Il prezzo della supremazia

Gli Stati Uniti sono la potenza che ha sostituito l'Inghilterra nell'egemonia imperialistica mondiale. La contraddizione dell'imperialismo egemone è quella di essere costretto dalla sua stessa esuberanza di capitali a finanziare il resto del mondo, in cambio di un ritorno economico che gli permette di vivere come paese "rentier". Ma ciò ha un prezzo: il finanziamento a termine (incognito) delle condizioni (conosciute) che uccideranno il capitalismo.

Marx mette in evidenza, nell'articolo che precede [Commercio britannico], non solo le relazioni che esistono fra l'Inghilterra imperialista e altri paesi con un più basso grado di sviluppo, ma soprattutto le conseguenze incrociate fra l'imperialismo egemone e gli altri paesi sviluppati. Quando si parla dell'imperialismo, afferma in pratica Marx, non si può parlare solo delle colonie, ma si deve parlare anche dei complessi rapporti tra gli imperialismi. E' lo stesso discorso che riprenderà Lenin nel suo lavoro sull'imperialismo e che renderà esplicito nella prefazione per le edizioni francese e tedesca del 1921: i fenomeni sociali odierni sono talmente complessi che non si possono addurre dati isolati dal contesto; l'imperialismo è guerra generale, e non si può analizzare la causa della guerra imperialistica moderna senza analizzare le relazioni tra tutti i paesi e tra tutte le classi in tutto il mondo.

Da questo punto di vista, nonostante l'imperialismo abbia sviluppato nuovi mercati e abbia affinato le sue tecniche di dominio, le cose non sono per nulla cambiate, anzi, siamo obbligati più che mai a tener conto di fattori sempre più globali.

Ciò che invece è cambiato, e parecchio, è il rapporto dell'attuale imperialismo egemone con i paesi subordinati, soprattutto per quanto riguarda i futuri eventi storici. La sequenza degli imperialismi che controllano le finanze mondiali, possessori di capitali esuberanti che si rapportano col mondo intero, va dalle repubbliche marinare all'Inghilterra ed è qui ricordata da Marx en passant, ma altrove è ben studiata. Tale sequenza ha sempre mostrato la decadenza di un imperialismo e la sua sconfitta da parte di un altro più dinamico e più potente, ma oggi è giunta alla fine.

Quando una ventina d'anni fa cercammo di spiegare i motivi di questa nostra affermazione con dati che mostravano il declino della quota americana di produzione e commercio, vi furono delle perplessità in alcuni nostri interlocutori che non credevano fosse in atto un reale declino nella forza degli Stati Uniti, né tantomeno che questo si stesse verificando senza che un altro imperialismo riempisse il vuoto lasciato. Il loro ragionamento non teneva conto del fatto che già la Sinistra Comunista aveva dimostrato, sia dal punto di vista formale che con le cifre alla mano, che quella del "quantitativismo produttivo" era un'epoca trascorsa e irripetibile e che quindi ogni proiezione dei dati economici rispetto al presente doveva tener conto della legge fisica sui saggi decrescenti di sviluppo. Gli Stati Uniti, dicevano, sono una potenza industriale e finanziaria enorme che fa ancora vedere i sorci vedi a tutti (e questo è vero); d'altra parte sono pur sempre un paese come gli altri, e quando decadenza ci sarà, perché non immaginare che la sequenza possa continuare?

