30. Dieci anni (1)

Premessa

Il testo che segue è il rapporto conclusivo all'incontro allargato svoltosi a Torino dall'uno al tre gennaio 1993. Avevamo l'intenzione di diffonderlo, dato che rispondeva puntualmente a diverse domande che ci erano state poste, ma per vari motivi è rimasto nel classico cassetto per quasi due anni. In seguito alle sollecitazioni di alcuni compagni, a discussioni avvenute di recente e a richieste di precisazioni sul nostro lavoro, è stato ripreso.

Questa Lettera è la trascrizione quasi integrale dei nastri magnetici. Dato che la relazione è durata quasi cinque ore, è stata alquanto sfoltita da tutti gli aspetti discorsivi e da quelle parti che non avevano interesse generale. Tutte le note sono state aggiunte in fase di redazione.

All'incontro parteciparono (ed era la prima volta che si trovavano tutti insieme) compagni di diverse località che vedono nel patrimonio della Sinistra Comunista "italiana" un'eredità più grande e dal significato più profondo di quanto sia normalmente valutata nell'ambito "internazionalista", in cui la Sinistra è vista in genere come una semplice continuazione della Terza Internazionale mentre in realtà rappresenta un suo superamento dialettico pur inglobandone il significato.

Due rapporti hanno preceduto quello conclusivo. Il primo riassumeva gli effetti della disgregazione del Partito Comunista Internazionale in Francia e la ripresa del lavoro da parte dei compagni francesi con la pubblicazione dei Cahiers, ora tradotti anche in italiano. Il secondo presentava il lavoro dei compagni italiani sulla Teoria dell'accumulazione che stava per essere pubblicato. Per quanto riguarda la discussione, protrattasi per più giorni specie con i compagni tedeschi, ne abbiamo dato un ampio riassunto nella nostra precedente Lettera n. 28.

La prima parte della relazione conclusiva tocca argomenti non conosciuti da chi non faceva parte del Partito Comunista Internazionale e riprende alcuni temi della nostra Lettera n. 20 con la quale decidemmo di non lasciarci più coinvolgere nella polemica sterile fra i compagni dell'ex partito. L'intento non è affatto quello di rispolverare la vecchia polemica, che non ci interessa più, ma solo quello di ricordare un tipo di lavoro e un metodo che non era più quello della Sinistra e del quale la nostra attività presente e futura vuole essere l'antitesi ricollegandosi al filone originario..

A coloro che ci conoscono le prime dieci pagine potranno sembrare scontate, mentre per coloro che non ci conoscono saranno forse insufficienti per capire quel che successe allora. Esse occupavano circa metà della relazione originale, mentre nel testo sono state ridotte a un quarto: le abbiamo lasciate perché il loro scopo è quello di introdurre alle questioni di metodo (poi sviluppate negli altri tre quarti del testo) legate alla comprensione della realtà oggettiva e soggettiva.

Torino, novembre 1994

Dieci anni

La difficile riappropriazione del metodo

Come avete visto dallo schema distribuito, abbiamo voluto intitolare questo incontro e questa relazione Dieci anni. Abbiamo voluto chiamarla così perché ci sono voluti dieci anni per arrivare al punto in cui siamo, alla possibilità cioè di riunire nuovamente i compagni e verificare che cosa sia maturato tra l'éclatement e questo Capodanno (1). Dieci anni sono tanti, per questo vogliamo fare un tentativo di dare a questo periodo così lungo una spiegazione non superficiale e non contingente.

L'ultima riunione "internazionale" (virgolette, per carità) che riuscimmo ad organizzare fu quella che, trascritta, diede origine al nostro primo Quaderno e risale al novembre del 1983. La nostra espulsione risale al maggio 1981, la dissoluzione del partito all'ottobre 1982. Dieci anni per superare i postumi del disastro (e "superare" è forse ancora un eufemismo che oltretutto vale per un numero ristrettissimo di compagni) possono sembrare un po' troppi; qualcuno potrebbe dirci: ma non potevate tirarvi su le maniche e darvi da fare per organizzarvi? Vero, forse potevamo darci da fare in quel senso; molti l'hanno fatto, hanno costituito altri gruppi o hanno aderito ad altri partiti, hanno pubblicato i loro testi, si sono riuniti, si sono separati, ecc.

Noi siamo stati coinvolti in questo fare e disfare per un certo tempo, poi ci siamo accorti che quanto facevamo e dicevamo era incompatibile con l'impostazione del lavoro di chi, pur avendo rotto con l'organizzazione formale, ne continuava in realtà i metodi (2).

Ecco perché, preparando questo incontro, ci siamo detti: dieci anni sono tanti. Ci sarà pure una ragione, bisognerà spiegarla.

Le ragioni sono almeno due.

La prima, meno importante, è che dopo di allora la maggior parte dei compagni e dei gruppi appartenenti all'ex partito ruppe con noi, e neppure troppo delicatamente. Attenzione, ruppero loro con noi e non viceversa, nel senso che, di fronte al nostro atteggiamento, corse la parola d'ordine che eravamo poco meno che antimarxisti. Il risultato pratico è lo stesso, ma fu un po' come se fossimo espulsi una seconda volta quasi per gli stessi motivi e la cosa non fu per niente piacevole. Il significato di questa specie di espulsione reiterata lo scopriremo nel corso dell'esposizione.

La seconda ragione, essenziale, è che abbiamo impiegato un certo tempo a capire (e digerire) che le cose combattute nell'ex partito e quelle combattute nel post-éclatement erano le stesse. Di qui la faticosa sopravvivenza nell'isolamento e nel tentativo di studiare a fondo la faccenda. Non partivamo da zero, naturalmente; qualcosa era già stato fatto durante la duplice battaglia (risultata poi una duplice sconfitta, ci auguriamo temporanea): eravamo stati costretti a lavorare per reimpadronirci del metodo.

L'omogeneità politica e il lavoro

Il nostro primo Quaderno, sul capitalismo senile (uscito a stampa nel 1985) era dunque, come abbiamo detto, il risultato di una riunione "generale", grosso modo come questa, la quale era a sua volta il risultato di un lavoro sulle questioni economiche incominciato almeno nel 1981.

Il lavoro che fu presentato allora con il Quaderno n.1 e che stiamo continuando oggi non ha nulla di casuale; esso rispondeva all'esigenza di riprendere i temi delle riunioni che chiamavamo "Sul corso dell'imperialismo" e di sistemarli in modo meno giornalistico. Mi spiego. La nostra critica al Centro del partito era che la serie di tali riunioni-articoli non risaliva mai alle cause profonde degli avvenimenti ma si limitava a registrarli. Il lavoro era fatto puntigliosamente ed era corredato da un mucchio di dati, ma era piuttosto sterile dal punto di vista della comprensione - che so - della crisi petrolifera o dell'inflazione al 20% o del prezzo dell'oro schizzato a 800 dollari l'oncia.

A dire il vero un elemento che statisticamente possiamo definire casuale c'è stato e si tratta precisamente dell'identità di metodo riscontrato fra compagni che in quel periodo lavoravano allo stesso tema pur non essendo in contatto diretto. In questo elemento noi vediamo un significato importante ed è questo: la discriminante che separa la chiacchiera dal lavoro serio è l'adesione al metodo della Sinistra, il rovesciamento totale della prassi corrente fra la maggior parte dei gruppi di compagni. Qual è questa prassi deleteria? E' quella di mettere la propria volontà davanti al corso materiale delle cose. Il partito si disintegra? Ecco questi gruppi teorizzare che bisogna organizzarsi in un partito nuovo. Si constata la massima disomogeneità fra i gruppi di compagni? Eccoli teorizzare che, prima di tutto, bisogna creare un'omogeneità fra coloro che vogliono lavorare insieme. Tutto ciò, come vedremo, non significa altro che porre al di sopra di tutto la propria volontà. Si tratterebbe di far girare le cose in modo inverso di come deterministicamente si sono svolte. Il risultato pratico non poteva essere che quello di allontanarsi ancora di più dal partito storico e quindi anche formale; allontanarsi ancora di più dall'omogeneità e quindi dall'organicità del lavoro.

Noi abbiamo semplicemente constatato in anticipo che il metodo corretto imponeva di rovesciare questo ragionamento che chiamammo volontaristico e anche attivistico, non dissimile da quello che avevamo combattuto all'interno dell'ex partito. Il lavoro pratico ci ha dimostrato che le cose stavano veramente così.

All'inizio del lavoro sul Quaderno n. 1, ma non solo su quello, abbiamo verificato quindi che, rimanendo legati a quello che avevamo imparato in anni di militanza, avremmo potuto procedere soltanto lavorando senza inventare corsi nuovi, con o senza il partito formale (3). Era la continuazione del lavoro che avrebbe potuto portare all'identità di metodo e di risultati, non la volontaristica ricerca di una identità (che non c'era) per giungere poi ad un lavoro comune.

