37. Utopia, scienza, azione (3)
Rapporti all'incontro tra compagni e lettori. Roma, 25-27 aprile 1997

Marx e le forme fenomeniche della rivoluzione

Noi che siamo sempre accusati di essere dei teorici, smentiamo tutti e questa volta vogliamo fare i pratici. Engels, che era un uomo pratico, esortava: piantatela di fare delle enunciazioni e dei proclami a vanvera, quando lanciate una parola d'ordine dovete dire, immediatamente dopo, come diavolo la volete realizzare, con quali strumenti e con chi. Per "fare" una rivoluzione, come si suol dire, ci vogliono delle forze. Chi la fa? Marx era ancora piccolo quando Owen tentava i suoi esperimenti e non aveva ancora sistemato in via teorica il fatto che, attraverso un movimento reale, la rivoluzione la "fa" una determinata classe contro una determinata altra. Il problema nostro questa mattina in rapporto al trinomio utopia-scienza-azione è: ma questa classe, come la "fa" la rivoluzione? Ricordiamo che per Marx in un primo momento il proletariato manifesta il suo potenziale rivoluzionario col tentativo di conservare l'esistente. Generalizzando i termini della questione: l'umanità tende a conservare le conquiste raggiunte. Ed è solo tentando di conservare tali conquiste che si accorge di dover spezzare alcune forme entro cui esse si applicano e operano. La classe operaia si è sempre comportata esattamente così, senza saperlo, senza che nessuno lo teorizzasse, ben prima quindi che Marx ne desse una spiegazione materialistica nel 1847 contro Proudhon.

Gli operai che videro per la prima volta il posto di lavoro minacciato dalle macchine, prima di tutto spaccarono le macchine stesse, senza badare se erano o non erano una rappresentazione dello sviluppo rivoluzionario delle forze produttive. Così i minatori inglesi qualche anno fa, di fronte alla chiusura dei pozzi peggiori del mondo, lottarono per tenerli aperti senza pensare che lo stesso sviluppo rivoluzionario delle forze produttive ne aveva decretato la chiusura.

Allora torniamo ad Engels. Se noi dicessimo: difesa del posto di lavoro, come saremmo collocati? Come potremmo dimostrare "come si fa"? Spacchiamo le macchine che producono troppo? Od occupiamo le fabbriche che chiudono? Nel primo caso torneremmo alla fine del '700; nel secondo ci fregheremmo da soli. Ma andiamo avanti per rispondere alla richiesta pratica di cosa fare in certi frangenti. Abbiamo percorso la strada dell'utopia, abbiamo visto che anche questa era condizionata dalla dinamica dello sviluppo delle forze produttive e adesso dobbiamo passare alla scienza, cioè alla comprensione dei fenomeni e alla soluzione concreta dei problemi. Abbiamo detto "soluzione concreta", facciamo contenti i nostri critici. Certo potremmo "fare" grandi cose se vi fosse una vita sindacale del proletariato, se vi fosse la sua organizzazione politica... Invece l'umanità difende le conquiste raggiunte, da vera reazionaria, nonostante i nostri proclami rivoluzionari. E i proletari non sono da meno, lottano addirittura per poter mantenere il posto di lavoro a condizioni inferiori a quelle raggiunte. Non parliamo poi della borghesia. Non c'è sinistro che abbia evitato di lamentarsi della sterzata a destra dei governi occidentali, che non abbia pianto sull'attacco alla classe operaia, sull'eliminazione dello stato sociale, sulla privatizzazione dell'economia, ecc. Eppure in nessun paese occidentale vi sono stati cambiamenti sostanziali da questo punto di vista. E inoltre la tendenza generale è quella di mandare partiti di sinistra a vedersela con la crisi dovuta alla "globalizzazione" dell'economia.

È a questo punto che il nostro tradizionale critico, che è anche un tradizionale attivista, non capisce più niente e si dispera, si sente tradito rispetto alle sue aspettative. Non aveva letto che la classe operaia è la classe rivoluzionaria? E dov'è? Che abbiano ragione i borghesi sulla morte del comunismo? Di fronte a ciò non possiamo vagheggiare "forme di lotta" che non ci sono. Non possiamo fare una critica luddista al robot né chiuderci come topi in trappola dentro miniere chiuse o fabbriche fallite per difendere un lavoro che è bene sia sparito.

La compagna prima diceva che il nostro lavoro ha aspetti duplici: siamo chiusi riguardo alle questioni fondamentali e nello stesso tempo aperti nella discussione con chi ci avvicina; non abbiamo velleità fondatrici di partiti ma cerchiamo di lavorare con metodo di partito; vediamo le cose dal punto di vista più generale possibile ma ci serve individuare il problema particolare. Siamo astratti, schematici, dogmatici e anche settari, come dice il titolo di una nostra Lettera, ma non abbiamo nessuna intenzione di librarci nella stratosfera e perdere il contatto con la realtà terrestre. Il fatto è che l'astrazione e la capacità di schematizzare è legata alla possibilità di risolvere problemi pratici.

Se Marx a 19 anni aveva individuato il problema fondando l'analisi dei fenomeni sociali sui metodi utilizzati dalla scienza della natura fisica, è evidente che noi non possiamo tornare indietro e basare la nostra azione sulle interpretazioni soggettive della realtà come tutti fanno di solito. Se parliamo di rivoluzione, di movimenti sociali, dobbiamo adottare gli stessi processi di astrazione adottati dalla matematica, dalla fisica, dalla scienza dell'informazione. Ma non si può accusare di "astrattismo" o di "schematismo" chi faccia propri questi metodi quando essi sono adottati perché non si possono risolvere diversamente problemi pratici. Lenin, che era molto più pratico di tutti i praticoni leninisti, era un maestro di astrazione. Alla stazione di Finlandia, con in mano i fiori offertigli dal governo provvisorio, salta sull'autoblindo e saluta l'avanguardia della rivoluzione mondiale. I presenti lo prendono per pazzo. Ma non si sarebbe potuta "fare" la rivoluzione proletaria in Russia se l'argomento fosse stato maneggiato dal punto di vista delle questioni russe.

Non è scopo di questa riunione demolire tutte le cose che sono state dette contro la nostra corrente e contro di noi. Ma se siamo qui per parlare di rivoluzione, se dobbiamo dare un senso alla nostra esistenza futura, se siamo convinti che si imbocca una strada già tracciata, dobbiamo senz'altro fare opera "didattica", perché l'entità della distruzione avvenuta anche tra le nostre file è grande, come ognuno che non sia fuori di testa può constatare. Certo, anche nei confronti di noi stessi. È la rivoluzione che c'insegna: poveretto quel fesso che s'immagina di insegnare alla rivoluzione. È normale che, occupandoci di tante cose, a volte non riusciamo a tenere il filo, perché le forze non sono certo quelle di un partito sviluppato. L'importante è tener d'occhio la bussola, basarci su quei punti che la nostra storia ha già individuato come fondamentali, gli unici a garantire soluzioni.

Terminiamo per ora con una estensione di quell'unica citazione di Marx su cui abbiamo costruito un po' di storia del processo rivoluzionario. Prima l'abbiamo riassunta, ora leggiamola per esteso:

"Proudhon confonde le idee con le cose. Gli uomini non rinunciano mai a ciò che hanno conquistato, ma ciò non significa che essi non rinuncino mai alla forma sociale in cui hanno acquistato determinate forze produttive. Tutto al contrario. Per non essere privati del risultato ottenuto, gli uomini sono forzati a modificare tutte le loro forme sociali tradizionali, non appena il modo del loro commercio [della loro produzione e riproduzione] non corrisponde più alle forze produttive acquisite" (11).

