -organo supremo dello Stato borghese- abbia come base degli organismi di Stato proletario?

Tengo a precisare che nel 1917, prima di ottobre, Zinov'ev e Kamenev, quando entrambi si proclamavano contrari ad un'insurrezione, erano del parere di attendere che l'Assemblea Costituente si fosse riunita per cercare uno "stato combinato" mediante la fusione dell'Assemblea Costituente con i Soviet operai e contadini. Nel '19 vedemmo Hilferding proporre di iscrivere i Soviet nella Costituzione di Weimar. Come Zinov'ev e Kamenev, Hilferding chiamava tale operazione lo "stato combinato". Nella sua qualità di nuovo tipo piccolo-borghese, egli doveva, nel momento stesso della più brusca svolta storica, "combinare" un nuovo tipo si Stato sposando, sotto il segno costituzionale, la dittatura della borghesia alla ditta del proletariato.

La formula italiana esposta più sopra mi pare sia una variante di questa tendenza piccolo-borghese. A meno ch'io l'abbia mal compresa. In tal caso, però, essa porta in sé il difetto incontestabile di prestare il fianco ad equivoci pericolosi.

Approfitto di questa occasione per correggere un errore veramente imperdonabile commesso dagli epigoni nel 1924; essi avevano trovato in Lenin un passaggio in cui è detto che noi saremmo stati forse portati a combinare l'Assemblea Costituente con i Soviet. Un passaggio del genere può essere scoperto ugualmente nei miei scritti. Ma di che esattamente si trattava? Noi ponevamo la questione di un'insurrezione che avrebbe trasmesso il potere al proletariato sotto forma dei Soviet. Alla domanda circa quello che avremmo fatto in questo caso dell'Assemblea Costituente, rispondevamo: "Si vedrà: forse la combineremo con i Soviet"; sottolineando naturalmente l'eventualità in cui l'Assemblea Costituente, convocata sotto il regime dei Soviet, avesse dato una maggioranza sovietica. Poiché così non fu, i Soviet cacciarono l'Assemblea Costituente. In altri termini: la questione che ci eravamo posta era quella di sapere se fosse stato possibile di trasformare l'Assemblea Costituente e i Soviet in organismi di una sola e stessa classe, ma niente affatto di "combinare" un'Assemblea Costituente borghese con i Soviet proletari. Nell'un caso (secondo Lenin) il problema era la formazione di uno Stato proletario, la sua struttura, la sua tecnica. Nell'altro (secondo Zinov'ev, Kamenev e Hilferding) si trattava di una combinazione costituzionale di due Stati di classi nemiche nell'intento di evitare una insurrezione proletaria che avrebbe preso il potere.

La questione che stiamo per esaminare è intimamente legata a un'altra che voi analizzate nella vostra lettera: quale carattere sociale assumerà la rivoluzione antifascista. Voi negate la possibilità in Italia di una rivoluzione borghese. In questo avete perfettamente ragione. La storia non può tornare indietro di tutta una serie di pagine ciascuna delle quali vale un periodo di anni. Il Comitato centrale del Partito comunista italiano aveva già tentato in precedenza di eludere la questione proclamando che la rivoluzione non sarà né borghese né proletaria, ma "popolare". Si tratta d'una semplice ripetizione di quello che dicevano i populisti russi all'inizio di questo secolo quando si domandava loro quale carattere avrebbe avuto la rivoluzione contro lo zarismo. Ed è ancora questa stessa risposta che dà attualmente l'Internazionale Comunista per quanto riguarda la Cina e l'India. Si tratta semplicemente di una variante sedicente rivoluzionaria della teoria socialdemocratica di Otto Bauer e di altri e secondo la quale lo Stato può elevarsi al di sopra delle classi, vale a dire può non essere né borghese né proletario. Questa teoria è nefasta tanto per il proletariato quanto per la rivoluzione. In Cina essa ha trasformato il proletariato in carne da cannone per la controrivoluzione borghese.

Ogni grande rivoluzione si trova ad essere popolare nel senso ch'essa trascina nel suo solco il popolo tutt'intero. E la grande Rivoluzione francese e la Rivoluzione d'Ottobre furono assolutamente popolari. Ciononostante la prima era borghese perché istituiva la proprietà privata. Soltanto qualche rivoluzionario piccolo-borghese, disperatamente arretrato, può ancora sperare di una rivoluzione che non sia né borghese né proletaria, ma "popolare" (vale a dire piccolo-borghese).