Dinamica dei processi storici

La scoperta di quella che chiameremmo l'apparente coincidenza casuale fra lavori iniziati separatamente, avvenne quando iniziammo la discussione sul lavoro pratico tra compagni. Si trattava di continuare la raccolta dei dati sul corso dell'imperialismo e di dare una spiegazione ai fenomeni economici e sociali, non attraverso l'elencazione dei guai che questa società genera contro sé stessa, ma attraverso uno studio della loro dinamica per vedere anche il suo futuro, insomma la famosa cinematografia invece della fotografia. Vedremo nel corso dell'esposizione che questa bella immagine di Amadeo ha delle implicazioni dialettiche importanti e cinema non va inteso come semplice serie di fotografie: il risultato, come sempre, è maggiore della somma dei singoli fattori.

Scoprimmo che i dati empirici, utilizzati secondo il filtro della teoria marxista, davano perfettamente ragione delle curve teoriche dedotte dagli schemi di Marx. Nessuna innovazione, quindi, ma anche nessuna semplice ripetizione di formulari marxisti applicati ai collages ottenuti dai ritagli delle riviste economiche borghesi. Si può ripetere ed elaborare nello stesso tempo? Si deve. Ripetere soltanto lo fanno anche i pappagalli; elaborare ex novo lo fanno tutti i giorni gli opportunisti innovando attraverso le loro individuali pensate. In fin dei conti si tratta di imparare a filotempare, come direbbe Amadeo (4).

Nelle nostre intenzioni c'era la continuazione del lavoro che il partito aveva iniziato alla fine degli anni cinquanta e che aveva preso corpo in una serie di riunioni sul corso del capitalismo mondiale, in parte raccolte recentemente da altri compagni. Buon lavoro che tra l'altro distribuiamo attraverso i nostri canali anche se stampato non da noi. Buon lavoro perché si rimette a disposizione dei compagni la prima parte della storia cinematografata del capitalismo, parte la cui sceneggiatura sta a noi continuare sfruttando la sequenza di ulteriori immagini che il capitalismo ha sfornato.

Tra quelle riunioni ve n'erano alcune che trattavano specificamente del corso del capitalismo in senso dinamico: e precisamente da dove arriva quello che stiamo vivendo adesso, quali sono i fotogrammi precedenti all'oggi, che cosa può significare questa dinamica proiettata nel futuro.

Tutto il lavoro di partito in effetti è sempre stato impostato in questa maniera dinamica, finché il partito funzionava, anche per quanto riguardava l'analisi di fatti e aree più limitate o comunque che offrivano spunti per uno studio a sé stante. Pensiamo per esempio all'enorme sviluppo che aveva avuto lo studio sulla dinamica del capitalismo in Russia e delle conseguenze che ciò aveva sul mondo intero, compresa l'attitudine rivoluzionaria del proletariato mondiale.

La risposta sulla natura dell'economia russa, cioè del capitalismo russo, non scaturiva da una pedestre analisi dei meccanismi di accumulazione dello Stato russo, ma scaturiva da un confronto, dalla relazione dialettica tra quello che succedeva in quel paese e quello che succedeva negli altri paesi, tra ciò che esisteva realmente e ciò che sarebbe dovuto esistere se non ci fosse stato il capitalismo ma il socialismo come diceva Stalin. Il confronto dava come risultato una dinamica che rivelava quanto i paesi fossero a un diverso grado di sviluppo storico, a un diverso grado di sviluppo delle forze produttive; e questa dinamica ci dimostrava, attraverso la variazione degli indici di accumulazione, quindi di tutte le categorie che abbiamo introdotto nel lavoro illustrato nel rapporto precedente, un certo andamento.

La prospettiva era quella che i paesi capitalistici, nel loro insieme, sarebbero comunque dovuti arrivare a un punto in cui i processi di accumulazione avrebbero incominciato ad andare in sincronia. Si sarebbe unificato il capitalismo mondiale e quindi ci sarebbe stata, inevitabile, la Grande confessione. Si sarebbe dovuto buttare via, prima o poi, non solo la mummia di Stalin, ma anche quella di Lenin, il suo stesso ricordo, come quello di Marx, del comunismo.

Continuità e continuazione

All'epoca non si aveva la sensazione ancora di quanto potessero realmente andare in sincronia le economie dei paesi più importanti perché il lavoro era stato interrotto intorno alla metà degli anni '60; i dati che avevamo nel diagrammone, poi aggiornato all'uscita del Quaderno, si fermavano a quegli anni. I compagni lo ricorderanno: si trattava degli indici di incremento annuo della produzione industriale dei sette paesi più importanti a partire dalla fine del secolo scorso.

Non stiamo a riprendere la dimostrazione, ma quegli indici erano utilizzabili per rappresentare l'andamento del saggio di profitto, quindi erano la rappresentazione grafica della legge marxista della caduta tendenziale del saggio. Erano anche la rappresentazione grafica dell'accumulazione capitalistica in un secolo. Ora, la rappresentazione grafica mostrava una diminuzione progressiva delle oscillazioni man mano che il capitalismo maturava. Nell'arco di un secolo le economie dei maggiori sei paesi capitalisti si mettevano in sincronia, cioè non solo vedevano diminuire la loro banda di oscillazione, ma oscillavano contemporaneamente verso l'alto o verso il basso. Il settimo, la Russia, sembrava ancora, guardando alle cifre, non risentire di questa sincronia, ma la continuazione del diagramma ha dato ragione alle previsioni: il trend valeva anche per la Russia, era solo in ritardo. Di quanto? Poco, forse un decennio. La prospettiva delineata dal partito nello studio degli anni precedenti era realizzata già allora, 1983-84.

Questo che cosa significa? Che quando si ha la pretesa di continuare il lavoro di chi ci ha preceduto, questa pretesa deve avere riscontro nel fatto reale che il lavoro continui effettivamente sulla stessa strada. Noi abbiamo questa pretesa e abbiamo smesso di accettare la polemica su chi riesce o meno a mantenervi fede. Lo facciamo e basta, di qui scaturiranno i risultati se dovranno scaturire e non ci interessa nemmeno, sarebbe troppo facile, puntare il dito contro certi nostri detrattori e dire: quali sono i vostri? Non sta a noi valutare i risultati, ma proclamiamo apertamente che la nostra pretesa è quella che abbiamo appena spiegato. Quando si parla di continuità si parla per forza anche di continuazione, nello spirito e nella lettera delle nostre Tesi di Napoli, dove si urla ai sordi che in scienza il testo non è mai definitivo, che ogni lavoro deve tendere ad una sua ulteriore perfezione, nulla è fermo nel mondo fisico, figuriamoci nel campo sociale, dove parliamo del divenire della rivoluzione. Nientemeno.

Bisogna superare l'apparente dualismo fra rispetto della tradizione marxista, cioè ripetizione dei sacri testi, ed elaborazione ulteriore. C'è chi potrebbe vedere in ciò una certa dose di presunzione, ma non sappiamo che farci se l'alternativa è la morte teorica e politica. Noi tentiamo perché si tratta dell'unica strada. Riuscire è un altro discorso, vedremo... ai posteri l'ardua sentenza.

Questo è un primo dato di fatto, la verifica che, nonostante l'isolamento e la mancanza di rapporti fra compagni, rimanendo fedeli al metodo che abbiamo chiamato dinamico, non è poi così difficile riunire lavori che dimostrano tra loro un'organicità di fondo. Se volete è ciò che è successo recentemente, ed è il secondo dato di fatto della stessa natura. Non saremmo qui con i compagni francesi se di qua e di là delle Alpi in questi dieci anni fossimo andati ad innovare o, al contrario, a ripetere semplicemente; non saremmo a questa riunione che avviene a metà strada fra compagni che abitano, da Nord a Sud, a duemila chilometri di distanza, forse più.

Ma come mai, ad un certo punto, il partito aveva perso per strada il metodo che l'aveva guidato fino a poco prima?

L'abbandono della concezione "monistica"

Nessuno vuole dire che le riunioni sul corso dell'imperialismo comparse sulla stampa di partito negli ultimi dieci anni della sua esistenza fossero sbagliate. Spesso erano delle ottime riunioni, come altre su altri argomenti, e abbiamo tuttora molto rispetto per i compagni che le preparavano e le tenevano. Ma, mentre il capitalismo mondiale andava in sincronia nelle sue aree più importanti, il partito andava in diacronia nel suo lavoro interno. I compagni più anziani ricordano che il termine ricorrente quando si parlava di riunioni e di temi da trattare, era quello di rapporti collegati, proprio a significare che il lavoro procedeva come un tutto unico nell'organismo partito. Certamente vi era il problema della completezza e della forma, per cui, compatibilmente con le forze e con i tempi di uscita della nostra stampa, si finiva per produrre semilavorati, per stessa ammissione di Bordiga. Ma accidenti, che razza di semilavorati.