Il lungo passaggio dall'utopia alla scienza dimostra che anche gli utopisti in fondo non erano dei semplici vaneggiatori. Tendevano a conservare le cose migliori della storia proiettandole in sistemi astratti disegnati sulla carta. Ma non potevano conservare il meglio senza distruggere "le forme sociali tradizionali" che non corrispondevano più allo sviluppo delle forze produttive. Gli utopisti erano dunque dei distruttori di catene. Marx inizia la sua critica dell'economia politica dimostrando che distruggere catene è esattamente ciò che bisogna fare per liberare le forze produttive. Egli conclude il Manifesto del partito comunista con lo stesso concetto di liberazione applicato alla classe operaia: proletari, non avete da perdere che le vostre catene. Prima ancora aveva detto che anche la filosofia non poteva realizzarsi senza distruggersi. Il suo concetto di filosofia è noto: essa ebbe il compito di interpretare il mondo; si tratta ora di cambiarlo, quindi anche la filosofia è una catena che va distrutta. Noi ci siamo prefissi un compito modesto e grande allo stesso tempo: quello di conservare un patrimonio teorico e un insegnamento pratico grandiosi. Ci siamo accorti che, per far questo, anche noi nel nostro piccolo siamo costretti a distruggere catene, involucri soffocanti in cui tale patrimonio è stato rinchiuso.

PARTE SECONDA: AZIONE

"Proudhonismo risorgente e tenace"

Riprendiamo dalla frase citata è utilizzata da Marx contro Proudhon. Quest'ultimo si presenta come rivoluzionario ed è convinto di essere il portavoce di una politica concreta per risolvere problemi concreti. Perciò inventa un sistema politico ed economico che tutti dovrebbero adottare perché secondo lui è così universale da resistere a qualsiasi prova. Marx, non appena analizza l'opera di Proudhon, lo classifica immediatamente più indietro di Owen, di Fourier e degli utopisti. Perché, una volta che le scienze umane sono giunte a nuovi metodi per chiarire determinati processi, non ha più senso ritornare a metodi precedenti. In questo Proudhon è un rimasuglio del passato: nel senso che non fa certo opera di conservazione al fine di distruggere le forme presenti. Non vuole rompere i limiti, le catene del presente al fine di proiettarsi nel futuro. Egli fa opera di conservazione per conservare quello che c'è. In quanto "vuole" un futuro, con ciò stesso blocca la cinepresa rendendola semplice testimone del passato. Anzi, il passato è nel film, la cinepresa non serve più.

La dialettica implicita nel concetto di Marx non è in fin dei conti un'astrusità incomprensibile. Facciamo un esempio. Ieri eravamo in piazza, in margine ad una manifestazione antifascista. Ovviamente ci era del tutto estranea, eppure siamo contenti di aver visto e ascoltato, perché non si impara mai abbastanza. Oggi l'antifascismo è un po' spiazzato, essendo al governo e dovendo applicare politiche fasciste; ma che importa, alla fine ne è uscita una manifestazione con qualche migliaio di persone. Con tutta evidenza persistono movimenti molecolari che impediscono la morte termica della società. Almeno per quanto riguarda i giovani il 25 Aprile sembrava un pretesto, ma i fatti peruviani avevano fornito un minimo comun denominatore democratico. In un angolo tenevano comizio i commemoratori ufficiali di Rifondazione: un bell'esempio di conservazione per la conservazione, un'ennesima conferma dell'ultrareazione di certi elementi che osano ancora richiamarsi al comunismo.

L'osservazione di Marx ha una potenza dirompente pratica; i dati di fatto da cui scaturisce sono diffusi come l'aria che respiriamo. L'oratore (in questo caso un'oratrice), dopo aver fatto il suo bel piagnisteo sulla regolamentare lapide partigiana imbrattata dalla regolamentare vernice fascista, lanciava il grido di dolore per la caduta dei valori morali in questa società materialista, valori ormai monopolio della Chiesa cattolica con conseguente vuoto nella sinistra, un vuoto che bisognava riempire. Come i cattolici che avevano successo nell'appropriarsi di quei valori, così la sinistra doveva raccogliere la bandiera della solidarietà, dello stato sociale in via di distruzione. Ci veniva in mente Togliatti, ma eravamo addirittura a un gradino più basso. Infatti il buon Palmiro si era limitato a sostenere che la Resistenza rappresentava per l'Italia il nuovo Risorgimento, la cui bandiera era stata lasciata cadere nel fango dalla borghesia e compito del PCI era quello di raccogliere dal fango il tricolore e riportarlo agli onori popolari. Pensavamo fosse il massimo, ma qui a Roma, nel 1997, abbiamo verificato che per l'opportunismo il fondo non esiste. Nel suo precipizio verso il basso non lo raggiunge mai. E quindi abbiamo sentito gridare con commozione: "Dobbiamo essere i propugnatori di una nuova religione laica!". Applausi.

Sarà un piccolo esempio. Sarà una gaffe individuale. Ma come non pensare che vi è invece coerenza? Togliatti aveva aperto la strada, e prima di lui Stalin con la grande guerra patriottica. E prima ancora coloro che condannarono la Sinistra in nome del socialismo in un solo paese. Non c'è limite alla dégringolade (12), come la chiamò Amadeo. Ma pensate un po', la religione. Cattolica o laica che sia, non importa: questo è il concetto che si instaura nella mente di chi incomincia a pensare che il comunismo sia una missione. Fortunatamente l'individuo singolo conserva per conservare, ma l'umanità nel suo insieme deve distruggere per conservare i risultati raggiunti e andare oltre.

Ora, nella seconda parte di questa relazione noi vedremo, a partire proprio dall'atteggiamento della classe operaia, che questa dialettica del conservare-distruggere in effetti funziona. E ci può anche aiutare a capire che cos'è l'azione per i comunisti, cioè che cosa essi debbono "fare". Alcuni ricorderanno che abbiamo criticato in una nostra Lettera la manìa di porsi la domanda: che fare? per poi dare una risposta che ognuno (od ogni gruppetto) elabora a modo suo. Si riecheggia Lenin, dicemmo, ma lo si interpreta ben male. Lenin sapeva benissimo che cosa fare. Erano gli immediatisti dell'epoca che non lo sapevano.

Ogni comunista, sulla base dell'esperienza di un secolo e mezzo di lotta di classe organizzata, di movimento comunista, di quella dinamica sottoposta alla nostra cinepresa dovrebbe sapere che cosa fare e dirlo a quelli che non lo sanno ancora. Comunque, siccome la dégringolade c'è stata, e non è finita, è inevitabile che ci dedichiamo a queste cose.

Proudhon e la conservazione tout-court

Come si è coerentemente rivoluzionari in un mondo conservatore? In che modo si avverte il passaggio dalla conservazione-conservazione al tentativo di mantenere conquiste che non è possibile mantenere senza distruggere la vecchia forma sociale? Per non essere dei velleitari che scambiano i propri desideri con la realtà occorre partire dalle cose che il mondo ci mette a disposizione. Per quanto ci facciano storcere il naso.

E allora mettiamo insieme la citazione di prima con quella dal Manifesto letta dalla compagna durante la presentazione, là dove Marx dice che i comunisti non si basano sulle idee di un qualche rinnovatore del mondo ma sulle manifestazioni generali dei rapporti effettivi di classe, quelli esistenti oggi e non domani, quelli del movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi, così com'è. Ecco che allora ci corazziamo contro le forze che ci trascinano verso il terreno idealistico e ci poniamo su di un terreno su cui è difficile cresca la pianta delle nuove religioni laiche.