Lenin avrebbe detto che un tale ragionamento soffriva di un difetto immediatista: non è l'osservazione "locale" che ci dà la soluzione del problema. All'inizio degli anni '80 le soluzioni ultraliberiste d'America e d'Inghilterra avevano risolto problemi di struttura di bilancio interna ai due paesi, ma l'analisi della struttura finanziaria mondiale dimostrava che la faccenda non era così semplice. Intanto il liberismo imposto da uno Stato sarà liberismo per gli "altri" ma è certamente statalismo spinto da parte di chi lo impone. In secondo luogo, e la questione è strettamente collegata, un liberismo finanziario mondiale che passa quasi unicamente attraverso due centri mondiali di smistamento di capitali, gli Stati Uniti e l'Inghilterra, non solo non è liberismo ma è imperialismo dirigista globale del più tosto. In terzo luogo, e questo ci collega all'articolo di Marx e ai nostri scettici interlocutori di vent'anni fa, questo nuovo imperialismo anglosassone sarà più potente rispetto a quello analizzato da Marx, ma soffre degli stessissimi problemi perché ha la stessissima struttura produttiva e finanziaria: non c'è esuberanza di capitali senza esuberanza di merci, e quella d'America è esuberanza all'ennesima potenza. Come la lana, il cotone e i manufatti inglesi citati da Marx, non tutte le merci americane sono "americane", nel senso che l'America movimenta buona parte delle materie prime, delle merci e dei capitali mondiali, commercializzando il tutto in varie forme. Tutti sanno che la quota americana di produzione fisica e di commercio diretto rispetto al resto del mondo è diminuita notevolmente, e questo è già di per sé un segno di declino; ma non tutti badano a sufficienza al parametro più importante, che è il rapporto fra il capitale movimentato (che è immenso) e le merci prodotte (che sono sempre meno). Se l'esuberanza di capitali è, e non può essere altrimenti, esuberanza di merci, da dove spuntano queste ultime se non sono prodotte in America? Spuntano dalle reimportazioni, come dice Marx, che in parte sono certamente il frutto dei precedenti capitali impiegati in giro per il mondo; capitali, badiamo bene, non solo americani ma anche di possessori esteri che investono in America.

Per quanto sia complicato il sistema finanziario attuale, esso si basa sempre sulla produzione, sul profitto, sull'interesse e sulla rendita. Chi avesse il potere di demandare agli altri la produzione e controllare i tre corni restanti del problema, sarebbe nella condizione lamentata dal London Times citato da Marx: le perdite della nazione si accumulano senza che nessuno apparentemente lo sappia. In compenso quella nazione ha in mano il mondo e il mondo è costretto ad accettare di buon grado la situazione, altrimenti non saprebbe dove diavolo piazzare le sue merci. Questo processo fa sì che l'imperialismo degli Stati Uniti stia finanziando il sistema mondiale che li ucciderà. Esattamente come previde Marx per l'Inghilterra. E la previsione era esatta perché scritta nel movimento materiale del capitalismo in espansione dell'epoca.

Oggi il meccanismo è lo stesso: l'America ha preso il posto dell'Inghilterra, ma il contesto non è più quello di un capitalismo in espansione quantitativa, quello delle ferrovie, del carbone, dell'acciaio, degli immensi opifici con milioni di operai; non è nemmeno più quello del petrolio e dell'energia, è quello della produzione "snella" e dei servizi. Se raffigurassimo il capitalismo come un albero, vedremmo in esso un'inversione storica rispetto a un tempo: una volta la fabbrica era il tronco, con le sue radici e i suoi rami che producevano frutti, cioè "fruttavano" capitali; oggi il Capitale ormai accumulato è diventato un tronco che produce fabbriche come frutti. La fabbrica, anche se continua ad essere l'elemento da cui proviene ogni possibilità di ulteriore valorizzazione, non è più il fattore primo del capitalismo, ma il prodotto: il capitale esistente è alla ricerca spasmodica di campi d'investimento e quindi emigra, riportando il profitto al luogo di partenza. L'albero è diventato imponente, è vero, ma è vecchio e con gravi problemi di circolazione della linfa vitale.

In Marx vediamo, in forma embrionale, ciò che la Sinistra Comunista ha poi sviluppato sulle stesse basi: il capitalismo avanzato non è altro che la massima espressione del dominio del lavoro morto (lavoro passato, capitale che deve valorizzarsi), sul lavoro vivo (processo di produzione, applicazione della forza-lavoro viva dell'operaio). Chi non vede e non sente, neanche con l'intuito rivoluzionario, questo rovesciamento, non ha cittadinanza nel partito della rivoluzione perché in cuor suo ha già accettato l'eternità del Capitale.

Ogni ragionamento che derivi da una visione "locale" dei problemi, con ciò intendendo il maledetto approccio individualistico e parziale, immediatistico, invece di quello "globale" tipico dei grandi schemi formali di Marx, porta inevitabilmente a grossi abbagli. Gli stalinisti, per esempio, sulla base della sola politica, della propaganda e di indubbie realizzazioni come l'industria pesante e quella spaziale, erano convintissimi che il testimone dell'egemonia mondiale sarebbe passato alla Russia. Il fatto che la Russia fosse un paese altrettanto protetto degli Stati Uniti nelle sue frontiere, che fosse altrettanto abitato, vasto e ricco di risorse, e quindi apparentemente altrettanto forte dal punto di vista economico e militare, sembrava giustificare certe proiezioni. I fatti si sono incaricati di dimostrare che questo paese non solo era capitalista come gli altri, ma era anche intrinsecamente debole, non aveva un'economia paragonabile a quella dei paesi più sviluppati, come la Sinistra aveva sempre affermato.

