La svolta

"Che cosa possono avere in comune le molecole che si strutturano in complessi auto-riproducenti, le cellule che si coordinano in organismi pluricellulari, gli ecosistemi e addirittura i sistemi economici e politici? L'ipotesi di lavoro è che la vita possa sorgere solo al limite fra l'ordine e il caos, vicino a una sorta di transizione di fase. I sistemi che si trovano in queste condizioni sono quelli che sono meglio in grado di coordinare attività complesse e di evolvere" (Stuart Kauffman).

"Niente mette a disagio uno scienziato più di una discontinuità, perché ogni modello quantitativo utilizzabile si fonda sull'impiego di funzioni continue" (René Thom).

In tutte le società la dialettica della presenza di due opposti, la continuità e la rottura, è del tutto evidente, ma lo è in modo particolare nel capitalismo. Questo modo di produzione ha raggiunto un'altissima complessità tecnica e sociale, per cui la immane realtà della sua forza produttiva si scontra con la miseria delle prestazioni che il livello delle condizioni di vita dell'umanità ci rivela di continuo; e si scontra ormai con un apparato politico classista che non corrisponde più ad una società che ha già potenzialmente superato le classi. Perciò vi è una tensione estrema fra la conservazione e la rivoluzione.

La percezione individuale dei fattori che hanno portato all'attacco di Washington e New York contro i simboli del potere economico e militare americani è stata molto diversa, ma tutti hanno osservato che qualcosa di enorme era successo, deducendone quasi all'unanimità che le conseguenze avrebbero, in un modo o nell'altro, comportato qualcosa di altrettanto enorme. Una svolta. Subito dopo l'attacco gran parte degli osservatori poneva il problema proprio in quei termini. Per esempio Kissinger: "La svolta dell’ordine internazionale nel XXI secolo"; Rumsfeld: "Stiamo entrando in un nuovo periodo della storia americana"; Le Carré: "Gli orticelli americani non saranno mai più i porti sicuri che erano una volta"; L'Avvenire: "La storia non potrà più essere la stessa"; Forsyth: "Dopo quel momento niente sarà mai come prima"; Kapuchinsky: "E' cominciata una nuova grande trasformazione del mondo"; ecc. ecc.

Sul versante dei gruppi che si richiamano al comunismo la valutazione è stata invece incentrata sul rapporto della borghesia con gli sfruttati: sarà intensificato l'attacco al proletariato e alle masse oppresse (qualcuno ha aggiunto: islamiche).

Ci sembra che la questione vada affrontata ponendosi al di fuori delle correnti che fanno parte del sistema e che si scontrano sfornando sottoprodotti ideologici (fine della storia, scontro di civiltà, anti-terrorismo), varianti attuali del crociatismo politico imperante al tempo della guerra fredda; per noi va soprattutto affrontata ponendosi al di fuori delle frasi rivoluzionarie senza contenuto empirico, dallo stesso significato indeterminato di bello, brutto, buono o cattivo. Anche se sembra ovvio che i comunisti debbano essere dalla parte degli "oppressi", gli schieramenti impulsivi portano semplicemente a collocarsi nell'una o nell'altra crociata. La guerra moderna, se non è rivoluzione, non può essere che fra imperialismi moderni, e questi adoperano masse di uomini come strumento dei propri interessi. Se si è d'accordo su questo – e chi si collega alla corrente storica comunista lo è – ci si accorge che dal punto di vista della tattica rivoluzionaria la svolta storica c'era già stata: è avvenuta quando sono stati spazzati via i residui coloniali, cioè le ultime aree sotto il dominio diretto di potenze straniere; ed è avvenuta una volta per tutte. E' di questo fatto che i comunisti devono tener conto analizzando quel che sta succedendo. Ed è per questo fatto che oggi i comunisti non si schierano, anche se ovviamente sono molto attenti ai risultati degli scontri. Al colonialismo è subentrato il dominio economico e sappiamo, da Lenin in poi, che esso significa nuove condizioni geostoriche e quindi nuova tattica o, meglio, semplificazione della tattica rivoluzionaria. Mentre in passato la tattica del proletariato (cioè la sua politica delle alleanze) presupponeva anche un'azione comune con le borghesie rivoluzionarie, oggi questa possibilità è venuta meno, per il semplice fatto che non ve ne sono più né potrebbero esservene. Per fare un esempio, era possibile un'azione comune tra proletari e borghesi per liberare il Congo o l'Algeria fino agli anni '60, ma non per "liberare" l'Argentina d'inizio secolo o la Persia degli anni '50 dal dominio finanziario o petrolifero inglese. In un contesto di guerra fra imperialismi, peggio che mai sarebbe intervenire in quanto combattenti a fianco di una parte borghese per sostenerne un'altra, come successe in Spagna e nelle partigianerie della Seconda Guerra Mondiale.