Abbiamo preso dei concetti da un testo della Sinistra (Proprietà e Capitale) e li abbiamo collegati ad un testo di Engels (Il socialismo dall'utopia alla scienza). Poi abbiamo operato un ulteriore collegamento con Marx, il quale dimostra che l'utopia muore come pre-scienza ma sopravvive come opportunismo. Con Proudhon abbiamo effettivamente il vero esponente e rappresentante della conservazione travestito da rivoluzionario. Di qui in poi l'opportunismo rappresenta l'ideologia della classe dominante infiltrata, come fattore materiale agente attraverso uomini e organizzazioni, all'interno delle file proletarie. In seguito a questo fenomeno il movimento rivoluzionario sarà sconfitto non tanto dalle armi dell'avversario quanto dalla presenza dell'ideologia di quest'ultimo all'interno delle organizzazioni proletarie.

Marx dimostra che Proudhon non ha più scuse per inventare modelli ideali. Dato lo sviluppo delle forze produttive, dati i risultati raggiunti, non è più concesso a chi ritenga di militare nei ranghi della rivoluzione, di fabbricare ibridi fra la vecchia forma e quella nuova. Proudhon sa che vi è stata una successione di forme sociali e lo scrive; è consapevole che vi è stato un progresso nelle forze produttive, e lo scrive; sa pure che gli uomini non sono una massa indistinta, al massimo divisa tra chi ha il potere o chi non lo ha, tra ricchi e poveri o cose del genere; sa che l'umanità si divide secondo classi antagoniste e anche questo registra nei suoi scritti; sa addirittura che gli uomini non sono stati coscienti del loro divenire materiale e che sono le forze materiali che li muovono piuttosto che non le idee, e anche questo scrive. Ma alla fine si appella alla coscienza universale per cambiare la società. Per Proudhon gli uomini devono "volere" la nuova società e "rifiutare" la vecchia. Essendo egli il prodotto ibrido di un'epoca di transizione dall'utopia alla scienza, il suo socialismo ha una parvenza di materialismo, e Marx non può far altro che demolire questa parvenza per mettere in luce la vera sostanza piccolo-borghese.

Per noi la conclusione è che, essendo tutto ciò già ben conosciuto, studiato, sviscerato in mille anatomie da Marx in poi, non è più concesso al militante di oggi appellarsi alla coscienza universale, alle idee innate, alla giustizia o a categorie del diritto.

Se un militante che si definisce rivoluzionario registra una volta per tutte che i movimenti sociali avvengono attraverso spinte materiali e in base allo sviluppo delle forze produttive, non può più pensare che la sua propria azione sia finalizzata alla realizzazione di idee. Questa è la fondamentale critica contenuta in La miseria della filosofia di Marx contro Proudhon: il militante odierno non può più tornare indietro senza cadere nell'opportunismo. Invitiamo calorosamente i compagni a studiare la lettera di Marx ad Annenkov su Proudhon. Non stupitevi della nostra insistenza, ma il Manifesto è basato su questa costruzione originaria e tutta la critica di Marx al capitalismo è basata su questo dato di fatto, come dimostra il brano che leggeremo tra poco dai Grundrisse e che regge questa seconda parte della relazione. Tutta l'opera di Marx tende a dimostrare che è il movimento reale quello che ci interessa, non un modello da raggiungere. Ma andate a chiedere che cos'è effettivamente il comunismo a mille militanti che si definiscono comunisti, se li trovate, e vedrete quanti vi daranno una qualche versione aggiornata della storia di Mosé e della Terra Promessa!

Da quanto abbiamo detto fin qui, ci vuol poco a capire che noi sosteniamo la necessità di basare tutto il nostro lavoro di cosiddetta analisi della situazione sul movimento reale inteso come lavorìo del comunismo oggi e non come agitarsi di gruppi, partiti e battilocchi. L'azione, come vedremo, non può che essere conseguente. Tutti coloro che hanno partecipato all'attività di lotta nelle manifestazioni di forza o di debolezza del movimento proletario sanno che questa è l'eterna questione su cui si scannano gli immediatisti: la famigerata analisi della situazione concreta da cui dovrebbe derivare l'azione. Non a caso Bordiga, che conosceva bene le radici materiali della critica alla Sinistra, intitola Utopia, scienza e azione il capitolo che abbiamo ricordato prima. Tre elementi posti in sequenza come separati dal tempo, ma dialetticamente intrecciati. L'utopia è stata il prodotto di una realtà e nello stesso tempo un espediente per eliminarne idealmente i difetti; la scienza ha superato l'utopia integrandola, dato che anch'essa è il prodotto della realtà; giunti ad una determinata fase storica utopia e filosofia si confondono e devono essere superate dalla scienza. Ma sia l'utopia che la filosofia (e in un certo senso anche la religione) sono scienza in epoche del passato. Non si risolve nulla con una contrapposizione, con separazioni nette fra queste epoche della società umana: la nostra concezione del mondo rifugge lo spezzettamento della realtà quando si tratta di osservarla nel suo divenire. Ancora oggi, dato che secondo Marx non abbiamo superato la preistoria dell'umanità, religione, filosofia, scienza della natura e scienze sociali sono separate nella stessa misura in cui si mescolano tra loro. Certamente si inquina la scienza della natura con la mistica, più che non si superi la mistica con la scienza della natura.

D'altra parte possiamo ricorrere a separazioni arbitrarie quando sia necessario, purché si sappia esattamente ciò che si sta facendo. La scienza non potrebbe giungere a risultati via via più sicuri se non fosse in grado di costruire modelli astratti, quindi isolati dalla complessità in cui avvengono i fenomeni indagati. Tutto questo per dire che non esiste modo di far funzionare la formuletta: la teoria è una guida per l'azione. Oppure quell'altra: l'azione precede la teoria. Gli eterni dibattiti sul rapporto teoria-azione, programma-tattica sono per la maggior parte aria fritta, una sterile ricerca sulla priorità dell'uovo o della gallina.

Pensiamo alla fisica: nessun fisico oggi perderebbe del tempo a dibattere sulla tattica del processo produttivo. Il mondo borghese ha superato la filosofia dove questo serviva alla sua prassi. Con la scienza la borghesia ha cambiato il mondo, ha costruito macchine e le ha inserite nel processo di produzione e riproduzione della specie. La scienza è servita a conoscere il mondo fisico ma anche a produrre oggetti, sistemi di oggetti e informazione organizzata: la scienza è quindi un elemento di produzione, così come è un elemento di produzione il linguaggio che è servito a dare una struttura di comunicazione alla scienza. All'interno di questo sistema integrato di conoscenza la borghesia non discute più su quale possa essere la tattica idonea: adopera i risultati raggiunti e li affina. Se con Marx diciamo che all'interno della produzione socializzata vi è un flusso di oggetti e di informazione che non ha bisogno di basarsi sulle categorie di valore, questo risultato è già un qualcosa che neppure noi mettiamo più in discussione. Siamo dunque in presenza di una unità di teoria-prassi realizzata, perfettamente compatibile col comunismo inteso come processo e non come modello.

