Il Comitato d'Intesa

Dopo la riunione del CC del 6 febbraio la campagna della Centrale contro la Sinistra ottenne, al V Esecutivo Allargato dell'IC, l'approvazione ufficiale dei massimi organi internazionali. Tutta l'autorità del Comintern fu gettata nella battaglia a sostegno del nuovo gruppo dirigente del PCd'I, troppo debole per conquistare da solo il partito. D'altronde questo atteggiamento era perfettamente conseguente rispetto all'indirizzo che aveva assunto la politica del Comintern. Per i dirigenti di Mosca non avrebbe avuto più nessun senso dimostrarsi tolleranti verso una corrente che era rigorosamente critica nei confronti della bolscevizzazione e quindi verso la direttiva portante di quel periodo. E neppure essi potevano continuare con la diplomazia politica al solo scopo di non attizzare un'opposizione potenzialmente internazionale. In Italia tale opposizione, a differenza che negli altri partiti, rappresentava le radici stesse del movimento comunista; aveva una storia materiale di lotta e di organizzazione che forniva forza ai suoi capi, i quali erano internazionalmente conosciuti e rispettati. Se all'inizio questa forza consigliò all'Internazionale un atteggiamento cauto per non approfondire e ampliare i contrasti, ora che i contrasti si erano approfonditi e ampliati comunque, la stessa forza consigliava di non concedere più nulla, anche a rischio di una rottura irreversibile con una parte del partito in Italia e, internazionalmente, con le varie opposizioni.

Per evitare di appoggiarsi ad una Centrale traballante, che non aveva storia e manifestava un vuoto teorico spaventoso, l'Internazionale avrebbe potuto anche ricorrere ad un potenziamento delle funzioni di Humbert-Droz, già rappresentante di Mosca presso il Partito italiano; appellandosi così direttamente a tutti gli iscritti, avrebbe potuto avviare una specie di commissariamento del partito. Al punto in cui era giunta la contaminazione fra le necessità nazionali dello Stato russo e la politica dell'Internazionale, l'impreparazione del nuovo gruppo dirigente, soprattutto per quel che riguarda la teoria marxista, non aveva più nessuna importanza: la Centrale italiana assicurava una fedeltà bovina sul piano organizzativo e ciò doveva bastare. Resistevano ancora differenze tra le dichiarazioni di principio con relativi riferimenti alla teoria marxista e la prassi quotidiana degli avversari della Sinistra, ma anche in questo campo chi sa leggere capisce benissimo che la grande giustificazione teorica di tutta la politica dell'IC finiva per poggiare sulla reiterazione infinita dei tre soliti non-argomenti: frazionismo, disciplina, leninismo. A neo dirigenti come "Scocci" e "Palmi" la triade era più che sufficiente come chiave per la conquista di una fiducia preferenziale nei confronti di Mosca.

Tutte le discussioni negli organi dirigenti sarebbero state d'ora in poi un futile esercizio e l'adduzione delle migliori prove politiche avrebbe fatto la fine di chi volesse disperdere la nebbia sparandole pallettoni. Ciò era perfettamente chiaro a Bordiga e costituiva la profonda motivazione che l'aveva spinto a rifiutare ogni incarico. Nonostante tutto egli fece però fatica a spiegare quanto sarebbe stato disperato il metodo della discussione al vertice mentre si occupavano in esso posti di responsabilità e se ne doveva applicare oggettivamente la politica. Quasi nessuno capì quanto fosse in effetti meglio affidare gli organi direttivi del partito a coloro che si dimostravano così allineati a Mosca e ne ripetevano come pappagalli le direttive. Era una nuova forma di astensionismo come Gramsci, Togliatti, Scoccimarro dicevano? Evidentemente la risposta era negativa: la posta in gioco era molto più grave, quindi l'atteggiamento "rinunciatario" della Sinistra rappresentava molto di più di quanto avesse rappresentato il vecchio astensionismo. Se i centristi avessero capito il materialismo di Bordiga avrebbero certamente detto, e con ragione dal loro punto di vista, che il caparbio rifiuto attuale era molto peggio del vecchio astensionismo. Dallo svolgimento materiale dei fatti era già possibile capire che la questione Trotzky avrebbe avuto un seguito in una questione Zinoviev e così via, che nessuno poteva rimanere in posti di responsabilità a meno di non fare esattamente quanto era richiesto dall'Internazionale a chi ricopriva la carica. Il parallelo con l'astensionismo non ha senso perché il militante che si trova a svolgere un lavoro di responsabilità contrario ai suoi principii è posto in una condizione obiettivamente peggiore di quella del parlamentare comunista. Quest'ultimo, secondo Lenin, poteva almeno cercare di distruggere dall'interno il parlamento nemico e, secondo la Sinistra, egli correva soltanto il pericolo di essere fagocitato dal cretinismo parlamentare, dato che in fondo l'astensionismo elettorale poneva la questione molto pratica dell'estrema degenerazione corruttrice del democratismo occidentale. Il militante comunista, invece, non può certo lavorare alla distruzione del suo partito dall'interno, anche quando l'organizzazione sia provatamente opportunista, a meno che non vi siano le condizioni storiche per la costituzione di un altro partito e non sorga una frazione in grado di prendersi questa responsabilità nei confronti del proletariato. Ma per far tutto ciò non servirebbe a nulla ricoprire cariche, la cui funzione non potrebbe sopperire alla possibilità di guidare un movimento reale verso nuovi compiti (o verso la salvaguardia di quelli traditi). La chiave della presunta passività della Sinistra è tutta qui, ed è frutto di un pregiudizio piuttosto sospetto indagare su quali sarebbero stati gli esiti della lotta politica "se" Bordiga non avesse fatto la gran rinuncia delle cariche, "se" avesse accettato un'azione comune con altri sinistri, "se" fosse stato insomma un po' meno rigoroso e un po' più manovriero.

Non si erano attesi gli esiti del V Esecutivo Allargato, d'altronde abbastanza scontati, per iniziare una propaganda ideologica interna, dato che bisognava pure in qualche modo rispondere alle critiche della Sinistra. Nel marzo 1925 il CE aveva diramato una circolare a stampa "a tutte le federazioni e sezioni" dedicata al contrasto interno al partito russo e alla posizione di Bordiga. In essa si coglieva l'occasione per ribadire gli "elementi fondamentali" che dovevano caratterizzare un partito veramente bolscevico: la "completa omogeneità ideologica" e la "ferrea disciplina di lavoro". La Sinistra, affermava la circolare, aveva formato una specie di Aventino interno e assunto un atteggiamento frazionistico, creando una "situazione anormale non tollerabile" che ostacolava la bolscevizzazione del partito. Quanto a Bordiga, gli si rimproverava di aver rifiutato non solo la carica internazionale, ma anche di dirigere la Sezione Industriale del partito. Tra l'altro, mentre si sottoponeva ad una sommaria e al solito denigratoria critica il suo articolo sulla Quistione Trotzky, che non era stato ancora neppure pubblicato, lo si poneva di fronte ad uno strano ricatto: o accettava il rinnovato invito a collaborare con la Centrale "sul terreno della Internazionale non per disciplina ma per convinzione", o la Centrale non avrebbe più accettato una "soluzione formale" come al V Congresso, ma avrebbe dato il via ad una lotta contro di lui, il cui"modo deve essere definito in un consesso internazionale". Chiedere a un personaggio come Bordiga di collaborare "con convinzione" alla vittoria di ciò che egli considerava opportunismo della più bell'acqua è una perla della politica bolscevizzante. Comunque la battaglia sul piano politico e ideologico si saldava a quella, già in atto, sul piano amministrativo e disciplinare.

Dopo la rimozione di Bordiga da segretario della federazione napoletana e la cancellazione del suo nome persino dal comitato direttivo locale, qualunque episodio, anche minore fu preso a pretesto dai centristi per la campagna di conquista del partito. Ma anche dopo le pressioni esercitate nei confronti delle Federazioni, solo pochi vecchi militanti rispondevano alle sollecitazioni della Centrale, mentre era evidente che questa poteva contare con sicurezza solo sui nuovi iscritti. Questi ultimi, dato che ovviamente i comunisti erano tutti entrati nel nuovo partito già nel '21, provenivano tutti o dal Partito Socialista, o dall'area sindacalista. Con l'ultima campagna di reclutamento, quindi, potevano solo entrare nel partito forze favorevoli alla Centrale e, infatti, essa annunciò trionfalmente che costoro erano accorsi numerosi alla chiamata. Mentre già alla fine del 1921 la Sinistra aveva operato un controllo severo sugli iscritti per liberarsi dei soliti elementi che accorrono quando arride il successo, ma che nel caso specifico non c'entravano col comunismo rivoluzionario, la nuova direzione aveva aperto le porte a tutti. Così, di fronte al rifiuto dei vecchi compagni di prestarsi alle manovre centriste, i nuovi elementi poterono essere utilizzati come truppe d'assalto per formare nuove maggioranze nelle vecchie sezioni e soprattutto per formarne di nuove a livello regionale.

Dove non si poté giungere alla conquista "legale" delle sezioni e delle federazioni, si dovette ricorrere a veri e propri colpi di mano per evitare che l'opposizione si rinsaldasse. Per esempio, nell'area milanese, una delle roccaforti della Sinistra, l'arrivo dei terzini e dei nuovi iscritti non aveva per nulla modificato i rapporti di forza e nonostante questi ricoprissero un certo numero di cariche la Centrale continuava a non avere seguito. Quando il 22 marzo 1925 Bordiga tenne una conferenza a Milano presso la Università proletaria fu organizzata una mobilitazione di partito che lasciò di stucco i centristi presenti. Nel pomeriggio (era domenica) cortei di comunisti e operai dei gruppi sindacali sfilarono al Castello Sforzesco e nelle vie adiacenti, mentre la sera, in ambito di partito e di fronte ai rappresentanti della Centrale, fu organizzata una rassegna delle forze della Sinistra in Lombardia e in altre regioni. La manifestazione del pomeriggio fu considerata dalla Centrale "oltre che una esaltazione comprensibile e legittima di un compagno meritevole della lotta rivoluziona­ria italiana, una utile ed opportuna manifestazione pubblica del Partito inte­ressato a sfruttare ogni possibilità legale per presentarsi alle masse". Ma la rassegna delle forze avvenuta la sera fu recepita esattamente per ciò che voleva essere: un monito di chi aveva ancora in mano saldamente il partito, orgoglioso della sua storia, contro chi, senza storia, stava lavorando per impadronirsene allo scopo di spostarlo sulle posizioni di Mosca. La Centrale definì "parata contro il partito" la manifestazione serale, anche se dovette ammettere che essa aveva "dimostrato con l'alta percen­tuale dei compagni che risposero alla chiamata la bontà raggiunta dall'organizzazione interna dei gruppi e delle cellule milanesi − cosa di cui obbiettivamente non può il CE che compiacersi". Per la Centrale la "parata", a differenza della manifestazione del pomeriggio, era "una manifestazione nel Partito che non poteva avere e non ebbe alcuna ripercussione fra le masse e che per il momento ed il modo del suo verificarsi ha suonato invece sfida ai nostri più elementari precetti di disciplina politica".

L'episodio, che sarebbe potuto dilagare come un atto di forza, fu recepito dal CE del Partito come una vera e propria minaccia, tanto più che si era verificata un'alleanza assolutamente imprevista fra "bordighisti" e "terzini". I centristi dimostrarono una genuina apprensione, sottolineata dal tono concitato con cui parlavano ufficialmente dell'episodio: "Mai per il passato si era osato nel nostro Partito di attentare in modo così ardito ed in forme così banali alle sue ferree leggi di disciplina e di unità. Vi sono dei compagni i quali si illudono che sia affievolita la tradizione di severità e di serietà che il Partito Comunista d'Italia si è creata nella sua breve ma gloriosa esistenza, od hanno creduto potersi nei loro confronti creare una eccezione a questo riguardo. Essi devono ricredersi rapidamente".

È evidente che chi scriveva a questo modo aveva perso la testa: in passato era ovvio che mai nessuno aveva "osato" attentare alla disciplina ferrea ecc. per la semplice ragione che il funzionamento organico del partito non provocava episodi del genere. Ma ciò che suona più grottesco è la rivendicazione, da parte del centrista, di una "tradizione di severità e serietà" che ormai definisce come settarismo e astrattismo; di un passato che invece vuole distruggere con tutte le sue forze; di una "gloriosa esistenza" la quale è invece insozzata nel momento stesso in cui viene nominata in quel contesto.

Ad ogni modo la Centrale, non potendo certo lasciar passare atti di "ribellione" così espliciti, definì al solito la manifestazione come un "episodio tipico di frazionismo" e decretò l'immediato scioglimento degli organi direttivi sia della Federazione, di cui era segretario Bruno Fortichiari, sia della sezione milanese. Nello stesso tempo avviò immediatamente un'azione sistematica e capillare nell'organizzazione locale per cercare di neutralizzare il più possibile l'influenza della Sinistra sulla base. Mentre provvedimenti disciplinari erano già stati presi individualmente, era la prima volta che la Centrale si cimentava con un intervento così impegnativo e pericoloso a livello di federazione.

La Sinistra non reagì all'azione della Centrale per la semplice ragione che andare avanti su quella strada significava andare verso la scissione e questo non era certo un obiettivo. La Centrale registrò questo atteggiamento e lo scambiò per debolezza, quindi implicita e quasi cavalleresca accettazione delle regole. Dice per esempio Terracini: "Bisogna riconoscere che i compagni colpiti dalle misure summenzionate non hanno fatto nulla che potesse ostacolarne l'applicazione". Tra tutti i centristi furono solo Gramsci e Togliatti a capire che col marxismo di Bordiga non poteva esserci nessuna tregua. Il primo, sbagliando sui tempi, agiva e scriveva pensando che la lotta fosse ancora lunga anche se l'esito era già segnato; il secondo, più cinico e sbrigativo, agiva e scriveva come se tutto fosse già successo e la Sinistra già sconfitta (e aveva ragione, perché si sarebbe trattato di pochissime settimane). Da parte sua Scoccimarro, in quel periodo a Mosca, attaccava alla cieca come un bufalo tutte le volte che riceveva l'ordine di farlo, con scarsa consapevolezza della posta in gioco e con una sintassi puerile, molto simile a quella di Stalin negli anni successivi. Tutti gli altri, chi più, chi meno, erano ancora convinti che il "valore" di Bordiga e dei compagni della Sinistra fosse recuperabile come forza del partito. E sbagliavano.

La lotta condotta a livello nazionale ed internazionale contro la Sinistra durò fortunatamente poco, anche grazie alla brutalità lessicale e alla rozzezza politica della maggior parte degli interventi che fecero precipitare la situazione. Fu un bene, perché in quel modo fu tutto più chiaro e lo fu più in fretta. Mentre la Centrale si rivelava sempre più come un elemento estraneo alla breve ma gigantesca esperienza e lezione del Partito Comunista d'Italia, da Sinistra venne la reazione del Comitato d'Intesa. Bordiga dirà, parlando al Congresso di Lione, che il Comitato fu un atto spontaneo in risposta alla bassezza raggiunta dallo scontro politico. Esso era necessario per dare una risposta alle scoordinate reazioni della base, ma non era altro che un organismo provvisorio in funzione del congresso, dopo il quale non avrebbe avuto più senso.

