40. Globalizzazione (3)

Multinazionali

Abbiamo visto con Marx che il Capitale, in quanto valore che si valorizza, non va mai inteso come un oggetto nelle mani di una qualche persona ma come una dinamica propria di una specifica società, un'energia sociale che abbisogna del potere di una classe precisa e che ha bisogno dello Stato come servizio. Marx precisa che non bisogna far confusione sulle astrazioni, perché esse rendono conto della realtà meglio dell'osservazione empirica:

"Coloro che considerano questo autonomizzarsi del valore come pura e semplice astrazione, dimenticano che il movimento del capitale industriale è questa astrazione in actu. Il valore percorre qui forme differenti, differenti movimenti, nei quali si conserva e contemporaneamente si valorizza, si ingrandisce […]. I movimenti del capitale appaiono come azioni del singolo capitalista industriale, di guisa che questi opera come compratore di merci e di lavoro, come venditore di merci e come capitalista produttivo, dunque con la sua attività fa da mediatore del ciclo" (40).

Quando si attribuisce al capitalista la responsabilità delle pene proletarie o al proletario la condizione penosa dello sfruttato in senso morale, si dimentica che le persone fanno da mediazione ai cicli economici e che ciò che conta non sono i loro "sentimenti" da sfruttatori o da sfruttati ma i loro rapporti in quanto appartenenti a classi sociali precise. Così quando si attribuisce ad una nazione la responsabilità del suo essere imperialista, monopolista del potere e dell'economia, non si fa altro che riflettere su di essa la concezione antropomorfica che si ha dell'individuo capitalista o proletario. Le partigianerie tra partiti e Stati somigliano molto a quelle tra persone: tutti possono essere amici o nemici degli individui, ma i comunisti saranno solo e sempre nemici del capitalismo, chiunque lo rappresenti, individui, partiti o Stati.

Quando il Capitale, inteso come forza sociale, subisce una "rivoluzione di valore", cioè induce nuove forme di valorizzazione e nello stesso tempo ne subisce le conseguenze, il capitalista singolo o la nazione capitalista possono soccombere in quanto tali; il capitalista potrà essere espropriato o assorbito da uno più forte, la nazione potrà entrare in crisi o addirittura essere assorbita o smembrata.

"Quanto più acute e frequenti diventano le rivoluzioni di valore, tanto più il movimento del valore autonomizzato, automatico, operante con la violenza di un processo elementare di natura, si fa valere contro la previsione e il calcolo del singolo capitalista, tanto più il corso della produzione normale viene ad assoggettarsi alla speculazione anormale e più grande diviene il pericolo per l'esistenza dei capitali singoli " (41).

E' in pericolo l'esistenza dei singoli più deboli, siano essi individui o nazioni. Di qui l'esigenza delle coalizioni, cioè di quel proliferare di accordi regionali e locali sotto le cui sigle (EU, CSI, ASEAN, MERCOSUR, ecc.) si tenta di esorcizzare la propria debolezza nei confronti dei più agguerriti concorrenti. E non serve a nulla darsi da fare per dimostrare che le azioni dei governi o i movimenti dei popoli possono indirizzare i movimenti del Capitale, dacché succede proprio il contrario:

"Queste periodiche rivoluzioni di valore confermano, dunque, proprio ciò che, a quanto si dice, dovrebbero confutare: l'autonomizzazione che il valore in quanto Capitale consegue e che mediante il movimento mantiene e consolida" (42).

Queste rivoluzioni di valore sono i fattori delle diverse forme attraverso cui il Capitale raggiunge i suoi scopi. Vi saranno così periodi nella storia in cui sono opportune politiche liberiste, mentre in altri saranno adatte politiche dirigiste; a volte si assisterà alla proliferazione di piccole industrie in particolari distretti, a volte alla concentrazione e centralizzazione più feroci, come in questi anni. E ogni periodo avrà il suo profeta in economia. Qualunque sia la fase attraversata, però, il risultato permanente sarà la massima centralizzazione dell'industria e delle attività capitalistiche, intorno alla quale graviteranno le varianti opportune. Ciò ha prodotto una rete inestricabile e irreversibile di interessi mondiali che non dipende certamente dalla semplice volontà dei singoli, dei governi o dei popoli. Questa rete è fatta di nodi che rappresentano la potenza produttiva raggiunta dal lavoro sociale unendo l'industria propriamente detta con ogni sorta di traffici: le cosiddette imprese multinazionali o transnazionali. Diciamo subito che le multinazionali, secondo il significato del termine, non esistono e che con questo nome vengono identificate imprese a capitale privato con interessi internazionali ma che mantengono un indissolubile legame con il territorio d'origine. Queste imprese, come ogni altra merce, possono essere vendute, cioè alienate, e allora, pur mantenendo gli impianti su di un determinato territorio, dipenderanno da capitalisti di altri paesi. Il capitale si autonomizza al di sopra delle frontiere ma l'impresa rimane un'espressione della proprietà capitalistica, dunque del modo di essere della società borghese, dunque rappresentata da una classe, la borghesia, che è classe nazionale. Per di più in concorrenza con altre classi nazionali. Questa è una delle più esplosive contraddizioni del capitalismo, non è neutralizzabile e spiega in parte perché gli Stati Uniti devono essere il protagonista principale della globalizzazione; mentre la concentrazione capitalistica può procedere per molti capitalisti in parallelo, la centralizzazione avviene per alcuni capitalisti a scapito di altri; ciò ha ripercussioni sui paesi d'origine dei capitali centralizzati: anch'essi devono prima o poi sopravvivere a scapito di altri, centralizzando, cioè assumendo sempre più controllo.

Il fenomeno su cui si forma lo stato rentier moderno non è più assimilabile a quello del vecchio imperialismo coloniale: la maturità del capitalismo e la sua aggressività "nazionale" non si misura più nella riunione giuridica di grandi valori nelle mani di un privato o di uno Stato (non importa se si fa giurisprudenza con le leggi o con le cannoniere), ma piuttosto nella riunione tecnica di mezzi produttivi, di infrastrutture, di comunicazioni, di conoscenza, di organizzazione sotto il controllo di entità anonime e impersonali. Neppure lo Stato ha più il pieno controllo della proprietà giuridica sul Capitale, il quale può fare a meno di tanti vecchi orpelli, mentre la borghesia come classe non può assolutamente fare a meno della sua sovrastruttura di potere per il controllo tecnico: essa non possiede le portaerei, i bombardieri, i marines, ma li utilizza tramite il suo Stato.

L'impresa internazionalizzata è funzionale alla marcia del Capitale verso una sempre maggiore autonomia, ma non è di per sé stessa autonoma rispetto allo Stato della borghesia nazionale.

Normalmente per multinazionale o transnazionale si intende un'impresa che, pur soggetta ad un unico centro di comando, non soffre particolari vincoli nazionali. In pratica sono multinazionali tutte le società operanti, sul mercato mondiale, attraverso filiali e investimenti esteri.

Il fenomeno è grandeggiante. Dall'inizio degli anni '80, le prime 200 imprese multinazionali hanno conosciuto una espansione ininterrotta, grazie alla quale esercitano un dominio pressoché totalitario sulle transazioni internazionali. La concentrazione delle imprese costituisce una costante del capitalismo, ma ciò che caratterizza l'impresa di cui ci stiamo occupando è la centralizzazione. Infatti i suoi investimenti esteri si focalizzano su di un settore, ma tendono in seguito ad un controllo di attività diversificate, per cui non ha più importanza il prodotto ma la rete di interessi posti sotto tutela centrale (e spesso questa rete coinvolge anche gli apparati statali dei paesi interessati).

Dalla metà degli anni '70 l'accumulazione si realizza essenzialmente attraverso fusioni, riscatti, annessioni di imprese. Combinata con la colossale espansione dei flussi finanziari, speculativi e non, essa richiama investimenti. Tutto questo non ha prodotto, però, l'auspicata ripresa economica, verificando l'assunto di Marx sulla centralizzazione e smentendo le previsioni espresse, per esempio, nel Bulletin du FMI del 21 ottobre 1998:

"Supponendo che i paesi non cambino politica, la crescita mondiale, secondo le proiezioni dei servizi del FMI, passerà al 4,5% in media all'anno nel corso del periodo 1998-2001".