Ora, in periodo imperialista, la piccola borghesia è non soltanto incapace di dirigere una rivoluzione, ma perfino di prendervi una parte determinata. Di modo che la formula d'una "dittatura democratica del proletariato e dei contadini" costituisce ormai una semplice copertura d'una rivoluzione di transizione e d'uno Stato di transizione, vale a dire di una rivoluzione e di uno Stato tali che non possono essere realizzati non solo in Italia ma neanche nell'India arretrata. Una rivoluzione che non abbia preso una posizione netta e chiara sulla questione della dittatura democratica proletaria e contadina, è destinata a sbandare di errore in errore. Per quanto concerne il problema della rivoluzione antifascista, la questione italiana è più di ogni altra intimamente legata ai problemi fondamentali del comunismo mondiale, vale a dire alla teoria della rivoluzione permanente.

A ciò che precede fa seguito la questione del periodo di "transizione" in Italia. Innanzitutto bisogna stabilire con chiarezza: di transizione da che cosa a che cosa? Periodo di transizione dalla rivoluzione borghese (o "popolare") alla rivoluzione proletaria, è una cosa. Periodo di transizione dalla dittatura fascista alla dittatura proletaria, è un'altra cosa. Se si pensa alla prima concezione, la questione della rivoluzione borghese si pone in primo luogo e si tratta allora di inserirvi il ruolo del proletariato, dopodiché soltanto si porrà la questione del periodo di transizione verso una rivoluzione proletaria. Se si pensa alla seconda concezione viene allora ad essere posta la questione di una serie di battaglie, sconvolgimenti, rovesciamenti di situazioni, brusche svolte, che costituiscono nell'insieme le diverse tappe della rivoluzione proletaria. Queste tappe potranno essere numerose. Ma esse non possono in alcun modo contenere nel loro seno una rivoluzione borghese o il suo feto misterioso: la rivoluzione "popolare".

Ciò vuol dire che l'Italia non può per un certo periodo di tempo tornare ad essere uno Stato parlamentare o diventare una "Repubblica democratica"? Ritengo -in perfetto accordo con voi, penso- che questa eventualità non è esclusa. Ma allora essa non risulterà come un frutto d'una rivoluzione borghese, ma come un aborto d'una rivoluzione proletaria insufficientemente matura o prematura. Nel corso d'una crisi rivoluzionaria profonda e di combattimenti di massa nel corso dei quali l'avanguardia proletaria non fosse all'altezza di prendere il potere, accadrà che la borghesia ristabilisca il suo potere su basi "democratiche". Si può dire, ad esempio, che l'attuale Repubblica tedesca costituisca una conquista della rivoluzione borghese? Una tale affermazione sarebbe assurda. Ci fu in Germania nel 1918-19 una rivoluzione proletaria che, privata di direzione, fu ingannata, tradita e schiacciata. Ma la controrivoluzione borghese si vide costretta ad adattarsi alle circostanze risultanti da questa sconfitta della rivoluzione proletaria, e da ciò nacque una Repubblica parlamentare "democratica". La stessa eventualità -più o meno- è esclusa per l'Italia? No, non è esclusa. La vittoria del fascismo fu il risultato della nostra sconfitta nella rivoluzione proletaria del 1920. Soltanto una nuova rivoluzione proletaria può rovesciare il fascismo. Se anche questa volta essa non fosse destinata a trionfare (debolezza del Partito comunista, manovre e tradimento dei socialdemocratici, dei massoni, dei cattolici) lo Stato di transizione che la controrivoluzione borghese si vedrà allora costretta a stabilire sulle rovine del suo potere sotto forma fascista, non potrà essere altro che uno Stato parlamentare e democratico.

Perché, qual è in definitiva lo scopo della Concentrazione antifascista?

Prevedendo la caduta dello Stato fascista per una sollevazione del proletariato e, in generale, di tutte le masse oppresse, la Concentrazione si appresta a fermare questo movimento, a paralizzarlo e a privarlo della sua vittoria per far passare la vittoria della controrivoluzione rinnovata per una sedicente vittoria d'una rivoluzione borghese democratica. Se si perde, anche per un solo istante, di vista questa dialettica delle forze sociali viventi, si rischia di imbrogliarsi irrimediabilmente e di uscire dalla strada maestra. Credo che non può esserci alcuna malinteso tra noi su questo punto.