Erano veramente riunioni collegate da un filo unico che teneva tutto insieme. Non si tratta di mitizzare una organizzazione che ha avuto i suoi guai tremendi anche quando vi era Amadeo. Ma un certo modo di lavorare si era perso. Il nostro lavoro di stampa ci obbliga a leggere molto e a scorrere di continuo la stampa di partito. Ebbene, la frattura si avverte non tanto nella qualità degli articoli (in generale, si capisce: gli scritti di Amadeo sono unici per rigore, per ricchezza di argomentazioni e, perché no, per stile letterario) quanto per il loro collegamento, per la loro appartenenza a un tutto che a un certo punto viene a mancare.

Qualcuno dice che ciò è dovuto alla morte di Bordiga. Bordiga era un gigante, ma bisognerebbe confutare lo stesso questa tesi. Da quando Bordiga smette di scrivere sul giornale, si nota la mancanza dei suoi articoli, ma non ancora la mancanza di una organicità che collega le parti al tutto. Sarebbe interessante dimostrare ciò scorrendo le pagine di Programma, ma ognuno lo può fare a casa sua. Questa organicità non si spezza di colpo, anche se il processo è abbastanza contenuto nel tempo. Si verifica ciò che verrà teorizzato come necessario dal Centro solo molti anni dopo: scompaiono l'elaborazione e l'analisi teorica, come se si fosse deciso di chiudere un periodo in cui queste erano d'obbligo, per passare ad un periodo in cui invece venivano applicate. Non si può rintracciare una data x, è certo però che poco per volta gli articoli e le riunioni che compaiono sul giornale non procedono più collegati fra loro, ma si rendono autonomi dato che sarebbero in regola con la grande teoria ristabilita nel periodo (o fase, come si dirà poi) della ricostruzione teorica. I fatti reali sono registrati, la loro spiegazione è prontamente sostenuta dalle opportune citazioni, il tono diventa battagliero e si esaspera il linguaggio "marxista".

Ma soprattutto il passaggio dalla fase della ricostruzione teorica a quella dell'applicazione della teoria alla prassi esige - si sostiene - gli strumenti adatti; il partito deve diventare il partito compatto e potente di domani e i suoi membri devono discutere di meno e fare di più per allargare l'organizzazione e per agganciarsi alle lotte della classe operaia, le cui avanguardie sono rappresentate da gruppi che nascono e muoiono nell'azione immediata (5).

I compagni francesi hanno messo bene in evidenza nella loro relazione quali disastri fosse in grado di produrre tale cambiamento nel lavoro interno di partito.

Attenzione, però. Solo molto tardi compariranno le formulazioni esplicite di questo processo ed è solo contro tali manifestazioni esplicite che si formò una opposizione, che tra l'altro condusse la sua battaglia come una specie di opposizione interna sparpagliata, un po' blanda, un po' velleitaria e un po' frazionista, a seconda di chi in quel momento riusciva a essere più convincente nel suo odio verso i personaggi che rappresentavano bene o male la gerarchia che nel frattempo si era creata.

Fuori dalla patologia politica

Anche noi facemmo parte di questa specie di opposizione, a dire il vero un tantino perplessi di fronte alla patologia che sconquassava l'animo sensibile dei compagni ormai ròsi dalla Grande Indignazione contro il Centro. Anche se è perfettamente vero che quest'ultimo "meritava" critiche ferocissime, essendosi per di più circondato da una rete di "responsabili" che in qualche caso erano dei semplici imbecilli, ormai era tardi per una scuola di opposizione che si dimostrava essere assolutamente disomogenea a dispetto dei suoi componenti, i quali credevano invece di essere molto omogenei solo perché tiratori sullo stesso bersaglio. Ci accorgemmo per tempo che l'opposizione al Centro, di cui facemmo parte inevitabilmente, soffriva della stessa malattia che voleva combattere. Fortunatamente l'opposizione al Centro si fece anche, ancor prima della nostra espulsione, opposizione nei nostri confronti. Bisogna dirlo, perché è questo che ci ha permesso di fare il lavoro attuale: siamo stati sia contro il Centro che contro la maggior parte dell'opposizione al Centro. E quest'ultima non ci ha pensato due volte, dopo i tentativi di "omogeneizzazione" post-espulsione, a rompere con noi con motivazioni o voltafaccia che non stiamo a raccontare. Non è infatti questo l'importante, anche se è proprio il nostro relativo isolamento che ci ha permesso di osservare la situazione, come si dice qui, "a bocce ferme".

Ci siamo quindi chiesti come mai il partito aveva perso questa capacità di utilizzare il suo classico metodo e ci siamo dati la seguente risposta: la situazione esterna (leggi controrivoluzione) aveva pesato in modo schiacciante su tutta l'organizzazione trascinandola in quell'attivismo-volontarismo-sindacalismo che aveva preso la sua prima forma nella mancanza di organicità "redazionale". Negli articoli del giornale si era incominciato a non far più un collegamento diretto, come è dovere dei marxisti, tra la struttura e la sovrastruttura, tra quelle che sono le ragioni materiali di tutto quello che succede nel mondo, cioè le questioni economiche legate alla riproduzione materiale, e quello che ne è il riflesso nel funzionamento della società.

A questo punto dobbiamo anche spiegare perché abbiamo dovuto andare a riprendere i vecchi testi, ovvero perché abbiamo dovuto in un certo senso ritornare indietro, nella strada percorsa, fino alle origini. E qui ci è stata d'aiuto la polemica con i compagni della vecchia opposizione. Non che avessimo chiaro il percorso completo che dovevamo affrontare per scrollarci di dosso le vecchie questioni, ma sicuramente una prima scelta la dovevamo fare: scrollarci di dosso il piagnisteo minoritario, la patologia degli esclusi, la rabbia per l'espulsione e tutto il resto. Dovevamo inquadrare le nostre piccole disgrazie nel fenomeno generale, metterci per così dire al di sopra della sanzione amministrativa (l'espulsione) e al di sopra della nostra condizione di orfani di partito.

La storia di questa consapevolezza è scritta nelle nostre lettere di allora e non è il caso di riprenderla, basti per ora ricordare che prevedemmo quello che in Francia, giustamente, fu chiamato l'éclatement, quando dicemmo che i liquidatori avrebbero liquidato sé stessi in una sorta di cannibalismo interno che li avrebbe distrutti. E bisogna sottolineare che ciò è molto diverso dalla concezione che andava allora per la maggiore fra i nostri critici, quella secondo cui c'era stato un partito quasi perfetto fino ad un certo punto e poi, da quel punto, ci sarebbe stata una degenerazione che l'avrebbe portato a ricoprire un ruolo opportunistico nella politica italiana.

La scienza e il bla-bla

Già ripetuta così, in sintesi, questa concezione suona alquanto stonata e certamente così deve suonare oggi a molti che allora erano fervidi sostenitori del percorso opportunistico del partito, in grado proprio per questo di avere maggiori effettivi, di ingrandirsi ecc.

Le polemiche tra compagni, il fatto che c'eravamo trovati fuori dal partito, il fatto che il partito stesso si fosse autodistrutto in questo éclatement, questa parola che rispecchia perfettamente quale è stato il nostro dramma di allora, tutto ciò faceva sentire il bisogno di fare un bilancio. Bilancio è una parola grossa e pesante che non si può utilizzare a vanvera. Era evidente che non si poteva fare un bilancio nelle condizioni in cui ci trovavamo proprio perché è impossibile fare un bilancio di una tragedia mentre si vive la tragedia. Avremmo detto tutti la nostra, probabilmente, riflettendo delle questioni soggettive così pesanti che ci avrebbero portato fuori strada. Si poteva però riprendere il metodo della Sinistra e incominciare a lavorare invitando i compagni a fare lo stesso. Il filo si era spezzato, come dicono i compagni tedeschi, ma quando? Nel 1981 o nel 1921? Il partito in cui abbiamo militato era il vero partito della rivoluzione o non era piuttosto una piccola organizzazione che portava in sé solo il ricordo del partito formale (staffetta tra generazioni) cercando con le unghie e con i denti di rappresentare il partito storico?

Il ritorno ai testi implicava almeno la soluzione di un problema importante: bisognava averli mentre noi non li avevamo più, materialmente, da dare ai nostri nuovi militanti. O li avevamo esauriti o non erano mai stati ristampati. E le raccolte dei vecchi giornali erano andate disperse.

Ovviamente la ragione per cui siamo arrivati ai libri non è una ragione intellettuale e tantomeno commerciale, come qualcuno ha voluto dire, ma non ci importa un accidente di cosa dicono gli altri. Non è nemmeno una risposta al solito Che fare?, domanda che, posta verso noi stessi e non verso l'esterno, ha già di per sé un sapore di smarrimento e che, se trovasse una risposta in quanto domanda, esprimerebbe nient'altro che attivismo-volontarismo. Il nostro patrimonio teorico ci dice cosa fare e come e in quali situazioni. Ma non abbiamo neanche stampato i libri in quanto manuali per la rivoluzione. Saremmo caduti ancora negli stessi errori di sempre. Il filo è spezzato, ma non c'è altro da fare che lavorare per riannodarlo. Ciò non dipende dalla nostra volontà, non creeremo il partito né la lotta di classe, ma non c'è "scelta": bisogna ritornare alle origini per capire dove si è sbagliato e come continuare senza sbagliare.

