Il paradigma del ponte alluvionato

Alluvioni a ripetizione nel Nord Italia. Allagamenti, frane, morti, sfollati e promesse di ricostruzione. Alla tragedia fa seguito la farsa, la girandola di parole vuote, la pedanteria dei saccenti intorno alla colpa di qualcuno e ad invocati provvedimenti. Ma per provvedere a cosa?

Nel contesto specifico si tratta per lo più di luoghi comuni. Sull'amplesso contro natura fra Terra Vergine e Capitale Satiro, specie in questa Friabile Penisola è stato già detto molto. La storica serie di articoli della Sinistra Comunista pubblicata nei Quaderni risponde non solo al fatto contingente del disastro capitalistico, ma soprattutto al generale e complesso problema del rapporto uomo-natura. E' questo rapporto che i tardivi quanto incoerenti critici ecologisti non riescono a cogliere nella sua essenza quando cercano responsabilità e invocano prevenzione. L'uomo prodotto dalle varie società di classe non è più responsabile – né può esserlo – di quanto non lo siano i fenomeni che hanno ridotto il Sahara, un tempo lussureggiante, ad un deserto. L'ecologismo è una moda recente e si estinguerà non appena questa disciplina sarà inglobata nell'insieme delle conoscenze scientifiche; basta, a dimostrare la sua vacuità, il problema – per nulla contingente, neppure in termini di secoli – dell'assetto idrogeologico del territorio.

Con il termine di alluvioni si designano, non a caso, sia gli allagamenti di terre che le terre stesse, quando queste risultano da depositi di materiale trasportato dalle acque. Le alluvioni sono tra le formazioni geologiche più comuni in Europa e l'agente che ne è "responsabile" è l'acqua corrente, la quale esercita una forte azione distruttiva sui materiali che incontra sul suo percorso e li trasporta per depositarli altrove. Man mano che diminuisce la pendenza, e quindi la velocità dell'acqua che scorre, varia la composizione del materiale trasportato e depositato: i massi, i ciottoli e le ghiaie si fermano prima, mentre le sabbie, le argille in sospensione colloidale e gli altri materiali in soluzione vengono portati a grande distanza.

Oggi abbiamo fertili coni di deiezione, terrazzamenti, pianure e terre coltivabili proprio perché nel passato vi sono stati ghiacciai, morene, alluvioni, frane, trasporto di materiali e successiva formazione di humus. I fiumi hanno lasciato sedimenti sulle sponde, si sono alzati di livello, hanno cambiato corso, livellato le asperità e smistato ulteriormente i primitivi depositi e gli stessi terreni fertili, com'è testimoniato anche da reperti di età storica, ponti e porti interrati, fiumi deviati, insediamenti sepolti sotto strati alluvionali. Dove allora costruire, abitare, passare se, nell'incessante lavorìo della natura lungo i millenni, non possono non franare le alture e allagarsi le pianure?

L'uomo è vissuto per milioni di anni senza avere una dimora fissa: se c'erano frane e allagamenti, ne era coinvolto come qualsiasi altro essere vivente sulla Terra: in modo casuale. Per altri millenni è vissuto stanziale, accumulando esperienza sui siti adatti all'abitazione, ha scelto con cura i luoghi dove costruire ed ha evitato, per quanto era nelle sue facoltà conoscitive, i luoghi pericolosi o malsani; quando non vi è riuscito è stato davvero per mancanza di conoscenza o per fatalità, a causa delle ragioni geologiche cui abbiamo accennato.

Da pochi decenni a questa parte la sua attività produttiva è esplosa e i suoi traffici sono aumentati enormemente. Ogni angolo del globo è stato sottoposto al ciclo del Capitale, ciclo che è incompatibile con quello della natura: quando si investe sempre più "a breve", cioè a mesi, è impossibile pensare ad un albero che cresce in cento anni per poter dare la merce legno, figuriamoci per dare copertura ai monti. Tanto più è impossibile pensare a organismi collettivi che dovrebbero intervenire con profitto a orizzonte di secoli in campo idrogeologico o altro.