Ma ciò significa che noi, comunisti, respingiamo a priori ogni obiettivo democratico, ogni parola d'ordine di transizione o di preparazione, fermandoci rigorosamente alla sola dittatura proletaria? Sarebbe dar prova di un vano settarismo dottrinario. Non crediamo neanche per un istante che un semplice salto rivoluzionario sia sufficiente a saldare ciò che separa il regime della dittatura proletaria. Non neghiamo affatto la fase di transizione con le sue esigenze transitorie, ivi comprese le esigenze della democrazia. Ma è precisamente con l'aiuto di queste parole d'ordine di transizione dalle quali scaturisce sempre la via della dittatura del proletariato, che l'avanguardia comunista dovrà conquistare la classe operaia tutta intera e che questa ultima dovrà unificare attorno a sé la classe sfruttate della nazione. E qui non escludo neanche l'eventualità di una Assemblea Costituente che in certe circostanze potrebbe essere imposta dagli avvenimenti, o, più precisamente, dal processo di risveglio rivoluzionario delle masse oppresse. Certamente, su scala storica e per tutto un periodo, i destini dell'Italia si ridurranno incontestabilmente alla seguente alternativa: fascismo o comunismo. Ma pretendere che la nozione di questa alternativa è penetrata fin a ora nella coscienza delle classi sfruttate del popolo, sarebbe una pura fantasia e vorrebbe dire che si considera come già risolto il problema più gigantesco la cui soluzione, invece, resta tutta di fronte a un partito comunista ancora debole. Se la crisi rivoluzionaria dovesse scoppiare, per esempio, nel corso dei prossimi mesi (sotto la spinta della crisi economica da una parte, e sotto l'influenza rivoluzionaria venuta dalla Spagna), le grandi masse lavoratrici sia operaie che contadine farebbero certamente seguire le loro rivendicazioni economiche da parole d'ordine democratiche (quali la libertà di stampa, di coalizione sindacale, di rappresentanza democratica al Parlamento e nei Comuni). Ciò significa che il Partito comunista dovrà respingere queste richieste? Al contrario. Dovrà imprimere loro l'aspetto più audace e più categorico che sia possibile. Perché non si può imporre la dittatura del proletariato alle masse popolari. Non si può realizzarla che conducendo la battaglia -la battaglia a fondo -per tutte le rivendicazioni, le esigenze e i bisogni transitori delle masse, e alla testa di queste masse.

Bisogna poi ricordare che il bolscevismo non è affatto arrivato al potere con l'aiuto dell'astratto obiettivo della dittatura proletaria. Noi abbiamo combattuto per l'Assemblea Costituente ben più arditamente di tutti gli altri partiti. Dicevamo ai contadini: "Voi rivendicate la divisione in parti uguali della terra? Il nostro programma agrario va molto al di là. Ma nessuno all'infuori di noi vi aiuterà, contadini, a realizzare il godimento egualitario della terra. È per questo motivo che dovete sostenere gli operai".

Per quanto concerneva la guerra dicevamo ancora ai contadini: "L'obiettivo dei comunisti è la guerra a tutti gli sfruttatori. Ma voi non siete maturi per vedere così lontano. Voi avete fretta di sottrarvi alla guerra imperialista. Nessuno all'infuori di noi, bolscevichi, vi aiuterà ad arrivarci". Non affronto qui la questione di quali devono essere le parole d'ordine centrali del periodo di transizione in Italia in questo anno 1930. Per determinarle e per stabilirne l'opportuna successione bisognerebbe conoscere molto meglio di me la vita interna dell'Italia e stare molto più vicino alle masse lavoratrici. E qui, oltre a un metodo corretto, bisogna possedere l'arte di saper comprendere le masse. Voglio dunque indicare qui soltanto i tratti comuni alle rivendicazioni transitorie nella lotta del comunismo contro il fascismo e contro la società borghese in generale.