Lenin contro il dilettantismo

Se i comunisti avessero oggi la possibilità di aderire ad una scuola di pensiero e di azione generalizzata, cioè al partito rivoluzionario, non starebbero a discutere sul rapporto teoria-prassi: lavorerebbero semplicemente per il raggiungimento di risultati futuri. Ecco perché noi insistiamo tanto sul fatto che non è il "dibattito" che ci fa avanzare, ma il lavoro comune su temi precisi svolto sulla base di un patrimonio riconosciuto. L'azione è il risultato dell'applicazione fisica e pratica dei risultati raggiunti. Questi risultati vanno in primo luogo difesi e questo oggi è forse il 90 per cento del nostro lavoro, ma abbiamo visto che Marx ci insegna ad andare oltre: è proprio nella difesa di questi risultati che si scopre il modo per andare oltre a quello che si è raggiunto. È il lavoro che porta risultati nuovi, non la chiacchiera e neanche il vagabondaggio alla ricerca del che fare. La chiacchiera ha bisogno soltanto di due individui cogitanti e di due lingue in moto, mentre il lavoro ha bisogno di una struttura fatta di più uomini che si coordinano e di comunicazione organica. Prendete Lenin, studiate la sua concezione del partito, badate a come intende la sua struttura, analizzate che cos'è per lui il cantiere di lavoro con il giornale come strumento principe di comunicazione in tutti i sensi e avrete un'idea di che cosa si può imparare dal comunismo come movimento reale. Non c'è neppure bisogno di leggere fra le righe, perché Lenin è esplicito: imparate dalla fabbrica e producete rivoluzionari di professione.

Il rivoluzionario di cui parla Lenin non è certo un funzionario stipendiato che dalla fabbrica impara solo il caporalismo dispotico e la burocrazia soffocante. È un compagno che lavora per raggiungere risultati futuri sulla base di quelli passati. Se non c'è ancora una struttura di lavoro generalizzata, una scuola, una corrente, non pensa di andare direttamente a muovere le masse le quali, scusate tanto, non si accorgono neppure della sua presenza. La prima cosa che si chiede il rivoluzionario coerente è perché siamo in questa situazione, per quale motivo la batosta controrivoluzionaria perdura, se per caso non vi siano profondi motivi materiali e se per caso non vi siano stati anche errori politici. Ecco che allora uno studio - per esempio - sulla distribuzione del plusvalore nella società e sugli errori politici passati non è più un esercizio accademico o premessa al dibattito ma lavoro come quello dell'ingegnere che si appresta a costruire un ponte. Lo studio degli errori è nello stesso tempo studio degli antidoti agli stessi.

Certo, i fatti sociali sono talmente più complicati della costruzione di un ponte che l'esempio avrebbe bisogno di un mucchio di integrazioni. Per esempio le rivoluzioni e i partiti non si costruiscono ma si dirigono. Per esempio il fattore tempo non è conosciuto, cioè non si sa quando si può innalzare l'armatura e gettare il cemento. Ciò nonostante Amadeo utilizza questo concetto per descrivere i compiti del partito nella rivoluzione. Il partito è disegnato dai compiti che dovrà svolgere in futuro. Un partito di avvocati della frase è un non-partito, il futuro ha bisogno di un partito di ingegneri (13).

Ciò non è in contraddizione con l'azione quotidiana degli uomini, i quali non "fanno" la rivoluzione per conquistare il loro paradiso o la loro terra promessa su indicazione di qualche bibbia o vangelo, ma, immersi nei loro problemi, nello scambio dei loro prodotti, nella produzione e nel tentativo di vivere meglio o difendere ciò che è in pericolo in milioni di microcosmi più o meno individuali, partecipano a quel momento reale in quanto distrugge lo stato di cose presente, Marx chiama comunismo. Nessuno individualmente "pensa" di "fare" la rivoluzione nel difendere i risultati generali che l'umanità ha raggiunto. Eppure è proprio la banale vita quotidiana che contiene i germi della polarizzazione sociale prevista da Marx e che porterà alla distruzione dei vecchi vincoli alla forza della produzione sociale.

Tutto ciò si può capire soltanto se riusciamo a non separare gli elementi che compongono il binomio teoria-prassi: non esiste una teoria immanente, separata dalla prassi quotidiana che qualcuno possa applicare. Esiste una prassi degli uomini per la loro riproduzione, da cui scaturisce una teoria, la quale evidentemente ha un riflesso sulla prassi del futuro. Quando mai si riuscirà a capire che in una cinematografia il presente è un punto mobile? È nella dinamica verso il futuro che bisogna vedere l'utilità e l'idoneità del nostro lavoro. Perché insistiamo tanto sulla dinamica? È semplice: la teoria del presente, un punto passeggero, è puro esistenzialismo, è menefreghismo rispetto ai risultati. Cogli l'attimo fuggente e sarai catapultato nel girone degli opportunisti, perché la definizione di opportunismo è proprio questa: sacrificare al successo di un giorno i possibili risultati futuri. Ma perché mai tutti si dichiarano leninisti e da Lenin non imparano niente?

La compagna ha citato prima il nostro concetto fondamentale che i partiti e le rivoluzioni non si fanno, ma si dirigono. Ciò significa che lo stesso processo che porta alla rivoluzione porta anche alla formazione e allo sviluppo del partito che guiderà la rivoluzione. È solo attraverso questo processo che avviene quel fenomeno determinante che è stato chiamato "rovesciamento della prassi", così ben capito dagli studiosi borghesi dei processi catastrofici in natura e assolutamente non digerito dalla maggior parte dei militanti dei vari gruppi e partiti più o meno comunisti.

Come si vede non si tratta di fare l'ennesima analisi della situazione per trarne indicazioni pratiche, almeno non nel senso corrente del termine. Si tratta invece, coerentemente con tutto il lavoro impostato da Marx, di superare la concezione filosofica, avvocatesca o missionaria del mondo. Non si tratta né di interpretarlo, né di arringarlo, né di fargli la morale per convertirlo.

Una volta che abbiamo capito come sta cambiando il mondo sulla base dello sviluppo delle forze produttive nel quale siamo immersi, si tratta di dare ai compagni - quelli che dalla rivoluzione sono spinti ad agire - gli strumenti adeguati per affrontare il futuro. E poiché gli strumenti non possono essere inventati ma si adoperano quelli che il mondo mette a disposizione, evidentemente anche il modo del loro utilizzo non si può scegliere ma è determinato. La teoria non basta. La biblioteca che la contiene è sovraccarica. L'umanità ha prodotto migliaia di volumi inerenti la preparazione delle sue rivoluzioni, il loro svolgimento e i bilanci che ne seguirono. Ci vuole una bussola affinché il militante non si perda. Ma la bussola non offre il tabulato dei libri da leggere e quelli invece da mettere all'indice. Questo è un metodo da inquisizione cattolica, subito dopo viene il rogo dei libri seguito a ruota dal rogo degli uomini.

Siccome abbiamo superato i roghi, dobbiamo convenire che la bussola può essere costituita solo dal lavoro pratico in una struttura collettiva che funzioni in modo organico. Anche la ricerca di un filo conduttore sui libri è lavoro pratico che mette in condizione di operare collegamenti utili all'azione. Ma ciò non ha nulla a che fare con l'applicazione di ricette. Quasi niente è applicabile qui, oggi, di ciò che Lenin scrisse a proposito della rivoluzione russa. Eppure possiamo leggere Lenin con la massima sicurezza, se riusciamo a capire che il tempo passa, che la storia avanza, che la cinepresa gira il film. Ma allora possiamo anche leggere la Bibbia o la mistica medioevale: non troveremo ricette, ma affineremo la bussola. Possiamo anche non leggere affatto, purché siamo immersi in un lavoro organicamente distribuito, che permetta perciò l'esistenza di un ambiente incompatibile con le categorie del pensiero e della prassi borghese. In questo ambiente si svolgerà un lavoro pratico i cui riflessi avranno effetti anche sul mondo circostante. Questo è il concetto marxista di prassi, e nient'altro pretendeva un Lenin per il suo laboratorio in cui lavoravano i professionisti della rivoluzione. Per questo ce l'aveva con i dilettanti, gli improvvisatori, i chiacchieroni.