Oggi si sa, sulla base dei documenti centristi che la Sinistra non poteva conoscere in quanto segreti, che non solo di bassezza politica si trattava, ma che, da un certo punto in poi, furono premeditate azioni perfettamente coerenti con quello che sarà lo "stile" del peggiore stalinismo. La Sinistra era accusata di frazionismo, ma basta scorrere il carteggio segreto del 1923-24 fra gli elementi della Centrale, per capire perché la Sinistra, pur essendo all'oscuro dei maneggi sotterranei, considerasse l'organismo direttivo e il gruppo che lo componeva ormai come la vera frazione. Ovviamente, come afferma Lenin più volte nella sua battaglia durante la selezione che porterà al partito bolscevico, quando nascono delle frazioni esse non possono mai essere meno di due, perché anche ne nascesse una sola, l'altra parte ne rappresenterebbe necessariamente il riflesso. Ma c'è anche un'altra considerazione da fare: un conto è parlare di frazione riferendoci ad un raggruppamento politico che rappresenta una corrente, tutt'altro è parlare di un gruppo senza storia.

La Centrale conduceva una battaglia per conquistare un partito in cui non solo rappresentava una minoranza più piccola della già insignificante destra, ma su cui non aveva mai avuto il minimo ascendente; per di più i suoi militanti erano giunti in quel partito più trascinati dagli eventi che da una meditata adesione dovuta ad affinità di posizioni politiche. Gli ordinovisti non avevano nessuna concezione riguardo il nesso dialettico fra rivoluzione e controrivoluzione; assorbendo da Gramsci concezioni storicistico-sociologiche, non potevano avere il senso del futuro del movimento. Si erano affiancati a una massa di anonimi militanti che da dieci anni prima del '21 lottavano contro l'opportunismo e in questa lotta si erano temprati per avere quel tipo di partito e non altri, perciò non avrebbero mai potuto essere "convinti" dalle puerili spiegazioni teoriche sulla bolscevizzazione; soprattutto avevano una grande esperienza di lotta contro fronti, blocchi e compromessi vari, per digerire le spiegazioni sulle oscillazioni tattiche gabellate come furbissimi espedienti in grado di fregare l'avversario.

Il frazionismo centrista, prima che nella testa e nelle azioni dei centristi, era in una situazione che ad essi non poneva alternative. Potendo farsi forti sia di poteri statutari, sia dell'appoggio dell'Internazionale, e in più approfittando spudoratamente della situazione di semiclandestinità che rendeva difficili i rapporti fra coloro che non godevano degli appoggi ufficiali, i centristi sarebbero dovuti diventare frazionisti comunque, se volevano conquistare il partito. Lo diventarono tanto più in fretta in quanto nella Sinistra non si produssero tentazioni speculari, almeno fino al Comitato d'Intesa, il quale, comunque, non poté svolgere seriamente neppure le sue dichiarate e specifiche funzioni di discussione precongressuale. Il Comitato d'Intesa non rese "frazionista" la Sinistra, né essa si costituì in frazione col Comitato d'Intesa. Fu la frazione centrista a vedere il suo omologo in quella che invece era una corrente a pieno titolo, abbassata al rango di frazione dalla nascita di una frazione avversaria.

Queste valutazioni non erano comuni a tutti i militanti della Sinistra. Quel che è peggio è che ne derivava un atteggiamento pratico altrettanto non comune. Bordiga, per esempio, si era rifiutato di prestarsi a qualsiasi lavoro di frazione già nel luglio 1923, mentre altri, come Fortichiari, avevano in un primo tempo ventilato l'ipotesi che quella fosse l'unica soluzione. Soprattutto, Bordiga voleva evitare che un lavoro coordinato di qualsiasi tipo portasse a fare confusione sulla natura delle questioni in gioco e che la disputa sul frazionismo nascondesse agli occhi del partito e del proletariato quale fosse la vera frazione e quale fosse invece la corrente "legittima". Occorreva soprattutto evitare che, sull'onda già sperimentata delle accuse ultrapersonalizzate nei confronti del "grande capo", non solo si evidenziasse smodatamente il problema frazione, ma addirittura quello della "frazione di Bordiga". Su questo argomento l'esperienza russa e la battaglia di Trotzky rappresentavano un vivo esempio dei disastri che può provocare la personalizzazione dello scontro politico. Perciò, sia durante che dopo il V Congresso, Bordiga aveva più volte avvertito la Centrale di non potere e di non volere rispondere delle eventuali reazioni degli altri compagni della Sinistra.

Ben altro aveva per la testa. Gli interventi nelle occasioni internazionali, sia prima che dopo la breve vita del Comitato d'Intesa, dimostrano che il suo obiettivo era la salvaguardia della possibilità di un autentico partito unico mondiale, e la degenerazione opportunistica era il primo ostacolo per la sua affermazione. A differenza di Gramsci, che riconduceva la battaglia ad una dimensione nazionale, ad una crisi interna al partito "italiano", egli non aveva mai smesso di pensare alla lotta come ad un risultato e, nello stesso tempo, ad una premessa del travaglio necessario per raggiungere quell'obiettivo generale. Quindi la "questione italiana", come era chiamata anche internazionalmente, per Bordiga giuocava un ruolo assolutamente di secondo piano. Egli era proiettato nella dimensione internazionale dalla natura di tutta la battaglia precedente. I temi ora messi sul tappeto dai centristi erano roba vecchia. La sua critica puntuale e risoluta coglieva un processo di involuzione del Comintern causata non solo da persone che sbagliavano ma soprattutto da fattori storici oggettivi, legati ad una generale modificazione dei rapporti di forza fra le classi. Il suo distacco rispetto ai fatti quotidiani, cui pure dava risposte poderose sulla stampa di partito e in documenti teorici, mandava in bestia gli ex ordinovisti che invece erano invischiati fino al collo nella lotta per obiettivi più immediati. Essi semplicemente non capivano e credettero più di una volta, con una ingenuità disarmante, di essere presi in giro. Per questo si infognavano sempre di più nel livore invece di rispondere politicamente.

Nessuna levata di scudi della sinistra internazionale avrebbe potuto arrestare un simile processo se non fossero mutate le condizioni specifiche della fase di ripiegamento del movimento proletario rivoluzionario. Come i fatti dimostreranno con tutta evidenza, non c'erano le condizioni materiali per una omogeneità politica di tutta l'opposizione. Con lo stesso Trotzky, l'unico che avrebbe potuto avere un programma comune con Bordiga, non fu possibile un'intesa, a causa soprattutto della personalizzazione nata attorno ai due nomi. Infatti i documenti e la corrispondenza successivi dimostreranno quanto l'ambiente dell'opposizione fosse inquinato dai nomi e dal loro utilizzo, perché vi furono poi sia un "bordighismo" che un "trotzkismo" di maniera. La differenza sostanziale era che, mentre un "bordighismo" in quanto tale si sarebbe allontanato inesorabilmente dagli insegnamenti di Bordiga, il quale aveva già detto tutto sull'uso dei nomi e sul danno che ne poteva derivare, il "trotzkismo" verrà invece coltivato proprio da Trotzky il quale, ortodosso e gran capo rivoluzionario durante la rivoluzione, contribuì poi non poco alla degenerazione del movimento che da lui avrebbe preso il nome. Il risultato fu che la Sinistra diede vita ad una corrente all'estero che mantenne nel tempo le caratteristiche essenziali delle origini, mentre il trotzkismo degenerò totalmente in un miscuglio di democrazia popolare e sentimentalismo fuori da ogni scienza marxista. I militanti che furono in seguito coinvolti nell'attività dei gruppi scaturiti dallo scontro del 1924-26, ebbero naturalmente rapporti tra di loro e, per quanto sporadici, con rappresentanti di altre correnti di opposizione di sinistra. Naturalmente fu anche rimproverato alla Sinistra la mancata azione comune con questi raggruppamenti: il fatto è che essa non poteva ignorare la differenza non tanto fra i gruppi di opposizione ma fra questi e la Sinistra stessa.

Bordiga non considerava l'involuzione degenerativa dell'Internazionale come un fatto irreversibile. Egli non escludeva infatti che una ripresa della rivoluzione europea potesse produrre nell'IC un effetto tale da portarla nuovamente su posizioni marxisticamente ortodosse per quanto riguardava la tattica e la concezione del partito. Senza quella ripresa, nessuna volontà umana avrebbe potuto raddrizzare la situazione, cioè togliere all'Internazionale la preponderante influenza del partito russo ormai trascinato dalla situazione oggettiva in cui operava. Ciò non significava, naturalmente, rinunciare alla lotta, ma comprendere che, se la battaglia doveva avvenire all'interno del Comintern, una volta scartata la poltrona delle responsabilità di facciata, lo strumento della frazione non era certamente più adeguato. Infatti Bordiga scrisse nell'ottobre 1925: "La scissione la eviteremo anche con ingoiamenti di rospi; ma ciò non è necessario gridarlo sui tetti. Il nostro metodo farà la sua strada. Non sarà una strada agevole, questo è certo. Ma per ora non si può dire di più" . Non era quindi uno spirito di rinuncia, di passività politica, a decidere del suo atteggiamento: anche a costo di generare incomprensioni fra gli stessi compagni di corrente bisognava tener duro sul principio generale che gli altri erano frazione nazionale, la Sinistra era corrente internazionale. Era in gioco una valutazione globale della possibile evoluzione dei rapporti internazionali di forza fra le classi e quindi anche del Comintern; non si potevano sprecare munizioni per difendere una trincea gloriosa, ma disperatamente poco influente rispetto al "dibattito" internazionale.

Non tutti i militanti della Sinistra condividevano l'impostazione di Bordiga. Soprattutto non era compreso il suo atteggiamento riservato, il suo rifiuto di scatenare il potenziale di entusiasmo che lo circondava. A molti sembrava un delitto sprecare, in nome di un rigore politico e teorico, possibilità enormi di agitazione. Se vi era una certa omogeneità all'interno della corrente sui contenuti della battaglia politica, non altrettanto si poteva dire riguardo alle forme che l'opposizione avrebbe dovuto assumere, cosa che per Bordiga era assolutamente secondaria, se non del tutto ininfluente. Una parte dei dirigenti della Sinistra, fra i quali figuravano Fortichiari, Repossi, Damen, pur non considerando definitivamente chiuso il processo degenerativo dell'Internazionale, prospettava al suo interno una lotta politica tendente alla formazione di una frazione internazionale di sinistra che avrebbe potuto contrastare più efficacemente l'involuzione del Comintern e, nello stesso tempo, rappresentare le basi per il successo di una scissione se questa fosse risultata inevitabile o imposta.

Indubbiamente il Comitato d'Intesa rappresentò un primo passo in questo senso. Esso era sorto nell'aprile 1925 all'insaputa della Centrale, almeno ufficialmente, su iniziativa della sinistra milanese e comunque senza l'appoggio di Bordiga. Mentre per i centristi l'aspetto formale della nascita del Comitato, cioè le circolari dal tono un po' burocratico, le intestazioni con tanto di timbri, l'azione in un primo tempo nascosta ecc., rappresentava la prova dell'avvenuto atto frazionistico, per chi conosca anche solo un poco la Sinistra italiana ciò rappresentava invece proprio la prova che il Cd'I era un episodio atipico nella storia della corrente. Il fatto che nelle sue prime manifestazioni esso mescolasse gli aspetti ingenui appena ricordati con il tono cospirativo di alcuni comunicati ("Accludiamo alla presente una copia della circolare personale e segreta...") e con un po' di piagnisteo sui diritti violati ecc., dimostra che si era ben lontani dalle autentiche, robuste e sempre rivendicate manifestazioni frazionistiche attraverso cui la Sinistra aveva preparato la nascita del PCd'I nel cuore del vecchio Partito Socialista. Non si può che inquadrare l'incidente nel quadro di una reazione poco ponderata e inevitabile di alcuni militanti (pochi o molti, non importa) nei confronti delle misure disciplinari prese dalla Centrale e della campagna propagandistica internazionale. Oltre tutto si trattò anche di una reazione alla personalizzazione del conflitto. Tant'è vero che ciò viene detto esplicitamente nella prima circolare, in cui si accusa la Centrale di aver condotto appositamente lo scontro su quel binario"per circoscrivere la lotta al solo obiettivo Bordiga".

Per quanto però i promotori del Comitato d'Intesa intendessero avviare pubblicamente un "processo critico di differenziazione" rispetto all'indirizzo politico del gruppo dirigente del PCd'I, essi non avrebbero potuto, nemmeno volendo, evitare di prendere contatti con coloro che erano o si supponeva fossero organicamente legati alla sinistra che aveva fondato il partito. La rete di contatti doveva essere realizzata mediante una lavoro di "abboccamento", come si legge nei rapporti di polizia, e di informazione, lavoro che doveva "attendere al più presto un sufficiente collegamento atto a rendere omogenea la nostra opera". Tutto ciò mentre si ribadiva con forza che non si trattava di lavoro frazionistico: c'era effettivamente qualcosa di stridente. Ovviamente non era pensabile costituire una rete in seno al partito senza che ogni cosa si sapesse, e d'altronde una rete clandestina avrebbe semplicemente rafforzato l'accusa di frazionismo con l'aggravante di un'attività non svolta alla luce del sole.

Dopo un inizio in sordina, il Comitato d'Intesa non poté fare a meno di annunciare la propria costituzione e lo fece con una lettera inviata il primo giugno al CE, quando ormai tutti ne erano a conoscenza. In essa si prendeva spunto dalla mozione del CC, apparsa qualche giorno prima su L'Unità, in cui si fissavano le modalità e i tempi del dibattito precongressuale in termini che apparvero subito come restrittivi. Il dibattito precongressuale − si dichiarava nella mozione − doveva essere preceduto dalla pubblicazione dei documenti del V Esecutivo Allargato; con l'apertura del dibattito non si doveva "aprire nel partito una lotta di tendenze o frazioni", poiché il suo "scopo principale" era quello di permettere "la creazione di quella omogeneità ed unità ideologica che è la premessa di una reale ed effettiva bolscevizzazione del Partito [...] contro tutte le deviazioni qualunque sia la forma sotto la quale esse si manifestano". A queste direttive il Comitato d'Intesa rispose chiedendo che il dibattito avvenisse "a condizioni di parità" fra le varie correnti. Formulando una serie di punti rivendicativi che indicavano quale dovesse essere lo svolgimento della discussione, il Comitato non poteva non entrare nello stesso meccanismo voluto dalla Centrale, sanzionava cioè la natura democratica del lavoro che essa intendeva svolgere. Sulla strada della parità democratica il lavoro organico, che era una bandiera per la Sinistra e un impaccio da demolire per la frazione centrista, rischiava di venire definitivamente affossato.

Infatti la reazione della Centrale fu immediata. La costituzione del Comitato d'Intesa da parte di alcuni compagni della Sinistra le dava una potente leva per combattere contro quelli che venivano definiti come i "disgregatori" del partito. Una sua circolare "riservata" parlava di "turpi degenerazioni del massimalismo velliano" e annunciava "un'opera di purificazione delle nostre file", affidando ai segretari interregionali il compito di ricercare "nelle file federali i nuclei che potrebbero essere formati in dipendenza della frazione costituita, nuclei che vi devono essere sollecitamente denunziati". A questo lavoro di spionaggio politico si proponeva di affiancare un'opera di
"polizia di partito".