Il trend di crescita globale è attualmente intorno al 2% e lo scarto di due punti e mezzo rappresenta più della metà sulla previsione. Non male come precisione dei modelli borghesi. Del resto, proprio la centralizzazione ha aggravato lo stato dell'occupazione e la percentuale di utilizzo degli impianti. Nelle fusioni vengono in genere licenziati quei lavoratori le cui funzioni si sovrappongono, mentre economie di scala e razionalizzazioni provocano la concentrazione della produzione sugli impianti più moderni e l'abbandono di quelli obsoleti, che spesso vengono tenuti in funzione solo per ragioni sociali. In Italia molti stabilimenti Fiat, Olivetti, Pirelli, ecc. sono praticamente inattivi, per quanto nuovi, ma fanno media perché adibiti a lavorazioni fantasma, un po' per accordi sindacali, un po' per evitare il degrado degli immobili. Ne consegue che le industrie manifatturiere dell'area OCSE lavorano attualmente al 70-75% della loro capacità e il numero dei disoccupati supera i 41 milioni. Il debito industriale complessivo ha superato i 33.100 miliardi di dollari, pari al 130% del PIL mondiale, e progredisce a un tasso del 6-8% l'anno, vale a dire il quadruplo della crescita del PIL mondiale.

Alcuni dati di fonte Fortune, sulle realizzazioni delle 500 maggiori imprese globali, ci provano ulteriormente quanto stia marciando la centralizzazione:

"Esse hanno travolto le frontiere, per impossessarsi di nuovi mercati ed inghiottire i concorrenti locali. Più sono i paesi, più aumentano i profitti. I guadagni delle 500 maggiori imprese sono cresciuti del 15%, mentre l'aumento dei loro redditi ha raggiunto l'11%. All'inizio degli anni '90, circa 37.000 compagnie transnazionali, con le loro 170.000 filiali, stringevano nei loro tentacoli l'economia internazionale".

Il concetto che il borghese ha di "reddito d'impresa" (o "utile", risultato netto annuale) è diverso dal nostro di "plusvalore", dato che anche le imposte tolte per avere il netto sono plusvalore; allora c'è da chiedersi come mai, se il valore totale (profitto più salario, ma i salari sono addirittura diminuiti) prodotto in un anno nel mondo sale del 2%, quello delle imprese che fanno l'economia mondiale sale dell'11%. La risposta si può trovare solo nel fenomeno individuato da Marx: le maggiori 500 imprese del mondo non intascano soltanto plusvalore prodotto in proprio come succedeva ai tempi della concentrazione, ma riescono, centralizzando il controllo su produzione e mercati, a ripartire a loro favore una parte di tutto il plusvalore prodotto nella società (43). I piccoli e medi capitalisti di tutto il mondo pagano un tributo ai mostri industriali supercentralizzati. Non c'è altro modo per spiegare il differenziale di crescita del plusvalore, perché nel capitalismo ultrasviluppato i differenziali di forza produttiva locale sono rapidamente abbattuti: i tempi di reazione della concorrenza alle recenti tecnologie, ai metodi organizzativi e alla mobilità internazionale sono rapidissimi e non è possibile per un'industria non stare al passo con i tempi senza chiudere.

Articolazione internazionale del lavoro sociale

Da una parte tutto ciò dimostra quanto sia ingannevole il punto di vista del capitalista singolo che porta i suoi dollari a Wall Street: egli vede l'aumento dell'11% e non si chiede il perché del 2%, tanto nelle grandi borse mondiali le società che contano sono quelle censite da Fortune, mica le altre; e investe, e il Dow Jones va a 11.000, forse a 12.000, 20.000, non c'è limite finché il mondo intero vivrà solo per alimentarlo.

Ma dall'altra parte dimostra anche quanto sia ingannevole il punto di vista di quei pretesi anticapitalisti che, comportandosi esattamente nello stesso modo, vedono nelle autoglorificanti cifre borghesi una forza che il capitalismo non ha, vedono che il cadavere ancora cammina, ma non si accorgono che sta in piedi non tanto per forza propria quanto perché gli dà forza l'abbraccio mostruoso tra il proletariato e chi pretende di insegnare qualcosa a quest'ultimo dall'interno delle categorie borghesi. E' davvero forte quest'America in grado di imporre ai suoi avversari, anche politici, non solo i prodotti di Bill Gates e di Madonna, ma pure la riverenza per il suo potere e per la sua capacità di mantenerlo in eterno.

Il capitalismo è la base materiale della società futura, l'aumento della forza produttiva sociale che distrugge i rapporti capitalisti all'interno del capitalismo stesso è comunismo, quindi è anche forza nostra, se siamo rivoluzionari comunisti (lavorano per noi! gridarono di fronte ai sordi i nostri solidi maestri). Ed è forza che cresce, e la dobbiamo leggere non col piagnisteo di chi se la fa sotto di fronte al nemico (e si adegua), ma con la fermezza di chi si deve armare conseguentemente.

La maggior parte delle 500 imprese analizzate da Fortune sono transnazionali e la vera potenza della forza produttiva sociale si concentra nelle prime 200 di esse. La quota del capitale transnazionale nel PIL mondiale è passato dal 17% della metà degli anni '70 al 24% del 1982 e ad oltre il 30% del 1995. Dal 1986 al 1996, le fusioni di imprese si sono intensificate al ritmo del 15% l'anno; seguendo la tendenza, nel 2000 il costo cumulato di queste transazioni raggiungerà i 10.000 miliardi di dollari (il PIL degli Stati Uniti nel 1997 è stato di 8.100 miliardi di dollari). Evidentemente, in questo stadio del modo di produzione capitalistico le società transnazionali non hanno altro mezzo per promuovere la propria espansione che quello di assorbire le loro concorrenti, per conquistare nuovi mercati e di conseguenza realizzare economie di scala sul mercato mondiale.

Una volta ampliata e diversificata la propria attività, in forza di fusioni e acquisizioni, le maggiori società transnazionali si sono date struttura organizzativa sempre più articolata: la società madre istituisce uno o più quartieri generali, col compito di sovrintendere a un certo numero di filiali oppure coordinare, su base regionale o interregionale, una determinata produzione (come nel caso di un'automobile le cui parti vengano fabbricate in vari paesi). A ciò s'accompagna, di frequente, un sistema di proprietà "multistrato": nel primo, stanno i quartieri generali e le filiali appartenenti alla società madre; nel secondo, le filiali appartenenti alle filiali del primo strato; nel terzo, le filiali appartenenti alle filiali del secondo strato ecc. Il controllo della società madre sulle filiali del primo strato (e, pertanto, su quelle dei successivi) si esercita tramite quote sindacate di maggioranza azionaria, ovvero attraverso la gestione monopolistica dell'amministrazione, delle comunicazioni, del marketing, delle risorse tecnologiche, dei marchi di fabbrica ecc. Questo sistema di partecipazioni non serve soltanto ad accrescere la potenza finanziaria dei monopolisti, ma la loro stessa influenza sulle "sovrastrutture di forza" di carattere ideologico-politico (nell'ambito di ciò che va sotto il nome generico di "cultura d'impresa" è contemplata la formazione di un carattere specifico nella mentalità dei dirigenti e dei dipendenti).

Anche se specializzate come marchio in particolari settori dell'industria, dell'agricoltura e dei servizi, le imprese transnazionali estendono quasi sempre la loro attività in campi diversificati: così società agro-alimentari possiedono, oltre a terre e stabilimenti specifici, anche catene di ristoranti, alberghi, miniere, acciaierie, raffinerie, agenzie di pubblicità, agenzie turistiche ecc. Oppure società tipicamente manifatturiere esprimono nel bilancio consolidato una prioritaria attività nei servizi.

La "rilocazione produttiva" non è una novità, ha anzi origini assai lontane (44), ma solo nel dopoguerra è diventata un fenomeno generalizzato, e solo negli ultimi vent'anni, a causa della riduzione (relativa e assoluta) del 60% sui salari nelle aree periferiche, ha avuto un ulteriore impulso. A partire dalla seconda metà degli anni '80, l'export lordo di capitale propriamente d'industria s'è, perciò, di molto accresciuto, sino a raggiungere, nel 1995, i 317,8 miliardi di dollari (222,5 nel 1990) (45), provenienti, per più dei due terzi, dalle maggiori transazionali statunitensi, giapponesi, tedesche, francesi, inglesi.

