Decostruzione urbana

All'orizzonte non poteva vedere altro che il metallo esteso in un grigio uniforme contro il cielo. L'urbanizzazione di Trantor aveva raggiunto il limite massimo. L'intera superficie del pianeta. Due chilometri sopra e sotto terra. Quaranta miliardi di abitanti (cfr. Isaac Asimov, Cronache della Galassia).

Arresto delle costruzioni di case e luoghi di lavoro intorno alle città grandi e piccole, come avvio alla distribuzione uniforme della popolazione sul territorio. Riduzione della velocità e del volume del traffico (cfr. punto "g" del "Programma rivoluzionario immediato", Riunione di Forlì del Partito Comunista Internazionale, 1952).

Oggi

Fenomeni costruttivi e distruttivi

Va detto in anticipo che useremo spesso il termine costruzione in senso lato e non solo nel senso di edificare. L'edificazione è solo una parte dell'attività costruttiva dell'uomo. D'altra parte non è detto che per costruire occorra una forma di vita superiore: piccolissimi organismi strutturati in colonie sono in grado di formare con i loro sedimenti piattaforme rocciose di notevoli dimensioni; molti insetti costruiscono da sé mirabili complessi in cui vivono, producono e si riproducono; così fanno gli uccelli, più raramente i mammiferi. A differenza degli animali, l'uomo lo fa però secondo uno scopo di cui è cosciente, e quindi secondo un progetto. Non sempre l'uomo ha costruito. Il suo percorso, dalla simbiosi con l'ambiente al progetto per sfruttarlo, è stato lunghissimo. La peculiare natura del lavoro di questa specie intraprendente si è anzi manifestata in tutta la sua potenza solo per una piccola frazione della sua vita complessiva.

La città, in tutte le sue forme storiche, è la più alta rappresentazione visibile della produzione sociale. Tuttavia nel capitalismo, la forma sociale più evoluta raggiunta sino ad oggi dall'uomo, c'è una contraddizione stridente fra la produzione in generale e la costruzione nel senso di edificazione. Mentre la produzione di manufatti è completamente razionale, cioè condotta secondo un piano, e socializzata al massimo, in un ciclo entro il quale la proprietà è un fattore ormai superfluo (cfr. Operaio parziale e piano di produzione), la costruzione legata ai luoghi della produzione e della riproduzione è cambiata poco rispetto – poniamo – all'antica Roma. Nella nostra costante ricerca degli invarianti per capire le trasformazioni, in questo caso troviamo che i primi sembrano predominare sulle seconde: anche nella città moderna, come in quella antica, ci sono strade, piazze, centri del potere statale e religioso, quartieri residenziali, laboratori, mercati, botteghe, giardini, zone sepolcrali, trasporti, amministrazione, ecc. Vi si produce, vi si circola con mezzi vari, vi si accumula denaro, vi si amministra la legge. La tentazione di leggere con occhio moderno una vivace descrizione antica della vita in città è forte, tanto l'ambiente è simile, a parte la tecnica. In pratica: l'uomo ha raggiunto una forza produttiva sociale immensa, proiettandosi verso una società completamente nuova anche per quanto riguarda i rapporti di classe, ma apparentemente, contraddittoriamente, incapsula tutto questo in un modello invariante di forma urbana.

Marx ha messo in guardia, nel suo discorso sul metodo, dal trattare con leggerezza gli elementi invarianti della storia. Essi vanno osservati in base allo sviluppo della società, quindi attraverso la loro trasformazione. Il denaro non è sempre stato capitale; il lavoro è stato libero nel comunismo primitivo, schiavistico nella società antica ed è vendita generalizzata di forza-lavoro nella società moderna; il nucleo isolato della famiglia d'oggi non ha nulla a che fare con la familia (l'unità di tutti coloro che vivevano sotto lo stesso tetto, compresi gli schiavi) e tanto meno con la gens antica (famiglia allargata, stirpe), ecc. ecc. In origine è il cittadino (cives) a dare il nome alla città, mentre in seguito, quando si consoliderà il termine "città", sarà cittadino colui che vi abita, perciò poco per volta la trasformazione influenzerà anche il linguaggio. La borghesia rivoluzionaria utilizzerà giustamente il termine con marcato significato politico.