Preparando il nostro piano di stampa, leggendo centinaia di testi da stampare, correggendo bozze, ricercando raggruppamenti tematici per i volumi e cercando priorità finalizzate al lavoro collettivo, ci siamo per così dire immersi in tutta la battaglia che la Sinistra ha condotto contro avversari ben più terribili di coloro che ci avevano espulsi e che avevano condotto a catafascio il partito. Eccolo là il bilancio che occorreva. Non c'è bisogno di nessun bilancio particolare per dare spiegazione alla scomparsa del Partito Comunista Internazionale detto Programma comunista.

Un fisico direbbe che c'è stata la verifica sperimentale del nostro assunto teorico di partenza: c'è stato il previsto sfascio dei liquidatori, si è reso impossibile il bilancio dell'avvenimento in sé, si è verificato che il bilancio c'era già nella conoscenza precedente dei processi di formazione del partito e della dinamica della lotta di classe. E siccome i processi deterministici sono reversibili, abbiamo potuto ripercorrere la storia del partito con una conoscenza sul metodo, migliore di quella che avevamo prima. Insomma, checché ne dicano i nostri ameni critici di un tempo, abbiamo fatto scienza e non del blablà. Lo abbiamo fatto bene? Lo abbiamo fatto male? Non sta a noi dirlo. Non rivendichiamo il risultato, rivendichiamo il metodo.

L'importanza degli "invarianti" nella scienza

Proprio la storia del partito ci dimostra come la dialettica dei processi sia incessante, quindi come l'éclatement possa essere stato addirittura un fenomeno positivo nella dinamica della lotta di classe e della formazione-sviluppo del partito. Questa è l'essenza delle Tesi di Roma, 1922, non invenzioni che smerciamo adesso, 1993. Andatevi a ripercorrere la storia del partito tra il 1944 e il 1966 e vedrete quale robusta invarianza lega lo scontro dialettico fra la rivoluzione e la controrivoluzione. Le tesi del secondo dopoguerra, come i Fili del tempo (ricordate fra tutti Raddrizzare le gambe ai cani e Olimpiadi dell'amnesia), rispondevano a problemi che non erano diversi da quelli che il partito ha dovuto affrontare nel 1980. Qualcuno ci ha detto che c'è una bella differenza tra le deviazioni che coinvolgono la base e quelle che coinvolgono il Centro. Rispondiamo con molta tranquillità che chi parla così ha qualche difficoltà di comprensione del concetto di organicità. La Sinistra ha spiegato per sessant'anni di seguito il rapporto organico che deve legare la base con il vertice, o meglio, il centro con la periferia. Quando ancora nel dopoguerra Amadeo intitola uno studio di partito Assalto del dubbio revisionista ai fondamenti della teoria rivoluzionaria marxista, non si rivolge certo agli stalinisti ma all'interno della nostra compagine più o meno organizzata. Ciò deve far pensare.

L'éclatement è una catastrofe? Certamente, per la microstoria del partito. Ma alla scala macroscopica abbiamo solo visto scomparire una organizzazione con cento militanti, subito sostituita dai tentativi di ricerca di altri cento (o dieci, o mille, non importa a questo ordine di grandezze). Il partito storico non muore mai, sarebbe da buttare tutto il marxismo. Il mondo non si è accorto di nulla e la lotta di classe è come prima. Non facciamo più grandi proclami al proletariato. Ma anche quando il partito li faceva, essi non uscivano dai pochi centimetri quadri del corpo di stampa dei titoli. Ciò significa che i cento militanti oscuri (o dieci, o mille) che oggi, dispersi e isolati, sono costretti a ritornare ai testi in mancanza di sollecitazioni attivistiche, possono rappresentare un potenziale rivoluzionario forse più alto di quanto fosse il potenziale della buona macchina organizzativa del partito ante-éclatement.

Discutendo di questi argomenti abbiamo trovato risposta ad una domanda, che molto opportunamente i compagni tedeschi avevano posto. Che cosa intendeva veramente Amadeo per "invarianza"? Nel testo Per l'organica sistemazione dei principii comunisti abbiamo pubblicato una riunione tenuta a Milano nel 1952 e divisa in due parti: l'invarianza marxista e l'attivismo. Nel testo il termine "invarianza" è messo tra virgolette come se avesse un significato di citazione e infatti ce l'ha eccome. Cercando sullo Zingarelli abbiamo trovato: "Proprietà di sistema chimico-fisico in equilibrio che si ha quando non è possibile far variare alcuno dei parametri che lo caratterizzano senza alterare tale equilibrio". Sul Palazzi non c'è il vocabolo e sul Dizionario Italiano Ragionato la descrizione è questa: "Proprietà di una legge, sistema, corpo, figura, di restare immutati sebbene varino degli stessi valori le grandezze in essi contenute. Proprietà essenziale sia per la formulazione delle leggi razionali (in matematica) sia per la formulazione delle leggi naturali (in fisica), che sarebbero altrimenti del tutto improponibili".

Sull'Enciclopedia Einaudi c'è un lungo articolo che incomincia in un modo ancora più interessante: "La parola invariante descrive un processo comune a tutte le scienze matematiche e più in generale fisiche e naturali. In questa nozione è racchiusa a priori l'idea di matematizzare la realtà, ovvero di trasformare problemi qualitativi in problemi quantitativi e quindi costruire formalismi astratti e il calcolo su di essi". In senso stretto Amadeo, nel testo citato, usa il termine nell'accezione dello Zingarelli: non è possibile variare una parte che compone il tutto senza farlo andare a catafascio. Questo vale anche nel tempo, perciò il marxismo è invariante dato che nasce da fattori che sono sempre gli stessi finché esisterà la società divisa in classi (invarianza storica). Ma nella conosciutissima nota posta all'inizio degli Elementi dell'economia marxista lo stesso Amadeo, pur senza parlare esplicitamente di invarianza pone il problema della conoscenza attraverso la nozione ricordata dall'articolo Einaudi (6).

Inoltre il marxismo è la scienza della società in movimento e, in ambito scientifico, ogni variazione deve poter essere descritta formalmente a partire dai dati conosciuti, altrimenti tutta la costruzione cade. Il marxismo rimane perciò invariante anche se variano coerentemente "le grandezze in esso contenute". Detto in altri termini, l'invarianza non è garantita dalla sola conservazione dei libri ma dalla elaborazione del loro contenuto in altri libri. Attenzione, non dalla correzione dei libri, che con ciò diventerebbero un'altra cosa, ma dalla conservazione del loro contenuto in una elaborazione successiva.

La qualità deve precedere la quantità

Il vecchio partito per un lungo periodo aveva applicato in modo eccellente il concetto scientifico di invarianza, ma da un certo punto in poi si era limitato a conservare il patrimonio precedente prima fossilizzandolo e poi correggendo i fossili (7). Lo stesso lavoro stanno facendo molti che si richiamano tuttora alla Sinistra. Precisamente ciò che non vogliamo fare noi. Chi avesse bisogno di tranquillizzarsi di fronte ad affermazioni così terribilmente eversive, vada a leggersi il paragrafo 8 delle Tesi di Napoli (1965) che si conclude con queste parole: "È solo nello sviluppo in questa direzione del lavoro che noi attendiamo il dilatarsi quantitativo delle nostre file e delle spontanee adesioni che al partito pervengono e che ne faranno un giorno una forza sociale più grande".

L'effetto quantitativo, dunque, segue una premessa qualitativa. Il nostro vecchio partito non ha potuto e saputo rappresentare una continuità qualitativa e il salto quantitativo, avvenuto malgrado ciò, ha dovuto risolversi in una catastrofe. Le leggi della dialettica non si infrangono impunemente.

D'altra parte le stesse leggi ci possono suggerire che per rappresentare una continuità qualitativa con la Sinistra era indispensabile rompere definitivamente con i vincoli che la impedivano (il vecchio partito sbandato). Se così è, e noi crediamo che così sia, l'éclatement non è stato affatto un episodio negativo nella storia del movimento di classe, ed è addirittura una fortuna che sia avvenuto in un momento in cui l'effetto storico non poteva che essere nullo. Se volete, questo è un diverso modo di dire le stesse cose che già dicemmo sulla nostra Lettera ai compagni n. 20 del 1987.