Ciononostante, pur aderendo a questa o a quella parola d'ordine democratica, dobbiamo avere molta cura di lottare senza tregua contro tutte le forme di ciarlatanismo democratico. La "Repubblica democratica dei lavoratori", obiettivo della socialdemocrazia italiana, è una perla di questo ciarlatanismo di bassa lega. Una Repubblica democratica non è che una forma mascherata di Stato borghese. L'alleanza dell'una con l'altro non è che un'illusione piccolo borghese delle masse socialdemocratiche alla base (operai, contadini), e una impudente menzogna dei socialdemocratici al vertice (di tutti questi Turati, Modigliani e via dicendo). E a questo proposito, lo ripeto ancora, se mi sono opposto e mi oppongo ancora alla formula della "Assemblea nazionale sulla base dei comitati operai e contadini", è precisamente perché questa formula si avvicina troppo alla parola d'ordine della "Repubblica democratica dei lavoratori" dei socialdemocratici e potrebbe nuocerci moltissimo nella lotta contro la socialdemocrazia.

L'affermazione fatta dalla direzione ufficiale che la socialdemocrazia in Italia non esisterebbe più, non è che una consolante teoria di burocrati ottimisti che vogliono vedere le conquiste avvenute laddove, invece, ci sono difficili obiettivi da conseguire. Il fascismo non ha liquidato la socialdemocrazia, ma, al contrario, l'ha conservata. Essa non porta agli occhi delle masse la responsabilità del regime di cui essa stessa è parzialmente caduta vittima. È così ch'essa conquista nuove simpatie e conserva quelle vecchie. E arriverà il momento in cui la socialdemocrazia farà tesoro dl sangue di Matteotti così come la Roma antica fece del sangue di Cristo. E non resta dunque escluso che nei primi tempi della crisi rivoluzionaria la direzione si trovi ad essere principalmente concentrata nelle mani della socialdemocrazia. Se masse considerevoli saranno trascinate nel movimento, e se il Partito comunista resterà sulla via maestra, potrà accadere che la socialdemocrazia in breve tempo sia annullata. Ma questo sarà un obiettivo da raggiungere e non una conquista già realizzata. Non serve a nulla saltare il problema: bisogna saperlo risolvere. Qui voglio ricordare che Zinov'ev, e dopo di lui Manuilsky e i vari Kuusinen, avevano già chiarito a due o tre riprese che anche la socialdemocrazia tedesca di fatto non esisteva più.

Nel 1925 l'Internazionale Comunista, nella sua dichiarazione scritta per mano di Losowsky al partito francese, aveva egualmente decretato che il Partito socialdemocratico francese aveva definitivamente abbandonato la scena. L'Opposizione di sinistra ha sempre energicamente protestato contro questa leggerezza di giudizio. Soltanto dei poveri sciocchi e dei traditori possono voler far credere all'avanguardia proletaria d'Italia che la socialdemocrazia italiana non potrà più giocare il ruolo che aveva avuto la socialdemocrazia tedesca nei riguardi della rivoluzione del 1918.

Ma si può affermare che la socialdemocrazia non riuscirà ancora una volta a tradire e a portare il proletariato italiano al fallimento come essa fece già una volta nel 1920. Sono ormai finite queste illusioni ingannatrici e questi errori! Troppe volte nel corso della sua storia il proletariato si vide ingannato innanzitutto dal liberalismo, poi dalla socialdemocrazia.

Inoltre non si può perdere di vista che dal 1920 sono passati dieci anni pieni, e otto anni dopo l'avvento del fascismo. I ragazzi che avevano 10-12 anni nel '20-'22 e che hanno visto in questi anni che cosa è l'opera del fascismo, costituiscono ora la nuova generazione operaia e contadina che lotterà eroicamente contro il fascismo, ma che però mancherà di esperienza politica. I comunisti non verranno in contatto con le vere masse che durane la rivoluzione stessa, e, nel migliore dei casi, avranno bisogno di molti mesi per arrivare a demolire e a rovesciare la socialdemocrazia che il fascismo -ripeto- non ha affatto liquidato, ma, al contrario, conservato.

Non dirò di più per oggi. Ho appena ricevuto la ricca documentazione che mi avete inviato e di cui non ho ancora preso completa conoscenza. Tutto ciò che precede non è basato che su quanto è detto nella vostra lettera. Come convenuto, mi riservo il diritto di apportare correzioni al seguito della mia esposizione.