Debolezza intrinseca della periferia

Il fatturato consolidato annuo di molte transnazionali è maggiore di quello di alcuni medi paesi (la General Motors fattura 168.8 miliardi di dollari, più del prodotto complessivo della Danimarca) e il giro d'affari delle Global 500, secondo la classifica di Fortune del 1998, è 11.453,5 miliardi di dollari, ovvero pari a circa la metà del prodotto mondiale. Comunque, a dimostrazione della centralizzazione operante, i colossi sono relativamente pochi rispetto al numero delle aziende che sentono il bisogno di rompere i limiti nazionali. Agli inizi degli anni '90 vi erano in tutto 37.530 società attive in campo internazionale su scala planetaria che agivano attraverso 206.961 filiali estere. E il computo non comprende le alleanze strategiche (nell'ordine delle migliaia) e i contratti di franchising o technology transfer (nell'ordine delle centinaia di migliaia). Di tutte queste società i paesi industrializzati ne possedevano 34.280 con 87.831 filiali e solo 3.250 erano dei paesi in via di sviluppo, cioè meno di un decimo. Ma queste ultime avevano 119.130 filiali estere (36,6 a testa in media contro 2,5 dei paesi sviluppati) (46).

Poche case-madre e di potenza infinitamente inferiore e un alto numero di filiali rivelano uno squilibrio molto significativo. Mentre le filiali dei grandi complessi dell'imperialismo maturo sono vere e proprie emanazioni locali della forza economica del paese d'origine, quelle delle società dei "paesi in via di sviluppo" sono spesso semplici uffici o negozi, che possono essere moltiplicati senza eccessivo impegno economico (le aziende cinesi, per esempio, hanno ben 45.000 filiali estere). Ciò dimostra soprattutto che le attività imperialistiche non si svolgono tanto tramite le sedi di rappresentanza o di produzione ufficiali quanto, principalmente, tramite le reti di partecipate delle holding, cioè dei pacchetti azionari acquisiti con investimenti esteri, quindi con un controllo su attività produttive e commerciali di altri paesi. Ufficialmente le aziende partecipate figurano come ditte nazionali a sé o come consociate e non come filiali di aziende multinazionali (47), delle quali oltre la metà ha sede nelle cinque maggiori metropoli imperialistiche evidenziate: Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Gran Bretagna. E comunque in questo caso l'indagine sulla potenza di quelle maggiori amplia, raddoppiandola, la percentuale di quelle con sede in area di vecchio capitalismo; infatti, se prendiamo le società madri delle prime 200 transnazionali non finanziarie sulle 37.530 del totale, vediamo che il 93.5% di esse sono lì dislocate: 62 in Giappone, 53 negli Stati Uniti, 23 in Germania, 19 in Francia, 12 in Gran Bretagna, 8 in Svizzera, 5 in Italia, 5 nei Paesi Bassi (48).

In ciascun paese, la maggior parte delle attività estere e degli investimenti esteri è appannaggio, peraltro, di poche holding: in Germania, 50 società (corrispondenti allo 0.7% delle transnazionali tedesche) controllano il 69% delle attività estere e il 58% degli investimenti oltremare; negli Stati Uniti, l'1% delle società madri controlla il 45% delle attività estere complessive (il 25% – 546 imprese – ne controlla il 96%). Fra le 100 maggiori imprese transnazionali, le prime 10 controllano il 31% delle attività totali e il 33.5% di quelle estere; le prime 25, il 50% e il 54.4%; le prime 50, il 70.9% e il 76.3% (49).

Capaci di formidabili ritmi d'accumulazione, molte imprese transnazionali non fanno quasi più ricorso al capitale azionario e bancario per la loro espansione, raggiungendo, di fatto, l'autofinanziamento tramite risorse interne ottenute con le attività internazionali. Ciò è importante perché dimostra il grado di finanziarizzazione dell'industria, che diventa essa stessa banca (in Italia ogni grande industria si appoggia ad una finanziaria interna, "di famiglia" o meno, anzi, ne è posseduta) e opera direttamente sul mercato finanziario. Queste le cifre relative alle 62 grandi aziende americane prese in esame nel rapporto Mediobanca International Financial Aggregates, per il periodo compreso fra il 1990 e il 1993: azioni emesse, 81 miliardi di dollari; azioni acquisite, 83 miliardi; utili distribuiti, 270 miliardi; investimenti realizzati, 320 miliardi.

In sintesi: crediti verso l'azionariato per 81 miliardi di dollari; valore erogato per 673 miliardi di dollari. Stando a quanto appurato dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, le società transnazionali controllano oltre i 3/4 dello import-export in area OCSE (negli Stati Uniti, i 4/5) e pressoché tutti i canali del commercio mondiale. Per esempio, Chiquita, Dole e Del Monte soddisfano, da sole, il 75% del consumo globale di banane. Gli investimenti esteri diretti delle transnazionali, che, abbiamo visto, erano pari a 317,8 miliardi di dollari nel 1995, hanno avuto, approssimativamente, la seguente destinazione: in Nord America, Europa occidentale e Giappone, 205 miliardi; Nei PVS, compreso l'ex Comecon, 112,8 miliardi, per un totale di 317,8 miliardi.

Larga parte di tale denaro è valso ad acquisire aziende pubbliche in corso di privatizzazione, specie nei settori del trasporto aereo e delle telecomunicazioni (in quest'ultimo settore, il valore delle acquisizioni aveva già nel 1990 raggiunto i 16,5 miliardi di dollari, contro i 400 milioni del 1985). Ciò è determinato dalla necessità del capitale di far fronte ai suoi processi di sviluppo in relazione sempre più stretta con la socializzazione della produzione, che necessita di reti di impianti, strade, ferrovie ecc. Queste reti infrastrutturali immobilizzano grandi quote di capitale per lungo tempo e per di più vanno rinnovate con il ritmo delle nuove tecnologie, per cui occorre dislocare masse sempre maggiori di capitale ogni volta che sia necessario riavviare il processo di valorizzazione. Ogni innovazione tecnologica epocale equivale alle antiche crisi che spazzano dalla scena chi non è in grado di evolversi, e ad ogni ciclo la spina dorsale del capitalismo è costituita sempre più da aggregazioni di capitali capaci di far fronte ad ogni evenienza anche in senso di disponibilità monetaria immediata, mentre intorno a questa struttura si muovono cellule capitalistiche che nascono e muoiono senza avere nessuna possibilità di intervenire o anche solo di adeguarsi:

"Quanto maggiori sono le perturbazioni, tanto maggiore capitale monetario deve possedere il capitalista per essere in grado di attendere la compensazione; e poiché con il procedere della produzione capitalistica si allarga la scala di ogni processo individuale di produzione e con essa la grandezza minima di capitale da anticipare, quella circostanza si aggiunge alle altre che sempre più trasformano la funzione del capitalista industriale in un monopolio di grandi capitalisti monetari, isolati o associati" (50).

Dalla concentrazione alla virtualizzazione

Al fine di accrescere la produttività e così battere la concorrenza, molte società diventano dunque transnazionali, dislocando le proprie attività in paesi di giovane industrialismo, ove minore è il costo del lavoro (a parità di qualificazione), le strutture sono moderne e consistente è il risparmio fiscale. In presenza di agitazioni operaie o sommovimenti sociali, il capitale transnazionale può trasferire con facilità in altri paesi siti produttivi propri o in appalto a strutture locali. L'esistenza di "paesi di riserva", con abbondante offerta di manodopera a basso prezzo, rappresenta un ricatto potente per scoraggiare possibili aumenti salariali nelle più dinamiche aree di sviluppo (Sud Est asiatico, Messico, Cina, Europa orientale); e quando tale ricatto non sia avanzato direttamente dalle società ci pensano i governi e i sindacati locali a farsene carico.

In questa situazione, fuori da ogni possibile controllo degli Stati, il Capitale precisa la sua funzione matura e, dall'integrazione globale semplice, dovuta a rapporti produttivi tradizionali meramente internazionalizzati, passa ad una integrazione globale complessa, dove i sistemi produttivi, commerciali, contabili e finanziari, si "diffondono" fino a quando l'azienda può essere definita, non in modo metaforico ma con rigore teorico, virtuale: essa può non avere più stabilimenti di produzione, uffici contabili, magazzini, filiali, centri direzionali e demandare tutto ciò a strutture appositamente nate per svolgere i compiti più svariati.