Dato che il Cd'I non poteva ovviamente far conto sulla rete centrale di comunicazioni nel partito, basata ormai quasi esclusivamente su messaggeri fiduciari, era conseguente che dovesse far ricorso a propri "fenicotteri", figura tra l'altro inventata già dalla Sinistra per ovviare alle intercettazioni operate dalla polizia. Gli stessi compagni, oltretutto, avevano quell'incarico già in precedenza. La formazione di un "Comitato Nazionale" della Sinistra, basato su messaggeri viaggianti fra le diverse federazioni, fu rinfacciata subito al Comitato d'Intesa in una circolare che, riportando anche alcuni nomi, dava indicazioni precise ai responsabili fedeli alla Centrale: "Vogliate disporre che nel caso di arrivo di questi elementi nelle vostre sedi o in caso di incontro nei vostri viaggi, procuratovi l'aiuto dei compagni del luogo, essi vengano accuratamente perquisiti sulla persona e nella abitazione". Era anche necessario, al fine di istituire un processo ufficiale presso gli organismi disciplinari dell'Internazionale, non tanto avere le "prove", dato che di queste ve ne erano a sufficienza, ma dimostrare la pericolosità della Sinistra in vista del congresso: "Tutto il materiale frazionistico che verrà su di essi ritrovato ci deve essere inviato (circolari, indirizzi, lettere, ecc.). Naturalmente procedendo a quest'opera di polizia di partito dovrete dichiarare agli interessati che seguite una precisa e tassativa disposizione del CE".

Contemporaneamente si ufficializzava la campagna propagandistica sulle colonne de L'Unità sotto la rubrica "Contro lo scissionismo frazionistico, per l'unità ferrea del partito". Di questa si occupò personalmente Gramsci, che redasse anche la maggior parte degli articoli. Egli, forse più di altri membri del CE, era cosciente che la lotta contro la Sinistra era dettata da motivi di carattere squisitamente politico e che le questioni di disciplina erano solo una conseguenza del tutto secondaria. Anche se ne poteva dare solo una spiegazione teorica incerta, sapeva benissimo che si affrontavano due concezioni differenti del partito, del suo rapporto con la classe, della sua tattica. I motivi che avevano permesso alla Sinistra di trascinare gli ordinovisti alla fondazione del PCd'I, venivano storicamente a cadere; ecco perché la corrente torinese, senza alcun peso nella storia della formazione del partito, poté invece assumere un peso enorme sotto l'egida dell'Internazionale.

Al CC di maggio Gramsci sostenne che la "tattica politica estremamente settaria dell'estremismo bordighiano" affondava le proprie radici tanto nelle condizioni in cui era avvenuta la scissione con il PSI, quanto nelle condizioni in cui si era sviluppata la lotta di classe in Italia. Si trattava dunque di una situazione eccezionale, dovuta allo scatenarsi della reazione fascista, per cui "le esperienze dell'Internazionale Comunista, cioè non solo del partito russo ma anche dei partiti fratelli, non giunsero fino a noi e furono assimilate dalla massa del partito altro che saltuariamente ed episodicamente". Basandosi sulle "immediate esperienze nazionali", il partito aveva sviluppato, a suo parere, una "ideologia arruffata e caotica" e creato "una nuova forma di massimalismo".

Gramsci, invertendo curiosamente i termini della questione, affermava che la Sinistra rappresentava un retaggio del passato di lotta all'interno del PSI, fenomeno esclusivamente italiano, e che costituiva una corrente caratterizzata dal rifiuto di inquadrarsi in un "partito mondiale", rimanendo legata ad una concezione particolaristica. Il "pericolo di estrema sinistra" rappresentava quindi "un ostacolo allo sviluppo non solo ideologico ma politico del partito". Tuttavia, continuava, "la bolscevizzazione nel campo ideologico non può solo tenere conto della situazione che riassumiamo con l'esistenza di una corrente di estrema sinistra e nell'atteggiamento personale del compagno Bordiga, [ma deve] investire la situazione generale del partito, cioè deve porsi il problema di elevare il livello teorico e politico di tutti i nostri compagni".

L'urgenza di una lotta politica contro la Sinistra e specificamente contro Bordiga era determinata, per Gramsci, anche dalla necessità di una profonda modificazione del piano tattico-strategico del partito. In netto contrasto con le posizioni della Sinistra, cioè di tutto il partito fino a quel momento, Gramsci era giunto a ritenere necessaria una "fase di transizione" democratica nel processo rivoluzionario in Italia. Questa concezione, basata sullo svolgersi della rivoluzione nella Russia arretrata, dimostrava una incomprensione profonda delle differenze fra le tattiche rivoluzionarie date per le diverse aree del mondo. La Rivoluzione Russa aveva giustamente conosciuto fasi tattiche di alleanza con forze politiche borghesi o comunque non proletarie, ma ciò perché si era sviluppata contro l'autocrazia zarista in un contesto pre-capitalistico. Quella della fase di transizione democratica era una vera e propria novità per un partito come il PCd'I. Introdotta all'epoca della crisi Matteotti, aveva ricevuto dignità "teorica" con l'inizio della bolscevizzazione.

Una fase di transizione democratica poteva essere un'ipotesi nella Russia autocratica, feudale e contadina, ma per l'Occidente capitalistico sviluppato la questione non si poneva affatto. A parte il fatto che Lenin si guardò bene dal teorizzare una cosa del genere, dato che in Russia rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria avanzarono di pari passo. In un certo senso Gramsci andava oltre alle peggiori interpretazioni interclassiste della tattica del fronte unico; egli anticipava piuttosto l'evoluzione successiva della politica togliattiana del partito nel secondo dopoguerra, anche se nel suo linguaggio compariva ancora una terminologia condizionata dagli anni precedenti. Per lui il partito avrebbe dovuto agire "per determinare la coalizione di tutte le forze anticapitalistiche guidate dal proletariato [rivoluzionario] nella situazione data per rovesciare il regime capitalistico in un primo tempo e per costituire la base dello Stato operaio in un secondo tempo".

Per capire le implicazioni di una simile tattica, occorre stabilire nella pratica che cosa significa una coalizione di tutte le forze anticapitalistiche. Al di fuori dei comunisti non c'era nessuna forza genuinamente anticapitalistica o, se vogliamo, nessuna forza che agisse in modo conseguente contro il regime borghese, il che vuol dire la stessa cosa. Chiaramente una simile concezione della tattica (definita tra l'altro erroneamente strategia), insieme con la concezione del partito (coincidente con la teoria e la pratica della bolscevizzazione), non era compatibile con l'influenza che Bordiga aveva ancora nell'organizzazione. Per questo Gramsci sperava ancora di poter "venire ad un accordo". Dal suo punto di vista era evidente che in caso contrario sarebbe stata necessaria una rottura, perché la permanenza della situazione di conflitto avrebbe rischiato di permettere o addirittura facilitare il consolidamento di una opposizione organizzata. Gramsci avrebbe evitato volentieri una rottura non solo per i pericoli che essa comportava e non solo perché Bordiga da solo lavorava e organizzava fisicamente per quattro; la sua intelligenza politica lo avvertiva che senza la Sinistra il partito sarebbe diventato un'altra cosa. Se anche il suo materialismo non era sufficiente a fargli capire che il fenomeno frazionistico, e quindi la rottura, era già tanto nelle premesse politiche quanto nella situazione mondiale, sapeva benissimo che fino a quel momento la realizzazione pratica della frazione era solo sulla carta e soprattutto nella propaganda della Centrale.

L'Italia non era la Russia, e il centrismo italiano, che non era neppure lontanamente da paragonare a quello rappresentato dalla vecchia guardia bolscevica, era senza strumenti umani; esso poteva contare solo su Gramsci. Terracini o Togliatti non potevano certo sostituirlo. Altri strumenti che potessero sostenere il peso del partito non ce n'erano. In più, l'apertura indiscriminata delle iscrizioni con le ultime campagne di reclutamento aveva diluito la saldezza dell'insieme dei militanti. Gramsci già l'anno prima scriveva: "Vedo che le cose si sono alquanto complicate nel nostro gruppo per l'atteggiamento di Amadeo, che non mi stupisce e che anzi mi pare molto naturale e logico dato il suo carattere e la posizione da lui assunta. Attendo ancora le vostre risposte, ma spero che ormai la situazione si sia chiarita di per sé. Vorremmo noi tirarne tutte le conseguenze e operare alla stregua di esse? Spero di sì; altrimenti nessuno potrà impedire che veramente il nostro partito cada nelle mani dei socialisti, che sanno manovrare meglio di noi e che hanno un temperamento politicamente più 'bolscevico' del nostro".

La paura di una opposizione interna che rimettesse in discussione la validità della linea politica del partito e dell'Internazionale era ben reale perché basata sulla sua estrema debolezza dottrinale e pratica. Ciò che non era per nulla reale era la paura che Bordiga si comportasse come uno dei qualsiasi dirigenti dei partiti di allora e utilizzasse la forza numerica di cui disponeva per conquistare "democraticamente" il partito. Questa evenienza non era affatto contemplata nell'impostazione teorica di Bordiga; ma nella battaglia politica contro la Sinistra l'importante non era tanto il confutare delle tesi in contrasto con altre tesi, quanto vincere sul campo dei numeri rappresentati da militanti, sezioni, federazioni e collegamenti.

Non si capisce la natura dello scontro se si continua a limitarlo al "dibattito" che si stava svolgendo con i mezzi a disposizione, cioè i giornali, i comunicati, le lettere, le riunioni. Al livello della massa dei militanti le due parti non si capivano neppure. Pochi erano i militanti della Sinistra, anche tra i dirigenti, che comprendevano fino in fondo quale fosse veramente la posta in gioco. D'altra parte i centristi rispondevano alle lucide posizioni espresse dalla Sinistra nei documenti ufficiali con argomenti di un altro mondo, di un universo ormai separato non tanto dall'incomprensione politica ma dalla collocazione rispetto all'intera storia del movimento rivoluzionario. Per questo la lotta assunse l'aspetto di una guerra, senza esclusione di colpi ma unilaterale, dato che la Sinistra rifiutò di utilizzare la sua forza congressuale, rifiutò cioè di rivendicare quella democrazia che invece voleva distruggere a favore del lavoro organico del partito mondiale.

Si può disquisire quanto si vuole sul preteso utopismo della visione globale di Bordiga, sta di fatto che quella della Sinistra era una forza con la quale non era più possibile cambiare il corso degli eventi, come dimostrerà il colpo di mano centrista al Congresso di Lione l'anno successivo quando, maggioranza o non maggioranza, il corso storico reale si affermava definitivamente. Utilizzare la forza dei voti congressuali avrebbe trasformato la battaglia per la conservazione di una linea futura in un'accozzaglia di mezzucci di cui nessuna generazione futura avrebbe saputo che farsene.

D'altronde non deve essere valutata con il metro moralistico neppure la lotta dell'altra parte. Essa doveva essere coerente con l'intero momento storico, nel senso che era determinata da esso, e doveva vincere, anche se la vittoria comportava l'impiego di mezzi assai poco "politici" e anche moralisticamente poco "corretti" in quella che eufemisticamente veniva ancora chiamata "discussione". Il centrismo non poteva neppure fare a meno degli orpelli di una sua legalità, dato che era nella natura della controrivoluzione prendere a prestito caricature del funzionamento giuridico borghese. Ciò non era evidente in quegli anni, ma lo diventerà in modo tragico con i mostruosi processi staliniani, che la Sinistra ritenne tali non in quanto prefabbricati, "ingiusti" o altro, ma proprio in quanto processi. In occasione di ben più miseri episodi Bordiga dirà quasi trent'anni dopo: "Andiamo avanti e cerchiamo di non fare fesserie, lo schifo dei processi legali non vale nulla se non è schifo dei processi morali. Le fesserie non si risolvono marxisticamente addebitandole ad un autore, non hanno autore, devono solo non ripetersi".

La campagna diretta da Gramsci sulle colonne de L'Unità contro i "germi degenerativi" assunse in brevissimo tempo toni pesanti e gli epiteti rivolti ai compagni della Sinistra entrarono definitivamente a far parte del linguaggio codificato contro tutti i "nemici": dall'accusa di frazionismo a quella di essere un covo di "agenti provocatori". Nello stesso modo si spiega la demagogia derivante da una pratica frazionista i cui fautori accusano gli altri di essere frazionisti e per questo hanno bisogno di richiami continui alla "ferrea unità", alla "disciplina", alla "fiducia" negli organi dirigenti del partito e del Comintern. L'argomento molto "ragionevole" del pericolo di una spaccatura del partito proprio mentre è impegnato nella lotta contro il "nemico" diventa il passo obbligato con cui si ricatta il singolo militante. Il travisamento stesso delle posizioni dell'avversario diventa una regola sfacciata che finisce inevitabilmente per colorirsi di particolari pettegoli quanto inventati a carico dei singoli compagni che, o si difendono scendendo sullo stesso terreno del "processo" o, disdegnando tale pattume, lasciano perdere con tutto ciò che ne deriva.

Nei giornali la campagna si fondava essenzialmente su trafiletti, note o documenti, anonimi o redazionali, il cui effetto sui militanti del partito non era per nulla controllabile dagli interessati in quanto, oltre ad essere impossibile ogni volta una risposta, risultavano un'emanazione diretta e autorevole del partito e dei suoi organi dirigenti. È ovvio immaginare (e le lettere che pubblichiamo lo testimoniano) che, tra i militanti di base, questi numerosi scritti, brevi e martellanti abbiano svolto un ruolo importante nella "discussione" precongressuale, più che non i lunghi articoli politici che i centristi facevano comparire su L'Unità. Nei fatti, comunque, la Centrale privilegiava una campagna diretta, con uomini sul campo e fatti concreti, cominciando con l'esautorare i militanti della Sinistra nei posti di responsabilità. Anche in questo caso la documentazione dimostra come la possibilità di pilotare i precongressi doveva costituire il fulcro di tutta la discussione precongressuale, la cui durata doveva essere, oltretutto, più lunga del previsto.

Naturalmente la Sinistra non poteva evitare di rispondere sulle questioni formali e lo fece con vigorose proteste, che comunque non rappresentarono mai una "rivendicazione" di giustizia di partito o altro. Era evidentemente una questione di cattivo metodo il "malvezzo di prescegliere dalle affermazioni avversarie talune che meglio si prestano ad essere travisate e sfruttate, di limitarsi a confutare quelle e non tutto il pensiero che è stato prospettato, e sottolineare il lato pettegolo ed infecondo del contrasto, aumentando la tensione, avvelenando scientemente l'atmosfera per poi poter dire che dall'altra parte si è fatta opera di disunione e disgregazione".

Spesso Bordiga, per non dar credito al rutilante linguaggio dell'avversario (ma di rosso c'era solo il colore), o anche solo per non somigliargli, tingeva la critica d'ironia, ultima spiaggia utilizzabile per non farsi invischiare nel detestato pantano avvocatesco. Non si poteva affrontare con piglio normale una discussione in cui una parte non aveva luoghi e spazi dove esprimersi e l'altra, oltre ad avere tutti gli organi d'informazione, pretendeva pure il vantaggio di attribuire all'avversario il contrario di quanto questi effettivamente sosteneva. Il Comitato d'Intesa negava di aver voluto formare una "frazione" o di volere la "scissione": si poneva ugualmente il problema delle frazioni e del frazionismo? Ebbene, lo si affrontasse politicamente, perché la frazione non è un tema da trattare alla stregua delle interdizioni da codice borghese. La parola d'ordine "abbasso le tendenze" non spiegava e risolveva niente, anzi proprio chi sbraitava contro le tendenze si dimostrava con ciò stesso il peggior tendenzista. Qui siamo alla ripetizione diligente degli argomenti di un Lenin, che di frazioni se ne intendeva, sia per averle combattute, sia per averle organizzate.