Oggi gli stalinisti sono estinti, ma il mondo è pieno di gente che vede dappertutto infinite possibilità di sopravvivenza del capitalismo. Vi sono molti borghesi che vedono nella Cina o nell'India i candidati ad una futura, anche se ancor lontana, potenza egemone e sperano ardentemente che i nuovi mercati possano dare una frustata all'economia mondiale e quindi ai loro capitali. Per questo vanno in processione nei nuovi distretti industriali come Shanghai, dove prima della crisi "asiatica" erano in funzione - solo in quell'area - metà di tutte le gru da cantiere esistenti nel resto del mondo (il dato è citato da George Soros, il finanziere, nel suo ultimo libro, La crisi del capitalismo globale).

A parte il fatto che bisogna essere ben pessimisti come rivoluzionari per immaginare una sequenza senza fine, non sono questi i parametri su cui far conto per sapere quale sarà il futuro dell'imperialismo. Abbiamo pubblicato questo articoletto inedito di Marx perché ci aiuta a capire per quali vie possa maturare l'intrinseca debolezza che mina l'ultimo grande imperialismo e lo predispone agli attacchi della rivoluzione. Nessuno dice che ciò avverrà in tempi brevi, ma è certo che la eventuale comparsa di forze antagoniste dell’attuale egemonia americana scatenerebbe una guerra preventiva; e nessuno, neppure una coalizione di Stati, oggi avrebbe l'insensatezza di immaginare una situazione di guerra contro l'America. La realtà ci dimostra che siamo piuttosto di fronte a una situazione opposta: pur di non perdere prestigio agli occhi degli Stati Uniti, vaste quanto improbabili coalizioni di Stati si scagliano contro il primo moscerino che osi uscire dai piani prestabiliti dell'imperialismo maggiore. E allora? La rivoluzione è inchiodata ai disegni americani? Sappiamo da un pezzo che la storia, pur essendo fatta da uomini e da esecutivi che gli uomini formano per governare gli Stati, non si svolge come gli uomini vorrebbero, bensì secondo determinazioni materiali più forti di ogni volontà. Come l'Inghilterra, gli Stati Uniti finiranno per "mettere così in pericolo la loro ricchezza acquisita, proprio nel tentativo di aumentarla e conservarla". L'imperialismo americano gode, sugli altri imperialismi, di un vantaggio che, per la prima volta, non è eliminabile dalla corsa di altri avversari per quanto potenti in futuro. Si tratta di condizioni storiche e fisiche, contrastabili soltanto dalle contraddizioni interne dello sviluppo americano: l'enorme capitale accumulato in forme che non sopportano oscillazioni di mercato, come i fondi d'investimento assicurativi e pensionistici; la necessità di investire all'estero e reimpiegare i profitti o in ulteriori investimenti o in importazioni, aumentando così il debito commerciale; il circolo vizioso del dollaro, che è carta straccia per quanto riguarda la sua creazione virtuale nelle transazioni internazionali, ma è moneta ambita proprio perché moneta di conto mondiale, e quindi cara, cosa che facilita il pagamento delle importazioni americane ma deprime le esportazioni; ecc.

Gli Stati Uniti sono dunque da tempo non solo nella condizione descritta nell'articolo di Marx, con un debito incalcolabile nei confronti del mondo, ma anche nella condizione di non poter far nulla il giorno che questo debito dovesse essere messo in discussione da una crisi sistemica. La creazione di una forte aristocrazia operaia interna ha per corollario un grande bisogno di manodopera a basso prezzo, che proviene dall'estero e, mentre l'indebitamento apparentemente infinito permette quel fragile equilibrio sociale che ogni tanto sembra esplodere a livello di "ordine pubblico" (ha provocato un milione di morti ammazzati in quarant'anni), un inceppamento del flusso rentier sarebbe catastrofico.