Nel caso dell'integrazione globale semplice, la società madre commissionava a una filiale o a un subcontrattista estero una certa produzione (per la quale forniva capitale, tecnologia, materiali) e poi commercializzava, ovunque nel mondo, il prodotto finito. Larga parte delle transazioni si riduceva, in effetti, a scambio infrasocietario, come nel caso delle maquiladoras, industrie situate in territorio messicano, appartenenti in maggioranza a industrie statunitensi. Superate da tempo le 2.000 unità, le maquilas importano dagli Stati Uniti, senza pagare dazio, il 99% dei materiali necessari alla produzione, ed esportano negli Stati Uniti, pagando dazi minimi, quasi tutto il prodotto (costituito un tempo da tessuti, pellami e giocattoli, e oggi da attrezzature elettroniche, parti di autoveicoli e composti chimici). Così, per esempio, la FORD può affidare a fabbriche di là dal Rio Grande, come fossero sue filiali, particolari lavorazioni ovvero assemblaggi, ricavandone, con poca spesa, merce finita e pronta alla commercializzazione. Il vantaggio è grande, perché il salario messicano rappresenta mediamente, a pari produttività, la decima parte di quello statunitense. E' ovvio che considerare questo banale passaggio di frontiera come attività di mercato non è giustificato se non dall'attività statistica nazionale, per cui anche le cifre riguardanti l'economia dei singoli paesi vanno prese con dovuta cautela.

La società madre, affidando la produzione a filiali e subcontrattisti in diversi paesi, sfrutta razionalmente a proprio vantaggio le differenze fra leggi e condizioni locali per l'investimento, la produzione, i servizi, ecc. La statunitense Nike Co. ha, per esempio, subcontrattisti in oltre 40 paesi (soprattutto asiatici). Stabilito il design di una nuova scarpa da ginnastica o di un nuovo capo di abbigliamento sportivo, la casa madre ne trasmette i dati, per via informatica, a una società subcontrattista con sede a Taiwan, la quale, valendosi di progettazione computerizzata, provvede a fabbricare il prototipo. Questo è inviato alla società madre, che decide di avviarne la produzione ovvero apportarvi modifiche. Una volta scelto il design definitivo e stabilita l'ingegnerizzazione di produzione, i dati vengono trasmessi alle fabbriche subcontrattiste, nelle quali il controllo qualità è svolto da tecnici della casa madre. Il prodotto è infine inserito nel complesso marketing di quest'ultima e distribuito nel mondo. E così sono strutturati i maggiori fabbricanti di prodotti di grande consumo.

Abbiamo chiamato "integrazione semplice" una struttura produttiva ormai in via di superamento a causa del successo di un'altra struttura, poco visibile ma operante da molti anni. Possiamo definire strategia di "integrazione complessa" quella di una holding che abbia superato lo stadio descritto, e in cui le filiali, le consociate, le partecipate, i consorzi e tutte le forme di collegamento che possono essere escogitate, non si limitano alla produzione su ordine centrale, ma svolgono qualsivoglia servizio loro richiesto dalla casa madre. Alcune grandi case automobilistiche giapponesi hanno affidato, per esempio, a proprie filiali negli Stati Uniti la progettazione e lo sviluppo di nuovi modelli destinati al mercato mondiale, smistandone la produzione su aziende la cui dislocazione è indifferente e possono anche non far parte del settore automobilistico. La Swissair, compagnia aerea svizzera di bandiera, ha trasferito il proprio sistema di contabilità a Bombay, valendosi di una filiale appositamente costituita, la Airline Financial Support Services India Pvt. Ltd. Dopo la costituzione della Comunità Europea, la Ford Motor Company ha perfezionato il proprio assetto organizzativo nel Vecchio Continente, con la istituzione di un quartier generale regionale, la Ford Of Europe, e la sempre maggiore integrazione del ciclo produttivo: il design della Mondeo si deve a quattro centri di progettazione, in Europa e negli Stati Uniti; componenti e parti meccaniche vengono fabbricate, con materiali di provenienza giapponese, tailandese e messicana, in impianti nordamericani ed europei. Qui siamo ancora nell'ambito di "filiali" o simili, ma per esempio la contabilità di tutto il sistema sanitario privato e pubblico americano sta per essere trasferito in India, presso aziende specializzate, collegate in rete. Tutti i servizi avanzati di traduzione sono ormai completamente slegati dal luogo di origine, avendo traduttori collegati in tutto il mondo. E non si pensi che solo i servizi possano rispondere a criteri di questo genere. La fabbrica virtuale comporta ancora più vantaggi e tutta l'industria si sta orientando verso questo modello avanzato.

Si tratta in fondo della divisione del lavoro un tempo esistente all'interno di una singola impresa e che oggi è proiettata all'esterno. Immaginiamo un bene durevole qualsiasi, per esempio un frigorifero. Immaginiamo, per semplificare, che esso sia composto da cinque parti: un mobile esterno termicamente isolato, un involucro interno di plastica stampata, un motore, un compressore e un termostato. Ora immaginiamo cinque produttori, ognuno specializzato in progettazione e fabbricazione di mobili isolati, di plastiche stampate, di motori, di compressori e di termostati. In più immaginiamo una fabbrica specializzata nell'assemblaggio di parti meccaniche e organizzata in modo da rispondere a diverse tipologie di prodotto, poi uno studio specializzato nella progettazione di frigoriferi, un altro specializzato nel loro marketing e un altro ancora dedito esclusivamente alla contabilità e alla gestione fiscale. Accanto a tutto ciò, immaginiamo una banca specializzata a fornire credito sulla base di dettagliati progetti industriali. E' evidente che a questo punto non serve una fabbrica apposita per fare frigoriferi. E' sufficiente che qualcuno, anche senza capitali, senza una struttura produttiva materiale e senza un'esperienza specifica nel campo, decida di fabbricarli. Se ha la fiducia di una banca e presenta un progetto attendibile troverà capitali e stabilimenti altrui.

Immaginiamo di rendere più complesso questo modello e avremo una struttura produttiva integrata a rete di cui sarà difficile persino definire i contorni proprietari. Infatti chi fabbrica mobili coibentati potrà fabbricare anche container per gli scienziati in Antartide, chi può fabbricare motori elettrici per frigoriferi lo può fare anche per condizionatori, chi gestisce contabilità lo farà per chiunque, mentre chi fa compressori invece si specializzerà talmente da coprire la richiesta di interi continenti. Tutto ciò in una rete di partecipazioni, di controlli incrociati, di scambi azionari controllati da holding senza nome eclatante né volto visibile, in una dinamica frenetica, al di sopra dei confini nazionali.

Sostanzialmente tali dinamiche globali vanno lette come lotta del capitale contro la caduta tendenziale del saggio di profitto, dato che alcune delle cause antagonistiche sono, per l'appunto, l'aumento del grado di sfruttamento della forza-lavoro, la riduzione del salario al di sotto del valore medio della forza-lavoro (51), la diminuzione del prezzo degli elementi del capitale costante.

Tale lotta sviluppa dappertutto la tendenza al dominio e non di certo alla libertà di traffici, provocando l'acuirsi di contrasti violenti soprattutto laddove più radicalmente sono manifeste le potenzialità dei paesi a nuovo capitalismo. Tali potenzialità sono per quei paesi fattori di alto profitto e perciò di fresco sviluppo, mentre per i vecchi paesi capitalistici, al contrario, sono fattori antagonisti alla loro senile mancanza di sviluppo.

Il vecchio capitalismo d'Occidente si butta avido su queste opportunità, con in testa naturalmente gli Stati Uniti.

La crisi asiatica. Asiatica?

Ci siamo più volte occupati della guerra economica che, non dichiarata e forse neppure espressamente pianificata, gli Stati Uniti conducono nei confronti dei loro concorrenti (52). Il Giappone fu più volte colpito da questa guerra, per esempio con gli "accordi" del Louvre e con quelli dell'Hotel Plaza che sancirono una parità monetaria sfavorevole alle sue esportazioni, con la politica petrolifera americana, a partire dalla Guerra del Kippur, che fece salire enormemente i prezzi dell'energia. Eppure il Giappone, nonostante le batoste, riuscì non solo a superarle, ma a volgerle a proprio vantaggio. Mantenne alte le esportazioni nonostante una sopravvalutazione artificiosa della propria moneta, diversificò le fonti energetiche diventando il primo commercializzatore mondiale di gas, acquisì partecipazioni nelle aziende occidentali e comprò immobili grazie allo Yen troppo forte, portò, inaudito, la Borsa di Tokyo ad un valore doppio di quella di Wall Street. Tutti parlavano del boom giapponese e fu il tempo in cui gli occidentali andavano come pellegrini ad imparare il "metodo Toyota". Oggi il Giappone è in crisi profonda e non si risolleverà facilmente.