Il nostro rifiuto per il metodo democratico, il confronto, il dibattito, la presentazione di tesi contrapposte e le riunioni in cui esse alimentavano infinite diatribe, fu razionalizzato tardi, ma adottato per istinto quasi subito. Forse fummo facilitati in ciò dalla posizione marginale che avevamo rispetto a Milano o a Parigi o a Napoli. Rappresentavamo delle sezioni proletarie, idolatrate dagli operaisti finché se ne stavano zitte e buone, ma stroncate spietatamente non appena si giunse alla critica della tattica del partito. Fu necessario per questo ricorrere ai sacri testi e alla storia di vicende analoghe passate. Quando questi "invarianti" si impossessarono del nostro modo di affrontare le questioni non ci mollarono più. E ci facemmo tanti nemici. Verificammo presto che non solo il partito, come dicono le nostre tesi, è insieme prodotto e fattore di storia, ma che in quel dato momento eravamo come partito a fattore zero, prodotto tutto. Non avevamo potere di influenzare nessuno, ma dovevamo bere fino in fondo il calice amaro dell'influenza esterna totale.

Non sappiamo se qualcuno ha poi scritto il famoso bilancio che tutti allora dicevano di voler scrivere. Dato che il bilancio degli avvenimenti secondo noi era già scritto nel lavoro passato della Sinistra, il nostro contributo non poteva che essere quello di continuare il lavoro pratico. E per lavoro pratico sappiamo che Amadeo intendeva anche quello di studio e di elaborazione. Non è stato affatto un processo lineare, ce ne abbiamo messo del tempo, come tutti i presenti sanno benissimo, ma non è il caso né di soffermarsi sul latte versato, né di dare sempre la colpa alla solita "situazione materiale". Sta di fatto che oggi siamo su una strada diversa da quella che hanno seguito tutti i nostri parenti di corrente e non ha nessun senso porre la domanda: siamo più vicini noi o loro a questa corrente, al partito storico? E' ovvio che a noi stessi diamo una risposta, ma essa, per decisione ormai vecchia, non passa attraverso la polemica pubblica, bensì attraverso, appunto, il lavoro.

Sinistra "italiana"?

La "riscoperta" della natura vera, della peculiarità della Sinistra, oltre ad aiutarci ad approfondire alcuni temi, ci ha fatto anche capire quale fosse il tipo di divergenza che avevamo con altri compagni e quale fosse la natura vera della divergenza che avevamo con il partito. La comprensione profonda di quanta fosse la differenza fra il contenuto dei nostri testi e il comportamento del partito è venuta soprattutto dopo che avevamo intrapreso regolarmente il lavoro; d'altronde non poteva venire negli anni in cui ci succedevano i fatti. Solo più tardi, quando a mente fredda abbiamo potuto confrontare i testi "classici" con gli articoli di "Programma", con le circolari, con la corrispondenza di partito, abbiamo potuto trasformare un'opposizione sincera ma epidermica in razionalizzazione scientifica. Tra l'altro è anche grazie a questa razionalizzazione che abbiamo mantenuto buoni rapporti con compagni finiti su strade diverse dalla nostra: come diciamo sempre, quelli "buoni" si troveranno, quelli "cattivi" è meglio perderli subito.

Non stupisca l'affermazione "riscoprire la Sinistra". La formazione delle nuove leve non era avvenuta sul patrimonio impressionante che essa aveva lasciato. In fondo il problema traspare anche da questo lessico: si parla della Sinistra come qualcosa che c'era e ora non c'è più, "patrimonio lasciato... l'eredità... la tradizione della... ecc. Questo non va. Dovrà esserci un giorno qualcuno in grado di dire: "noi della Sinistra..." e dirlo con la consapevolezza di rappresentare davvero la continuità storica. Lo stesso partito quando affermava che era passata la fase della ricostruzione teorica e bisognava passare a quella della costruzione del vero partito "compatto e potente", la famigerata "organizzazione previa", sanciva - forse inconsciamente ma certo incoscientemente - la spaccatura storica nella continuità della nostra scuola, della nostra corrente.

La Sinistra aveva dato una sistemazione teorica gigantesca a tutti gli avvenimenti che avevano punteggiato la degenerazione (qui è giusto usare il termine) della III Internazionale seguita al II Congresso del 1920. La nostra corrente era andata molto oltre ai contenuti del II Congresso che aveva comunque rappresentato il punto più alto raggiunto dal movimento comunista e proletario fino a quel momento.

Perché proprio la Sinistra italiana e non per esempio la Sinistra tedesca? Abbiamo cercato di individuarne le ragioni e abbiamo studiato le peculiarità di questo nostro paese dove passano tutte le correnti storiche (oltre agli eserciti occupanti e liberanti), dove esse fanno gli esperimenti sociali più arditi per poi abbandonare il terreno e andare ad applicare i risultati in situazioni che rappresentano terreno migliore per la coltura definitiva. Ecco perché, per esempio, ci siamo cimentati, nella Lettera ai compagni sul 18 brumaio del partito che non c'è, con la situazione attuale italiana, dove vediamo una borghesia bisognosa di una soluzione fascista ai propri problemi che cerca in tutti i modi di far morire il vecchio apparato erede del fascismo per farne nascere uno nuovo, quello che per ora chiamiamo "il partito che non c'è" (8).

La Sinistra effettivamente scaturisce da un clima fecondo per la maturazione teorica: questo è il più antico paese capitalistico, dove la rivoluzione nazionale non dovette essere antifeudale per la semplice ragione che il feudalesimo vi era sparito da troppi secoli se mai vi fu in pieno. Questo è anche, e proprio per le ragioni suddette, il primo paese in cui il capitalismo è stato portato alle sue estreme conseguenze con il fascismo, reazione alle difficoltà crescenti dell'economia finanziaria uscita dalla Prima Guerra Mondiale, ma anche contraltare borghese della Rivoluzione d'Ottobre.

La rivoluzione russa era mistificabile perché doppia: "democratica" e proletaria. Troppe le parole d'ordine ancora a carattere democratico; troppe le influenze dell'antico sull'azione, sul linguaggio, sulla tattica.

La rivoluzione tedesca non aveva bisogno di essere mistificata perché conteneva nei suoi programmi i germi della propria negazione: la democrazia realizzata invece che superata; l'autodisciplina e la spontaneità invece del partito centralizzato come organo della rivoluzione; i consigli decentrati invece dello Stato della dittatura proletaria.

Il Fascismo e la Sinistra furono la risposta concreta, mondiale da parte borghese e da parte proletaria. Il Fascismo diventò mondiale come modo di dominio, la Sinistra divenne l'espressione teorica coerente del superamento della III Internazionale: partito unico mondiale invece di federazione di partiti comunisti nazionali.

La falsa teoria del ritardo delle masse

Questa sintetica scaletta serve per dimostrare che il partito ("Programma comunista") nel suo insieme aveva ancora un piede nella vecchia III Internazionale per via della sua gloriosa tradizione, Lenin, l'Ottobre ecc. Nonostante la presenza e l'enorme lavoro di Bordiga, il partito nel suo complesso non aveva ancora l'altro piede ben saldamente appoggiato sulla corrente o sulla scuola che rappresentava il balzo ulteriore verso il partito e la rivoluzione mondiale. Poi, dall'inizio degli anni '70, "Programma", pur richiamandosi sempre più visceralmente alla Sinistra Comunista, in realtà non la rappresentava più per nulla, non ne incarnava gli aspetti peculiari, non ne capiva l'importanza, forse non ne afferrava neppure, nel suo insieme, l'enorme portata teorica. Per questo è bene che sia scomparso.

I primi testi che la Sinistra ha pubblicato nel dopoguerra, preparati addirittura mentre la guerra ancora era in corso, contengono nettamente il superamento della III Internazionale, così come questa superava la Seconda e questa la Prima fondata da Marx; lo sforzo enorme che la Sinistra ha fatto per "raddrizzare le gambe i cani" è proprio quello di eliminare, per quanto riguarda l'Occidente sviluppato, qualsiasi contaminazione che si riferisca alle rivoluzioni che hanno ancora dei compiti arretrati da portare a termine.

Nello stesso tempo, proprio per affermare fino in fondo la differenza, era assolutamente necessario non essere indifferentisti, e quindi non sottovalutare quello che succedeva in quelle aree del mondo dove invece questi compiti arretrati si ponevano ancora, specialmente nei paesi ex coloniali.

Il problema è complesso e il tempo è poco, occorre soffermarci soltanto sugli aspetti poco toccati dalle nostre lettere e arrivare velocemente allo scopo del nostro lavoro. Stiamo giungendo, in un percorso ad anello, alla dimostrazione che il tipo di riunioni, di articoli, di circolari del partito degli ultimi tempi esprimeva una rottura con il metodo della Sinistra. Per riappropriarci del metodo bisognava riprendere il tipo di lavoro appena descritto il quale ci avrebbe permesso, dialetticamente, di migliorare la comprensione del metodo.

Ritorniamo quindi all'esempio che avevamo scelto: le ultime riunioni sul corso dell'imperialismo da noi criticate.