Perciò l'apparato militare, come giustamente sottolineano gli strateghi del Pentagono, può sempre meno prescindere dalla politica interna ed estera, il cui obiettivo è il controllo del flusso mondiale dei capitali e delle vie che essi percorrono, paesi, continenti, oceani. L'imperialismo americano, dunque, è strutturato politicamente e militarmente non tanto per rispondere, come ai tempi di Marx, ad una concorrenza o per rafforzare la propria egemonia, ma per mantenere in piedi l'intero mondo capitalistico che lo alimenta, come alcuni paesi concorrenti alimentavano l'Inghilterra facendosi finanziare ed esportando verso di essa. Ma c'è di più: l'ultima guerra mondiale e i suoi risultati hanno comportato un investimento massiccio di capitali americani in strutture produttive europee e queste hanno infine prodotto plusvalore che si è indirizzato anche verso gli Stati Uniti. Perciò la situazione attuale è più complessa di quella analizzata da Marx: non solo vi è un flusso di merci contro capitali nel quale tener conto di materie prime rilavorate; vi è un flusso incrociato mondiale di merci e capitali in ogni direzione, flusso di cui gli Stati Uniti sono l'unico arbitro. Ma essi sono anche l'unico paese che, diventato il centro nevralgico del mondo, può, con un suo collasso, farlo saltare con effetti a paragone dei quali qualunque crisi passata è poco o nulla.

Dal punto di vista militare la forza immensa espressa da questa esigenza di vita o di morte è strutturata di conseguenza: essa è imbattibile non tanto perché è la più grande e dotata di mezzi (altre forze del passato che sembrava non potessero mai essere sconfitte sono state infine battute e gli stessi americani qualche seria sconfitta locale l'hanno avuta, come in Vietnam) quanto perché tutti i suoi veri avversari ne hanno bisogno, essendo parte integrante del sistema. Germania e Giappone, gli unici concorrenti effettivi degli Stati Uniti, non possono muovere un dollaro, un marco o uno Yen senza provocare reazioni nell’enorme massa di capitali americani che può travolgerli nel giro di poche ore.

Il Giappone, che sarebbe la sola potenza al mondo in grado di avere una forza militare paragonabile a quella americana, non ha nessuna possibilità di utilizzarla nella sua antica area d'influenza, dato lo sviluppo della Cina, della Russia, dell'India e della consolidata presenza aeronavale americana nel Pacifico. Gode di un'esuberanza produttiva che ha portato le sue merci a dominare interi settori di mercato e ad accumulare un capitale borsistico doppio di quello di Wall Street, ma è stato schiacciato sul piano del movimento globale dei capitali, dominato dagli Stati Uniti. Da quasi dieci anni sta cercando di sollevarsi e il suo capitale finanziario si è più che dimezzato. Avendo esportato ed esportando grandissima parte della sua produzione negli Stati Uniti e poiché il suo capitale finanziario è investito quasi tutto in attività americane e in aree asiatiche tributarie degli Stati Uniti, il Giappone non può materialmente agire contro il capitale americano. Così la Germania e il resto dell'Europa. Così l'Asia.

Le apparenze, rafforzate dalla maniera mediatica di condurre le guerre moderne, non corrispondono a nessuna realtà militare. Non sono certo "avversari" i piccoli paesi che ogni tanto cadono sotto le bombe della guerra attuale: essi sono, nel contesto mondiale americanizzato, cespugli da potare, oggetti fuori posto da mettere in ordine. Nell'articolo L'imperialismo delle portaerei, del 1957, la Sinistra Comunista sottolineò il fatto che l'imperialismo come sistema globale si era dato una macchina da guerra altrettanto sistemica e globale, la flotta aeronavale, e con questa aveva sconfitto definitivamente il vecchio imperialismo degli eserciti e delle marine. Non esiste nessun imperialismo, al di fuori di quello statunitense, che non sia ancora basato su eserciti e marine che, per quanto dotati di strumenti moderni, sono di per sé ferri vecchi, buoni solo ad essere integrati nel sistema globale della pax americana.

La Sinistra quindi descriveva non solo l'avvento di una struttura imperialistica nuova, ma anche la definitiva sconfitta delle borghesie concorrenti che vagheggiavano gli Stati Uniti d'Europa in grado di fare concorrenza all'America. Nello stesso tempo anticipava la sconfitta economica dell'URSS che non avrebbe affatto potuto "competere" pacificamente con l'imperialismo maggiore come pretendeva. I nazionalcomunisti, abbacinati dalla forza sovietica vista come raddrizzatrice di torti e portatrice di democrazia anti-imperialistica, erano degli illusi: contro il sistema integrato mondiale dell'imperialismo moderno non c'è altra arma che la sua stessa potenza gravida di contraddizioni. Per questo la rivoluzione, che non potrebbe mai affrontare di petto le armi intatte dell'avversario, ha già in pugno la sua vittoria.

Rivista n. 1