Perciò se si vuole vedere una "svolta" negli avvenimenti successivi all'11 settembre, non la si deve cercare né in una preparazione di guerra "classica" fra gli imperialismi, né in uno sviluppo di lotte "popolari" contro gli imperialismi. Tra l'altro, le lotte popolari sono sempre all'interno del sistema in quanto interclassiste, mentre a noi, in questa fase dello sviluppo storico, interessa soltanto la lotta proletaria. Tuttavia sarebbe sbagliato immaginare un processo rivoluzionario con due soli fattori, la borghesia e il proletariato. Le due classi principali si scontrano coinvolgendo l'intero complesso sociale; ed esso, con tutte le sue componenti, entra in subbuglio, gettando sulla scena fattori imprevisti come le mezze classi, residui delle vecchie società, borghesi e lumpenproletari rovinati, transfughi della propria classe, opportunisti e traditori, forze centrifughe e centripete in grado di dar luogo a quelle polarizzazioni sociali normalmente separate da un abisso incolmabile, per cui lo scontro diventa un fatto necessario e le organizzazioni conseguenti delle due parti vi si preparano. Proprio per questo magmatico procedere, anche molto prima che la situazione polarizzata si verifichi, è necessario non perdere di vista il senso generale del movimento, cioè le sue reali potenzialità e possibilità rispetto al fine.

Solo in tal modo possiamo affrontare la domanda se dopo l'11 settembre siamo di fronte ad uno scenario nuovo. Per quanto riguarda le condizioni geo-storiche non c'è nulla di nuovo da quando è caduta l'ultima colonia; per quanto riguarda l'oppressione economica o l'imperialismo post-coloniale è stato detto tutto fin dalla polemica del 1916 di Lenin contro Kiewsky-Piatakov; per quanto riguarda la supremazia americana abbiamo visto più volte che essa si fonda su di un lungo processo, soprattutto sulle due guerre mondiali passate. Insomma, siccome le classi sono affasciate come non mai in una mostruosa simbiosi e il ciclo capitalistico mostra una sua ancor notevole continuità, non si vede come un "attentato terroristico" possa significare invece la rottura.

Eppure fin dal 12 settembre l'attacco agli Stati Uniti ha messo in evidenza una mobilitazione senza precedenti che ha già prodotto vistosi cambiamenti sia nell'economia materiale (statizzazione ulteriore negli USA e quindi, di riflesso, negli altri paesi) che nella sovrastruttura (legislazione straordinaria e militarizzazione dell'intelligence). Noi stessi il giorno dopo gli attacchi pubblicammo una pagina web in cui sostenemmo che con la morte della sovranità nazionale iniziava la vera globalizzazione. E' dunque evidente che sottintendiamo in qualche modo una rottura, una svolta rispetto al passato.

Non siamo di fronte a Stati imperialisti che si combattono sui campi di battaglia. Non siamo neppure di fronte ad uno scontro fra presunti sistemi economici diversi, come all'epoca della contrapposizione USA-URSS. Lo stesso capitalismo sviluppa interessanti capacità di criticare sé stesso per sopravvivere e lo esprime per bocca di alcuni borghesi influenti, rasentando nei fatti il confine della sua propria negazione. Perciò in qualche modo sviluppa la consapevolezza di essere in difficoltà molto serie e di non avere più uno sbocco paragonabile a quello reso possibile dalle due passate guerre mondiali. Almeno per il momento.

La Cina è la seconda potenza economica mondiale in termini reali e rappresenta la più grande porzione di umanità racchiusa entro confini nazionali unitari. L'India ha uno sviluppo diverso, ma sta anch'essa imponendosi al mondo in alcuni settori, come il tessile, il chimico e l'informatico. Il mondo islamico riproduce quasi per intero la geografia del petrolio e sta accumulando a ritmo accelerato sulla base di capitale drenato presso i paesi grandi consumatori di energia. Stiamo parlando di 3,6 miliardi di uomini in soli tre insiemi più o meno coerenti al loro interno. Essi fra qualche anno sarebbero in grado di far saltare qualsiasi equilibrio esistente e anche di cambiare faccia al capitalismo mondiale, se le ipotesi di sviluppo attuale si mantenessero costanti. Se ragioniamo in termini d'insiemi coerenti allora occorre parlare anche dell'Europa e degli Stati Uniti, questi ultimi con la loro propaggine formata da Canada, Inghilterra, Australia e Nuova Zelanda, vero patto spontaneo fra gli spezzoni del ceppo imperialistico originario, quell'umanità Wasp (bianca, anglosassone e protestante) che è l'unica forza ad agire e manovrare autonomamente in modo sincronizzato nell'attuale guerra afghana.