Per finire, qualche parola concernente una importante questione sulla quale non possono esserci, tra noi, due pareri diversi. I comunisti di sinistra devono e possono deliberatamente dare le loro dimissioni dai posti ch'essi occupano nel partito, e dal partito stesso? Non ci possono essere dubbi. Tranne qualche rarissima eccezione -e che furono errori- nessuno di noi l'ha mai fatto. Ma io non comprendo bene in quale misura e con quale mezzi i compagni italiani possono conservare il tale o il tal altro posto in seno al partito nelle attuali circostanze. Non posso dire nulla di concreto a questo proposito, se non che nessuno di noi saprebbe ammettere che ci si possa accodare in una posizione politica falsa o equivoca agli occhi del partito o delle masse, allo scopo di evitare l'espulsione.

Vi stringo la mano, vostro

Leone Trotsky

Da La Lutte de classes, n. 23 del 1930

Note

1) La lettera con la quale i "tre" prendevano diretto contatto con Trotsky reca la data 5 maggio 1930. La lettera-documento venne redatta da Tresso, ma fu ispirata direttamente da Leonetti e Ravazzoli e sottoscritta da Recchia e Bavassano (nella presentazione infatti Tresso parla di "cinque elementi" tutti appartenenti "al PCd'I dal giorno della sua fondazione"). Ai primi di aprile Leonetti e Ravazzoli avevano preso contatto con Alfred Rosmer, uno dei principali dirigenti dell'OSI, che aveva informato Trotsky di quest'incontro con una lettera in data 10 aprile.

Nello stesso mese di aprile, su La Verité, settimanale dell'Opposizione francese, erano comparsi due articoli scritti da Leonetti sulla situazione interna italiana: "Grave crise intérieure dans le Partì communiste italien", sul numero del 18 aprile e "Ou en est la dictature fasciste en Italie?", firmato Akros e comparso sui numeri del 25 aprile, 16 e 30 maggio. Il documento del 5 maggio è una presentazione politica della crescente opposizione, ma soprattutto un'analisi della situazione politica italiana e dello stato delle forze e del dibattito all'interno del movimento italiano. I temi affrontati sono di carattere generale (stato della mobilitazione sociale, natura della socialdemocrazia e del fascismo, situazione interna del PCd'I), ma toccano anche problematiche specifiche: per esempio la tattica verso i centri di potere locale (i Comuni) e la soppressione delle elezioni amministrative, su cui si sollecita Trotsky ad esprimere un parere.

2) La lettera venne infatti riprodotta a firma Blasco su la Lutte de classes con il titolo di "Problemes révolutionaires de l'Italie fasciste et nos divergences".

Blasco era lo pseudonimo di Pietro Tresso. Nato nel 1893 vicino Vicenza da una famiglia contadina, Tresso si iscrive giovanissimo al FIGS, a quattordici anni. Pochi anni dopo, nel 1915, dopo essersi formato a Milano alla Umanitaria, è inviato in Puglia come organizzatore. Divenuto segretario della Lega contadina di Gravina di Puglia, è tra gli animatori delle lotte contro gli agrari che scuotono le campagne pugliesi in quegli anni. Aderisce al PC fin dalla fondazione, continuando la sua attività di organizzatore sindacale. Lavora alla redazione di Sindacato rosso e dirige La lotta comunista. Nel '22 partecipa al IV Congresso. Nel '23 è a Mosca, delegato all'Internazionale Sindacale Rossa; in questo periodo si lega ad una stretta amicizia con Gramsci. Nel '27 è cooptato nel UP. Si schiera contro l'allineamento a Mosca del '29 e presenta un controprogetto per la discussione in CC (marzo '30) sulla riorganizzazione clandestina del Partito in Italia. Viene espulso nel giugno del '30. Aderisce all'OSI e fonda la NOI pur impegnandosi soprattutto nel lavoro politico della Ligue francese, dove si schiera con il gruppo Molinier. Partecipa alla riunione di fondazione della IV Internazionale nel 1938. Durante la guerra è arrestato in Francia, nel '42, ed esce dal carcere l'anno successivo nel corso di un'azione di una squadra partigiana comunista. Da quel momento si perdono le sue tracce. Fu quasi certamente eliminato dagli stalinisti, nelle cui mani si trovò dopo l'uscita dal carcere.