D'altronde l'energia e il movimento sono la linfa della produzione e quindi del Capitale, perciò si continueranno a fare dighe e centrali, e si continuerà a bruciare combustibile per scaldare e spostare gli uomini con ogni mezzo, producendo i gas che innalzano la temperatura del globo e provocano il cambiamento del clima. E non ci sono "fonti rinnovabili" in campo energetico: in natura non c'è nulla di rinnovabile, neppure la fantasia nell'inventare luoghi comuni… meno comuni. Così abbiamo una biosfera alterata cui si aggiunge un dissesto del territorio che aggrava il fenomeno del dilavamento delle acque e dell'erosione, ma non lo provoca affatto. Ben altre energie hanno messo in moto i fenomeni che hanno dato luogo al paesaggio attuale dall'inizio dell'ultima era geologica, paesaggio cui l'uomo precapitalistico era riuscito ad adattarsi e con il quale aveva saputo convivere. L'uomo capitalistico con tutta la sua potenza non può.

Nelle alluvioni moderne il paradigma dell'opera capitalistica è fornito dai ponti: quelli moderni in cemento armato crollano, quelli antichi in pietra o laterizi, anche quelli romani, resistono, e non vale osservare che quelli travolti dalle piene non li vediamo più. E' un altro luogo comune affermare che i crolli sono dovuti a speculazione, errori di progetto o mancanze amministrative, per cui occorrerebbe "aprire un'inchiesta". Un colpevole si può sempre trovare, con l'andazzo amministrativo capitalistico, ma il vero problema è un altro e non ha soluzione.

Il ponte antico era costruito là dove l'esperienza accumulata suggeriva bassa probabilità di rischio. Era cioè costruito dove si poteva costruire. L'esperienza empirica entrava poi in un progetto teorico che teneva conto della tenuta delle sponde, dell'ampiezza delle "luci" e della durata nel tempo. Perciò era sempre sovradimensionato. L'abitato, specie nel medioevo, nasceva a volte dopo la costruzione del ponte stesso, quindi in luogo sicuro.

Il ponte moderno viene invece costruito dove serve. Tale criterio di allocazione delle risorse economiche infrastrutturali è esatto e razionale, perché la tecnica moderna è superiore a quella antica e i materiali sono di uso più flessibile. Ma qui non parliamo dei ponti che finiscono sulle riviste di ingegneria, parliamo di quelle migliaia che sopportano il viavai quotidiano e a cui nessuno bada. I ponti costano, specie se occorre armare ampie arcate. Anche i ponti antichi costavano, ma non erano costruiti da imprese capitalistiche e non vi era anticipo di capitale da investimento. Così, a differenza dei ponti antichi che avevano spesso luci ardite, la maggior parte dei ponti moderni tendono ad abbassarsi e ad essere costituiti da travi prefabbricate appoggiate su pilastri, mentre gli argini vengono imbrigliati in vario modo vicino all'acqua per diminuire il lavoro di terrazzamento, la lunghezza del terrapieno e quindi anche la lunghezza dell'opera complesiva. Indipendentemente dalla violenza (più o meno incentivata dall’uomo) dei fenomeni meteorologici e ambientali, ponti siffatti partono sconfitti nei confronti dell'acqua proprio a causa delle caratteristiche delle alluvioni, o anche solo dello scorrere normale dei fiumi, per loro natura fattori indomabili di mutamento del paesaggio.

Se è impossibile chiedere all'uomo di non mutare il paesaggio, non lo si può certo chiedere alla natura. La moderna tecnica capitalistica, per quanto razionale, scientifica e potente, non può competere con l'immensa energia cinetica che la natura è in grado di scatenare nell'incessante metamorfosi della crosta terrestre. L'uomo dovrebbe tener conto di questo dato di fatto, ma non potrebbe costruire in contraddizione con le esigenze del Capitale, il quale non è sensibile al manifestarsi del bisogno umano. La soluzione non consiste neppure in un ritorno alla prassi antica, perché essa contrapponeva ancora l'uomo alla natura, anche se in modo meno distruttivo di quanto succeda ora. Solo in una società che armonizzi il divenire dell'intera specie umana con la natura di cui fa parte il problema potrà essere affrontato razionalmente.

Rivista n. 2