Vediamo che il mercato mondiale si va strutturando intorno ad alcuni blocchi mondiali fissi in grado di fungere da attrattori per le merci e i capitali. Ma solo due sono definiti: gli Stati Uniti con il blocco anglosassone, cui si stringerà più che mai l'America Latina, e l'Europa continentale cui si stringeranno la Russia e i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. L'Africa sarà come sempre terreno di scontro fra Europa e America per le materie prime, mentre gli schieramenti dell'Asia saranno decisi dalla politica dei suoi due estremi, Europa e Giappone. Il blocco "islamico" ha storici e irrisolvibili problemi di unità: il panarabismo è fallito e il residuo elemento unificante è una religione, cioè un fatto oggi puramente sovrastrutturale (diversamente da un tempo, quando le religioni furono storicamente spinte alla testa di un movimento materiale, spesso sovversivo). Siccome esuberanza di capitali significa esuberanza di merci (non può esservi "pletora di capitali" senza sovrapproduzione di merci), se ipotizziamo una produzione, anche occidentale, sempre più localizzata nei paesi a nuovo sviluppo, secondo l'effettiva tendenza storica, dobbiamo anche ipotizzare un controllo mondiale dei capitali che ne derivano, perché le vecchie centrali capitalistiche rifiuteranno certamente non solo di morire, ma anche solo di passare in subordine nell'assetto mondiale.

Un modello del genere è basato su dati reali, ma ovviamente è anche del tutto irrealisticamente riferito ad uno sviluppo lineare e continuo. Pur riguardando un andamento in corso, cioè in grado di prefigurare un futuro immediato, quella delle forze in campo è una dinamica che nega uno spontaneo sviluppo verso lo sbocco "asiatico", cioè una saldatura fra il Giappone e il continente, che ne rappresenta l'unico spazio vitale possibile. La crisi asiatica del 1997 ci ha dato una avvisaglia sul piano finanziario di ciò che potrebbe succedere su un piano economico più vasto. Ai primi sintomi di incrinatura del sistema di prestiti azzardati (cioè capitali che si investivano senza copertura nel tentativo di valorizzarsi drogando l'economia), il ritiro dei capitali occidentali (quelli che sono poi andati ad alimentare la bolla borsistica delle new tecnologies) ha decisamente peggiorato la situazione dei capitali giapponesi e asiatici, che erano nella loro stessa condizione ma non potevano ritornare a valorizzarsi "da un'altra parte".

In poche parole, i capitali che non hanno la possibilità di godere della protezione di una potenza sovranazionale non hanno difesa contro le oscillazioni dei mercati finanziari. L'area americana si stringe intorno al dollaro, l'area europea cerca di compattarsi con l'introduzione dell'euro, l'area musulmana si fonda sulla peculiarità della "banca islamica" che dovrebbe prefigurare una Umma (una sola patria) finanziaria, l'area asiatica è ancora alla ricerca di una stabilità che le consenta un processo analogo.

Ma la formazione di aree che si configurano come assolutamente concorrenti il giorno che avranno potenza equivalente, significa rottura totale degli equilibri attuali, basati sulla "asimmetria" di potenza fra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Prima, molto prima che il declino della potenza maggiore e la crescita di altre potenze porti a un equilibrio di forze concorrenti, gli Stati Uniti, cioè la nazione che avrebbe tanto da perdere da morirne, dovrà giocare d'anticipo per impedire il verificarsi di questo incubo.

Questo gioco d'anticipo non lo decidono i governi, gli economisti o i militari. La natura del capitalismo è quella di condurre i governi a cercare di rimediare ai disastri che le leggi caotiche e incontrollabili del mercato provocano. La caratteristica peculiare della società basata sul valore è l'indeterminatezza statistica, non perché scompaia il determinismo, ma perché la proprietà e lo scambio fra equivalenti tramite il denaro rendono ogni soggetto "libero" di agire. E il soggetto singolo bada solo al proprio interesse. A costo di suicidarsi con la sua egoistica azione, vede solo la concorrenza con altri singoli e non l'insieme delle relazioni di valore. Quindi rende completamente anarchico e caotico il sistema intero. E lo Stato deve intervenire a mettere ordine e a disciplinare i capitalisti, prima espropriati dai loro simili, poi resi superflui, poi ancora sostituiti dallo Stato come capitalista collettivo in grado di coordinare almeno in parte l'economia.