3) Tale parola d'ordine era stata adottata nel '24, nel periodo successivo all'assassinio di Matteotti e alla formazione dell'opposizione aventiniana, quando il PCd'I decideva di proporre ai partiti dell'Aventino la costituzione di un Antiparlamento basato sui Comitati operai e contadini. La formula, poi abbandonata, mirava a fare pressioni sull'opposizione antifascista per farla uscire dall'immobilismo che la caratterizzava in quella fase, ma la direzione del Partito non si faceva illusioni sull'eventualità di reazioni positive che la "provocazione" comunista avrebbe suscitato nelle altre forze antifasciste.

4) Rudolf Hilferding (1877-1941). Socialdemocratico tedesco, fu redattore della Neue Zeit e del Vorwärts tra gli anni 1907 e 1915 e direttore dal '18 al '22 della Freiheit. Divenuto dirigente dell'USPD (i socialdemocratici indipendenti staccatisi dal SPD alla fine della Prima guerra mondiale) si schierò a favore di una riunificazione con la socialdemocrazia. Fu deputato al Reichstag dal '23 al '29, ricoprendo a più riprese la carica di ministro delle Finanze.

5) I "tre" ritenevano che all'ordine del giorno in Italia non fosse più la rivoluzione democratico-borghese, ormai compiutasi, bensì quella proletaria, e criticavano duramente l'analisi della direzione del PCd'I (approvata in una risoluzione adottata a Mosca nel gennaio 1927) che aveva caratterizzato la fase precedente la "svolta", secondo la quale era all'ordine del giorni in Italia la rivoluzione democratico-borghese da completare, per cui ne conseguiva che "tra la caduta del fascismo e l'instaurazione della dittatura del proletariato noi avremo in Italia un "fenomeno di transizione" più o meno lungo, caratterizzato da lotte più o meno profonde a seconda dei rapporti di forza che si stabiliranno e la capacità delle masse, sotto la direzione del nostro partito, di trasformare la rivoluzione democratico-borghese che rovescerà il fascismo in una rivoluzione proletaria", di attuare cioè quella che la risoluzione del '27 definiva la "rivoluzione popolare".

6) Nella Concentrazione antifascista confluivano alcune organizzazioni dello schieramento antifascista democratico: il Partito socialista dei lavoratori italiani, il Partito socialista italiano, il Partito repubblicano, la CGIL di Buozzi, la Lega dei diritti dell'uomo. Inizialmente parteciparono anche i popolari cattolici, poi allontanatisi per divergenze politiche. La Concentrazione svolgeva attività soprattutto nell'emigrazione, raccogliendo consensi tra gli italiani rifugiati in Francia e si batteva "contro il fascismo, per il ritorno della democrazia, per una Repubblica democratica dei lavoratori italiani". Il suo organo di stampa era La Libertà, pubblicato a Parigi.

7) La direzione del Partito comunista, seguendo le direttive di Mosca, riteneva che la socialdemocrazia italiana fosse ormai una forza politica in declino e in un processo di convergenza col fascismo. Contro quest'analisi si battevano duramente i "tre" sostenendo che, lungi dal "fascistizzarsi", la socialdemocrazia avrebbe potuto svolgere un ruolo antifascista nel corso della lotta per la democrazia, assolvendo nel contempo la sua funzione storica di contenimento del processo rivoluzionario.

8) Losowsky era in quel periodo dirigente dell'Internazionale e segretario dell'Internazionale sindacale rossa.

9) Nella loro lettera gli oppositori italiani avevano espresso la volontà di mantenere le cariche ricoperte nel partito per svolgere in maniera più efficace un lavoro di critica dall'interno, e favorire così un processo di presa di coscienza da parte dei militanti non staccandosi dalla massa dei quadri. Ritenendosi però già interni al processo di lavoro politico intrapreso dall'OSI, sollecitarono Trotsky ad esprimere un suo parere, dichiarandosi disposti ad accettare la disciplina dell'Opposizione. Questo atteggiamento mette indubbiamente in luce la volontà da parte dei "tre" di legarsi all'Opposizione indipendentemente dagli sviluppi della propria situazione interna al PCd'I (quando scrivono la lettera non sono stati ancora espulsi, anche se alcuni di loro sono stati sollevati dai loro incarichi ufficiali.

Carteggi