Dicevamo a questo proposito che quelle riunioni avevano certe caratteristiche perché il partito tutto aveva quelle caratteristiche. Infatti, quando si fotografa l'economia mondiale invece di trarne sequenze cinematografiche - cioè si analizza staticamente invece che dinamicamente - inevitabilmente si finisce per fotografare anche la società, i rapporti fra le classi, la sovrastruttura che regola questi rapporti.

Le basi per la teorizzazione della spaccatura fra due periodi, quello della ricostruzione teorica e quello della costruzione del partito, stavano tutte in questa fotografia della società. Una specie di razionalizzazione ricavata da un ragionamento positivista a-dialettico: la curva della lotta di classe non segue la curva dell'esplodere delle contraddizioni capitalistiche, della crisi ecc.; la curva proletaria è in ritardo rispetto alla curva economica borghese, quindi la rivoluzione avverrà quando le due curve coincideranno. In questo ragionamento è già implicita la conseguenza attivistica-volontaristica, dato che esso viene svolto parallelamente al discorso della crescita numerica e dell'organizzazione sempre più centralizzata del partito; compito di quest'ultimo è ormai quello di contribuire ad avvicinare le curve con la propria attività fra le masse (9).

I più anziani ricordano una circolare che "fotografava" i gruppetti allora extraparlamentari e ne ricavava uno statutino di intervento che serviva da direttiva generale al partito, come se da questo elenco si volesse trarre la conclusione che gli "altri" stavano già dandosi da fare, mentre "noi" eravamo ancora fermi all'elaborazione teorica (10).

Lavoro di partito senza partito formale

Per noi, se il lavoro di elaborazione doveva partire da una conoscenza approfondita del metodo e dei fondamenti teorici, come la legge del valore, la teoria della rendita, il comportamento del capitale nell'economia supersviluppata e mondializzata, anche il nostro atteggiamento verso il problema dell'organizzazione doveva essere conseguente e partire da una conoscenza approfondita di ciò che la Sinistra aveva detto a proposito.

Questo tipo di lavoro non lo rivendichiamo come un semplice tentativo di rimanere aderenti al ricordo della vecchia corrente, che sarebbe come trasformare la Sinistra in una classica icona inoffensiva. Lo rivendichiamo come lavoro di partito per rimanere entro la corrente, rappresentarla, continuarne non il ricordo ma il lavoro.

Fare lavoro di partito senza fondare un partito. Questo intento ha mandato in fibrillazione il muscolo cardiaco di molta gente che scambia il rigore con lo schematismo volgare. Fare un partito è facile: basta essere in un certo numero, avere la possibilità di pubblicare qualcosa, scrivere sulla testata delle pubblicazioni "Partito tal dei tali". E poi magari sentirsi a posto con la coscienza e le Tesi di Roma. La questione è per noi risolta prendendo a modello l'atteggiamento della Sinistra di fronte alla minaccia di espulsione nel 1925: non ci sentiremo obbligati - dissero i nostri compagni di allora - a fondare un partitino per quattro dirigenti a spasso. Da noi oltretutto, a differenza di altre sezioni, non si usava neppure avere dirigenti...

Certamente ci siamo chiesti e ci hanno chiesto che cosa eravamo, ma la risposta non può che essere la solita: siamo un gruppo di militanti che cercano di continuare il lavoro della Sinistra, quindi di essere, di far parte della Sinistra. Partito? Se si vuole usare il termine nell'accezione storica, come fece Marx nel 1860, va benissimo. Vero è che non abbiamo un nome; ma è una preoccupazione? Quando i compagni della sezione di Firenze furono espulsi e fondarono un partito fotocopia del vecchio, dovettero subire l'affronto, loro che rivendicavano il vero internazionalismo, di essere chiamati "i fiorentini", un appellativo comunale che si portano ancora appresso dopo vent'anni.

Facciamo un lavoro che è a disposizione di tutti. Dieci anni fa i compagni francesi dissero che anche se ci fossimo riuniti non saremmo stati altro che una società di propaganda. Si levarono alte grida di scandalo contro gli antipartito. La rivoluzione non è possibile senza partito, ma inventare partiti dove proprio non ce n'è l'ombra è operazione poco rivoluzionaria. La cosa, cioè il nome, non ci preoccupa più di tanto, abbiamo le Lettere, abbiamo i Quaderni, chi ci vuole conoscere sa dove siamo; avevamo influenza zero con il grande partito che voleva riunire le curve storiche, abbiamo influenza zero oggi. I rapporti con la classe non sono cambiati. Forse sono cambiati con la cerchia ristretta dei compagni che incominciano a conoscerci, ma è ancora presto per dirlo. Sta di fatto che una rete di contatti si è formata e che tra noi non vi sono velleità organizzativistiche (ma facciamo sforzi di organizzazione del lavoro comune).

Il problema è di capire esattamente che cosa è una controrivoluzione, che ruolo possono avere i militanti comunisti in essa. In fondo la controrivoluzione è la manifestazione dialettica dell'esistenza della rivoluzione che preme, sia questa controrivoluzione dispiegata in armi, sia dispiegata col suo potenziale di recupero economico e sociale. I militanti sono gli strumenti fisici della rivoluzione, anche se è vero che il partito storico, come dice Amadeo, può sopravvivere nei momenti peggiori in una biblioteca. Ma gli umani sono il tramite necessario per togliere i libri dalla biblioteca e farli circolare, rendere vivo il loro contenuto, dar vita ad una scuola, una corrente, come recitano le nostre tesi.

Il partito non è un organismo animale

Se noi fossimo nella posizione di coloro che dicono: noi siamo il partito, rappresentiamo la continuità, la rivoluzione avverrà per allargamento del nostro gruppo che diventerà partito ecc., non saremmo coerenti con quello che andiamo dicendo. Il partito non si forma a quel modo. Abbiamo sentito tante volte ripetere la teoria dell'embrione di partito che cresce e si sviluppa. La nostra concezione organica dello sviluppo del partito e della rivoluzione è diversa. L'embrione di un essere vivente è l'embrione di un individuo biologico che si sviluppa secondo le caratteristiche segnate nella memoria del suo codice genetico. Lo sviluppo di un organismo sociale è più complesso perché deve essere formato da più individui i quali interagiscono tra loro e con l'ambiente sociale esterno. Partito e rivoluzione sono due termini che non possono essere separati. Nell'articolo Attivismo Amadeo spiega bene cosa s'intende per dialettica del processo rivoluzionario quando afferma che non si può mai dire: c'è una situazione rivoluzionaria ma non c'è il partito. La teoria del ritardo della lotta di classe rispetto alla situazione di crisi cronica del capitalismo, è automaticamente teoria del ritardo del partito rispetto a una situazione che sarebbe rivoluzionaria se solo le masse si muovessero e se solo ciò comportasse lo sviluppo del partito. Queste impostazioni del problema seguono una logica pedestre, mentre noi abbiamo bisogno della dialettica per uscire dalle solite aspettative velleitarie.

La concezione lineare dello sviluppo del partito dallo stato embrionale a quello adulto è demolita anche in una lettera che Amadeo scrive ad un compagno, il quale gli rimprovera, nel 1950, di non partecipare alla vita militante del partito appena rinato dopo la guerra. Ebbene, Amadeo risponde che egli ha sempre militato nelle forme che la situazione permetteva; quello che rifiutava di fare era "generalare" su di una truppa i cui soldati credevano tutti di avere il bastone di gran maresciallo mentre non avevano neanche il senso della gavetta. La rivoluzione verrà, dice Amadeo, quando passerà ai proletari e ai militanti la manìa dei padreterni. Il vero militante non è chi pensa di aver comprato il biglietto personale per lo show della rivoluzione e si attende la soddisfazione del posto a sedere. Il vero militante è colui che capisce che la rivoluzione macina militanti, proletari e borghesi, colui che svolge la sua attività senza credersi il fondatore di un embrione che crescerà linearmente fino a prendere la sua forma definitiva.

La concezione dello sviluppo del partito da embrione a corpo adulto, sia che avvenga per produzione di cellule interne sia che aggreghi embrioni esterni (abbiamo sentito anche questa!), è in fondo in primo luogo una concezione gradualista bella e buona. In secondo luogo è una concezione meccanicistica che riduce la rivoluzione alla soluzione di alcuni sillogismi banali: dato che abbiamo il nostro patrimonio teorico, se agiremo in base ai suoi insegnamenti, allora ci sarà lo sviluppo del partito e, se ci sarà questo più la ripresa di classe, allora si aprirà la strada della rivoluzione.

La storia si svolge diversamente. I rapporti sociali sono difficilmente inquadrabili in un qualche espediente per leggere nel futuro, ma il nostro schema generale prevede almeno questo di certo: l'accumulo continuo di contraddizioni e di inceppamenti del meccanismo di accumulazione deve sfociare in una soluzione discontinua, in contrasti sociali improvvisi e, al limite, nella classica alternativa: o rivoluzione o guerra (11).