Nel 1997, poco prima che la crisi asiatica coinvolgesse la vita di una buona metà degli abitanti del pianeta e turbasse i sonni di milioni di investitori diretti o indiretti (cioè tramite i fondi assicurativi, pensione ecc.), tutti gli osservatori erano concordi nel dire che l'economia dell'Estremo Oriente era un esempio per tutti, da imparare e applicare. Il giornalista Erik Izraelewicz affermava:

"La crescita dell'Asia nell'economia mondiale – e con essa quella di un'altra gran parte dei paesi poveri – è quindi fattore di stabilità politica nel mondo. I paesi industrializzati, invece di inquietarsi, dovrebbero dispiacersi che né l'Africa, così vicina all'Europa, né l'America Latina, la vicina degli Stati Uniti, seguano la via asiatica" (53).

Il giornalista rifletteva un'opinione diffusa ed alimentata dai maggiori istituti economici del mondo. Persino la World Trade Organization, che dovrebbe intendersene di mercati, affermò fin dalla sua nascita, per bocca del suo presidente Ruggiero, che se le "Tigri asiatiche" non ci fossero bisognerebbe inventarle; esse non devono preoccupare per la concorrenza, perché è vero che sono campioni di intraprendenza, che adottano le più moderne tecniche di produzione e di marketing, ma si accaparrano le produzioni che l'Occidente prima o poi abbandonerà spontaneamente, quindi sono un fattore di equilibrio e inducono un benefico stimolo negli scambi mondiali, specie per quanto riguarda il libero mercato. Di tutto ciò il mondo occidentale non potrà che beneficiare.

Questo è vero e nello stesso tempo è una stupidaggine gigantesca dal punto di vista economico globale, proprio il terreno su cui la WTO è nata, per sostituire e superare il GATT, che non era attrezzato abbastanza per cogliere le sfide della globalizzazione. Tranne il Giappone, le Tigri non sono vere e proprie nazioni che hanno sviluppato, tra le altre caratteristiche occorrenti per definire una nazione, una diffusa accumulazione con un conseguente ed esteso mercato unitario interno. Si tratta di territori, compresa la Corea che pur produce e commercia moltissimo, su cui il capitale si è fissato recentemente e senza storia, venendo dal di fuori e toccando punti strategici su cui si è radicato senza investire dello stesso sviluppo le aree circostanti. Si tratta di punti di servizio del capitale internazionale, sfruttati da oligarchie locali più simili alle mafie che alle borghesie, che si arricchiscono creando isole di "benessere" ristrette, che hanno rapporti col territorio solo per utilizzarlo come fonte di materia prima e soprattutto di forza-lavoro schiavizzata.

E' dunque vero che si tratta di fenomeni di intraprendenza e di management aggressivo, come è vero che l'Occidente passerà il testimone di molte produzioni di massa; ed è anche vero che attirano capitale disperso per il mondo unificandolo sotto la guida di una conoscenza locale che gli stranieri non hanno, quindi in teoria sono fattori di equilibrio. Ma si tratta dell'equilibrio precario che si genera, per esempio, con l'immenso arbitraggio internazionale, dove si vendono azioni, valute, derivati, opzioni, futures, insomma, di tutto, dove questo tutto costa molto e si compra di tutto dove costa poco. Certo che così si contribuisce, tramite la cosiddetta legge della domanda e dell'offerta, a far scendere i prezzi dove sono alti e a farli salire dove sono bassi, con benefico effetto livellatore. Sennonché, non appena i movimenti dei capitali, che si muovono nelle quantità immense di cui abbiamo già parlato, si sincronizzano, non ci sono più dighe in grado di arginare i disastri.

Ecco perché la crisi scoppiata in Asia Sud-orientale dimostrò, contrariamente a quanto ci si aspettava il giorno prima, di essere in grado di destabilizzare non solo quei territori ma anche il mondo intero e fu necessario varare frettolosi quanto tradizionalissimi piani d'intervento per il "salvataggio" dei paesi interessati, che costò lì per lì un centinaio di miliardi di dollari, drenati dalle tasche della borghesia internazionale preoccupata.

Ma, se la crisi è stata certamente "asiatica" nelle sue manifestazioni dirompenti, non è però del tutto corretto parlare di salvataggio delle Tigri in crisi. La crisi non scoppiò soltanto a causa loro e non furono esse a mettere in pericolo la stabilità dei paesi occidentali. Furono piuttosto gli immensi capitali vaganti di provenienza occidentale a destabilizzare l'Asia. E non fu "salvataggio" il flusso di dollari, fu investimento per salvaguardare in futuro la sorte degli stessi capitali. Centinaia di milioni di proletari in tutto il mondo vedranno salire il loro sfruttamento per garantire che il capitale mondiale non diventi del tutto fittizio ma si assicuri ancora l'esistenza tramite l'estorsione di plusvalore, specie là dove lo si può estorcere ad alto saggio di profitto. Non è un caso che in simili occasioni si rispolveri sempre il Piano Marshall, che fu il capostipite degli "aiuti" internazionali. Ma non fu l'America ad aiutare l'Europa: fu l'Europa ad aiutare l'America, come disse la nostra corrente allora.

Adesso sarà l'immensa Asia ad aiutare entrambe, se sarà possibile prelevare dalle masse asiatiche plusvalore sufficiente ad alimentare il Capitale globalizzato. Se sarà possibile, perché non è detto. Se ne sta accorgendo il Giappone, che non ha più risorse per garantire ai suoi stessi capitali le performance degli anni passati; se ne sta accorgendo la Cina, che si è dissanguata nel tentativo di mantenere la parità fissa dello Yuan, la sua moneta nazionale; se n'è accorta Hong Kong, che ha dovuto mantenere la parità col dollaro nonostante la sua economia rappresenti un peso specifico piccolissimo nel contesto mondiale e che ha sofferto più di tutti la crisi.

L'accumulazione delle ex Tigri

Il futuro di tutta l'area è già disegnato dalla sua stessa storia. Per molti anni i distretti industriali asiatici non solo trovarono nicchie di mercato favorevoli, ma erosero mercati tradizionali dell'industria occidentale, in qualche caso eliminandola quasi del tutto, come la fotografia e l'elettronica di consumo. Per molti anni i tassi di sviluppo complessivi si mantennero su due cifre e, anche se negli ultimi tempi i tassi di sviluppo stavano ovviamente abbassandosi, come succede storicamente a tutti i paesi, vi erano ancora larghi spazi, almeno per consolidare i risultati raggiunti.

Pur fulminea e senza eguali nella seconda metà del secolo, la crescita di Hong Kong, Taiwan, Corea, Singapore e, per ultimo, Thailandia, Indonesia, in parte anche le Filippine, non ha avuto, in verità, natura "miracolosa". Si tratta di un utilizzo concentrato di capitali autoctoni formatisi in simbiosi col capitalismo internazionale, sui quali c'è stata la convergenza di ulteriori ondate di capitali esteri; questi capitali si sono fissati su piccole aree, attrezzate appositamente per attrarli e per produrre alti profitti. Ma le particolarità locali che riguardano il costo della forza-lavoro, la vicinanza con immensi mercati vergini, politiche fiscali attraenti, stabilità sociale, disciplina, leggi arcaiche sulla sicurezza ambientale e così via, non possono durare in eterno: il capitalismo crea e distrugge le particolarità, livella il mondo intero al capitale più avanzato, stabilisce da sé dove impiantare i suoi centri di servizio e dove abbandonarli quando non gli servano più.

Solo in Giappone (e Sud Corea, che ne copiò più tardi il modello di sviluppo), di fatto, l'applicazione di particolari criteri organizzativi (vecchi o nuovi, poco importa) si è tradotta in un consistente incremento di produttività ovvero di efficienza economica globale (54). In tutti gli altri paesi di giovane industrialismo compresi nell'area del Sud Est asiatico, lo sviluppo è invece derivato da un'imponente mobilitazione di risorse produttive da parte dello Stato, sul modello ben sperimentato, e perciò già classico e anche un po' antiquato, dei capitalismi italiano, tedesco, americano e russo degli anni '30. Solo che in paesi come questi, il capitalismo drogato raggiunge il parossismo.