La teoria marxista della crisi è una teoria della particolare dinamica del capitalismo. Come si sa, non esiste una specifica parte dell'opera di Marx dedicata a questo problema. Questo perché il sistema basato sul valore sfugge ad una schematizzazione (astrazione, formalizzazione) di tipo esclusivamente analitico. Marx quindi risolve la questione inserendola nel processo di accumulazione, che è possibile soltanto attraverso "situazioni" e non dati univoci. Già in riproduzione semplice vi è un processo lineare di produzione (quantitativo) che cozza contro il comportamento non-lineare (qualitativo) del mercato; in generale questa caratteristica porta alla sovrapproduzione e, più in generale ancora, alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Questi sono i tre elementi della crisi in Marx. Oggi si sa che il problema della crisi com'è posto da Marx è lo stesso problema posto da qualunque sistema abbastanza complesso da rispondere a troppe sollecitazioni di tipo quantitativo, sì da introdurre elementi qualitativi predominanti. E' invalsa l'abitudine – assai trogloditica in confronto ai risultati già raggiunti da Marx – di considerare il capitalismo come un sistema lineare: troppa produzione = troppo capitale = troppa miseria = crisi = malessere = rivendicazioni = lotta = organizzazione sindacale = unità di classe = partito politico = crescita lineare dello stesso = rivoluzione. Da questa sciocchezza anti-dialettica sorge un universo di concezioni aberranti, prodotte dagli stessi fattori che tengono lontana la rottura rivoluzionaria.

Le rivoluzioni, nel senso di svolte epocali, non avvengono come in genere si è venuto codificando nel pensiero "rivoluzionario" ma secondo leggi ben conosciute da Marx, e oggi, dopo un secolo e mezzo, anche dai borghesi (ovviamente non nel campo rivoluzionario). La creazione, materialisticamente parlando, non esiste. Questo fatto elementare ci permette di dire, per esempio, che più un sistema è complesso e più assomiglia ai processi vitali; e la vita è una particolare organizzazione della materia, ogni forma vivente è il risultato di milioni di anni di evoluzione, cioè di organizzazione di molecole non distinguibili da quelle dei minerali ecc. Siccome però sappiamo che la vita si riproduce soltanto perché la materia acquisisce la capacità di farlo, codificando il processo necessario (codice genetico), ecco che siamo di fronte ad un problema grave: come fa a nascere una forma nuova da un codice (programma) sempre uguale a sé stesso e per di più nato proprio per mantenere l'invarianza della specie? E' l'eterna domanda ingenua e tremenda, quella che porta a cercare inesistenti scorciatoie ed espedienti opportunistici: da dove scaturisce la mutazione sociale, cioè la famigerata "ripresa della lotta di classe"? Come fa a rinascere la nuova organizzazione formale? Da che cosa si sviluppa il partito?

Non si riuscirà mai a capire la necessità (l'ineluttabilità) della società futura e del percorso che ad essa porta, se non si capisce la dialettica continuità-rottura. Siamo costretti dalla stessa dinamica degli avvenimenti, dalla maturazione del sistema e della conoscenza che esso ha di sé stesso e della natura, ad analizzare le cose da un punto di vista superiore (ma non diverso) rispetto a quello a disposizione per esempio nel 1848 (rivoluzione democratica), nel 1871 (Comune di Parigi e guerra civile), 1917 (rivoluzione d'Ottobre). Passaggi che presupposero, ognuno, il superamento degli stadi raggiunti in precedenza.

La maggior parte dei sistemi complessi trovano un loro equilibrio interno, oppure, più spesso, tendono a perdere energia e a collassare per infine estinguersi. Essendo la società umana non solo un sistema altamente complesso ma anche in grado di sviluppare forme di auto-organizzazione, esattamente come a livello micro-biologico si è auto-organizzata la vita, essa assume caratteristiche strutturali stabili di difesa una volta raggiunta una determinata forma, ma nello stesso tempo sviluppa forme antitetiche, tipiche della sua forma successiva, quindi evolute. Per questo Marx può affermare che le leggi da lui scoperte sono scienza, mentre l'utopia è… utopia: i modelli utopici sono "creazione" pura, idee, mentre il comunismo è divenire materiale indipendente da ciò che ne pensano gli uomini, perché le forme utili alla società futura sono già presenti nella società attuale così com'è. Ogni movimento umano che si propone realisticamente di far saltare la società presente non può avere come programma politico una favola, deve avere un progetto (Grundrisse). La capacità di auto-organizzazione sociale non è soltanto capacità di sfruttare al meglio l'informazione esistente nel sistema (in fondo la conoscenza di sé stesso), è soprattutto capacità di aumentare le relazioni fra gli elementi d'informazione esistenti.