Chi fonda partiti oggi non fa lavoro di partito

Ogni gruppo internazionalista, ma anche trotzkista o di qualche altro ismo anticapitalista, pensa davvero di essere sulla giusta strada e di "fare" la rivoluzione un domani. Noi non pensiamo affatto che il partito della rivoluzione si sviluppi a partire da coloro che oggi "hanno ragione" tra i tanti. La storia dei partiti reali non è questa. Facciamo il nostro lavoro di militanti senza montarci la testa e senza immaginare di rappresentare chissà quale organizzazione. Invitiamo anche i nostri interlocutori ad avere il senso della misura, dato che il ridicolo non uccide, come dice il proverbio, e quindi permette la proliferazione di "grandi partiti mondiali" che lanciano proclami di fuoco verso un proletariato completamente ignaro della loro esistenza.

In fondo la nostra posizione rappresenta un paradosso logico che infrange la barriera della banale esistenza dei partiti-non-partiti. Infatti possiamo rivendicare la nostra attività come lavoro di partito proprio perché non abbiamo "fondato" un altro partito.

Non ci interessa sondare le posizioni e gli atteggiamenti altrui, anche perché per Amadeo "prendere posizione" significava sempre qualcosa di molto osceno (12). Ma è certo che nessuna delle organizzazioni conosciute agisce e lavora con la consapevolezza di rappresentare lo zero assoluto per quanto riguarda la rivoluzione. Agiscono e si esprimono "come se...".

Come se fossero partiti veri; come se avessero legami con le masse; come se vi fosse all'orizzonte una espressione di lotta di classe per quanto minima; come se qualcuno fosse in grado di recepire le roboanti parole d'ordine stampate su volantini e giornali. Questa finzione danneggia tutti, rappresenta un elemento scostante, allontana chi legge e chi ascolta, è un delirio che non può avere seguito se non tra chi ha bisogno di questa specifica piccola droga.

La propaganda e il proselitismo non sono attività missionarie e il nostro verbo non è una religione per iniziati. Il marxismo è una teoria scientifica dei processi storici, non ammette che ci si confronti su di esso con opinioni o particolari "posizioni". Il nostro lavoro non è un lavoro per una "causa". Questo lo lasciamo agli utopisti e agli anarchici. Il comunismo non è un obiettivo che "deve" essere raggiunto, ma il movimento reale che porta al superamento di ciò che abbiamo sotto gli occhi. Il partito comunista, dice il Manifesto di Marx, non è un partito particolare tra gli altri partiti proletari, e i comunisti non inventano principii particolari su cui modellare il movimento operaio. La teoria dei comunisti non si basa su idee o concezioni del mondo inventate da qualche riformatore del mondo. Essa è una espressione generale dei rapporti di fatto.

Lasciamo perdere gli altri. Noi abbiamo deciso di seguire gli originali e bisogna dire che non è facile. Essere della corrente storica della Sinistra non significa averne i libri in tasca, significa continuarne il lavoro. Per far questo bisogna impadronirsi di quello già fatto e spulciare i "semilavorati" che rimangono in eredità, a disposizione di chi voglia e possa portarli a compimento. Bisogna farlo senza pensare di essere gli unici al mondo che lo fanno. Può darsi che l'inizio di un lavoro riveli che le forze non bastano per compierlo. Ma è solo affrontandolo che le forze possono crescere e affinarsi. In fondo ci è successo proprio così. Il metodo funziona.

Irreversibilità della storia

Quando uscimmo per la prima volta con una pubblicazione, nel 1985, cioè con il Quaderno n. 1 sulla crisi storica del capitale senile, i temi affrontati volevano essere una risposta alla questione del metodo. Nella prefazione, il problema del partito non veniva affrontato con una semplice riaffermazione dell'esigenza dell'organizzazione, cosa che tutti fanno, ci mancherebbe; veniva affrontato dal punto di vista della dinamica storica che vede le prime forme organizzative cambiare man mano verso forme superiori, quindi dalle sette operaie alla Lega dei Comunisti, da questa alla definizione di Marx di partito storico che viveva intorno ai protagonisti indipendentemente dalla loro volontà organizzatrice (la Lega era morta e sepolta) e poi attraverso la Prima, la Seconda e la Terza Internazionale, fino alla concezione del partito mondiale con cui la Sinistra dimostrò già negli anni '20 la necessità di superare quella federazione di partiti pasticcioni che era il Komintern.

Il centralismo organico inteso quindi non come ricetta da utilizzare nei documenti e nella polemica con tanto di citazioni più o meno ortodosse, ma come processo materiale che fa cambiare verso la forma più perfetta le esigenze organizzative. Infatti esse non sono date una volta per tutte e la rivoluzione, come ben sappiamo, non è una questione di forme di organizzazione. Partito e classe e Partito e azione di classe sono testi del '21 e già ribadiscono questo concetto, ripreso nel dopoguerra nel Tracciato d'impostazione e in seguito nelle prime vere riunioni di partito.

Nell'introduzione del secondo testo sulla crisi del capitalismo senile è sottolineata la stessa esigenza di affrontare le questioni secondo una dinamica storica. Proprio nella prima pagina si fa l'esempio della fotografia e del cinematografo, esempio non inventato da noi ma riportato da Bordiga in Proprietà e Capitale allo scopo preciso di confutare le posizioni utopistiche e stigmatizzare tutti i processi mentali, quindi ideologici, che non riescono a giungere all'altezza dell'unità di teoria e prassi, cioè di scienza e azione.

Se invece di imparare i testi a memoria al solo scopo di fare dotte citazioni e riempire pagine di giornali e riviste, molti compagni capissero il significato profondo di quelle poche proposizioni che rappresentano i crocevia nevralgici di tutto il marxismo, sarebbero a posto per tutta la vita. Quattro righe delle Tesi di Roma sono sufficienti per polverizzare tutte le scemenze che abbiamo sentito in questi anni sul partito, il più delle volte dette per giustificare atteggiamenti e comportamenti ingiustificabili, utili solo a confondere giovani leve che non hanno bisogno di ascoltare vecchi tromboni (compresi noi) ma di prendere ossigeno direttamente dalle fonti. Diamine, stampiamo gli originali, se non siamo capaci di evitare fesserie, e teniamo ben separato quel che scrivevano i nostri maestri da quel che scriviamo noi, in modo che la gente ci possa mandare al diavolo, se sbagliamo, senza coinvolgere la dottrina.

Prima di dire che queste sono battute, chiediamoci quanti giovani hanno mandato al diavolo la Sinistra solo perché la identificavano con il partito dell'ultimo periodo, in grado di offrire solo ciò che il mercato sinistreggiante già offriva.

La dinamica del capitalismo inteso come modo di produzione che ha una freccia nel tempo, un suo nascere, un suo sviluppo e una sua crisi di sopravvivenza, implica che si studi non solo il meccanismo di accumulazione e i guai che esso provoca, ma anche il tentativo della classe borghese di far fronte a questi guai. Gli effetti sociali provocati da questo tentativo spiegano ad un tempo sia la virulenza dell'opportunismo, sia la difficoltà per il proletariato di scrollarsi di dosso la sua tutela. Come ben aveva visto Lenin analizzando l'imperialismo, il fenomeno dell'aristocrazia operaia ha radici profonde e non si può capire la società moderna se non spingiamo la nostra indagine su tutti i campi dove affondano tali radici, compreso quello della conoscenza e delle sue leggi.

Dialettica del processo di astrazione

Non è una questione puramente epistemologica. La conoscenza dei fenomeni implica che il soggetto conoscente astragga dalle troppe complicazioni che una società molto complessa gli getta fra i piedi. L'opportunismo è superficiale, la scienza marxista è onnicomprensiva ma sa discernere tra gli "invarianti" fondamentali e il "rumore bianco", cioè l'accavallarsi caotico dei sottoprodotti dell'accumulazione.

Ogni studio sul corso del capitalismo mondiale non deve quindi partire da una visione statica degli avvenimenti e dei processi brevi, ma da una visione globale che implica anche il maturare di rapporti di classe e il divenire della rivoluzione. Certamente c'è il pericolo di mettere troppa carne al fuoco e, se non si sa discernere un percorso coerente, si può finire per fare confusione, esattamente come si farebbe adottando una visione statica dei problemi e delle sovrastrutture. La sola via per uscirne è individuare i nodi essenziali del problema a partire dalla legge fondamentale del valore e di lì, per approssimazioni successive (a un livello sempre più basso di astrazione) giungere ai fatti attuali, alla cronaca minuta. O meglio, a quella che potrebbe sembrare cronaca minuta ed invece è lo specchio di contraddizioni profonde, come le guerre che travagliano aree poco conosciute del mondo o come l'agitarsi politico nei maggiori paesi dopo il crollo dell'Est.