Marx e la pratica nel processo rivoluzionario

Si indaga su che cosa significa "cambiare le cose", soprattutto quando si possiede una bussola che ci indichi in quale direzione ci si muove per cambiarle sul serio. In poche parole, non ci interessano, dal punto di vista materialista e scientifico, tutte quelle azioni che non hanno conseguenze sulla realtà in cui siamo immersi.

Se, come dice Marx, il comunismo non è un modello ma un processo in corso, non serve a nulla essere comunisti soltanto per quanto riguarda il fine. Se diciamo che gli strumenti adeguati al fine e le strade per giungervi sono determinati, neghiamo nello stesso tempo la libertà di scelta sia sugli strumenti che sulle strade. Quindi la famigerata analisi della situazione deve consistere nell'individuazione di che cosa esiste nel mondo così com'è, non nel mondo come vorremmo che fosse. Se il comunismo è un divenire, comprende noi stessi. Quando si parla di un processo si parla sempre di un qualcosa che porta a un qualche risultato: a nessuno è dato di essere fuori da questo processo, anche se al suo interno è dato essere fuori di testa e immaginare di spostare masse con proclami scritti su un giornaletto che leggono quattro gatti chiusi in una stanza.

La critica più diffusa che viene fatta nei confronti della Sinistra è quella di essere fuori dalle cose, l'esatto contrario di ciò che la Sinistra ha sempre fatto. Proprio perché era riuscita ad essere dentro le cose la Sinistra ha potuto sempre tenere atteggiamenti coerenti. Bordiga secondo i critici sarebbe stato un genialissimo scienziato della rivoluzione, ma al momento di mettere in pratica la teoria avrebbe sbagliato. Ora, questo modo di impostare una discussione è veramente ridicolo da un punto di vista materialistico. Neppure per un dio della contraddizione esiste la possibilità di essere sulla giusta strada nella teoria e poi sbagliare nella pratica. Soltanto chi immagina che la teoria sia un qualcosa di diverso dalla pratica può fare un ragionamento di questo genere. È veramente un modo di procedere che sta ben al di sotto di quello degli utopisti che avevano la capacità di rappresentare con intelligenza i processi che stavano sotto i loro occhi.

Non è proprio possibile sintonizzarsi su questa lunghezza d'onda. Se noi vogliamo una dimostrazione del fatto che i critici della Sinistra sono in errore la troviamo nel fatto che questi personaggi operano quella separazione tra teoria e prassi che attribuiscono ad altri. Mettendo la teoria prima della prassi e immaginando quest'ultima come un'applicazione della teoria, operano una specie di creazione biblica: in principio fu la teoria e il primo giorno fu creato il mondo.

La superiorità della nostra cinepresa rispetto alla macchina fotografica non consiste soltanto nella capacità di filmare a 360 gradi in orizzontale e in verticale. Il nostro strumento è in grado di riprendere in quattro dimensioni, perché filma nel tempo. E il tempo delle rivoluzioni ci dice che non possiamo accettare divine teorie del Big Bang.

Marx utilizza in continuazione gli scarti temporali e passa continuamente dal passato al futuro, dalle osservazioni sull'economia antica, alla critica dell'economia volgare, a ciò che potrebbe essere in una società senza economia, in cui vigono solo produzione e distribuzione in quantità fisiche per il soddisfacimento dei bisogni umani. Non riusciremo mai a capire che cosa bisogna fare in un determinato momento semplicemente facendo l'analisi della situazione immediata, ovvero scattando un flash sull'attimo fuggente. Analisi è un parolone. Comporta l'indagine su quello che è successo prima, su come si sono svolte le cose nella storia, su come sono stati risolti i problemi in passato (o come non sono stati risolti e perché), qual è l'obiettivo da raggiungere. In base a tutto questo si stabilisce qual è la strada da prendere, che è poi quella già tracciata dalla dinamica materiale dei fenomeni, con tutta la segnaletica a posto, già installata da chi ci ha preceduto. La difficoltà consiste nel fare pulizia nella segnaletica, perché l'ideologia dominante, o, se volete, il "proudhonismo risorgente e tenace" (14), vi ha seminato un mucchio di trappole, di segnali falsi. Solo la nominata bussola può segnare la strada giusta, funzionando nello stesso tempo da detector per individuare i falsi e toglierli di mezzo in modo che si possa viaggiare tranquilli. Come si vede sarebbe una bella presunzione se volessimo fare tutto ciò da soli. Fortunatamente di lavoro già svolto ne abbiamo tanto e se qualche volta nominiamo un po' troppo Bordiga saremo scusati, in fondo non facciamo che usare un riferimento mnemonico per un lavoro molto concreto, come facciamo con Marx e con Lenin.

Siamo arrivati alla preannunciata seconda citazione di Marx su cui stiamo basando questa parte della riunione. Nei Grundrisse, criticando una certa concezione dei mercati e dei movimenti finanziari, Marx afferma che un modello di società (ecco ancora il legame con i procedimenti utopistici) che derivasse unicamente dal pensiero umano e dalle aspirazioni dell'individuo sarebbe oramai una sciocchezza. Ma l'importanza del passo che adesso leggeremo va al di là di una critica al proudhonismo. Qui si prende in considerazione il fatto che una determinata forma sociale non se ne va quietamente per conto suo. C'è dunque un riferimento preciso alla necessità dell'azione distruttiva della rivoluzione. Ma di che tipo sarà l'azione distruttiva e da dove proverrà è una questione di teoria. Questa esclude che si possa "fare" la rivoluzione in base all'esistenza di uomini, anche ben organizzati e decisi, che la vogliono fare:

"All'interno della società borghese fondata sul valore di scambio si generano rapporti di traffico e di produzione che sono altrettante mine per farla saltare. Una massa di forme antitetiche dell'unità sociale, il cui carattere antitetico tuttavia non può mai essere fatto esplodere mediante una quieta metamorfosi. D'altro canto, se nella società così com'è non trovassimo già nascoste le condizioni materiali di produzione e i rapporti di traffico ad esse corrispondenti, adeguati a una società senza classi, tutti i tentativi di farla saltare sarebbero donchisciotteschi" (15).

Ci permettiamo di chiosare. Se noi partissimo dal presupposto che vogliamo raggiungere un certo risultato senza tener conto di ciò che realmente è la società in cui viviamo, faremmo un'operazione sbagliata. Ma l'analisi della situazione non riguarda semplicemente ciò che fanno i borghesi o ciò che fanno i proletari e nemmeno ciò che fanno i comunisti, almeno finché la rivoluzione non è alle porte. Se non esistessero elementi della società futura all'interno della società presente, così com'è, sottolineato due volte, ogni azione per cambiarla non sarebbe altro che pura velleità proudhoniana, un tentativo, da parte di ridicoli donchisciotte, di infilzare mulini a vento.

Per stabilire chi è veramente nelle nuvole

Cerchiamo di essere con le carte in regola: abbiamo visto il valore dell'antica utopia fino a Owen il quale è già costretto ad agire; abbiamo visto il socialismo moraleggiante travestirsi da scienza mentre non è che una caricatura dell'utopia (quella seria); abbiamo visto che s'intende per comunismo un processo reale e non un modello sociale da raggiungere; ora Marx ci chiede di non fare i donchisciotte e lasciar perdere i mulini a vento. Che cosa discrimina il vero marxista da tutto il resto? Che egli fa parte del processo comunista in atto nella società capitalistica così com'è. Si differenzia dalla massa del proletariato non perché propugna delle idee geniali ma perché anticipa lo svolgimento futuro di cose che già esistono intorno a lui (Manifesto).