Altra parola d'ordine infamante era che la Sinistra aveva un atteggiamento "intellettuale" di fronte alla bolscevizzazione e alle cellule di fabbrica. Questa era una delle fesserie che più avrebbero dovuto dimostrare ai militanti quanto vuota fosse la campagna ideologica e politica. Evidentemente la convinzione non procede dalle dimostrazioni e altri elementi nella storia muovono i cervelli degli uomini e i fatti che determinano risultati pratici. La Sinistra aveva buon gioco nel ricordare ai centristi, cifre alla mano, quanto questi avessero fatto per eliminare gli operai dagli organismi dirigenti del partito per riempirli di avvocati; e gli avvocati non sono certo gli elementi più utili in una società comunista dove invece serve di tutto meno che una pletora di azzeccagarbugli.

Come non era vero che la Sinistra avesse voluto e potuto costituire una frazione vera e propria, così era totalmente assurdo fare quel gran chiasso se la frazione avesse portato via un branco di intellettuali rompiscatole. La frazione esulava completamente dalle prospettive che la Sinistra poteva porsi alla luce della dottrina, e della tattica derivata, proprio perché tale problema era visto nell'ottica degli interessi futuri del proletariato, che in quel momento era a distanza astronomica da quelle che avrebbe considerato beghe nel partito. Niente soddisfazione a pruriti di comando, niente frazione da contrapporre a frazione. Criticando certi metodi e rispondendo per le rime, Bordiga non accampava il "diritto di poterne formare una", nonostante tutti sapessero benissimo che egli avrebbe potuto far leva sulla forza numerica della Sinistra per giungere ad una scissione e dar vita ad un altro partito. Poteva anche utilizzare l'argomento come arma di ricatto nei confronti delle bassezze della Centrale. Ma dichiarò di rifiutare simili meschinerie perché la peggior risposta ai suoi metodi sarebbe stata quella ("miserabile") di fabbricare un ennesimo partitino contestatore"ad uso e consumo di un gruppo di dirigenti a spasso".

La pubblicazione dei documenti con cui la Centrale rendeva pubblico il Comitato d'Intesa fu accompagnata da un comunicato del CE che annunciava la sospensione da incarichi e lavori di partito dei firmatari della lettera del 1° giugno, cioè Damen, Repossi, Lanfranchi, Carlo Venegoni, Manfredi e Fortichiari. Fu pubblicato anche un articolo di Gramsci (non firmato) che chiamava direttamente in causa Bordiga attribuendogli responsabilità del tutto inventate: "Sarà necessario anche mettere in chiaro la manovra che si nasconde nell'assenza del compagno Bordiga, col quale certamente è concordata l'iniziativa del Comitato d'Intesa".

Non c'era ovviamente da mettere in chiaro nessuna manovra. La grana era scoppiata, come si poteva prevedere, e ora occorreva evitare che essa seguisse percorsi spontanei. Bordiga da Napoli scrisse che era solidale con il Cd'I asserendo che la lettera incriminata non portava la propria firma solo per motivi "di ordine pratico". Agli storici che scrivono sulle riviste borghesi questa adesione tardiva appare poco chiara. A noi pare chiarissimo che Bordiga non avrebbe certamente avviato un pasticcio del genere, ma occorre inquadrare il fatto nel clima esistente. Di fronte al rifiuto del "capo" di personalizzare uno scontro che ebbe una portata mondiale e travalicava gli individui, i compagni di lotta lo misero di fronte al fatto compiuto, segno che non avevano capito la vera portata degli avvenimenti e soprattutto la loro natura. Di fronte al pericolo di una emorragia di militanti e quadri, di fronte alla distruzione di un lavoro di anni, ebbe il sopravvento l'impulso volontarista e anche velleitario di modificare la situazione. Ma i firmatari del Cd'I non potevano fare da soli, avevano bisogno di Bordiga o perlomeno di non essere sconfessati da lui. Quando il singolo si sente minacciato e si accorge di essere troppo debole per modificare il corso degli avvenimenti, ha bisogno dell'atavica figura del Demiurgo. Solo che il demiurgo non esiste, e chi è obbligato a vestirne i panni solo perché altri l'hanno cercato non può certo mettersi a tergiversare di fronte ai fatti che premono: le spiegazioni non interrompono il corso degli avvenimenti.

Bordiga scrisse la lettera, non poteva abbandonare e non abbandonò a sé stesso uno sforzo generoso di rivincita anche se destinato alla catastrofe. I fatti successivi dimostrarono ulteriormente quanto la storia non sia fatta dagli uomini secondo la loro volontà e i demiurghi siano in realtà strumenti della storia, e non suoi fattori: l'enorme peso politico di Bordiga non servì assolutamente a nulla. Se si tenne effettivamente una riunione del Comitato d'Intesa a Napoli è difficile che egli non ne fosse a conoscenza. Certamente non era d'accordo né con l'istituzione formale di un organismo qualsiasi, né con i metodi dei suoi promotori. Un robusto possesso della dialettica e del determinismo gli consentivano di adoperare con spirito molto pratico le leggi che governano le relazioni umane. Ciò è provato non solo dall'atteggiamento rigorosamente coerente rispetto allo svolgimento dei fatti, ma dall'azione pratica per ridimensionare la portata di un atteggiamento in fondo infantile nelle aspirazioni e nei risultati: "La nostra Intesa non vuole essere una frazione organica in seno al partito, ma un veicolo di informazione di tutti i soci del partito, fatta in maniera non clandestina".

In definitiva l'azione di Bordiga fu nello stesso tempo sia di appoggio, per annullare le tremende debolezze del Comitato, sia di boicottaggio, per evitare che esso sopravvivesse degenerando in una pseudo frazione velleitaria. In definitiva egli contribuì a far desistere i propri compagni di corrente dal mantenere in piedi il progetto.

In questo senso i Punti della Sinistra, alla cui stesura egli contribuì, più che una Piattaforma del Comitato d'Intesa, come furono chiamati, costituivano una prima elaborazione sistematica delle tesi della Sinistra in vista del Congresso. Infatti non erano altro che un elenco delle questioni poste alla base del conflitto tra la Sinistra, la Centrale italiana e l'IC. Uno dei problemi nodali di tale conflitto concerneva, come abbiamo visto, la concezione del partito e il suo rapporto con il proletariato. La questione era vecchia. I Punti non potevano quindi rappresentare una "nuova piattaforma" bensì un modo di ricondurre la discussione ai temi che furono già affrontati al tempo delle Tesi di Roma sulla tattica, l'inizio delle quali trattava la questione della formazione, dello sviluppo e della crescita del partito. Nel testo infatti si respingeva ancora una volta l'interpretazione numerico-statistica della"conquista delle masse" la quale, dietro un apparente"problema di volontà", celava una forma di"opportunismo", già in passato definito come "situazionismo". Il concetto è chiaro: se il partito è considerato parte del proletariato, non si vede perché non si debba agire per farlo diventare parte più grande fino alla conquista della maggioranza. Già c'è nella formulazione una concessione alla democrazia. Ma ciò che più conta è che di fronte alle "situazioni", cioè alle difficoltà di realizzare la conquista delle masse che non si iscrivono in percentuali desiderate ai partiti rivoluzionari comunisti, ma rimangono anche nei partiti socialdemocratici e opportunisti, diviene quasi automatica la ricerca dell'espediente che garantisca la conquista. Di qui i fronti unici, le manovre, l'apertura delle iscrizioni a comunisti dell'ultimo minuto ecc.

La Sinistra concepiva invece il partito come "l'organo che sintetizza ed unifica le spinte individuali e di gruppi provocate dalla lotta di classe". Il partito non fa parte della classe, anche se da essa è espresso e con essa non perde il contatto cercando di dirigerne le lotte. Non solo non ne è parte, ma non è neppure più parte di questa società, non accetta e non partecipa alle regole che la società borghese impone e alle quali gli opportunisti si adeguano. Nel partito comunista e rivoluzionario non vi sono proletari o bottegai o intellettuali, ma solo comunisti, uniti da un unico programma e intento. Proprio il contrario di quanto Gramsci, sulle colonne del numero citato de L'Unità, aveva mostrato di aver capito o voluto capire. Egli attribuiva alla Sinistra nientemeno che una concezione del partito come"organizzazione interclassista". Figuriamoci.

La struttura del Partito, se vuole essere organica, non può e non deve adeguarsi alla classe così com'è, attingendo da essa gli individui sparsi, oppure catturando gli iscritti ai vari partiti e gruppi di mestiere così come sono, in una specie di concorrenza con le altre organizzazioni. Questo sarebbe effettivamente "andare verso le masse", ma sarebbe anche annientare il partito rivoluzionario. La struttura del partito deve invece attrarre dalle masse coloro che, a prescindere dal motivo, subiscono la spinta materiale verso la rivoluzione e quindi verso il Partito che la rivoluzione deve dirigere. Ciò significa che elementi della classe, ma anche altri elementi, aderiscono al Partito in quanto sintesi delle spinte di classe, e il Partito si lega alle masse in quanto lì vi è la sintesi del rapporto sociale da rompere, del modo di produzione da superare.

Il populismo insito nella parola d'ordine "andare verso le masse" aveva la sua dimostrazione pratica nel tipo di lavoro che ormai si faceva alla base del partito. Da parte della Sinistra la critica alla introduzione nei partiti occidentali dell'organizzazione basata sulle cellule era spietata e oltremodo fondata. Quel tipo di organizzazione copiata malamente dai Russi era già sorpassata nell'Occidente degli anni '20. In una situazione come quella in cui si era trovato ad operare il partito bolscevico essa corrispondeva al grado di sviluppo del capitalismo russo e così si era formata. Ma laggiù il proletariato era concentrato in pochi e grandi complessi industriali moderni dove non c'era ancora una tradizione sindacale e gli operai non erano organizzati in vasti organismi immediati, intermedi fra la classe e il partito, quindi le cellule industriali erano praticamente sezioni di partito e lo scontro aveva caratteristiche politiche. Nei paesi a capitalismo avanzato non era così. Il sistema delle cellule frazionava ulteriormente il proletariato e produceva in esso "lo smarrimento della visione delle finalità di classe". Dato che il rapporto di tipo sindacale rivendicazionista in Occidente tende a sommergere la finalità classista della lotta, come sa ogni militante comunista che abbia esperienza di fabbrica, si finisce per dare importanza al quotidiano e si cade in mano agli specialisti della quisquilia. La cellula era ed è quindi terreno fertile per il funzionario e il burocrate che finiscono per instaurare la loro "comoda dittatura". La storia dell'opportunismo socialdemocratico evidentemente non aveva insegnato nulla.

La giustificazione teorica dell'organizzazione per cellule di mestiere spiegava l'insorgere dei metodi disciplinari invalsi nell'Internazionale verso i partiti occidentali in generale e quello italiano in particolare, metodi che avrebbero condotto inevitabilmente ad una "compressione generale di tutto il partito". Ciò era provato dal malessere nell'organizzazione, che si aveva un bell'interpretare come frazionismo, ma che invece rappresentava una reazione verso una forma organizzativa obiettivamente arretrata. Il frazionismo e le frazioni, comunque, non vengono dal cielo. Il loro apparire è sintomo di malattia dell'organismo partito e in questo caso non si chiama l'esorcista, si cerca di individuare la malattia per combatterla. Se l'organizzazione del partito non corrisponde alle finalità di quest'ultimo è impossibile che la malattia non si manifesti, e in quel caso è assolutamente dannoso intervenire con l'abuso di sanzioni disciplinari, cosa che invece di portare soluzione, provoca tamponature provvisorie quanto formali.

Non era un discorso teorico "astratto", come già allora incominciavano a dire i beceri. Nei Punti della Sinistra si accennava anche ad una critica molto concreta della tattica del Comintern nell'ultimo periodo. Si dimostrava che l'opposizione esercitata dalla Sinistra contro ogni forma di alleanza con la socialdemocrazia, soprattutto se parlamentare ed elettorale, aveva fondamenta esatte, rivelate dal disastroso e quanto mai "pratico" andazzo proprio delle alleanze mascherate da fronte unico.

Per quanto riguarda il partito in Italia, venivano ribaltate le puerili osservazioni di Gramsci sulle radici storiche e teoriche dell' "estremismo bordighiano". Non vi era nulla di originale nel cosiddetto bordighismo, che affondava le radici in Marx, ma anche il centrismo non esprimeva novità. Le sue radici storiche e teoriche affondavano nel retaggio ordinovista del nuovo gruppo dirigente. Esso semplicemente non era marxista. Come poi sarà ribadito ufficialmente nelle Tesi di Lione, la Sinistra metteva in evidenza "l'egemonia artificiosa" del gruppo ordinovista che si poggiava tuttora su di un "rivoluzionarismo idealista, individualista, liberale, letterario". Era del tutto naturale che a causa delle sue origini non materialiste la Centrale avesse sbagliato la diagnosi della situazione, traendone conseguenze tattiche disastrose per il partito e soprattutto per il proletariato. Specie dopo il delitto Matteotti essa non solo non aveva saputo "sviluppare la politica autonoma del proletariato", ma era piombata nella "incertezza" e nella "improvvisazione".

La mancanza del retroterra materialistico, storico e dialettico faceva della Centrale una fabbrica di contraddizioni. Contro di essa la Sinistra utilizzava argomenti che saranno sviluppati e troveranno sistemazione definitiva nelle tesi del secondo dopoguerra. Le parole d'ordine hanno attinenza con la tattica, ne sono l'espressione verbale e scritta: "Una parola d'ordine nasce dai rapporti reali delle forze sociali e politiche in lotta e non può consistere in una formula di organizzazione". La deficienza materialistica del centrismo era dimostrata dall'abuso "di parole d'ordine sterili, incomprese, cadute nel vuoto che prospettano sempre nuove formazioni organizzative e ‘costituzionali' delle forze operaie". Come si fa a improvvisare una "nuova" forma organizzativa per il partito (bolscevizzazione) e per il proletariato (cellule)? L'organizzazione è una forma storica, nel senso che nasce, si sviluppa e magari muore per essere sostituita, ma non per decreto di una segreteria. Nella discussione degli anni precedenti ci si rifiutava anche solo di prendere in considerazione l'argomento del centralismo organico, che molto probabilmente allora nessuno capiva e che dev'essere passato come una pazzia di Bordiga. Eppure la Seconda Internazionale aveva dimostrato più che a sufficienza la morte del centralismo democratico, del funzionarismo e delle gerarchie dovute al mestiere della politica elettorale e parlamentare. Quindi il funzionamento del Partito secondo un centralismo organico sarebbe veramente stato un cambiamento storico, necessario, per un partito che avesse potuto rimanere su salde basi marxiste; avrebbe rappresentato un apporto di aria fresca, ossigeno vivificatore per il partito mondiale che, non ancora nato, era già in preda a convulsioni mortifere. Invece no. Ad un cambiamento reale, maturato nei fatti e nella storia, si preferiva una finzione di cambiamento maturato sotto il peso delle esigenze dello Stato russo e proiettato negli uffici dei Comitati Centrali ed Esecutivi dei partiti d'Europa. Alla concretezza di un processo demolitore di vecchie istanze, già messo all'ordine del giorno dalla situazione politica europea in fermento, si contrapponeva l'astrattezza di parole d'ordine "che si vorrebbero improvvisare per farne materia delle cosiddette ‘campagne' nelle quali si vede spezzettata l'azione di Partito".

Le parole d'ordine sono precetti d'azione e quindi devono essere realizzabili. La Sinistra non respingeva a priori proposte come "Comitati operai e contadini" o simili, ma pretendeva una "specificazione dei compiti di tali organi in rapporto a precise esigenze delle masse sollevate dalle situazioni" , perché in assenza di una visione chiara su ciò che realmente devono fare questi comitati e in che prospettiva, si finisce per fare i comitati e basta, cioè delle alleanze con le forze politiche promotrici. Una prassi questa, che ebbe conferme a tutti i livelli, dai più piccoli organismi immediati all'alleanza bellica con un imperialismo contro l'altro, passo estremo della capitolazione di fronte alla classe dominante.