Nel nostro primo Quaderno abbiamo accostato i due procedimenti dinamici, quello della realtà storica in movimento, e quello dell'astrazione che risale ai meccanismi elementari del capitalismo. Nei lavori successivi abbiamo mantenuto lo stesso criterio e i compagni lo verificheranno nel Quaderno sull'accumulazione. Nella lettera che abbiamo distribuito (Il 18 brumaio del partito che non c'è) si studia la politica italiana nel quadro della crisi capitalistica e dei provvedimenti che occorre prendere. Non c'è bisogno di aspettare che la borghesia li prenda effettivamente. Le nostre formule tracciano con sicurezza inesorabile l'unica strada che la borghesia dovrà percorrere; se non ci lanciamo a fare della futurologia, è perché non c'è bisogno di prevedere una "svolta fascista" dato che il fascismo è il moderno modo di dominio della borghesia e non è affatto cessato nella sostanza dal 1922 (13).

Sempre nel primo Quaderno, si affermava che le crisi non sono tutte uguali. Come esiste una maturazione irreversibile del capitalismo verso la sua scomparsa, così le crisi che lo punteggiano si svolgono con caratteristiche derivanti dal suo grado di maturazione. Le crisi odierne non rassomigliano affatto a quelle del secolo scorso, Engels lo notava già poco prima della sua scomparsa e Trotzky riprende il concetto nel 1921. I cicli abbastanza regolari delle crisi ottocentesche, acuti, con il punto di partenza in settori ben definiti come il carbone, il ferro, il grano, le banche, hanno lasciato il posto a cicli più sincopati, dove gli effetti acuti sono smorzati dalla generalizzazione del capitalismo moderno in tutti i settori e in tutti i paesi. Insomma, la crisi si cronicizza. Quando abbiamo usato questo termine sembrava si fosse aperto il cielo e ci sono piovuti addosso tuoni e fulmini. Eppure il termine è di Engels, vedete che anche i grandi citatori hanno qualche lacuna! Dopo il 1929 la faccenda si fa veramente seria per il capitalismo. Lo stesso Keynes aveva capito che l'intervento dello Stato sarebbe stato indispensabile e non più evitabile in futuro. Il fatto è che proprio l'intervento dello Stato permette di smussare le cuspidi delle crisi e renderle più morbide. Quando abbiamo analizzato il crack dell'87, il Bloody monday (14), abbiamo cercato di mettere in risalto che una catastrofe peggiore, in cifre, di quella del 1929, in fondo non aveva provocato un terremoto mondiale paragonabile.

Lenin parla di imperialismo come fase suprema del capitalismo. Ora, fase suprema non ha che un significato: più in alto non si va, indietro non si torna. Espedienti migliori dell'intervento dello Stato come regolatore dell'anarchia capitalistica non esistono; d'altra parte non si tornerà mai più ad una situazione anteriore al 1929. La Prima Guerra Mondiale ha prodotto il keynesismo, il 1929 l'ha fatto applicare, la Seconda Guerra Mondiale ne ha eliminato gli aspetti poco estetici fascisti, il dopoguerra l'ha sancito per sempre in un nuovo fascismo più o meno democratico. Finché dura il capitalismo il 18 Brumaio, cioè il bisogno di rendere l'esecutivo autonomo dalla chiacchiera parlamentare, è una costante storica da quando apparve per la prima volta a metà del secolo scorso. Sappiamo che Marx, lungi dall'indignarsi per lesa democrazia, la accolse al grido: ben scavato vecchia talpa!

Note

(1) Il termine éclatement, che vuol dire letteralmente scoppio, esplosione, fu adottato per la prima volta da coloro che, pur senza esserne consapevoli, liquidarono il Partito Comunista Internazionale nel 1982.

(2) Ricordiamo che Torino fu l'unica sezione espulsa con atto formale.

(3) Il Partito Comunista Internazionale era ben poco formalizzato prima che insorgessero le manie organizzativistiche, come del resto è anche sottolineato nelle sue ultime tesi. Si trattava, e si tratta, di resistere alla controrivoluzione contribuendo alla salvaguardia e allo sviluppo di una corrente e di una scuola marxista non degenerata.

(4) Amadeo Bordiga scrisse 136 articoli di una serie chiamata "Sul filo del tempo" mettendo in evidenza la dinamica storica che lega i fatti presenti a quelli passati e futuri.

(5) Il fenomeno era già ben conosciuto, tanto che nelle Tesi caratteristiche del 1951 si diceva: "Per accelerare la ripresa di classe non sussistono ricette bell'e pronte. per fare ascoltare ai proletari la voce di classe non esistono manovre ed espedienti..."

(6) La discussione sul problema dell'invarianza si fermò a queste prime considerazioni, ma fu ripresa in occasione di un lungo incontro fra compagni italiani e tedeschi in Germania. In questa occasione risultò evidente che l'allargamento della discussione è positivo in ogni caso, sia che produca una aggregazione, sia che produca una più precisa delimitazione. Nel caso specifico, possiamo dire che l'incontro fra l'esperienza politica "italiana" e la ricerca "tedesca" ha trovato un denominatore comune nell'indagine scientifica dei fenomeni naturali, di cui quelli economici e sociali sono solo una parte. Espandendo l'orizzonte del lavoro si verificano potenzialità nuove, essendo il risultato dialetticamente maggiore della somma dei suoi fattori.

(7) Su questo aspetto vi sono state discussioni piuttosto oziose: i problemi sono nati dopo la morte di Bordiga e a causa di essa? Oppure lo stesso Bordiga, come si afferma da più parti, prese le distanze dal partito prima ancora della malattia che portò alla sua scomparsa? E ancora: quale "responsabilità" ebbe il Centro in quella che fu chiamata la "degenerazione" del partito? Queste discussioni sono oziose, e noi abbiamo sempre cercato di arginarle, perché non tengono conto di uno degli insegnamenti più importanti proprio di Bordiga: "La organicità del partito non esige affatto che ogni compagno veda la personificazione della forza partito in un altro compagno specificamente designato a trasmettere disposizioni che vengono dall'alto. Questa trasmissione tra le molecole che compongono l'organo partito ha sempre contemporaneamente la doppia direzione e la dinamica di ogni unità si integra nella dinamica storica del tutto". Queste poche righe tratte dalle Tesi di Milano troncano ogni discussione sulle colpe, le responsabilità, gli effetti della morte dei capi ecc. La funzione del capo è anche quella di essere ridotto a gregario se traligna. Quando ciò non succede, il difetto non è soltanto nel capo ma nella mancanza oggettiva della doppia direzione.

(8) Nella lettera in questione si individuava nell'area rappresentata da Segni la possibile nuova formazione politica, dato che si era fatta promotrice dei cambiamenti istituzionali in linea con quanto andavamo dicendo. La realtà, proiettando sulla scena la coalizione berlusconiana, molto più dirompente del progetto Segni rispetto al vecchio apparato sovrastrutturale, ha poi dimostrato che eravamo stati fin troppo cauti nel descrivere il bisogno di cambiamento della borghesia. Mentre scriviamo questa nota è in atto il tentativo di dar vita ad un governo di soli tecnici, tentativo non riuscito pienamente al governo Ciampi. Il "governo dei tecnici" non è solo una formula, ma un reale accantonamento dei partiti e della politica democratico-parlamentare.

(9) Questa strana teoria compare per la prima volta sulla Circolare n. 9 del 15 aprile 1971.

(10) Cfr. Circolare n. 10 del 15 ottobre 1974.

(11) I fenomeni sociali non sono ancora stati affrontati dalla scienza borghese per ovvii motivi di conservazione di classe, ma altri fenomeni naturali assai simili, come la dinamica dei fluidi, la morfogenesi e le "catastrofi" stanno trovando la loro espressione matematica.

(12) Riproduciamo un ironico biglietto inviato da Bordiga ad alcuni compagni nel 1953: "Si intima immediatamente ai compagni di lingua quasi francese di astenersi dalle stimolazioni patologiche di cui segue la lista: 1) Testi - che non potrebbero essere che testicoli; 2) Prospettive - nell'oscurità totale; 3) Documenti - sullo zero e le sue potenze; 4) Discussioni - che conducono a dissensi sul nulla; 5) Dibattiti - che finiscono nella sregolatezza; 6) Analisi - del vuoto assoluto; 7) Garanzie - sull'attivo della bancarotta; 8) Congiuntura - favorevole a prenderla nel culo; 9) Posizioni - atte alla stessa operazione".

(13) L'esperimento berlusconiano sta dimostrando che il fascismo è nello stesso tempo indispensabile (autonomia dell'esecutivo) e superato (rappresentanza attraverso il partito politico borghese). La borghesia soffre della contraddizione fra l'esigenza di governare attraverso provvedimenti tecnici e quella di esprimersi attraverso il dominio politico.

(14) Lettera ai compagni n. 21, "La legge del valore e la sua vendetta", raccolta con altre due lettere sulla crisi del capitalismo in Il crollo del falso comunismo è incominciato all'Ovest, Quaderno n. 4, Torino, novembre 1991.

Lettere ai compagni