Ma abbiamo detto che per noi materialisti la creazione non esiste: da dove scaturisce l'informazione nuova, quella necessaria per descrivere la trasformazione, quindi i caratteri della società nuova? Sono sufficienti le relazioni fra gli elementi che esistono in quella attuale? La risposta è: sì e no, dipende. Non bastano i caratteri della società attuale e non bastano quelli del modello ideale, occorre individuare la dinamica della trasformazione che nega gli elementi presenti e prepara quelli futuri. La rivoluzione è prima di tutto negazione che produce effetti positivi, distruzione di vincoli, abbattimento di barriere. Ci dicono i fisici che ogni modello deterministico, anche il più caotico, presenta delle strutture che prima o poi si è in grado di scoprire. Bene, queste strutture emergenti rappresentano il futuro del sistema. Non esisterebbe l'universo odierno se non vi fosse ordine soggiacente, disordine passato in grado di superare sé stesso. Si può optare per Dio, come fanno alcuni, ma appellarsi a questa entità per la rivoluzione comunista sarebbe un po' fuori luogo. Non si può fare scienza se non si trovano strutture ordinate, che ci mettano in grado di adoperare sempre allo stesso modo quelle formalizzazioni utili per conoscere in anticipo quello che succederà. Questo è il concetto di "invarianti", che Marx evidenzia fin dall'inizio del suo lavoro e che noi riprendiamo: se le leggi della natura fossero immediatamente evidenti ai nostri sensi non ci sarebbe bisogno di nessuna scienza. Perciò: comunismo come scienza del conoscere, e quindi del divenire.

Il bombardamento "atipico" del Pentagono e del World Trade Center ha ovviamente scatenato in primo luogo una ridda di ipotesi sui possibili "terroristi". Ma quasi subito è stato più o meno spontaneamente definito dal governo americano come un atto di guerra. In questo c'è stata una certa logica, sia perché l'attacco è avvenuto in seguito ad una vera e propria dichiarazione di "guerra santa", ben conosciuta da Washington, sia perché gli Stati Uniti non potevano che rispondere con la guerra. Solo da ultimo è stato individuato un obiettivo univoco, facile da comprendere, adatto per la risposta e per il dispiegamento iniziale della guerra "senza limiti". Dal punto di vista dell'abisso che separa la politica dai fatti reali, occorre sottolineare l'inutilità totale della guerra afghana, considerata in sé, proprio mentre dimostra la sua inevitabilità. Tutta l'attenzione è stata convogliata sull'unico fattore che la dinamica degli avvenimenti rendeva assolutamente secondario come bersaglio, anzi, un "parametro" bellico rapportabile a zero, cioè bin Laden, la sua organizzazione al-Qaida e il proto-esercito dei Taliban. Gli americani non potevano di certo agire diversamente, ma dal punto di vista di un'analisi non opinionistica di ciò che è successo al "sistema" capitalistico, tutto il gran movimento di guerra visibile non conta affatto. Non staremo qui a fare l'elenco delle "inutilità" militari, ognuno ha visto con i suoi occhi i bombardamenti americani sulle montagne deserte e sulle case civili; abbiamo tutti osservato come la "conquista" di Kabul sia avvenuta dopo che i Taliban se n'erano andati nella più assoluta tranquillità, senza che nessuno sparasse un colpo o interdicesse le colonne di autocarri dall'aria; ed è un dato di fatto che il "governo provvisorio" uscito da Bonn nulla può nei confronti dei consolidati gruppi d'interessi che si sono spartiti il territorio. Il grosso dei caduti è stato provocato da eccidi a freddo, vendette su chi non è riuscito a scappare in tempo, e le "battaglie" non hanno avuto carattere militare ma tribale. Come dicono gli esperti militari, anche quelli intervistati per il gran pubblico, la guerra è un'altra cosa.