Possiamo notare di sfuggita il rigore del metodo con cui la Sinistra affrontava i problemi nel partito e fare il confronto con i balbettamenti centristi sul marxismo-leninismo. Sarebbe già stato possibile attaccare frontalmente la strategia gramsciana delle fasi e degli obiettivi intermedi, vera anticipazione dell'interclassismo successivo. Ma essa non aveva ancora avuto la sua sistemazione definitiva e chiara a tutti. I temi della critica erano perciò limitati di proposito ai risultati ormai evidenti, già codificati a partire dal 1921-22 e messi in pratica in un precipitare velocissimo di eventi nel periodo della crisi Matteotti. Siccome è la buona tattica che fa il buon partito e non viceversa, come non si stancò mai di ripetere la Sinistra, l'operato della Centrale si prestava particolarmente a dimostrare che la tattica interna della bolscevizzazione era il riflesso della tattica esterna del fronte unico. Essa aveva avuto sul partito effetti nefasti invece che vitalizzanti: "Colle ultime circolari, con la ingiustificata destituzione di organi tenuti da compagni della sinistra, con mille forme poco rispettabili di lavorio interno che vanno definite non come dittatura, ma come giolittismo, la Centrale ha cessato di funzionare come una Centrale di Partito per funzionare come un Comitato di frazione, e tale merita di essere considerato".

L'assoluta mancanza di compromesso nei documenti della Sinistra non rappresentava soltanto una risposta alla violenza con cui l'avversario conduceva la sua campagna. Era la dimostrazione che i documenti non erano scritti solo per un risultato contingente. Del resto nessuno, con un po' di intelligenza politica, avrebbe sperato di raggiungerli solo con la discussione. Leggendo la documentazione si ha l'impressione che le parole siano pronunciate "a futura memoria", come lasciti per tempi successivi, nel caso la situazione avesse permesso di fare un bilancio del periodo e di ripartire con l'organizzazione internazionale su un piano organico e non caporalesco. La Sinistra produceva documenti e agiva in modo cristallino, le sue dichiarazioni non erano per nulla influenzate dal timore di possibili conseguenze disciplinari o di possibili fraintendimenti da parte di una base formata alla disciplina e alla lotta piuttosto che al formalismo avvocatesco.

La documentazione rimasta dimostra che la Sinistra non solo non evitava, ma perseguiva caparbiamente una "differenziazione". La denuncia del frazionismo operato dalla Centrale non aveva nulla del piagnisteo, anzi, faceva leva sul metodo da questa utilizzata per dimostrare che la separazione non era dovuta a capricci di qualcuno ma si poneva sulla base di determinazioni potenti. I fatti erano sempre portati a supporto di una dimostrazione, mai denunciati in sé stessi come un'ingiustizia per la quale si chiedeva riparazione. Invece di prolungare l'agitarsi nella palude del "dibattito", l'atteggiamento della Sinistra chiariva gli schieramenti e accelerava beneficamente i processi. Infatti la Centrale si sentì completamente libera di intensificare la bonifica della struttura di partito e divenne senza mezzi termini uno strumento aperto della controrivoluzione.

Era "giusta" l'impostazione della Sinistra, nel senso che era meglio una situazione chiara piuttosto che il compromesso? O era "sbagliata" nel senso di quell'abdicazione alla lotta per la conquista del partito più volte rinfacciata da militanti e storici specialmente a Bordiga?

Non si scherza con il marxismo. La dottrina semplicemente non prevede le categorie morali di "giusto" e "sbagliato". Il militante comunista non lavora per la sua soddisfazione contingente e neppure per la vittoria delle sue idee su quelle altrui. Di conseguenza, non lavora per la conquista di un apparato organizzativo separatamente dalla conquista di un'aderenza al programma che ne determina i comportamenti futuri. Perché ciò significa, né più né meno, possibilità di dirigere il proletariato nella futura rivoluzione. Da un secolo e mezzo, cioè dal tempo del lavoro di Marx nella Lega dei Comunisti, militanti frettolosi in teoria scambiano il Partito con la sua organizzazione. Eppure la identità o separazione fra le due cose non può essere lasciata all'interpretazione. Il Partito aderisce ad un programma che è al di sopra dei suoi singoli militanti, capi o gregari che siano, mentre l'organizzazione è costituita da persone fisiche, in carne ed ossa, che hanno impulsi, emozioni, relazioni fra loro. Salvare l'organizzazione delle persone fisiche significa chiedersi che cosa queste faranno se non si salva contemporaneamente il Partito e il suo programma, quindi non la relazione fra gli individui ma fra l'insieme di questi e ciò che li cementa organicamente. Di qui il ritorno al legame indissolubile teoria-tattica.

La Sinistra avrebbe distrutto la sua propria identità teorica e politica se avesse abdicato ai tratti caratteristici della sua origine. Non si pose il problema di agire in modo "giusto" o "sbagliato"; non si pose il problema di "quanti" militanti l'avrebbero seguita, anche se ovviamente lottò fino all'ultimo per salvaguardarsi anche da un crollo numerico; non si pose il problema di "raddrizzare" l'organizzazione. In fondo non si pose problemi affatto, agì secondo una impostazione chiara e non opinabile, cioè non soggetta a "scelte": cercò di salvare il Partito e non la sua manifestazione formale, che invece combatté strenuamente. Si capisce che la salvaguardia del Partito avrebbe voluto dire anche salvaguardia di una sua manifestazione organizzata, ma questo problema era già risolto con l'esperienza precedente della formazione stessa del PCd'I. Se si riesce a salvare il Partito (programma), la salvaguardia della sua manifestazione formalmente organizzata ne è il risultato naturale. Se non si riesce a salvare il Partito, non c'è santo che tenga, la sua organizzazione risponderà a compiti che non sono più rivoluzionari comunisti. La vicenda Trotzky insegna: egli era un grande rivoluzionario, ma non ebbe la potenza teorica sufficiente per capire che la costituzione di un'altra Internazionale senza la salvaguardia dei contenuti originari del marxismo avrebbe riprodotto inevitabilmente l'opportunismo vincente sul piano storico. Così fu. Non fu "colpa" di Trotzky, così come non fu "colpa" della Sinistra italiana il non essere riuscita a salvare il Partito, e quindi la sua organizzazione; ma l'insegnamento della Sinistra rimane come patrimonio immenso per i futuri militanti, mentre del "trotzkismo" rimane solo un pasticcio democratoide informe. Quando future generazioni di militanti saranno scosse da spinte rivoluzionarie e scorreranno la storia per trarne insegnamenti, dove li troveranno? Esse saranno spinte dall'esigenza materiale di risolvere problemi concreti e non chiacchiere, perché la rivoluzione pone implacabilmente l'esigenza di abbattere l'opportunismo risorgente. Dove si troverà la bussola, l'esempio di rigore teorico per una possibilità di vittoria pratica? Nell'Ungheria di Bela Kun? Nella Germania di Brandler? Nell'Italia aventiniana di Gramsci? Nella Russia di Stalin? O nella cristallina e unica alternativa di salvare il Partito affinché sia effettivamente possibile la vittoria della rivoluzione, come tentò di insegnare la Sinistra? Le nuove generazioni rivoluzionarie dovranno rispondere per forza, perché si troveranno di fronte agli stessi problemi. È o non è l'opportunismo anch'esso invariante, dettato da spinte concrete, "risorgente e tenace", come diciamo da sempre? Dovranno rispondere se vorranno vincere, non tergiversare.

Che la rivoluzione si stesse allontanando, e non avvicinando come disse finalmente Zinoviev al VI Esecutivo allargato del febbraio '26, per la Sinistra era chiaro da tempo; che l'intento della Sinistra nel '25 fosse quello di salvaguardare le possibilità di vittoria nella rivoluzione europea futura è altrettanto chiaro: l'espedientismo l'allontanava ancora di più invece di avvicinarla come invece credevano gli opportunisti della Centrale sulla base delle indicazioni di Mosca. Essi erano ormai i rappresentanti della conservazione dell'esistente, compresa la stabilizzazione dello Stato Russo, e quindi dovevano prendere atto di una lotta che non poteva avere margini per compromessi. Non per chiarezza teorica loro, teorizzatori del compromesso di classe, ma perché l'avversario, se era veramente sul terreno della rivoluzione da salvare, non poteva scendere a compromessi. Così, da ambo le parti, occorreva andare fino in fondo alla battaglia, non per scelta ma per determinazione materiale. Non era infatti quella una "discussione" che potesse concludersi senza vincitori e vinti: era un guerra totale che prevedeva solo lo sterminio dell'avversario. Senza tante storie e senza scrupoli dottrinari, il "lavoro" fu svolto da una parte e dall'altra con le armi a disposizione. Forse una debolezza della Sinistra fu credere ancora nei risultati del futuro congresso, dato che non poteva immaginare la pura e semplice cancellazione dei suoi voti congressuali. Si trattò di una sottovalutazione dell'avversario piuttosto curiosa, se ricordiamo che proprio la Sinistra aveva sempre diffidato dei meccanismi democratici. Il democratico è per sua natura una contraddizione vivente: quando la democrazia gli è sfavorevole non può far altro che calpestarla. L'acrobatico sistema adottato per il conteggio dei voti congressuali a Lione fu un ulteriore insegnamento e la Sinistra ne trasse le conseguenze. Anche quelle sono a disposizione della futura rivoluzione.

Fra le misure prese dai centristi nella battaglia finale vi fu quella di inviare propri rappresentanti nelle federazioni affinché queste votassero mozioni di fiducia nei confronti della Direzione e di condanna della Sinistra. In questo i centristi dimostrarono di non tenere in nessun conto le radici teoriche della discussione perché la richiesta era di votare contro il frazionismo e non per l'una o l'altra tesi. Ovviamente tutti erano contro il frazionismo. Alcuni mesi dopo il CE del partito riassunse nei seguenti termini la propria opera: "Il principio da noi seguito nei confronti dei compagni solidali col Comitato d'Intesa è il seguente: tutti coloro che avevano un posto di lavoro come funzionari del partito sono stati destituiti [...] Verso gli altri abbiamo condotto un lavoro di persuasione politica dal basso fino a farli allontanare dalle cariche dirigenti dagli stessi compagni e quindi rispettando tutti i sacramenti della democrazia". Se qualcuno avesse dei dubbi sulla funzione della democrazia interna di partito prenda nota. Lo scritto di Bordiga sul Principio democratico era di tre anni e mezzo prima.

Dato che il Cd'I era considerato come una frazione "illegale" all'interno del partito, l'azione di compressione disciplinare della Centrale si concretò ovviamente anche nell'ingiunzione di scioglierlo, pena l'espulsione, e nella richiesta rivolta all'Internazionale di intervenire direttamente nella vicenda. Altrettanto ovviamente i compagni del Cd'I rifiutarono, anche se non avevano certo l'intenzione di continuare in eterno quella che stava diventando una tragicommedia. Chi conosceva Bordiga sapeva bene che prima o poi la storia sarebbe finita, ma non certamente solo perché c'era il diktat della Centrale e certamente non prima che fosse chiaro che cos'era effettivamente il Comitato.

La refrattarietà della Sinistra alla valanga disciplinare che praticamente aveva destituito tutti i suoi militanti dalla rete organizzata, provocò dissensi all'interno dello stesso CE sulle misure da prendere perché i suoi componenti non sapevano dove si sarebbe andati a finire e avevano paura delle conseguenze. Quelli tra loro che pensavano di meno, come Scoccimarro, pretesero che si procedesse almeno alla sospensione dal partito di tutti i componenti del Cd'I, mentre Mersù ne prese in un certo senso addirittura le difese, raccomandando di dare inizio ad una "lotta ideologica di contenuto politico non potendosi continuare a porre la questione in termini puramente giuridici". Non è un paradosso osservare come avessero ragione i bufali che caricavano a testa bassa e non coloro che avevano paura delle conseguenze e tentavano una mediazione. Uomini come Mersù e Terracini non avevano capito che non era più una questione di democrazia e di "dibattito ideologico". Gramsci era forse l'unico che aveva capito di avere la storia dalla sua parte e quindi, con l'arroganza del vincitore non propose né accanimenti disciplinari, né concessioni politiche: ormai la campagna antifrazionistica aveva dato i suoi frutti, egli poteva riconoscere che la discussione si era troppo dilungata e che aveva "avuto il torto di vertere soltanto sul fatto frazionistico" senza che gli accusati di frazionismo avessero avuto spazio sufficiente per i loro articoli. Quanto alle misure disciplinari, non era necessaria una mano troppo pesante: andava denunciato il "rifiuto di ubbidienza" del Cd'I, rammentando che in tempi normali esso avrebbe comportato l'espulsione, provvedimento che per "pietà di partito" non si intendeva prendere, e bisognava lasciare all'IC "il compito di decidere la soluzione definitiva della cosa".

Dal canto suo l'Internazionale, probabilmente allarmata anche dalla reale possibilità di collegamenti internazionali della Sinistra, in particolare con la sinistra tedesca di Rosenberg e quella polacca di Domski, non mancò di intervenire: il Presidium appoggiò il decreto di scioglimento del Cd'I ed inviò in Italia come suo rappresentante Humbert-Droz per dirimere la questione. Questi, in una delle riunioni con membri della Sinistra, dopo aver rinnovato senza troppo successo l'ordine di sciogliere il Cd'I, pose un aut-aut disciplinare minacciando di espulsione i promotori del Cd'I se non si fossero sottomessi alle decisioni del CC del Partito e del Presidium dell'IC. Le minacce furono ripetute dalla Centrale nell'annunciare la decisione di "porre fine alla campagna contro la frazione", risoluzione che, tuttavia, rimase di fatto solamente sulla carta, poiché la propaganda antifrazionistica proseguì per alcune settimane.

Posta di fronte all'alternativa di sciogliere il Cd'I o essere espulsa dal partito la Sinistra non continuò oltre. Anche se in un'ultima riunione del Comitato Bordiga fu messo in minoranza, gli altri compagni della Sinistra erano perfettamente consapevoli che il suo disaccordo con l'iniziativa in quanto tale era definitivo e irrevocabile, ed era giunto il momento in cui occorreva prendere atto che mediante il controverso organismo non potevano essere più conseguiti risultati utili. La decisione dello scioglimento del Cd'I fu annunciata in una Dichiarazione dei rappresentanti del Comitato d'Intesa apparsa su L'Unità del 18 luglio, un ultimo violentissimo atto d'accusa nei confronti della Centrale italiana e dell'Internazionale. Nella Dichiarazione si rilevava come l'autorità della Centrale derivasse dalla sua acritica disposizione "a sostenere nei Congressi e nei dibattiti il punto di vista e l'operato dei compagni che fanno parte degli organi direttivi internazionali"; si denunciava ancora una volta la "sleale campagna contro il Cd'I" e la "meccanica formalistica di una disciplina che non convince e non si fa rispettare" ; si ribadiva che non vi erano mai stati propositi frazionistici o scissionisti; si chiedevano garanzie, senza tuttavia patteggiarle, per una ampia e libera discussione precongressuale e si concludeva che il giudizio richiesto ai compagni sull'operato della Sinistra non aveva lo scopo di "acquistarci una loro adesione o simpatia superficiale e accumulare voti per il congresso, ma giungere a portare il dibattito e la coscienza del partito un poco più oltre degli atteggiamenti superficiali e meschini su cui si specula quando si vuole togliersi con poca fatica il fastidio di vedersi discussi e criticati". Se nel partito si voleva invece continuare ad organizzare "l'inganno demagogico e ad industrializzare il confusionismo e lo smarrimento" , ebbene, lo si facesse pure, sarà dimostrato che con quel metodo non potrà essere costruito nulla di stabile e che i gruppi che vi si dedicano faranno cadere la maschera e riveleranno dietro di essa nient'altro che opportunismo e pericolo di degenerazione di tutto il partito.