Su questo modo di vedere il processo rivoluzionario anche la Sinistra ha detto qualcosa. Ha per esempio lottato contro l'indifferentismo che ha una visione manichea della lotta di classe. L'indifferentista dice: siamo in epoca di capitalismo maturo, quindi in epoca di rivoluzione proletaria pura. E fin qui va bene. Poi però aggiunge: lotte economiche, rivolte nazionali, moti contadini, guerre imperialistiche e fenomeni ibridi e complessi devono essere ricondotti alla rivoluzione proletaria. La visione manichea sta in questo: da una parte il male, il capitalismo oppressore in aggressione continua contro la classe operaia mondiale; dall'altra il bene, la rivoluzione proletaria, cui dovrebbero piegarsi sindacati, masse oppresse, persino le guerre, che non dovrebbero avere altro destino che quello di essere trasformate in rivoluzione proletaria.

D'accordo, l'ha detto Lenin. Così se capita per esempio che scoppia la Guerra del Golfo, apriamo un giornale "internazionalista" e vi leggiamo: 1) che è una guerra tra imperialismi grossi e piccoli, a. per il petrolio, b. per la supremazia nell'area; 2) che è compito del proletariato trasformarla in guerra civile; 2 bis) oppure che è compito delle masse oppresse unirsi e lottare contro l'imperialismo.

Il punto 1) lo leggiamo anche sui giornali borghesi; gli altri punti sono proclami della classica mosca che crede, posata sul corno del bufalo, di guidare l'intera mandria in corsa. In entrambi i casi è stato tradito il metodo di Marx: non partendo dalle determinazioni materiali degli avvenimenti, si è fatta un'analisi concretista della situazione senza tener conto della società borghese così com'è, ovvero delle sue contraddizioni a partire da forze produttive che spingono e da un modo di produzione che le incatena. In questo modo s'è perso di vista il problema generale della produzione di plusvalore, della sua ripartizione nel mondo, delle determinazioni che pesano sul saggio di profitto, dell'incidenza su quest'ultimo da parte della rendita petrolifera e così via. Una lunga catena che porta alla radice delle guerre e delle azioni degli uomini, coscienti o meno che siano questi ultimi rispetto all'esistenza di una legge sul saggio di profitto. Se noi individuassimo in questa catena il risultato lineare di una serie di cause-effetti saremmo dei meccanicisti. In questo caso anche i borghesi vi vedrebbero le stesse cose. Ma questa catena è confusa in milioni di eventi assolutamente incomprensibili se non fossero analizzati secondo la conoscenza di ben precise leggi. Il marxismo ci dà questa possibilità. Fare a meno di questo strumento porta a dire cose qualsiasi rispetto agli avvenimenti, cose che scaturiscono da pensate individuali.

Per fare degli esempi pratici e concreti: anche un movimento di masse oppresse non proletarie del mondo arretrato, oppure un movimento occidentale di classi che non hanno nulla di proletario e che rappresentino addirittura qualche residuo di barbarie all'interno di questa società può rappresentare - dice la Sinistra - "uno dei proiettili della rivoluzione che la deve sommergere" (16). Abbiamo avuto sotto gli occhi buone dimostrazioni di ciò che risulta dall'accumularsi di eventi intorno alle determinazioni della legge del valore: il crollo dell'Est, le cosiddette rivolte per il pane in seguito ai provvedimenti "suggeriti" dal Fondo Monetario Internazionale, gli scioperi in Corea. Ogni evento ha cause immediate molto specifiche, ma la concatenazione da noi operata sulla base delle leggi di Marx ci dimostra che la causa immediata può non essere quella fondamentale, non parliamo poi delle spiegazioni che danno i protagonisti rispetto alle loro stesse azioni.

Ecco quali radici deve avere il nostro non-indifferentismo di fronte alla famigerata analisi delle situazioni concrete; non ci interessa se a far scattare gli eventi sono contadini, o se sono proletari, o se sono altre forze all'interno di questa società come la piccola borghesia. Non ha nessuna importanza la forma sporadica che assume la critica allo stato di cose presente, perché il movimento complessivo è il comunismo e ogni critica radicale che sorga dalle contraddizioni del capitalismo è oggettivamente contro di esso, anche se dovesse costringerlo a ristrutturazioni di tipo fascista, come sottolinea Marx nel 18 Brumaio.

Altrimenti non si capirebbe il senso di un'altra importante affermazione della Sinistra: non si può parlare di rivoluzione senza parlare di controrivoluzione e viceversa. I due termini sono elementi dialettici di uno stesso problema, sono complementari. Tutti sono d'accordo nel dire che siamo in periodo controrivoluzionario. Controrivoluzione contro che cosa? Perché la borghesia ha l'esigenza di reiterare il suo 18 brumaio, di potenziare il suo esecutivo, di rafforzare determinati meccanismi della sua società? Da una parte perché con lo sviluppo delle forze produttive si deve intensificare il controllo dei fattori economici; dall'altra perché, come cercheremo di dimostrare con la relazione di questo pomeriggio, il controllo dei fattori economici non può essere disgiunto dal controllo di una quota sempre più alta di popolazione che non serve più nelle attività produttive. Come gli stessi borghesi stanno osservando, l'enorme quantità di plusvalore prodotto ha bisogno di essere distribuita in una società di non-produttori. Il guaio per loro è che ciò provoca reazioni sociali in primo luogo proprio tra i capitalisti e le classi intermedie. Ciò significa che alla fine non riusciranno a distribuire il plusvalore come gli sarebbe utile fare, e allora ciò provocherà reazioni nella parte della società che Marx chiama sovrappopolazione relativa.

Per non assorbire dottrine e volontà altrui

Controrivoluzione, in fondo, è rivoluzione (17). A questo punto dello sviluppo capitalistico, se la maturità delle forze produttive è comunismo in marcia, come dice Marx, e se le manifestazioni di questa maturità sono visibili come blindatura dell'interventismo borghese nell'economia (controllo della massa della popolazione, specie del proletariato), allora i due termini si identificano. La borghesia lo sa benissimo e ogni tanto lo dice per bocca di qualche suo rappresentante, come abbiamo messo in luce nell'ultima Lettera sul feticcio dei mercati. Anche la borghesia ha a suo modo una coscienza di classe.

Qualsiasi movimento materiale è infinitamente più universale di un movimento di idee, dice il solito Marx. Come si vede, non siamo tagliati per inventare nuovi corsi. Il nostro non essere indifferenti di fronte a nulla di quello che succede nel mondo deriva proprio da questo fatto, perché qualsiasi movimento che tenda alla distruzione dello stato di cose presente è nello stesso tempo... stavamo per dire, da veri concretisti, "un movimento verso il comunismo". Marx è più radicale. Egli non dice che è rivoluzionario ogni movimento ecc. verso il comunismo. Egli dice che chiama comunismo ogni movimento reale che supera lo stato di cose presente. Anche nel linguaggio è facile scivolare verso luoghi comuni. E chiunque pensi che il comunismo sia un certo tipo di società da raggiungere finirà per agire al di fuori delle determinanti materiali, basandosi su luoghi comuni presi a prestito dalle degenerazioni passate del comunismo, rifiutandosi di aderire a forze che scaturiscono dalla società e quindi allineandosi a idee che non rappresentano la già osservata dialettica della conservazione-rivoluzione. Se manca questa dialettica (citazione di Marx contro Proudhon) non rimane che la conservazione. Non a caso nel testo che abbiamo ricordato prima, Proprietà e capitale, il capitolo Utopia, scienza e azione viene sottolineato:

"Profetizzare un futuro o volere realizzare un futuro sono entrambe posizioni inadeguate per i comunisti. A tutto ciò si sostituisce la storia della lotta di una classe considerata come un corso unitario, di cui ad ogni momento contingente solo un tratto è già stato svolto, e l'altro si attende. I dati del corso ulteriore sono ugualmente fondamentali e indispensabili quanto quelli del corso passato [...] Il problema della prassi del partito non è di sapere il futuro, che sarebbe poco, né di volere il futuro, che sarebbe troppo, ma di conservare la linea del futuro della propria classe [...] Il movimento comunista non è questione di pura dottrina; non è questione di pura volontà; tuttavia il difetto di dottrina lo paralizza, il difetto di volontà lo paralizza. E difetto vuol dire assorbimento di altrui dottrine, di altrui volontà".