Della guerra virtuale descritta dai media e combattuta in aria, mare e terra, ci occupiamo in altra parte della rivista. Qui ci occupiamo di quella reale (combattuta con altri mezzi), quella che ha radici nel sistema complesso del capitalismo, prodotta dall'accumulo continuo di fattori che adesso avvicinano parecchio il sistema ad una transizione di fase. Questa transizione non è quantificabile, è qualitativa, non si vedrà in televisione.

Per una transizione di fase vengono comunemente indicati, nel secolo appena passato, periodi come quelli delle due guerre mondiali, la crisi del '29, la crisi energetica del '75, il crollo dell'URSS. Ovviamente fenomeni di grande portata come questi sono facilmente individuabili per via delle conseguenze visibilissime e quindi nei casi elencati è difficile sbagliare. Meno intuitivo è abbinare la transizione con fenomeni come la fine del sistema monetario a base aurea, l'avvento mondiale del moderno capitalismo di stato (fascismi, New Deal, stalinismo), o la fine del vecchio imperialismo di tipo coloniale. In particolare, l'attacco agli Stati Uniti e la loro risposta non sembrano comportare clamorosi effetti economici e politici immediati: il danno materiale provocato dalla perdita del WTC è irrisorio per l'economia americana; il riflesso su quest'ultima è stato assorbito in un paio di mesi e anzi, con l'intervento massiccio dello Stato è persino possibile un rilancio; il mezzo milione di disoccupati americani in un mese è dovuto al ciclo economico precedente e non all'attacco in sé (dopo il '29 vi furono 15 milioni di disoccupati); il prezzo del petrolio è addirittura sceso del 30%; la parità fra le monete non ha avuto sostanziali mutamenti; la massa di liquidità formatasi in seguito alla stasi degli investimenti e dei consumi – stasi prodotta dalla crisi americana già prima dell'11 settembre – dovrà orientarsi, nel prossimo futuro, verso l'investimento stimolando il ciclo.

La stessa "guerra al terrorismo" c'era già prima e le leggi americane erano già stata cambiate al tempo di Clinton. Con i criteri economici e politici dei borghesi non sembra dunque di poter trovare una discontinuità nel sistema, tutt'al più qualche perturbazione presto neutralizzabile. Noi invece individuiamo una cesura importante.

Prendiamo innanzitutto esempi del passato. La cosiddetta rivoluzione industriale non presenta punti di rottura, ma solo continuità. Il passaggio all'uso dell'energia, a quello delle macchine, al sistema di macchine e al sistema generale del lavoro socializzato al massimo in relazione al mercato mondiale, è graduale. Ma noi sappiamo che la rottura c'è ed è ben definibile. Essa consiste nel passaggio dalla sottomissione formale del lavoro al Capitale alla sottomissione reale; dal sistema in quanto somma di fabbriche con i loro padroni e operai al sistema in quanto integrazione di lavoro, merci e valori; dal capitalismo manifatturiero e mercantile al capitalismo sviluppato come sistema d'industria; dal confronto fra padrone e operaio a quello fra classe borghese e classe proletaria. Un altro esempio è dato dal nostro diagramma detto delle cuspidi, disegnato negli anni '50: esso registra il tempo sull'asse orizzontale e la forza produttiva su quello verticale. Ma il tempo è diviso in fasi, cioè società primitiva, schiavismo, feudalesimo, capitalismo e comunismo. Ad ogni scatto di fase noi poniamo il punto zero dello sviluppo entro la fase stessa, mentre alla fine della fase si situa il punto massimo. In tal modo abbiamo il caratteristico diagramma a "dente di sega" ben noto ai nostri lettori. Ma se noi considerassimo soltanto il tempo lineare e lo sviluppo, ecco che avremmo una linea continua ascendente. Lo stesso discorso si può fare per il moto del pendolo: possiamo raffigurare i due passaggi dai punti morti e i due dal punto di massima velocità con uno schema di palese discontinuità su assi cartesiani, oppure, a seconda delle esigenze, con una linea circolare continua divisa in quattro dagli assi delle fasi (uno schema che assomiglia alla croce runica).

Non ha importanza che il lettore abbia o no familiarità con tali schemi, l'importante è sapere che esiste la possibilità di raffigurare uno stesso fenomeno, a seconda del contesto della ricerca, esaltando la continuità, la discontinuità o entrambe. Questo perché nei sistemi dinamici complessi, specie organici, è implicita la coesistenza di continuità e di transizione di tipo "catastrofico". Nei casi appena ricordati c'è rottura della continuità, anche se il fattore tempo ci direbbe che i fenomeni sono avvenuti gradualmente. Continuità e discontinuità sono quindi in unione dialettica e la loro individuazione dipende dal tipo di quadro di riferimento che adottiamo per la descrizione dei fenomeni.