Nell'articolo Il pericolo opportunista e l'Internazionale, uscito in settembre e uno dei più chiari e importanti per capire tutto il processo, Bordiga mette ancora in rilievo lo scarto logico esistente fra le argomentazioni della Sinistra e quelle della Centrale. Con un sillogismo elementare, dimostra come la discussione si trascini ad un livello submarxista, perché nel Partito "si polemizza in questo modo: la sinistra dice che l'Internazionale sbaglia. L'Internazionale non può sbagliare; quindi la sinistra ha torto. Da buoni marxisti non filistei, non bonzificati o bonzificantisi, la questione andrebbe messa così: la sinistra dice che l'Internazionale sbaglia. Per le ragioni a, b, c, inerenti al problema sollevato, dimostriamo che la sinistra stessa invece è in errore. Questo prova che ancora una volta l'Internazionale non ha commesso errori, ed è sulla buona via" . Ma non si risolve nessun problema neppure riportando le questioni al giusto metodo. Occorre capire fino in fondo che cosa è effettivamente successo all'Internazionale e all'ambiente che la circonda e per questo nell'articolo si ripercorre tutta la strada della bolscevizzazione, quella stessa che ha portato non solo al Comitato d'Intesa ma ad un pericolo reale di deviazione opportunista riguardante la direzione del movimento mondiale. La situazione non permette l'assalto diretto al potere, quindi si fa ancora più importante il compito del partito nel rispondere alle difficoltà, in modo da affrontare l'assalto futuro con masse ancora più preparate e un partito più saldo e potente: "Ove la situazione non renda possibile la lotta per il potere, non per questo il partito comunista cessa di avere un compito politico di azione che trascenda quello di una scuola di propaganda. L'atteggiamento che nello sviluppo della lotta anche nella fase di ritirata il partito pubblicamente assume avrà il suo indispensabile gioco sul successo od insuccesso che gli sarà riserbato nel periodo di ripresa futuro, nel vincere o meno tutte le complesse resistenze controrivoluzionarie. Brillante esempio di queste possibilità era l'ultima situazione italiana in cui pur dinnanzi ad un potere non rovesciabile tanto poteva farsi, mentre tanto poco si è fatto".

Tanto poteva farsi. Per non tralignare, per non concedere all'avversario di scegliere il terreno della battaglia, per conservare teoria e strumenti intatti e potenziati per la battaglia futura. Quella doveva essere la "prassi", quella autenticamente marxista, non l'astratta teorizzazione che si potesse bolscevizzare, cioè russificare, il movimento operaio occidentale, proprio contro Lenin e coloro che vedevano nel bolscevismo non una eccezione russa ma l'effetto della rivoluzione mondiale.

La ripresa non ci fu e la bolscevizzazione vinse dimostrando di essere forza reale dell'opportunismo anche, se non di più, in quell'Internazionale che nell'articolo citato viene ancora trattata come depositaria del culmine di elaborazione rivoluzionaria. Ciò era vero ancora all'epoca del II Congresso, nel 1920. Oggi diciamo che all'epoca del Comitato d'Intesa non era più così e lo stesso Bordiga lo riconobbe.

La breve e concitata vicenda del Cd'I si concluse quindi con una durissima sconfitta formale della Sinistra, anticipatrice della successiva e definitiva disfatta: con il III Congresso del partito svoltosi a Lione, la scomparsa della Sinistra dalla scena del partito e dell'Internazionale fu sancita. La costituzione del Cd'I aveva ovviamente agevolato l'opera di "purificazione" del partito avviata dalla Centrale, ma non ne fu la causa e neppure l'elemento determinante. L'episodio non fu sostanzialmente compreso dalla base del partito e, sebbene l'adesione di Bordiga avesse conferito una maggiore autorità alle ragioni dello scontro, questa autorità agiva sui compagni più come elemento passionale che come elemento scientifico. Infatti fu effimera. Il Comitato alla fin fine, se disorientò una parte degli stessi militanti che condividevano le posizioni della Sinistra, non provocò più danni di quanti ne avrebbe prodotti la sua non-esistenza. Permise però di rendere aperta e "ufficiale" la battaglia, della quale oggi abbiamo il preciso resoconto scritto. Il seguito è noto: il Partito Comunista Italiano, e il nuovo nome con l'aggettivo nazionale ne caratterizzava già i futuri sviluppi, sarebbe diventato peggio dei vecchi partiti socialdemocratici e i compagni della Sinistra non poterono più militare nei suoi ranghi. Lo stesso Bordiga fu espulso, a sua insaputa, nel 1930, quando non partecipava più da quattro anni al lavoro di partito.

L'adesione di Bordiga al Comitato d'Intesa aveva suscitato speranze e illusioni sia tra i militanti di base che tra i promotori dell'iniziativa. Essa era infatti avvenuta in un tale contesto internazionale che molti dovettero illudersi sulla possibilità effettiva di una frazione internazionale di sinistra. Tutto ciò non solo era prematuro, come scrisse cautamente Bordiga a Korsch, ma era votato al fallimento.

Con lo scioglimento del Cd'I la convinzione che occorresse agire nel senso della formazione di una frazione o comunque di una opposizione organizzata non scomparve tra i militanti, anche se prima del Congresso non ebbe praticamente peso. Repossi era per esempio convinto della necessità di una opposizione attiva e organizzata. In una lettera franca ed amara indirizzata a Zinoviev nella prima metà di luglio, mentre negava che il Cd'I fosse stato una vera frazione, rivendicava esplicitamente "il diritto di costituire frazioni nell'Internazionale da voi affermato al V Congresso". In una successiva lettera manoscritta egli propose un progetto per la costituzione di una frazione: "Gli elementi di sinistra non devono assumersi cariche ma costituirsi in frazione e lavorare in mezzo alla massa, per riportare il partito alla sua sana opera. Penso che se tutti gli elementi agissero così nessun grave provvedimento contro loro sarebbe possibile prendere". Repossi era l'onesto portavoce di un'incomprensione totale dei fatti storici. Il marxismo ha stabilito una volta per sempre che quando si parla di diritto lo si fa sempre in contrapposizione ad un altro diritto. Ad eguali diritti che si scontrano, decide in ultimo la forza. Non si può rimproverare nulla ai molti militanti che furono travolti nel vortice immane della catastrofe controrivoluzionaria e utilizzarono categorie della vecchia società e del vecchio armamentario democratico. Si può e si deve, però, tenere presente il problema come insegnamento indelebile.

Alla fine del 1925, conclusa l'esperienza del Comitato d'Intesa e ormai prossimo il congresso, Bordiga redasse per l'imminente occasione una breve mozione in cui una serie di considerata portavano alla necessità di ricollegarsi alla vera tradizione del partito, che non era quella della bolscevizzazione ma quella del PCd'I fondato e diretto dalla Sinistra. La mozione concludeva: "Il Congresso passa ad affrontare la più dettagliata valutazione delle esperienze del passato e la risoluzione delle questioni di principio e di metodo dalla quale deve emergere l'indirizzo per l'azione avvenire del Partito e il contributo della Sezione italiana alla risoluzione degli analoghi problemi nel campo internazionale". In poche parole è condensato il problema centrale della lotta: questioni di principio e di metodo che stanno alla base della possibile azione futura del partito nel contesto della rivoluzione internazionale. Le stesse questioni che non furono alla base dell'azione della Centrale e della stessa IC. I centristi, come ormai ovvio, risposero con una serie di considerazioni sulla disciplina internazionale e sulla rappresentatività o meno sia della Sinistra nel PCd'I dei primi anni, sia della Centrale in quel momento.

Il congresso si fece. La Sinistra passò, con le procedure di cui si è parlato, dalla stragrande maggioranza reale ad una controversa minoranza formale. Ciò successe nel partito, che ebbe ancora bisogno di trucchi democratici, ma nella società le cose erano più avanti. Lo sparuto gruppo centrista era il vero rappresentante di ciò che stava succedendo fuori dal PCd'I, era il vero rappresentante della controrivoluzione che avanzava vittoriosa, per questo ebbe la meglio su ogni conta numerica dei voti. Il 21 dicembre del 1925, durante il XIV Congresso del Partito russo, Kamenev lanciò l'allarme: "Dirò quello che devo dire fino in fondo. Come ho già detto più di una volta al compagno Stalin personalmente, come ho già detto più di una volta a un gruppo di delegati del Partito, ripeto ora al Congresso: mi sono convinto che il compagno Stalin non può assolvere alla funzione di tener unito lo stato maggiore bolscevico". Non si trattava evidentemente della persona di Stalin, e infatti il giorno dopo Zinoviev, senza nominare Stalin, si chiese come arrestare il precipizio verso la controrivoluzione aperta: "Pur senza permettere che esistano frazioni, e senza abbandonare la nostra posizione sulla questione delle frazioni, dovremmo raccomandare al Comitato Centrale di portare nel lavoro di partito tutte le forze di tutti i gruppi precedenti del nostro partito, e di dar loro la possibilità di lavorare sotto la guida del Comitato Centrale". Era troppo tardi, e comunque non sarebbe servito a nulla. Mentre si svolgeva il III Congresso del Partito italiano, a Mosca finiva il XIV congresso con il trionfo di Stalin. L'opposizione, che ora annoverava anche Zinoviev e Kamenev, incominciava ad essere tagliata fuori dalle cariche politiche e di governo. Una forza impersonale aveva trasformato i castigamatti del presunto frazionismo bordighista in una frazione autentica.

Bordiga a Lione parlò sette ore di fila: non servì a nulla, la controrivoluzione aveva già vinto. Anticipando la lettera a Korsch, egli ritenne di fare ancora un appello, sia formale (ricorso all'IC contro la truffa dei voti) che, soprattutto, politico: "Il procedimento che vediamo assicurarsi un apparente trionfo, che sembra a qualcuno di voi suscettibile di essere salutare, urta talmente con tutto il nostro chiaro e continuo impostamento del problema, traducendosi in una tale repugnanza per la situazione in cui volete soffocarci, che noi pur avendo saputo fare tutte le rinuncie per impedire che si rovinasse il partito, siamo sicuri oggi di rendere un servizio alla causa facendo sì che quel procedimento e quel metodo debba dare fino in fondo le esperienze che è capace di dare, perché il proletariato possa giungere a capirlo e a respingerlo al più presto possibile sia pure in una crisi dolorosa del suo cammino".

Note

1) Soprannomi dati da Bordiga a Scoccimarro e Togliatti. Quest'ultimo, al VI Esecutivo Allargato del '26, prese la parola dicendo: "Il partito italiano ha la felice prerogativa di avere nel suo seno il compagno Bordiga. [...]. Questo perché i sinistri in genere non sono chiari, e non ci sono buone soluzioni "che sul terreno di una completa chiarezza e di una completa precisione ideologica e politica; allora le posizioni di Bordiga ci permettono di arrivare a questo scopo, mentre le altre posizioni non ce lo permettono". Poi continuava: "Voi tutti avete sentito Bordiga e sembrava che aveste una certa simpatia per lui. Egli pone le questioni in modo sincero e sembra avere la forza di un capo. Ma noi non crediamo che sia un grande capo rivoluzionario. Perché? Perché se da due anni a questa parte noi avessimo seguito la linea politica che il compagno Bordiga ci consigliava, noi avremmo spezzato il partito comunista. Ora noi crediamo che una tattica che porta alla distruzione del partito è una cattiva tattica e non quella di un capo rivoluzionario. Nella situazione storica attuale non si può costruire un partito comunista se non ponendosi sul terreno dell'IC" (La Correspondance Internationale n. 35, marzo 1926) Qual è questo terreno? La bolscevizzazione. E Togliatti risponde al memorabile intervento di Bordiga sulla base di tre punti: l'organizzazione del partito, la questione della frazione, la questione della democrazia interna. Bucharin, che parlerà dopo di lui, non è da meno: "Bordiga non è un dialettico, è un polo immobile nel movimento operaio. Egli farà sempre lo stesso discorso, sostenuto dagli stessi argomenti, quale che sia il cammino della Storia Universale. [...Egli] ci ha effettivamente esposto delle concezioni che formano un sistema completo su cui si basa la linea d'estrema sinistra. Egli non è per nulla tendente alla contabilità in partita doppia e ha onestamente esposto il suo punto di vista. [...Ma] egli ha affermato che tutta la bolscevizzazione si riduce a questioni di organizzazione. Ciò è assolutamente falso" (Ibid.). È talmente falso che lo stesso Bucharin, nell'intervento da cui è tratta la sua frase, parla di questioni organizzative, disciplinari e democratiche per tutto il tempo. E la stessa cosa si può dire del VI Esecutivo Allargato, di quelli precedenti, dei congressi dell'Internazionale dopo il III e degli atti sulla discussione interna al partito russo.

2) Cfr. l'intervista del 1970 citata dove, alla domanda n. 18, egli dice di avere avuto chiaro il processo che avrebbe coinvolto Zinoviev e Kamenev dopo Trotzky. La stessa affermazione è contenuta in tono discorsivo nella già citata riunione su bobina.

3) Cfr. la stessa intervista alla domanda n. 22 dove Bordiga dice: "Trovo gradita la definizione di settario e veridica quella di non essere mai stato duttile e capace di lasciarmi suggerire evoluzioni elastiche dal mutevole avvicendarsi delle situazioni politiche e dei rapporti di forza tra le classi sociali".

4) Cfr. "Circolare del Comitato Esecutivo sulle modalità della discussione interna" in questa pubblicazione.

5) La conferenza aveva per tema La funzione storica delle classi medie e dell'intelligenza, Ciclostilato a cura del Partito Com. Int. (Programma comunista), senza data. Ripubblicata in Comunismo n. 18 del 1985, Edizioni de Il Partito Comunista, Firenze.

6) Il racconto dell'episodio è in una lettera del 7 aprile 1925 da Urbani (Terracini) al Comintern ("Lettera di Terracini al segretario del Cominter su Milano e Foggia" in questa pubblicazione) in cui si sottolinea il pericolo dell'imprevisto schieramento dei terzini: "Nell'episodio di Milano, vi facciamo notare la particolarità dell'alleanza conclusa tra la tendenza di sinistra e i compagni provenienti dalla frazione terzinternazionalista. È su questo fatto che il nostro CE s'è particolarmente bloccato e il CC lo discuterà nella sua prima riunione". Il comunicato sullo scioglimento del Comitato Federale di Milano è in APC 299/5-6, senza data ma protocollato il 24 aprile 1925. In un Bollettino interno del PCd'I datato aprile-maggio 1925 ("Comunicato sullo scioglimento del Comitato federale di Milano" in questa pubblicazione) vi è una versione con una frase in più contro Bordiga: "Nel giorno della parata milanese egli avrebbe dovuto essere a Mosca al posto affidatogli dal V Congresso".

7) Cfr. la circolare del CE con le istruzioni sul modo di sostenere la discussione contro la Sinistra ("Circolare del Comitato Esecutivo sulle modalità della discussione interna"). In gennaio un altro esponente della Sinistra milanese, Repossi, era stato punito mediante la sospensione dal partito per tre mesi ("Provvedimento disciplinare nei confronti di Luigino Repossi"). Nello stesso periodo dell'episodio di Milano, un'altra "insubordinazione" ufficiale era avvenuta a Foggia ("Lettera di Terracini al segretario del Cominter su Milano e Foggia" e "Lettera di Terracini al Presidium dell'IC sui fatti di Milano e Foggia"). Problemi dovettero sorgere anche a Roma qualche settimana dopo ("Rapporto della sezione romana del Partito").