A Taiwan, il rapido progresso delle tecniche di coltura innestatosi su una antica tradizione agricola, permise da una parte un'accumulazione agraria e dall'altra rese disponibile in tempi rapidi una gran quantità di forza-lavoro ex contadina a basso costo. Con l'intervento dei cospicui aiuti statunitensi antimaoisti, l'industria nazionale, beneficiando della mano d'opera a basso prezzo, si sviluppò rapidamente verso la fine degli anni '60 a cominciare dal settore della trasformazione alimentare (canna da zucchero, frutta tropicale, semi oleaginosi, pesca), per poi espandersi anche in altri settori, come quello tessile e dei beni di consumo. I settori ad alta intensità di capitali, quello siderurgico, metalmeccanico, cantieristico, petrolchimico, vennero in seguito sviluppati con il sostegno della finanza statale nell'ambito di un programma di sviluppo per le infrastrutture industriali teso ad attirare capitali stranieri e ancora in corso. L'estrema economicità della manodopera e l'offerta di servizi a basso prezzo, richiamò quindi ingenti capitali esteri, per il 30-35% giapponesi, per il 25-30% americani, per il 15% europei. Traendo massimo vantaggio da tali investimenti, cioè trattenendo per quanto possibile il plusvalore sul territorio, l'economia taiwanese è riuscita, fino a questa crisi, ad autofinanziarsi per un buon 90%. La particolarità della posizione e della storia taiwanese han fatto sì che l'espansione non soffrisse dei confini limitati dell'isola (che è comunque più grande dell'Olanda e del Lussemburgo messi assieme), ma che espandesse i fattori produttivi sul territorio del nemico, la Cina Popolare, dove la forza-lavoro costava ancora meno. Ciò diede una sferzata alla produzione propria più che a quella delle filiali delle aziende straniere, tanto che l'economia orientata alle esportazioni riuscì ad integrarsi nel mercato internazionale con una linea ben individuata di prodotti. Nel 1992, le riserve valutarie di Taiwan ammontavano già a 84 miliardi di dollari, un'enormità per un paese così piccolo (il 7% delle riserve mondiali, che ammontano a 1.200 miliardi di dollari). Nel 1994, gli investimenti ufficiali realizzati in Asia da Taiwan superavano i 10 miliardi di dollari; nel 1993 il tasso di disoccupazione non raggiungeva l'1.4% e la produzione industriale costituiva il 39.5% del prodotto interno lordo.

Singapore ha goduto di altrettanti vantaggi, anche se la tipologia del suo territorio è diversa e assomiglia più a Hong Kong. Sorta su un'area di una sessantina di chilometri quadrati in cui si sono concentrati capitali di passaggio, provenienti soprattutto dalle attività portuali (è il quarto porto del mondo) e dai commerci della diaspora cinese, è un'enclave ad alta concentrazione di servizi e di industrie con 3 milioni e mezzo di abitanti sull'estremità Sud della penisola malese, verso la quale (o meglio, verso la cui capitale Kuala Lumpur) ha esportato il suo modello. Del resto il territorio è troppo limitato ed era inevitabile che l'economia di Singapore si allargasse alle aree circostanti. Tra il 1966 e il 1990, il tasso medio annuo di crescita dell'economia è stato dell'8.5%, tre volte quello degli Stati Uniti; il reddito pro capite è aumentato al ritmo del 6,6%, raddoppiando ogni dieci anni; La percentuale degli occupati sulla popolazione complessiva è passata dal 27 al 51%. Infine, dato di estrema importanza, nel 1990, la quota di plusvalore reinvestita era del 40% (contro l'11% del 1966). I bassi salari e il territorio organizzato a zone franche hanno attratto un'enorme massa di capitali esteri: americani (per il 42%), giapponesi (per il 28%), europei (per il 17%). Le multinazionali presenti a Singapore sono, oggi, più di 300. In questa situazione le strutture produttive si sono inevitabilmente spostate al di là del confine in Malaysia lasciando il posto alle attività di servizio del capitale globalizzato. Forse è anche per questo che a Singapore, la Svizzera dell'Asia, in modo forse più "professionale" che in altri paesi simili, la borghesia non permette che questo servizio venga disturbato, e l'accumulazione è sovrintesa da un apparato statale formalmente democratico ma sostanzialmente ultra-totalitario, in cui anche le minuzie personali sono regolate dall'autorità dello Stato e le infrazioni punite in modo spropositato.

Anche Hong Kong ha goduto di un'extraterritorialità appetibile per i capitali, ha basato la sua economia sull'attività portuale, sulla finanza e sull'esportazione, si è estesa sul territorio della Repubblica Popolare Cinese (dove la manodopera è a prezzo infimo) molto tempo prima di ricongiungersi ad essa, ha creato moderne infrastrutture per attirare il business mondiale, il tutto attraverso una pianificazione economica "liberista" governata dall'alto (il solo nuovo aeroporto con i ponti, i tunnel, le strutture marittime connesse e i trasporti ha mobilitato direttamente e indirettamente una cinquantina di miliardi di dollari, una cifra che nessun capitale privato poteva raggiungere se non attraverso la mediazione dello Stato).

Dunque, i capitali "globalizzati" trovano i loro punti d'appoggio e li moltiplicano, come è successo con Kuala Lumpur, con i distretti Thailandesi, con quelli indonesiani, birmani e anche quelli, giganteschi e forse già in crisi, della Cina Popolare. Queste strutture di servizi e di distribuzione della produzione (Taiwan, Singapore e Hong Kong ormai non producono quasi più nulla sul proprio territorio) sono funzionali e, se le cose stessero come dice il direttore del WTO, potrebbero vivere di vita propria come hanno fatto Hong Kong e Taiwan per anni, sviluppandosi e diversificandosi. Non sono nazioni né economie vere e proprie, quindi potrebbero ristrutturarsi velocemente secondo le esigenze del Capitale globale, essendo nate proprio per questo. Sono strutture che potevano tranquillamente proseguire per la strada che avevano intrapreso, rimanendo assolutamente indipendenti le une dalle altre, cosa che le aveva garantite dai precedenti segni di crisi provenienti da Ovest. Il mercato asiatico, pur con un interscambio più alto di quello occidentale, è molto meno integrato alla potenza guida regionale, il Giappone, di quanto non sia quello occidentale, che è legato agli Stati Uniti. La ragione è che sia il Giappone che i distretti tigreschi sono a loro volta legati agli Stati Uniti, che importano molto da essi.

Tutto ciò doveva effettivamente, in teoria, rappresentare un intreccio stabile, o almeno sintonizzato sull'apparente euforia del mercato americano. Invece ad un certo punto una crisi di proporzioni storiche ha colpito tutto l'Estremo Oriente con una sincronicità sorprendente. Perché?

Fenomenologia di una crisi

Non ci interessano le polemiche sorte col senno di poi fra i personaggi di questo o quel paese, di questo o quell'organismo internazionale, le accuse reciproche per gli errori commessi, le denunce di speculazione e in genere le migliaia di articoli che si sono scritti lungo i due anni di durata della crisi stessa (e non è ancora superata). Ci interessano invece i dati fondamentali su cui poggiava il sistema andato in crisi e le variazioni intervenute su questi dati.

Il primo dato fondamentale è che queste economie stavano passando da un relativo autofinanziamento medio a un indebitamento sostenuto. Il meccanismo è ben individuato, anche se gli istituti internazionali continuano a teorizzare che le ragioni del tracollo siano esclusivamente interne. La domanda interna è quasi ininfluente per le economie rampanti d'Asia: è stata la stagnazione della domanda occidentale e giapponese a provocare un calo delle esportazioni e quindi un calo delle entrate in valuta, per cui si è impennata l'inflazione, con riflessi immediati sul valore delle monete locali rispetto al dollaro.

Tutto ciò, in termini marxisti, si legge in un solo modo: l'estorsione interna di plusvalore nei paesi asiatici non era più all'altezza dell'ulteriore sviluppo, perché stava esplodendo la contraddizione fra l'alto saggio di profitto dovuto all'estrazione estensiva del plusvalore (bassa produttività) e il necessario passaggio all'estrazione intensiva (alta produttività, alta composizione organica, alto saggio di sfruttamento, alta sovrappopolazione relativa in paesi dove la sovrappopolazione è già assoluta). Se è così, e non si vede quale altra spiegazione possa esservi, la crisi asiatica segna un'importante fase dello sviluppo mondiale: la globalizzazione dell'estrazione di plusvalore relativo, ovvero la definitiva, irreversibile e rivoluzionaria affermazione della sussunzione reale del lavoro al Capitale, ovvero la massima negazione del Capitale da parte di sé stesso.