Nel caso della guerra in corso, che è uno degli episodi di una guerra più generale, la discontinuità è individuabile nel declino della potenza produttiva reale degli Stati Uniti in contrasto con l'ascesa della loro potenza economica e militare. Per il marxismo esuberanza di capitali significa sempre esuberanza di merci, ma in questo caso abbiamo un paese che, nonostante il suo peso specifico sia enormemente accresciuto, è passato dal rappresentare il 55% dell'economia mondiale negli anni '50 al 22,5% di oggi. L'incrocio fra la linea del declino inesorabile e quella dell'ascesa necessaria rappresenta il punto di rottura, la discontinuità, la contraddizione fra la potenza reale e quella manifestata nei confronti del resto del mondo. Intorno a quell'incrocio abbiamo una "nube" di punti dove saltano ambasciate, piovono aerei, si bombardano paesi, saltano vecchi equilibri e le creature dell'America diventano nemiche dell'America. Dove si sviluppano movimenti a-classisti contro la necessità di controllo globale. Dove, addirittura, impazziscono schegge interne al sistema, per rivendicare la libertà dell'individuo rispetto al controllo del sistema stesso, come proclamarono gli autori del mega-attentato di Oklahoma City. Dove ci si ribella alle più celebrate vittorie del capitalismo, come nel caso di Unabomber, il quale nel suo manifesto accusa i "sinistri" americani di non essere altro che un'appendice psicologica e piagnona di un sistema già ultra-socializzato.

Le risorse naturali del mondo non sono distribuite secondo la potenza capitalistica e, soprattutto, sono distribuite in contrasto all'andamento delle due curve che si incrociano in discesa e in ascesa. Chi è in discesa consuma infinitamente di più rispetto a chi, essendo in ascesa, ne avrebbe in teoria più bisogno. Gli Stati Uniti, con il 4,5% della popolazione mondiale consumano il 30% esatto dell'energia mondiale disponibile. In questo periodo si parla molto di petrolio, ed è importante parlarne, ma è bene ricordare anche tutte le altre materie prime, che sono distribuite secondo criteri geologici da prima che esistessero gli uomini e le loro nazioni. Il capitalismo americano le controlla in gran parte, a cominciare dal petrolio, e ben sopporta, nell'ambito di questo controllo, una redistribuzione mondiale del plusvalore che dall'industria finisce alla rendita, cioè ai paesi con i pozzi e le miniere. Può però sopportarla solo finché il flusso sia circolare; come è stato fino ad epoca recentissima, dato che i capitali drenati dalla rendita erano comunque gestiti dal sistema finanziario internazionale, anche questo controllato dagli Stati Uniti.

Ora la situazione sta cambiando: lo sviluppo, malgrado tutto, dei paesi di capitalismo più giovane, segue criteri che non passano più attraverso forme di accumulazione originaria ma attraverso l'utilizzo moderno di capitali e investimenti. Siccome il capitalismo è fondato sulla proprietà, è inevitabile che i proprietari del suolo su cui sorgono i pozzi e le miniere tentino sempre più di far valere il loro diritto borghese alla proprietà nei confronti di una potenza declinante. Oggi tutta l'Africa, la Russia, l'America Latina e buona parte dell'Asia rappresentano la sorgente delle materie prime per il capitalismo mondiale a controllo americano. E oggi le materie prime sono pagate dal sistema industriale in ragione della sopravvivenza delle nazioni che le possiedono, e solo perché esse servono in qualche modo a fornire terreno d'investimento e manodopera a basso costo. Se non vi fossero remore di questo genere, se tutto dipendesse soltanto dalle esigenze di un capitalismo in espansione invece che in cerca di ossigeno, metà della popolazione mondiale potrebbe tranquillamente fare la fine degli indiani d'America.