Il difetto di dottrina può portare sia ad una sopravvalutazione che a una sottovalutazione della volontà. Ci metteremo a cercare qual è la via del giusto mezzo? Neanche per sogno. In questo siamo estremisti: siccome siamo comunisti e i comunisti sono per definizione coloro che rappresentano il futuro, ovvero la possibilità del rovesciamento della prassi che è l'espressione del massimo di volontà, noi rimaniamo fermi nel ribadire che il comunista è sempre rappresentante del massimo di volontà. Ad una condizione: che sia veramente in armonia col partito storico. In questo caso egli sarà cosciente del fatto che sono condizioni materiali a stabilire quale sia il massimo di volontà esprimibile in diverse epoche storiche. Esso quindi non dipende da noi.

Non è compito dei comunisti creare il partito formale; essi non debbono assumere l'atteggiamento di coloro che hanno comperato il biglietto per lo spettacolo della rivoluzione e vogliono il posto in tribuna. C'è un'inflazione di sedicenti comunisti che si sentono il bastone da maresciallo in tasca e non sanno neppure cosa sia la gavetta. Forse il proletariato riuscirà a raggiungere i primi risultati dopo quest'onda controrivoluzionaria quando incomincerà a prendere a pedate ogni piccolo individuo che si creda il padreterno, creatore di partiti e rivoluzioni. Non crediamo sia difficile capire che oggi il massimo di volontà esprimibile dai comunisti può essere il minimo rispetto ad altre situazioni.

Abbiamo accennato alla nascita della moderna lotta proletaria attraverso formule di conservazione. Abbiamo visto che queste ultime hanno rappresentato nello stesso tempo, dialetticamente, forme di negazione della società presente; abbiamo visto come Owen sia stato il primo rappresentante della sintesi di questo processo materiale che, nel passaggio dal modello ideale alla prassi rivoluzionaria, costringe l'uomo, il combattente Owen alla fondazione dell'organizzazione sindacale operaia. Inevitabile: lo scopo si dà gli strumenti adatti, e l'unico strumento che metta gli operai in grado di lottare come classe contro la classe avversaria è il sindacato. Poi viene il partito. Questa è la storia. E oggi? Sindacato e partito sono strumenti già conosciuti. Sono nati, degenerati, risorti o ingabbiati nelle logiche del Capitale. Insomma, c'è stato e ci sarà ancora "movimento" per avere questa società così com'è e - secondo la formulazione di Marx, che di lì parte per stabilire che il comunismo va identificato in quel processo e non da un'altra parte - nello stesso tempo per cambiarla.

Forse incominciamo a intravedere che la frase fatta "fare l'analisi della situazione concreta" ha implicazioni un po' più profonde di quanto normalmente si creda presso i piccoli padreterni creatori di partiti e situazioni. Da una parte non possiamo certo farci un'idea del corso materiale degli eventi leggendo solo i giornali o guardando la TV: i borghesi offrono la rappresentazione del loro mondo attraverso un'analisi della situazione impostata sulla loro ideologia, sui loro interessi e sulle lotte all'interno della loro classe. Ciò succede non solo perché i loro giornalisti sono pagati per dire ciò che dicono. Tutto il meccanismo della comunicazione è una sovrastruttura e, insieme allo sviluppo delle forze produttive e al modo di produzione che le stanno frenando ci offre lo specchio del mondo borghese così com'è. Dall'altra noi possiamo solo indagare, l'abbiamo visto, proprio il mondo così com'è. E allora non ci sono santi: per vedere quello che serve a noi in questa benedetta analisi concreta della situazione dobbiamo trattare le "cose" e i "pensieri" a un livello di astrazione superiore di quello che ci possono offrire i giornali borghesi e la televisione.

Noi però non partiamo da zero. Sappiamo che Marx ci insegna a ragionare in base alle specifiche e concrete proprietà del capitalismo. Se parlassimo di dinosauri forse (forse) la legge del valore non servirebbe, ma se parliamo di società capitalistica sì (18). Allora noi diciamo: alla base di tutta la società attuale, così com'è, sta la legge del valore. Bella affermazione. I nostri critici si fregano le mani: ecco gli astrattisti, dicono; facile, eh? ma una volta che avete detto questo, poi che cosa fate?

Un po' di numeri molto "concreti"

Noi non ci scomponiamo per nulla. Se dovessimo scendere al livello delle concezioni volgari sulla società, diremmo anche noi, col vecchio proverbio popolare, che "dal dire al fare c'è di mezzo il mare". Ma noi stiamo chiamando i compagni a lavorare su di un terreno che non è di questo mondo, non ci aiuta né la saggezza popolare, né la quotidiana trattazione dell'economia volgare.

Se si deve interpretare la situazione attuale, non si può solo interpretare ciò che si vede, altrimenti saremmo filosofi e ognuno avrebbe una risposta diversa. La scienza, invece, si caratterizza per il fatto di dare risposte valide per tutti e chiude la bocca a chiunque non sia in grado di provare il contrario. Siccome però non si possono fare esperimenti di laboratorio con la società, la prova deve scaturire dall'esperienza passata e dalle condizioni presenti. Non ci soccorre l'interpretazione filosofica, che è soggettiva, ci serve il cambiamento reale nella società così com'è stata e così com'è oggi, ci servono dati della situazione oggettiva. In questo siamo perciò sicuri di essere più concreti di tutti i concretisti.

Apriamo il giornale e accendiamo il televisore. Non leggiamo e non vediamo altro che uomini che parlano di sé stessi e dei loro rapporti con altri uomini. In Albania ci sono uomini che si muovono, che sparano, che tengono in piedi governi e che sbarcano per missioni più o meno militari. In Africa ci sono milioni di uomini che si muovono spinti da conflitti difficilmente qualificabili e quantificabili. In Italia ognuno dice la sua su parametri, stangate, nuovi assetti costituzionali e ridicole secessioni.

Fermiamoci in Italia. Che c'entra la legge del valore con le dichiarazioni contrapposte di un Fossa, di un Fazio, di un Prodi o di un Bossi? (19) Per fare la nostra operazione abbiamo pochi dati perché la borghesia non ci fa il piacere di mettere a disposizione le cifre che vorremmo noi; e quantificare alcune nostre categorie sulla base dei dati borghesi sarebbe veramente arduo. Ricavare l'ammontare del capitale costante in un ciclo è praticamente impossibile: ci perdiamo immediatamente nelle cifre su ammortamenti, investimenti, patrimoni, ecc. La stessa cosa vale per il capitale variabile: dovremmo scorporare il lavoro produttivo da quello improduttivo, analizzare all'interno stesso dei settori produttivi quali siano i confini tra i servizi sterili e quelli utili alla produzione, tra la produzione vera e propria e l'amministrazione, e così via.