Gli alti tassi di crescita delle Tigri e le facilitazioni per i capitali esteri, hanno effettivamente provocato disponibilità per un'ulteriore crescita, per cui il circolo "virtuoso" ha richiamato capitali ad alta disposizione di rischio, investimenti di portafoglio di breve e brevissimo termine. Da dove venivano se non dall'esuberante e ineguagliata estorsione di plusvalore occidentale? E' vero che con questo le Tigri hanno potuto finanziare di tutto, i grattacieli gemelli più alti del mondo, i centri commerciali più grandi del mondo, il ponte più lungo del mondo, l'aeroporto più efficiente del mondo ecc. Ma è anche vero che le loro economie, spinte dall'inerzia dei passati successi a funzionare come al solito, non hanno tenuto conto, esattamente come successe già in Giappone, che il boom economico di 15 anni aveva portato una quantità enorme di plusvalore a fissarsi come lavoro morto, soprattutto nella rendita immobiliare urbana, sui cui prezzi si fissano i prestiti ipotecari e in genere le garanzie sulla circolazione di capitale creditizio. Ma il prezzo immobiliare, che rappresenta il valore passato, non è valore attuale. Infatti il crollo dei prezzi immobiliari ha provocato uno squilibrio fra i prestiti e la loro copertura a garanzia, con relative restrizioni alla finanza facile.

Quando gli analisti degli istituti internazionali sono andati a vedere i conti per capire se si sarebbero potuti stanziare fondi di aiuto con sicurezza, hanno scoperto con sgomento che per molti anni, sempre sull'onda del boom economico, la maggior parte delle imprese si era indebitata senza ricorrere a ricoperture del rischio quando le loro garanzie erano venute meno. Così le banche avevano continuato a fornire prestiti (cioè avevano pompato plusvalore dall'Occidente e dal Giappone verso l'Oriente) fino all'assurdo. Per esempio, la Malaysia, uno dei paesi che più ricorreva agli investimenti interni per sostenere la sua crescita, ha visto crollare il mercato immobiliare e, subito dopo, il mercato azionario. Quest'ultimo ha perso, ancor prima che la crisi esplodesse in tutta la sua virulenza alla fine del '97, 58 miliardi di dollari, più dell'intero suo Prodotto Interno Lordo, mentre le banche denunciavano crediti interni per un ammontare pari al 170% del PIL. Lo stesso dicasi per le banche indonesiane, i cui conti non è stato possibile verificare neppure dopo la crisi e che si stima abbiano accumulato un debito verso l'estero (per finanziare attività interne) pari a 90 miliardi di dollari, di fronte a riserve centrali dell'Indonesia pari a 21 miliardi. Tutte queste cifre vanno lette con l'attenzione rivolta alla grande massa di capitali dei paesi sviluppati che si era fissata nelle economie asiatiche (55).

Il sistema del credito alimentava ancora l'economia, ma non poteva durare e infatti non è durato. La Corea, in crisi da tempo, per esempio, drogava l'economia e manteneva aperte le fabbriche fallite, col risultato di indebitarsi, per cui il Fondo Monetario Internazionale dovette intervenire con urgenza versando la prima tranche di 16 miliardi di dollari su 57 miliardi in tre anni (per fare un confronto, la crisi messicana richiese un intervento pari a 30 miliardi di dollari). Non appena gli investitori stranieri, specie i fondi assicurativi americani che hanno bisogno di alte performance per garantire l'assistenza ai loro iscritti, si accorsero del potenziale pericolo, incominciarono a rifluire verso Wall Street. I livelli assurdi cui è giunta la borsa americana riscuotono comunque fiducia sia per l'andamento dell'economia interna, sia per l'atteggiamento del governo, il quale lascia capire, per bocca dei suoi rappresentanti più significativi (il ministro del Tesoro è particolarmente attivo) che è in grado di manovrare globalmente per prevenire disastri. Non può essere del tutto vero, ma intanto il Dow Jones schizza verso l'alto stracciando un record alla settimana.

Non può essere del tutto vero perché i disastri del capitalismo non si possono prevenire, ma che gli Stati Uniti siano in grado di manovrare globalmente, questo sì. I soldi che il FMI presta ad un paese in crisi provengono da banche di molti altri paesi e vengono versati sulla banca centrale che li distribuisce secondo politiche concordate. Finora la maggior parte di questi fondi sono sempre finiti nelle tasche dei creditori, quindi sono stati usati per ripianare debiti precedenti, come è effettivamente successo in Messico. Ciò significa, in generale, che gli Stati Uniti, il più grande paese investitore del mondo ma anche il più grande prestatore di denaro tramite le sue banche private (il prestito è anche un buon investimento quando ritornano gli interessi), utilizzano il FMI quando questi prestiti rischiano di non essere onorati; e il Fondo rastrella soldi presso banche di paesi terzi affinché il debitore in difficoltà possa restituirli alle banche degli Stati Uniti (con gli interessi, naturalmente).

La moneta globale crea sé stessa

Il bello è che gli Stati Uniti, il più grande prestatore privato di denaro tramite le banche, sono nello stesso tempo il più grande debitore pubblico del mondo: il Giappone, per esempio, detiene circa un terzo del debito pubblico americano sotto forma di titoli di stato a lunga scadenza, e il dollaro, il tanto decantato dollaro, è moneta (cioè titolo di credito verso uno Stato) inconvertibile. Che è come dire: chi ha dollari non può restituirli al governo degli Stati Uniti in cambio di qualche altra moneta o di oro, ma può solo darli a privati americani in cambio di merci o servizi.

Occorre spendere alcune parole su questo fatto perché influisce sull'intera economia internazionale. Nel 1971 fu dichiarata l'inconvertibilità con l'oro e nel 1973 fu ritoccato il rapporto interno da 32 a 42 dollari l'oncia. Ora, se si trattasse soltanto dell'inconvertibilità giuridica, non ci sarebbero problemi, perché tutti sanno che il dollaro era già inconvertibile in pratica, come tutte le altre monete (dichiarazione o no, non c'è oro abbastanza nel mondo). Ma il dollaro è moneta di riserva e anche di scambio internazionale, perciò in dollari sono i pagamenti e soprattutto i crediti internazionali. Se per esempio una banca tedesca ha un credito in dollari presso una banca americana, può fare un prestito in dollari a un industriale tedesco, il quale li deposita - poniamo - presso una banca in Italia dove ha un'attività industriale e deve fare investimenti diluiti in un anno. La banca italiana ha ora un deposito in dollari fra altri depositi in dollari e fa un prestito a un industriale italiano che ha interessi in Francia e deposita in una banca francese e così via.

Siccome i depositi sono una scrittura contabile momento per momento, nessuna banca può sapere - quando presta dollari - se e come dall'inizio della catena si sono sovrapposte le operazioni che durano un anno; vi è quindi creazione di dollari, emissione di moneta senza copertura. E' vero che ogni banca nazionale emette valuta senza copertura in base alla sola potenza produttiva, ma c'è sempre, nei pagamenti internazionali, una possibilità di compensazione tramite le Clearing Houses fino alla Banca Centrale degli Stati.

Invece, per quanto riguarda il dollaro, moneta speciale, la compensazione non c'è e non può esserci, perché il sistema dello xeno-dollaro è un sistema aperto, che perde depositi e non ha il "prestatore di ultima istanza", cioè la Banca Centrale degli Stati Uniti. Infatti sono contabilizzati dalle Clearing Houses solo i dollari in uscita e in entrata dagli Stati Uniti (come per tutte le altre monete), non i dollari creati con le operazioni contabili all'estero; e la Banca Centrale non può riconoscerli perché non li ha mai emessi. Il risultato pratico è che l'inconvertibilità dichiarata da Nixon nel 1971 giuridicamente è con l'oro, ma è in realtà un'inconvertibilità assoluta.

Non è la prima volta che succede. Dal 1947 al 1955, anche la sterlina risultò parzialmente inconvertibile: si poteva convertire solo quella guadagnata nell'area del dollaro e non quella trasferibile, guadagnata nell'area della sterlina. L'effetto fu che veniva convertita ugualmente in dollari e in altre valute al mercato nero scontando un prezzo di rischio. Che cosa potrebbe succedere oggi al dollaro se perdesse molta della sua importanza come moneta di scambio mondiale, non lo sa nessuno. Sta di fatto che molta parte dell'economia mondiale sta funzionando con dollari che non esistono (56).