Tuttavia petrolio e materie prime, essendo tramite di plusvalore, non sono cose ma rapporti sociali. La guerra, in corso ormai da molti anni, con i suoi episodi clamorosi come l'attacco sul suolo americano, non è per la conquista dei territori su cui sorgono pozzi e miniere e dove sono impiantate produzioni a bassa composizione organica di capitale (molta manodopera a basso prezzo e pochi impianti), poiché non esiste potenza al mondo che possa dislocare truppe e mezzi sufficienti. Non è neppure per il controllo di tali territori, anche se con 800 basi sparse per il globo terracqueo gli Stati Uniti posteggino una rete mai vista di controllo indiretto. Gli Stati Uniti si muovono certamente senza una pianificazione volontaristica, ma non ha importanza, perché nel sistema mondiale, pur caotico, tutte le forze concorrono per formare delle risultanti che siano in grado di disciplinare il sistema nel suo insieme, e gli Stati Uniti sono l'unico strumento disponibile.

Ecco allora che si vede come l'intero sistema in crisi produca tensioni verso una razionalizzazione e diffusione dei controlli, cioè la necessità di una pianificazione generale al di sopra delle nazioni. E nello stesso tempo, conseguentemente, produca anche una serie di forze avverse dalle potenzialità esplosive, tra cui le resistenze nazionalistiche, le schegge più o meno impazzite del terrorismo internazionale e le forme di vera e propria guerra che, avendo come avversario gli Stati Uniti, devono per forza adeguarsi ad uno scontro non frontale. Ora è più che mai sbagliato, profondamente fuori luogo rispetto alla realtà dei fatti, mettersi a gridare in piazza "fuori l'imperialismo americano dall'Afghanistan". Primo, perché l'imperialismo, almeno da Lenin in poi, sempre meno sopporta le aggettivazioni nazionali; secondo, perché all'imperialismo "americano" non importa nulla dell'Afghanistan; terzo, perché se anche tale imperialismo "si prendesse" l'Afghanistan, cosa che non farà, lo trasformerebbe spazzando via ogni residuo delle vecchie società con grande vantaggio sia della popolazione in generale che del proletariato in particolare, che della rivoluzione futura.

Il cambiamento è effettivamente "epocale", come l'ha definito persino il Vaticano, ma – ripetiamo – non va individuato nell'attacco agli Stati Uniti: va ricercato nelle condizioni che l'hanno reso possibile e in un certo senso necessario (determinato), come ammette l'americano Chalmers Johnson chiamandolo contraccolpo. Il contraccolpo è una delle leggi newtoniane: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Naturalmente l'attacco avrà una funzione acceleratrice, come del resto tutte le guerre. Per di più, questa in particolare si svolge in un contesto che non assomiglia per nulla ai vecchi contenziosi militari per la conquista di un territorio, di un mercato o di una supremazia qualsiasi, dopo di che si firma una pace e vincitori e vinti iniziano un altro ciclo fino alla prossima: questa è la guerra di sopravvivenza degli Stati Uniti come potenza. Essi, con il peso economico di quel 22,5% che abbiamo visto, vogliono e devono pesare ancora e più del 55% di un tempo, mentre crescono colossi nazionali unitari come la Cina e l'India, mentre si prospetta una nuova concorrenza europea. Questa è la guerra infinita di cui vedremo presto conseguenze.

Se gli Stati Uniti dovessero mostrare segni evidenti di debolezza, vi sarebbe un frettoloso abbandono dello schieramento "americano" da parte di tutti i concorrenti, oggi alleati per forza; e una corsa non più contrastata delle borghesie nazionali emergenti, veri Maramaldi della storia, innescherebbe un processo di disfacimento dell'intero ordine capitalistico.

Non si potrà mai avere una visione della via per cui giunge la rivoluzione mondiale (visione necessaria anche quando la storia delude poi le possibilità favorevoli, e senza la quale non vi è partito marxista) senza porsi il quesito della mancata presenza di una lotta di classe rivoluzionaria tra capitalisti e proletari americani, laddove più potente è l'industrialismo. Non è possibile separare questa risposta dalla constatazione della riuscita di tutte le imprese imperialiste e di sfruttamento del restante mondo. I sistemi di potere in America e Inghilterra non hanno altra esigenza che la conservazione del capitalismo mondiale, e vi sono preparati da una lunga forza viva storica di movimento nella stessa direzione, e procedono con passo misurato verso il totalitarismo sociale e politico, inevitabile premessa al finale urto antagonistico. Ovviamente il mondo cadrà in crisi se vi cade il formidabile sistema capitalistico con centro a Washington, che controlla i cinque sesti dell'economia matura al socialismo, e dei territori ove vi è proletariato salariato puro. La rivoluzione non potrà passare che da una lotta civile nell'interno degli Stati Uniti, che una vittoria nella guerra mondiale prorogherebbe di un tempo misurabile a mezzi secoli ( Raddrizzare la gambe ai cani, 1952).

Rivista n. 6