8) Lettera di Terracini al Comintern (Cfr. "Lettera di Terracini al Presidium dell'IC sui fatti di Milano e Foggia" in questa pubblicazione).

9) Per esempio Lenin scrive contro i conciliatori antifrazionisti nel 1911: "[Essi] assicurano di non costituire una frazione poiché l'unico scopo del loro raggruppamento è la distruzione delle frazioni [...]. Ma tutte le assicurazioni del genere non sono che una vanteria e un vile gioco a rimpiattino, per la semplice ragione che il fatto dell'esistenza di una frazione non viene intaccato dallo scopo, qualunque esso sia (anche se arcivirtuoso), che essa si propone. Ogni frazione è convinta che la sua piattaforma e la sua politica siano la via migliore verso la distruzione delle frazioni, poiché nessuno ritiene che l'esistenza di frazioni sia l'ideale. L'unica differenza è che le frazioni con una piattaforma chiara, coerente, organica, difendono apertamente questa loro piattaforma, mentre le frazioni senza principii si nascondono dietro a grida a buon mercato circa la loro virtù, il loro non-frazionismo". C'è differenza, è detto poco dopo, fra un gruppo organizzato in frazione o meno e una corrente: "Si può chiamare corrente solo una somma di idee politiche che si siano ben definite in tutte le questioni più importanti sia della rivoluzione che della controrivoluzione, e che, oltre a ciò, abbiano dimostrato il loro diritto all'esistenza come corrente per essersi diffuse fra larghi strati della classe operaia [...] Di gruppetti che non rappresentavano nessuna corrente ce n'è stata una caterva in questo periodo, come ce n'erano stati molti anche prima. Confondere una corrente con gruppetti significa condannarsi, nella politica del partito, al metodo degli intrighi" (interessante tutto l'articolo: "La nuova frazione dei conciliatori o dei virtuosi", Lenin, Opere Complete, Ed. Riun. vol. 17 pag. 239).

10) Per i rapporti di Bordiga con altri rappresentanti dell'opposizione internazionale cfr. "La campagna 'antifrazionista' continua" e la lettera a K. Korsch in La Crisi del 1926... cit. Per i rapporti fra gruppi della Sinistra e Trotzky cfr. la documentazione in S. Corvisieri, Trotzky e il... cit. ma soprattutto la lettera di Bordiga a K. Korsch in La Crisi del 1926... cit.

11) Gramsci scrisse in una lettera a Terracini: "[Bordiga] lotta con molta abilità e con molta elasticità per ottenere il suo scopo, per non compromettere le sue tesi, per dilazionare una sanzione del Comintern che gli impedisce di continuare fino alla saldatura col periodo storico in cui la rivoluzione nell'Europa occidentale e centrale abbia tolto alla Russia il carattere di egemonia che oggi essa ha". "Lettera del 9 febbraio 1924", in P. Togliatti, La formazione... cit., p.197.

12) Da una lettera del 25 ottobre 1925 a Pappalardi, in D. Montaldi, Karl Korsch e i comunisti italiani, Roma Savelli, 1975, p. 25.

13) Esistono vasti riferimenti sulle capacità di trascinamento possedute da Bordiga a partire dai rapporti di polizia sui suoi primi comizi documentati (1912-13). Chi lo ha conosciuto, anche vecchio, ricorda come inchiodasse l'uditorio con raffiche di argomentazioni rigorose, coinvolgenti. Basti ricordare l'accenno sul resoconto stenografico della relazione La funzione storica delle classi medie e dell'intelligenza ricordata, dove lo stenografo non si trattiene dal descrivere lo scatenamento degli applausi; oppure il seguente passo di Rita Majerotti, responsabile femminile del PCd'I presso il Comintern: "Il vecchio Esecutivo ha avuto il grande merito di fondare e cementare il partito comunista; esso era diretto da un compagno dal polso fermo, di un'attività fenomenale, di una fede assoluta, priva di pericolose impazienze, nel trionfo dell'idea; d'un intuito eccezionale nel prevedere le condizioni dei tempi e le mosse degli avversari; d'una capacità mentale, d'una cultura marxista, d'un interesse più unico che raro; e di un fascino suggestivo sulla massa del partito (che sarebbe stata pronta a tutto nell'assoluta fiducia di essere ben diretta − e anche di questo bisogna tener conto) veramente degni di un capo" ("Lettera di una 'vecchia compagna' al CE del Partito" in questa pubblicazione).

14) La Circolare n. 1 dell'aprile 1925 in L'Unità del 7 giugno 1925 (Cfr. "Prima circolare del Comitato d'Intesa" titolo in questa pubblicazione).

15) Circolare del 22 maggio 1925 (Cfr. "Seconda circolare del Comitato d'Intesa" titolo in questa pubblicazione).

16) Ibidem.

17) Con l'attività alla luce del sole il Comitato d'Intesa non ottenne affatto di poter lavorare in pace per la preparazione del congresso, come ingenuamente alcuni speravano, ma si attirò i primi provvedimenti disciplinari in quanto frazione. Volendo evitare ulteriori rappresaglie da parte della Centrale, naturalmente incominciò a muoversi con più cautela avviandosi verso una spirale senza via d'uscita. La citata circolare del 6 giugno afferma tra l'altro: "Destituzioni, rappresaglie ed eventualmente espulsioni non debbono spaventarci in nessun modo. I compagni della periferia che aderiscono al pensiero della Sinistra debbono evitare nel modo più categorico ogni forma di solidarietà apparente con i colpiti e devono seguitare nel loro lavoro organizzativo e propagandistico nel modo più intelligente e coperto". Dalla stessa circolare, a riprova che il frazionismo, da chiunque sia scatenato, non si può esorcizzare ma solo affrontare senza tante storie, emerge che si era già formata una rete di "fiduciari federali" ("Terza circolare del Comitato d'Intesa"). Costituire una rete di fiduciari di parte all'interno di un partito non è precisamente lavoro antifrazionistico.

18) La risoluzione del CC in L'Unità del 26 maggio 1925.

19) Cfr. L'Unità del 7 giugno 1925. Le richieste erano: 1) un tempo adeguatamente lungo per la discussione; 2) la convocazione dei congressi provinciali soltanto dopo la discussione sulla stampa; 3) il diritto per gli esponenti delle varie correnti di intervenire ai congressi provinciali onde esporre le proprie tesi; 4) la nomina dei delegati al Congresso nazionale da parte dei congressi provinciali; 5) il "diritto di nominare e disciplinare gli oratori che illustreranno al Congresso il pensiero di questa o quella corrente" ("Costituzione del Comitato d'Intesa"). Il 18 giugno alcuni componenti del Cd'I inviarono una lettera con la richiesta di partecipazione alla discussione sul giornale; essa fu pubblicata il 3 luglio con una strafottente risposta della Centrale indirizzata singolarmente ai firmatari ("Il Comitato d'Intesa chiede di poter intervenire sul giornale" e "Risposta del CE sulla possibilità di intervento sul giornale"), cui Damen rispose chiedendo di aggiungere i nomi che mancavano ("Lettera di Damen al CE").

20) Arturo Vella rappresentava, con Nenni, l'ala destra del massimalismo socialista, esclusa dall'ipotesi di fusione tra PCd'I e PSI caldeggiata dall'IC.

21) Circolare nr. 20 "riservata" del 4 giugno 1925 ("Circolare riservata del CE ai segretari interregionale" titolo in questa pubblicazione). Le federazioni che la circolare indicava espressamente come possibili centri "frazionistici" erano: Novara, Alessandria, Biella, Bergamo, Cremona, Milano, Venezia, Padova, Trento, Roma, Foggia, Taranto, Cosenza, Catanzaro, Catania.

22) Alquanto differente fu l'impostazione che Scoccimarro diede al tema della bolscevizzazione nella stessa riunione del CC: "La bolscevizzazione non significa la soppressione di ogni critica, anzi essa presume la critica e particolarmente l'autocritica. Ma quando una decisione è presa, il partito deve divenire blocco compatto ed omogeneo nell'azione. Ogni voce dissenziente deve allora tacere. E soprattutto nella nostra organizzazione non può essere consentito a nessuno di diffondere nelle file sfiducia e diffidenza verso gli organi che hanno la responsabilità della direzione col Partito e dell'Internazionale" (APC 296/35-48).

23) Citato da L'Unità, 3 luglio 1925.

24) Dimostrando di non conoscere né Bordiga né la natura dei problemi sul tappeto. Cfr. relaz. cit., L'Unità, 3 luglio 1925.

25) Lettera di Gramsci a Terracini del 24 febbraio 1924 (P. Togliatti, La formazione... cit. p. 217).

26) Cfr. Una intervista ad Amadeo Bordiga cit.: "Tutti gli iscritti che non risultava avessero votato per l'indirizzo della Centrale o quello della Sinistra (...) non avendo manifestata alcuna opinione o decisione, non andavano computati nel voto per il congresso: furono invece, per una espressa delibera della Centrale, calcolati come votanti per la stessa, in approvazione della sua opera e del suo programma". Il Congresso si svolgeva clandestinamente a Lione dopo che le convocazioni locali e federali erano avvenute altrettanto clandestinamente in Italia. La Centrale ovviamente aveva pesantemente utilizzato la situazione, giungendo a fornire documenti clandestini e denaro solo ai suoi delegati.

27) In un articolo apparso su L'Unità del 12 giugno, Democrazia interna e libertà di discussione, scritto quasi certamente da Gramsci, si affermava del resto esplicitamente questo concetto: "Vi è sempre una opinione e corrente che si trova in una situazione di ‘privilegio' che deve prevalere ed essere fatta prevalere. Ed è quella della Internazionale comunista, accettata e sancita dai congressi mondiali di tutte le sezioni dell'Internazionale"; la Centrale "non può rimanere indifferente rispetto alle varie correnti di pensiero, spettatore obiettivo ed equanime, ma ha il diritto e il dovere di valersi della sua posizione e dei suoi mezzi per far prevalere le sue direttive".

28) Lettera a B. Maffi del 30 sett. 1952. Il riferimento è alla rivendicazione legale del periodico di partito Battaglia comunista, episodio per il quale molti militanti si erano "indignati", mentre Bordiga invitava a non esprimere sentimenti poco marxisti.

29) Ancora alla fine di luglio, quando la "discussione" era appena avviata, Gramsci scrisse a Zinoviev che l'inizio dei congressi provinciali era previsto per la seconda metà di agosto (cfr. lettera di Gramsci a Zinoviev, 28 luglio 1925, in questa pubblicazione con il titolo "Gramsci a Zinoviev sulla sconfitta della Sinistra e sul fronte unico"). Il Congresso era probabilmente previsto per settembre.

30) A. Bordiga, Per finirla con le rettifiche , in L'Unità del 22 luglio 1925 ("La campagna 'antifrazionista' continua"). A questo articolo la Centrale rispose che essa "non può rinunziare a dirigere e a controllare la discussione, usando tutti i suoi poteri. La discussione è anche una campagna, in quanto non può essere permesso a nessuno di preparare una nuova Livorno" ("Commento della Centrale all'articolo 'per finirla con le rettifiche'"). La discussione fu troncata di netto da un biglietto di poche righe, scritte a mano da Togliatti personalmente a Bordiga, in cui si diceva che la Centrale non aveva più intenzione di continuare la corrispondenza con quest'ultimo, che non sarebbe stata resa pubblica la sua lettera del 30 agosto e che anzi, si apprestasse come tutti gli altri a documentare le sue accuse di fronte al giudizio della Commissione Internazionale di Controllo ("Togliatti rifiuta a Bordiga la pubblicazione della sua lettera del 30/08").

31) Bordiga al CE, 8 giugno 1925 in L'Unità del 18 giugno 1925 ("Bordiga dichiara alla Centrale di appartenere al Comitato d'Intesa" titolo in questa pubblicazione).

32) Cfr. la Risposta della Sinistra italiana al Comunicato del CE in data 7 giugno, in L'Unità del 3 luglio 1925. Notare che i documenti del Comitato d'Intesa, quando non sono scritti direttamente da Bordiga, scadono spesso in diatribe senza costrutto, tipiche della lotta politica. In questo caso, insieme alla corretta impostazione che vede la Centrale come vera frazione, vi è un attacco di tipo moralista all'applicazione di misure disciplinari ("La Sinistra intende mantenere il Comitato d'Intesa fino al Congresso" in questa pubblicazione).

33) Cfr. Una lettera di Bordiga sull'iniziativa del Comitato d'Intesa, in L'Unità del 2 luglio 1925 ("Bordiga: l'accusa di frazionismo si ritorce contro chi la formula" in questa pubblicazione).

34) Nel 1921 furono censiti 22 intellettuali in Piemonte, 17 in Liguria, 35 in Lombardia, 18 nel Triveneto, 13 in Emilia, 27 in Toscana, 7 in Umbria, 46 nel Lazio, 14 nelle Marche, 1 negli Abruzzi, 20 in Campania, 16 in Puglia, 6 in Calabria, 15 in Sicilia, 4 in Sardegna e nessuno nelle altre regioni (Relazione al II Congresso cit.); su quarantamila iscritti è una percentuale insignificante, anche per l'Italia di allora. Dice Bordiga: "Ricordo che dopo Livorno il nostro Partito presentava una percentuale bassissima di intellettuali: gli avvocati erano trenta in tutto il Partito, nell'Esecutivo e nella Centrale non erano pochi gli operai. Le cose sono cambiate colla eliminazione della sinistra e la fusione dei terzini, che hanno portato più avvocati che lavoratori, quasi quasi, mentre nessun operaio è nell'Esecutivo di oggi" (da: La natura del partito comunista, in L'Unità del 26 luglio 1925). Bordiga era ingegnere e nello stesso articolo c'è un ironico riferimento alla differente utilità degli avvocati e degli ingegneri nel comunismo ("La natura del partito Comunista" in questa pubblicazione).

35) Dichiarazione del Comitato d'Intesa ("Dichiarazione del Comitato d'Intesa sull'intimazione di scioglimento" in questa pubblicazione).

36) L'Unità del 7 giugno 1925 ("Comunicato del Comitato Esecutivo" titolo in questa pubblicazione). Anche la polizia era molto interessata a ciò che stava avvenendo all'interno del partito ("Informazioni della polizia sulla sospensione dei compagni della Sinistra" sempre in questa pubblicazione).

37) L'articolo era intitolato Il Partito combatterà con energia ogni ritorno alle concezioni organizzative della socialdemocrazia. In L'Unità del 7 giugno 1925.

38) Cfr. la lettera citata dell'8 giugno ("Bordiga dichiara alla Centrale di appartenere al Comitato d'Intesa" titolo in questa pubblicazione). Essa apparve su L'Unità soltanto il 18 dello stesso mese: una pratica che la Centrale adottò sistematicamente con tutti i documenti e le lettere di membri della Sinistra.

39) Cfr. L'Unità, 2 luglio 1925 ("Bordiga: l'accusa di frazionismo si ritorce contro chi la formula" in questa pubblicazione).

40) Cfr. Una intervista... cit.: "Per mia iniziativa [fu] sciolto il famoso Comitato d'Intesa, formato da un gruppo di dirigenti ben noti della corrente di sinistra". Vedere anche Fortichiari, Comunismo... op. cit., pagg. 154-155: "Bordiga ci ha voltato le spalle, non perché avesse delle preoccupazioni personali, ma perché era convinto che quello era il metodo per farci del tutto eliminare dal partito. Allora abbiamo dovuto desistere, abbiamo subito, e abbiamo sciolto il Comitato d'Intesa [...] Ci siamo sciolti noi quando abbiamo capito che ci mancava l'adesione di Bordiga, il che voleva dire la mobilitazione di una buona parte dei compagni che lo seguivano".