Al culmine della crisi asiatica, quando il FMI voleva imporre condizioni troppo dure alla Corea (poi imposte comunque), questo paese protestò per il palese favoritismo nei confronti degli Stati Uniti, verso i quali il flusso di denaro doveva ritornare. L'Economist diede ragione alla Corea, aggiungendo che anche il Giappone era favorito, in quanto creditore. In sostanza il FMI sosteneva che, di fronte alla globalizzazione, la Corea doveva liberalizzare il proprio mercato (già sentita, no?) e la Corea dimostrava, cifre alla mano, che con la crisi, la moneta nazionale ai minimi, le banche sull'orlo del fallimento e molte industrie con l'acqua alla gola, gli Stati Uniti, da veri sciacalli, si stavano comprando interi settori dell'economia e della finanza a prezzi ultrastracciati.

Lo stesso stava accadendo in altri paesi asiatici ed era accaduto prima in altre parti del mondo, Europa compresa. Solo che i meccanismi adesso erano diversi e la terapia del Fondo rischiava di ottenere effetti ancora più catastrofici della malattia, rischiava cioè non tanto di ammazzare i pazienti quanto di schiavizzarli. La terapia è la solita, quella utilizzata con "successo" nel resto del mondo da molto tempo, specie in America Latina: una drastica politica monetaria con alti tassi, freno dei consumi e tagli alla spesa pubblica, blocco dei salari.

Ma le Tigri non sono il Messico, dove vi era un eccesso di consumo e di importazioni, carenza di riserve valutarie per pagarle, mancanza di risparmio privato e una spesa pubblica eccessiva (e dove comunque il risanamento ha portato il potere d'acquisto dei salari al 50% di quanto non fosse prima della cura). Nei paesi asiatici la finanza allegra non è quella dei governi dirigisti, che funzionano mediamente bene, nonostante le mafie, ma quella dei privati liberisti. I bilanci pubblici erano in pareggio o addirittura in surplus, l'inflazione era bassa, il risparmio privato era alto, la capacità di esportare ancora altissima. Le Tigri erano già nelle condizioni che il Fondo richiede sempre per avviare la cura delle economie in crisi. Il problema è un consumo interno troppo basso, una sovraccapacità produttiva di fronte a una diminuzione delle esportazioni e soprattutto profitti in calo. Quest'ultima condizione è essenziale per capire l'abbandono dei capitali: essi hanno bisogno di un alto saggio di profitto per bilanciare quello basso dei paesi d'origine; se anche le Tigri asiatiche diventano paesi a basso saggio, non ha più senso "investire" (le virgolette sono d'obbligo perché ormai si chiama investimento un po' di tutto). Infatti la cura non ha finora dato esito positivo: il primo parametro da riequilibrare era il valore della moneta nazionale, ma da quando il Fondo ha imposto i suoi criteri, l'insieme delle monete asiatiche è crollato del 40%.

Quindi la stretta monetaria voluta dal FMI provocherà nell'immediato recessione, ulteriore fuga di capitali, abbassamento dei salari, alti tassi per richiamare i capitali (fino a quattro volte il tasso d'inflazione programmato), quindi, quando questi capitali siano giunti, ulteriore flusso in uscita per pagare interessi (oltre a quelli dei prestiti immediati)… flusso in uscita verso dove? Verso gli Stati Uniti, naturalmente (57).

Note

(40) K. Marx, Il Capitale II, Editori Riuniti, pag.108.

(41) Ibid. pagg. 108-109.

(42) Ibid.

(43) Come abbiamo già visto a proposito dell'estensione del monopolio anche ai rami non legati alla proprietà del suolo, ciò può valere non solo per le società ma anche per gli Stati.

(44) Per fare un esempio: consolidata la propria posizione sul mercato di origine (a scala continentale), le corporation nordamericane assunsero subito, a cavallo fra il XIX e il XX secolo, carattere mondiale: alla data 1914, negli Stati Uniti gli investimenti esteri diretti, buon indice di tendenza imperialistica, equivalevano al 7,3% del PNL, quota addirittura superiore a quella 1992 (cfr. E. Kapstein. "We are US: the myth of the multinational", The National Interest, n. 26, 1991-92, pagg. 55-62.

(45) UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo) 1996.

(46) Tutti questi dati sono di fonte UNCTAD, 1994.

(47) Questo sistema, fra l'altro, permette complessi giochi di sovra e sotto-fatturazione, di scambio fittizio di materie prime e manufatti, di finte esportazioni, di spostamenti di attività ecc. con i quali, all'interno delle holding, è possibile speculare sulle valute, sulle differenze dei sistemi fiscali, sull'accesso a finanziamenti agevolati nei diversi paesi, permette insomma tutta una serie di manovre estremamente lucrative e assolutamente incontrollabili dalle autorità statali. Un esempio soltanto: gli swaps sono accordi fra aziende di paesi diversi che si scambiano titoli o finanziamenti a tasso fisso o variabile a seconda dei vantaggi che maturano nel tempo a causa delle variate condizioni di credito nei diversi paesi: è evidente che una holding internazionale, può erigere a sistema permanente, programmato dal centro, questo tipo di scambio fra le sue filiali o consociate.

(48) Cfr. Fortune, 5 agosto 1996.

(49) UNCTAD, Programme on transnational corporations, 1993.

(50) K. Marx, Il Capitale III, Editori Riuniti pag.110.

(51) La traduzione comunemente usata: "diminuzione del salario al di sotto del suo valore" non ha senso compiuto, in quanto se il salario diminuisce, quello è il suo valore.

(52) Vi sono degli osservatori, tra gli stessi borghesi, che attribuiscono agli Stati Uniti molta più volontà machiavellica e planetaria di quanto questo pur strapotente paese non riesca effettivamente a mettere in pratica. La politica americana a volte è goffa e contraddittoria, a volte è di un'ingenuità poco credibile, a volte è sfacciatamente pianificata dalla Segreteria di Stato con le lobby economiche, ma la sua forza non sta tanto nella presunta volontà di ottenere sempre e comunque un certo risultato quanto il raggiungimento di esso attraverso il normale decorso delle spinte economiche e politiche molecolari dovute all'esuberanza di quel particolare paese. Nel nostro Quaderno sul capitalismo senile, in quello sulla crisi dell'Est, in quello sulla Guerra del Golfo, nella nostra Lettera n. 30 (intitolata 10 anni) ecc. ci siamo occupati di questo aspetto.

(53) Ce monde qui nous attend, Grasset, Paris.

(54) Almeno sino al 1991. Dal 1973 al 1992, il prodotto interno lordo giapponese è aumentato del 3.7%, contro l'8.9% del decennio 1960-69: il rallentamento statunitense, a partire dal 1973, non è stato tanto drastico. Per molti analisti borghesi, il tasso di crescita potenziale del Giappone non supera, attualmente, il 2% (incremento possibile, peraltro, solo con un'elevatissima quota di investimenti, quasi doppia rispetto a quella degli Stati Uniti).

(55) Il Giappone è il paese più esposto di tutti; il Ministero delle Finanze era convinto che il sistema bancario avesse crediti inesigibili per 210 miliardi di dollari, mentre in effetti, e lo si seppe dopo un controllo a crisi scoppiata, l'esposizione era di 600 miliardi (quasi l'ammontare del PIL italiano).

(56) Va detto che non è necessario stampare biglietti di banca per creare moneta. Nel sistema del credito, attraverso vari titoli, vi è spontanea creazione monetaria quando il mercato lo richieda, e così è successo al dollaro. Solo che in un sistema chiuso la creazione monetaria è controllabile dallo Stato, mentre in un sistema aperto nessuno può controllare.

(57) Che il fenomeno dei flussi finanziari verso l'America sia dovuto al fatto che "piove sul bagnato" o che sia voluto dal governo americano, non ha importanza e non lo sapremo mai. Un flusso del genere era stato possibile con la crisi petrolifera, quando la decuplicazione del prezzo del greggio aveva provocato un gigantesco drenaggio di plusvalore dai paesi industrializzati verso i paesi arabi, i quali non potendo ovviamente utilizzare quella massa enorme di capitali, li dirottavano verso le banche americane e inglesi, tramite le quali venivano finanziati investimenti a basso costo. Per di più le riserve americane vedevano decuplicato il loro valore e le Sette Sorelle di allora, di cui sei erano americane, commercializzavano la quasi totalità dei prodotti petroliferi, i cui profitti erano ovviamente da calcolare in percentuale sui prezzi decuplicati.

Lettere ai compagni