Però alcuni dati fondamentali li abbiamo. Uno di questi dati è il cosiddetto Prodotto Interno Lordo o Reddito Nazionale o, se vogliamo dirla in termini nostri, quantità di valore prodotto ex novo in un ciclo; siccome la borghesia fa i propri calcoli ogni anno, diremo che è la quantità di valore prodotto ex novo in un anno. Per fare l'analisi concreta della situazione concreta italiana possiamo partire da questo dato certo. Ovviamente esso è espresso in prezzi e non in valore, ma sappiamo che a livello di questo grande aggregato la sommatoria dei prezzi è uguale alla sommatoria dei valori (20).

Bene. Chi ha comperato Mondo economico di questa settimana ha visto che c'è un inserto sul bilancio nazionale, dal quale leggiamo i seguenti dati del '95. Arrotondando le cifre, abbiamo un valore prodotto ex novo di lire 1.700.000 miliardi, il quale viene suddiviso in un milione di miliardi che sono andati al profitto e 700.000 miliardi che sono andati alla forza-lavoro. Da quest'ultima cifra togliamo ciò che le statistiche classificano come salario degli addetti ai servizi non destinabili alla vendita, cioè insegnanti, militari, poliziotti, amministrativi ecc. Bisognerebbe, come abbiamo detto, togliere di più, ma non abbiamo dati sufficienti e quindi ci accontentiamo, supponendo che il reddito dei lavoratori impiegati nell'economia produttiva nascosta sia equivalente al reddito degli improduttivi annidati nell'industria. Per quanto arbitraria questa operazione, vedremo che i risultati servono lo stesso per la nostra piccola dimostrazione.

Togliamo quindi dal totale dei dipendenti il reddito di quelli improduttivi: 200.000 miliardi, da aggiungere alla quota di profitto (plusvalore) in quanto trattasi di semplice ripartizione di ricchezza. Con questo spostamento, che ci serve per giungere ad una delimitazione secondo le nostre regole, abbiamo quindi: 1.200.000 miliardi di plusvalore-profitto contro 500.000 miliardi. Plusvalore totale diviso valore totale della forza lavoro produttiva, uguale saggio di sfruttamento, uguale 240%. In Italia quindi un lavoratore produttivo lavora, su otto ore, 5 ore e 40 minuti per il capitale e 2 ore e 20 minuti per sé.

Cosa c'entra tutto questo con l'analisi della situazione concreta? Un po' di pazienza. Per ora siamo giunti alla conclusione che il saggio di sfruttamento generale in Italia è grosso modo salito storicamente di due volte e mezza rispetto al saggio preso come modello da Marx. In più di un secolo di sviluppo delle forze produttive non sarebbe niente di straordinario.

Passiamo ora dall'esempio generale ad un esempio particolare, così facciamo contenti tutti coloro che amano "entrare nello specifico". Una aziendina che conosciamo bene perché abbiamo dovuto farle i conti in tasca, aveva 42 miliardi di fatturato e 130 dipendenti che costavano, tutto compreso, nemmeno 4 miliardi. Tra materie prime, componenti, spese di fornitori, pubblicità e affitto dello stabile ne spendeva altri 4. Capitale fisso una miseria: scrivanie, armadi, scaffali, una trentina di computer e relativo software: un centinaio di milioni d'ammortamento annuo. Input-output di magazzino gestito col metodo just in time, quindi scorte minime e zero prodotti finiti. Tenendo conto che questa azienda scaricava profitti su un paio di filiali estere fittizie (tre altre erano però in forte attivo) siamo al 400% di saggio di profitto (32/8). Togliendo 4 miliardi di capitale costante giungiamo ad un saggio di sfruttamento dell'800% (32/4). Questa azienda, che si spacciava come gioiello delle nuove tecnologie, non era delle più efficienti nel suo campo e, dopo pochi anni, fu schiacciata dalla concorrenza (21). Ciò dimostra che vi sono aziende ancora più "competitive", quindi a maggiore produttività, quindi a saggio di sfruttamento più alto. Sappiamo che Benetton ha inaugurato l'anno scorso una fabbrica completamente automatica riportando in Italia le lavorazioni che aveva sparso all'estero. Il gruppo fattura 7.000 miliardi: quale sarà il saggio di sfruttamento "united colors"? Stesse condizioni per Luxottica (occhiali), sempre nella stessa zona, per Panto (serramenti) e altre fabbriche altamente automatizzate che ormai producono per tutto il mondo (22).

Note

(11) K. Marx, Lettera ad Annenkov, 28 dicembre 1846. Opere Complete, vol. XXXVIII pag. 460.

(12) Ruzzolone, tracollo. Nell'articolo omonimo Bordiga gioca sul suono della parola che ricorda lo sgranamento di un grappolo, per rendere l'idea delle defezioni e dei tradimenti continui.

(13) Bordiga utilizza l'esempio del partito come struttura disegnata dai suoi compiti futuri in Partito e azione di classe, del 1921, ora nel volume Partito e classe; l'esempio degli avvocati e degli ingegneri è in La natura del Partito Comunista, del 1925, ora nel volume La Sinistra Comunista e il Comitato d'Intesa. Entrambi i volumi sono disponibili presso i Quaderni Internazionalisti.

(14) Titolo di un capitolo del testo I fondamenti del comunismo rivoluzionario, ora nel volumetto Tracciato d'impostazione, ed. Quad. Int.

(15) K. Marx, Grundrisse, ed. Einaudi pag. 91.

(16) Pressione 'razziale' del contadiname, pressione classista dei popoli colorati, ora nel volume Fattori di razza e nazione, ed. Quad. Int.

(17) Cfr. il testo Lezioni delle controrivoluzioni, ed. Quad. Int. pag. 16: "Il marxismo non è la dottrina delle rivoluzioni, ma quella delle controrivoluzioni: tutti sanno dirigersi quando si afferma la vittoria, ma pochi sanno farlo quando giunge, si complica e persiste la disfatta".

(18) Non è affatto scontato che la legge del valore sia ininfluente rispetto allo studio di fenomeni estranei al capitalismo. Una mentalità legata alla strenua ricerca di condizioni di equilibrio economico in un sistema di per sé altamente dinamico come il capitalismo può influenzare anche lo studio della dinamica ecologica sottostante all'estinzione dei grandi rettili, di per sé esaustiva senza che vi sia necessità di ricorrere a teorie su cause "esterne" come quella dell'asteroide.

(19) Per i compagni e lettori esteri: rispettivamente presidente della Confindustria, governatore della Banca d'Italia, capo del governo e leader di un partito secessionista.

(20) Nella relazione qui si è fatta una digressione che per brevità riassumiamo così: la borghesia ha sempre negato la legge del valore, ma la utilizza per rendere quantificabile la sua contabilità nazionale. Quando in passato i diversissimi criteri nazionali rendevano impossibile un confronto tra le economie, si decise di adottare un metodo che rendesse quantitativamente omogenei i criteri statistici e contabili. Di fatto lo si poté fare unicamente sulla base della rifiutata teoria del valore di Marx, e ciò rappresenta una delle più vistose capitolazioni ideologiche borghesi di fronte al marxismo.

(21) Abbiamo sostituito questo esempio a quello della relazione, dove si parlava genericamente di Benetton, perché la struttura di quell'industria di abbigliamento è troppo complessa e non siamo riusciti a procurarci dati certi dopo la costruzione del nuovo stabilimento completamente automatizzato in Veneto.

(22) L'industria della sola provincia di Treviso, con l'1,3% della popolazione, copre il 18% di tutte le esportazioni italiane.

Lettere ai compagni