41) Il testo apparve su L'Unità del 5 e 7 luglio 1925 con quel titolo (Cfr. "Un documento programmatico della Sinistra"; il commento della Centrale è "Commento della Centrale ai Punti della Sinistra" titolo in questa pubblicazione). Esso era stato elaborato prima del 14 giugno (data in cui ne pervenne una copia alla Centrale) e fu pubblicato anche a cura del Comitato d'Intesa, ma ovviamente con il titolo originale. Il lavoro di preparazione è citato in poche righe apparse il 3 luglio sullo stesso giornale.

42) Cfr. Il partito si rafforza combattendo le deviazioni antileniniste, in L'Unità del 5 luglio 1925 (cfr. anche "Commento della Centrale ai Punti della Sinistra" in questa pubblicazione).

43) I Punti furono chiosati da Gramsci ("Commento della Centrale ai Punti della Sinistra") il quale ne travisò sistematicamente il contenuto. Attribuì per esempio alla Sinistra l'analisi secondo cui il partito bolscevico si sarebbe costituito sulla base delle cellule unicamente a causa del "terrore zarista". Gramsci adoperava l'argomento per "dimostrare" come la Sinistra sottovalutasse il fascismo e l'accusava di pensare che sotto di esso vi fosse la possibilità di ottenere "pacifiche conquiste" in Italia. Gramsci interpretò a suo modo anche i passi riguardanti la concezione del partito, attribuendo alla Sinistra, cioè a questi "intellettuali rivoluzionari, ancora impregnati di diffidenza piccolo-borghese verso l'operaio", una visione "veramente reazionaria". A questa Gramsci contrapponeva la visione del Comitato Centrale del partito che "rappresenta l'ideologia del proletariato rivoluzionario, il quale ha coscienza di essere divenuto una classe degna di esercitare il potere".

44) Furono infatti sospesi dagli incarichi di partito anche i dirigenti periferici, mentre nei confronti di Ugo Girone, che era uno dei redattori de L'Unità, si procedette all'espulsione motivata con l'accusa di avere "assunto il posto di funzionario del Comitato d'Intesa al cui servizio ha iniziato un giro di propaganda disgregatrice" (Cfr. "Espulsione di Ugo Girone dal Partito"). Il Comitato d'Intesa scrisse alla Centrale un documento sulla nullità dell'espulsione ("Il Comitato d'Intesa sulla nullità della espulsione di Ugo Girone"). Girone il 4 giugno aveva comunicato a quest'ultima che si apprestava a fare un giro nelle province meridionali per esporre le ragioni del Cd'I, ma non era affatto, come pretendeva la Centrale, un funzionario stipendiato dal Comitato stesso. Bordiga ricorse contro il provvedimento di espulsione telegrafando direttamente a Mosca ed in capo a qualche settimana il provvedimento fu ritirato. Girone rimase comunque sotto stretto controllo: "L'importante ora si è di controllarlo bene; di inquadrarlo in una cellula di strada ove si trovi isolato dalla massa dei compagni; possibilmente in una cellula che sia in completo accordo con l'IC e dove quindi il suo acido corrosivo sia destinato ad annullarsi. E colpirlo alla prima mancanza accertata, documentata, provata" ("Il CE sul ritiro dell'espulsione di Ugo Girone").

45) Cfr. "Circ. del CE per una presa di posizione contro le tendenze trotzkiste", L'Unità del 12 luglio 1925 ("Circolare del CE per una presa di posizione contro le tendenze trotzkiste" titolo in questa pubblicazione). In una lettera di Laguska (Terracini) al Segretariato Internazionale del 18 luglio 1925 si legge: "Bisogna che in esecuzione della nostra circolare tu faccia votare a tutte le federazioni un Odg sulla questione. Questo è veramente il momento e l'occasione di far pronunciare la massa dei compagni non già sulle direttive politiche del Partito, ma contro la violazione disciplinare di pochi elementi in errore" (fotocopia senza rif.).

46) Lettera del CE del PCd'I a Julien, 18 novembre 1925 (APC 334/2; cfr. anche "Commento della Centrale alla Mozione").

47) Cfr. Il principio democratico, in Rassegna comunista n. 18 del febbraio 1922. Ripubblicato in Partito e classe, disponibile presso i Quaderni di n+1.

48) Cfr. il verbale della riunione del CE del 29 luglio 1925 ("Verbale di riunione del CE sul 'frazionismo' del Comitato d'Intesa" titolo in questa pubblicazione). Mersù (Piccini) non crede "che i frazionasti vogliono esacerbare la crisi; essi vogliono certamente restare nelle file del partito" ed osserva che "le frazioni non sono formalmente proibite nell'Internazionale, la quale infatti le crea nei partiti la cui dirigenza si pone contro di essa". Scoccimarro era invece convinto che Bordiga se ne sarebbe andato e che la frazione serviva alla preparazione della rottura ("Scoccimarro al Segretario dell'IC sull'opera di recupero della Centrale" in questa pubblicazione).

49) La cessazione del rapporto di collaborazione con i compagni della Sinistra che scrivevano sui giornali provocava reazioni accese come quella registrata dalla lettera di un redattore dell' Avanguardia ("Lettera di un compagno sulla mancata pubblicazione di un articolo").

50) Ivi.

51) Accenni a questi collegamenti si trovano in: P. Togliatti,Chiarimenti ai compagni sull'opera dei frazionasti ( L'Unità del 3 luglio 1925), dove si fa riferimento alla sinistra tedesca. Bordiga negò di avere rapporti di corrispondenza con altri elementi della sinistra internazionale e dichiarò: "Penso che oggi non sia ancora possibile un orientamento parallelo di gruppi di estrema sinistra di vari partiti [...] Questo lo riterrei cosa utile e forse nell'avvenire necessaria, ma la sua realizzazione non dipende affatto dalla decisione mia o di chicchessia di intavolare rapporti epistolari, bensì da cause più profonde di cui lo scambio eventuale di lettere non potrebbe essere che uno dei tanti effetti esteriori" (nell'articolo Per finirla con le rettifiche, in L'Unità del 22 luglio 1925, "La campagna 'antifrazionista' continua" titolo in questa pubblicazione). L'ipotesi di Togliatti fu sostenuta in un rapporto di Scoccimarro al Presidium dell'11 luglio 1925 in cui si chiedeva che l'Internazionale intervenisse con un documento ufficiale contro la Sinistra: "Non vi è dubbio che Bordiga ha dei rapporti con il gruppo di Rosenberg, Katz, Scholem in Germania e forse con qualche elemento estremista di altri partiti: forse il partito polacco [...] Mettere in rilievo la mancanza di unità delle opposizioni estremiste nei differenti partiti, può essere un buon elemento di lotta contro questa corrente comunista internazionale, che grazie all'attitudine di Bordiga in Italia, del gruppo Rosenberg in Germania, di Domski e dei suoi amici in Polonia, sembra annunciare una offensiva di sinistra contro l'Internazionale" ("Lettera di Scoccimarro al Presidium sull'esautorazione della Sinistra" titolo in questa pubblicazione). Anche se Bordiga veniva considerato nella sinistra internazionale come il maggiore esponente della corrente, è impossibile che egli tenesse in questo periodo dei contatti non sporadici con elementi di sinistra in altri partiti senza che si venisse a sapere. Per esempio non c'è traccia di tali collegamenti nella monumentale documentazione raccolta dall'efficiente polizia politica dell'epoca. E comunque non fu per impossibilità che i contatti non vennero tenuti, ma per incompatibilità con il variegato mondo dell'opposizione di sinistra, come verrà ben spiegato nella citata lettera di Bordiga a Korsch.

52) Il Presidium intimò la liquidazione del Cd'I con un telegramma da Mosca ("Telegramma del Presidium dell'IC per lo scioglimento del Cd'I") cui Bordiga rispose per quanto riguarda la sua persona ("Risposta di Bordiga al telegramma del Presidium dell'Internazionale") e con un telegramma cui il Presidium rispose a sua volta ribadendo l'intimazione di scioglimento ("Appunti per Scoccimarro su alcuni telegrammi"). Nel corso della riunione citata emersero anche delle divergenze fra gli elementi di sinistra riguardo al destino del Cd'I: Venegoni sostenne che esso si sarebbe sciolto in occasione del Congresso, Damen, invece, non escludeva che esso potesse continuare ad esistere anche dopo di esso. Alla riunione parteciparono Repossi, Damen, Fortichiari, C. Venegoni, Francesca Grossi, oltre ad un rappresentante del CC e Humbert-Droz ("Resoconto di una riunione tra Humbert -Droz e il Comitato d'Intesa").

53) Cfr. la lettera di Humbert-Droz in L'Unità del 18 luglio 1925 ("Humbert-Droz ai componenti il Comitato d'Intesa per il suo scioglimento" in questa pubblicazione).

54) Cfr. il comunicato del CC in L'Unità del 2 luglio 1925 ("La Centrale del Partito sulla 'frazione Bordiga'" titolo in questa pubblicazione).

55) Osserverà Damen in proposito: "Chi scrive ricorda come reagì [Bordiga] alle decisioni prese nell'ultima riunione tenuta a Napoli che doveva decidere lo scioglimento o meno del Comitato d'Intesa dietro il perentorio invito di Zinoviev, segretario dell'Internazionale; messo in minoranza, Bordiga, che accettava lo scioglimento 'sic et simpliciter', avvertì con accorato stupore di essere per la prima volta in minoranza (sono le sue parole) nello stesso raggruppamento della Sinistra che portava di fatto il suo nome" (Onorato Damen, Amadeo Bordiga, validità e limiti di una esperienza, Ed. Periodici Italiani, Milano 1971).

56) Il testo pervenne alla Centrale prima di quella data (forse il 13 luglio), fu pubblicato con il titolo Un documento indegno di comunisti ("Dichiarazione del Comitato d'Intesa sull'intimazione di scioglimento" titolo in questa pubblicazione) e con neretti e sottolineature che non facevano parte del testo originale (cfr. anche la lettera non pubblicata di Bordiga del 19 luglio 1925, "Dichiarazione di Bordiga sulla campagna di falsificazione della Centrale").

57) Cfr. "Il pericolo opportunista e l'Internazionale. Questo articolo non si può disgiungere da La politica dell'Internazionale, che ne costituisce l'indispensabile complemento in quanto ne dimostra gli assunti con l'esempio pratico della tattica specialmente per quanto riguarda il disastro tedesco ("La politica dell'Internazionale" in questa pubblicazione).

58) Ibid.

59) A proposito della "purificazione" cfr. "Lettera ad un 'diffamatore'", "Lettera della Centrale al 'diffamatore'", "Lettera sul lavoro d'isolamento della Sinistra nell'agosto 1925 (estratti)", "Risposta del CE al segretariato VII sull'estensione del controllo centrista" e "Mario Lanfranchi al CE sulla dichiarazione di Bordiga" in questa pubblicazione. In un brano del suo discorso al III Congresso Ottorino Perrone dichiarò: "Come corollario di questa impostazione generale ‘provvedimenti preventivi': nessuna libertà di difendersi sull'Unità, circolare ai segretari interregionali con l'accluso ordine del giorno. I segretari interregionali avevano il compito di convocare senza indugio i comitati federali, sottoporre loro l'ordine del giorno e defenestrare tutti quelli che non giuravano sulla santa crociata in difesa del partito contro l'offensiva della Sinistra" ("Intervento di Perrone sulla tattica aventiniana e sul Comitato d'Intesa" sempre in questa pubblicazione).

60) La Sinistra però non si dissolse affatto. Quasi tutti i comunisti italiani costretti all'emigrazione o esiliati rimasero per lungo tempo legati alle posizioni della Sinistra e lavorarono organizzati. In tal modo permisero nel secondo dopoguerra la saldatura con coloro che erano rimasti in Italia. Nell'insieme rappresentarono una continuità attraverso la quale, qualunque sia la valutazione sui singoli gruppi, il patrimonio della Sinistra vive.

61) Evidentemente la lotta nel partito si protrasse a lungo se nelle motivazioni di espulsione si fa ancora appello alla lotta contro la Sinistra: "Il Comitato Centrale del Partito Comunista d'Italia considerato [che il trotzkismo è bandito, che Bordiga è trotzkista, che il trotzkismo è anticomunismo, che Bordiga è frazionista e quindi un nemico, che è inoltre un indegno] dichiara Amadeo Bordiga espulso dalle file del Partito Comunista [...] Pone all'Ordine del Giorno del Partito la lotta per la liquidazione definitiva dei residui dell'infantilismo sedicente di sinistra, il quale non è altro che una forma di opportunismo, che impedisce al Partito di riconoscere e adempiere i propri compiti di guida della classe operaia nella rivoluzione". (Da Prometeo del primo giugno 1930).

62) E i centristi non erano così ingenui da sottovalutarne l'importanza, quindi presero delle misure preventive. Un comunicato del CE apparso su L'Unità del 16 luglio ("Lettera del CE alla Commissione Internazionale di Controllo") annunciava il deferimento dei membri del Cd'I alla Commissione Internazionale di Controllo definendoli "un pugno di professionisti della calunnia". Una vera e propria inquisizione vide scatenata la polizia interna che raccolse scritti e delazioni per la formazione di dossier infamanti. Bordiga inviò la già citata lettera del 19 luglio ("Dichiarazione di Bordiga sulla campagna di falsificazione della Centrale") che non fu pubblicata nonostante i reiterati inviti dello stesso Bordiga e di altri membri della Sinistra (cfr. anche "Lettera del CE ai compagni della Sinistra" e "Lettera del CE alla Commissione Internazionale di Controllo"). Ovviamente le riunioni tra compagni della Sinistra non cessarono e vennero semplicemente interpretate come una continuazione clandestina del Cd'I ("Rapporto del segretariato n. VII sull'attività della Sinistra a Napoli").

63) "Lettera di Repossi a Zinoviev" in questa pubblicazione.

64) Citato da Montaldi, K. Korsch... op. cit., p.22.

65) Cfr. "Mozione di Bordiga sui metodi formalistici e burocratici della Centrale" e "Commento della Centrale alla Mozione" in questa pubblicazione.

66) Le due citazioni da E. H. Carr, Il socialismo in un solo paese, I, La politica interna 1924-1926, Einaudi, pagg. 634 e 638.

67) Sul contrasto con il centrismo e in particolare con Gramsci, Bordiga disse che esso aveva origine "da un unico dissenso circa la impostazione della ideologia e, potrei dire, della filosofia da cui nasce l'incendio della rivoluzione di classe. Ciò dissi a Gramsci al Congresso di Lione nel mio lungo discorso di sette ore, che seguì il suo durato quasi altrettanto [...] Io dichiarai, rivolto ad Antonio, che non si è in diritto di dichiararsi marxisti, e nemmeno materialisti storici, solo perché si accettano come bagaglio di partito certe tesi di dettaglio, che possono riferirsi vuoi all'azione sindacale, economica, vuoi alla tattica parlamentare, vuoi a questioni di razza, religione, cultura; ma si è giustamente sotto la stessa bandiera politica quando si crede in una stessa concezione dell'universo, della storia e del compito dell'uomo in essa" (dall'Intervista... cit.).

68) Cfr. "Dichiarazione di Bordiga ai delegati presenti al III Congresso" in questa pubblicazione.

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La Sinistra Comunista e il Comitato d'Intesa

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