La differenza sostanziale sta nella dinamica della produzione sociale che permea la città e la costruisce a sua immagine e somiglianza nelle relazioni fra i suoi abitanti. Ogni costruzione è, nello stesso tempo, distruzione: in senso lato il materiale con cui si costruisce proviene dalla distruzione di qualcosa, si toglie per mettere secondo un nuovo ordine. Quando il capitalismo erompe e domina definitivamente la campagna, anche la città cessa di essere un luogo separato dal territorio che la circonda. La rivoluzione industriale abbatte le mura di tutte le capitali, distrugge il loro cuore antico, apre viali fiancheggiati da nuove e più imponenti strutture e fa dilagare la massa del costruito sulla campagna. Lo sventramento hausmanniano interno ed esterno provoca un prolungamento tentacolare delle prospettive urbane verso nuovi spazi, fino a collegare altri nuclei urbani, spesso inglobandoli senza soluzione di continuità. La megalopoli moderna simula allora sempre più un corpo vivente, con i suoi organi, i flussi che li alimentano, le diramazioni nervose che distribuiscono ordini e informazione.

In realtà l'integrazione organica degli spazi comuni tipica della città antica e anche medioevale sparisce del tutto con l'affermarsi della città moderna, frutto dell'ipercostruttivismo capitalistico, del trionfo del quantitativo sul qualitativo. La forma città si diffonde sempre più fino a dissolversi nel territorio, così come si dissolve la forma specifica della proprietà privata con la vittoria del capitale azionario e finanziario. L'antropomorfizzazione della crosta terrestre procede con l'affermazione del Capitale diffuso. Non c'è più contadino che non dipenda in pieno dal ciclo capitalistico, non c'è più cittadino che possa fare a meno dell'apparato di servizi. La città che distrugge e costruisce sé stessa in continuazione diventa un magma molecolare dove le costruzioni singole perdono i legami armonici con il tutto. L'aggregazione, anche in presenza di piani regolatori, avviene per contiguità ma non per continuità, gli edifici sorgono con criteri utilitaristici e speculativi immediati, gli spazi e le arterie che li collegano finiscono per subire flussi di traffico incontrollabile: "Muri scialbati di tetraggine, fiancature senza finestre, l'alto e il basso, il va e il vieni, il tira e non l'imbrocchi, e soprattutto 'el tri e cinquanta', 'el düu e votanta' e 'l'ah! già che l'è vera! gh'avevi minga pensàa!'… Così venne creato l'ordine detto R.R. cioè del Rettangoluzzo Razionale… il Gran Cordone del Bolli d'estate e Trema d'inverno", come scrisse Gadda. Ogni estetica è legata a qualche ordine soggiacente: distruzione cieca e costruzione casuale sono la negazione dell'estetica; o, se si vuole, il caos è l'estetica del capitalismo. La scienza e la tecnica d'oggi potrebbero senza dubbio risolvere i problemi dell'urbanistica, ma il fatto sociale impedisce che nella simulazione del corpo vivente l'ordine prevalga sul caos. L'ordine è quindi solo una potenzialità che attende di potersi manifestare così come si manifesta il piano razionale di produzione dell'industria. Nel frattempo la sempre teorizzata, tentata e mai riuscita umanizzazione del territorio, il dominio su di esso dell'attuale forma di produzione e riproduzione sociale, porta alla totale disumanizzazione della vita.

Anche l'uomo primitivo, quando usciva dal suo rifugio ed entrava in relazione con l'ambiente, era biologicamente portato al dominio, al possesso vittorioso, quindi alla distruzione e all'annientamento di ciò che poteva essere consumato per sopravvivere. Aveva strumenti e li adoperava collettivamente, a differenza degli altri primati. Nelle sue espressioni "estetiche" disegnate su ossi e pareti di caverne – in realtà parte integrante della sua "produzione" – la lancia si confondeva con i simboli della fertilità maschile, e le ferite inferte alla cacciagione con quella femminile. La conquista del territorio e l'azione svolta su di esso era dunque un tutto organico, un processo vitale. Mentre la conquista progressiva dello spazio da parte dell'uomo civilizzato, fino all'ultimo lembo di terra da "scoprire", è stato un processo di morte, di annientamento degli antichi equilibrii. È questo processo che dovrà essere riscattato: non da un ritorno impossibile al paradiso perduto bensì da una nuova forma di esistenza umana, organica e vitale. La città moderna, coprendo lo spazio disponibile con le sue metastasi tentacolari, distrugge non solo il passato, ma, per i suoi abitanti, la possibilità stessa di collegare organicamente il movimento di espansione con le necessità della vita: l'immane processo di distruzione-costruzione produce una vita bestiale in una riedizione ben peggiorata della giungla.

Fino alla rivoluzione industriale borghi e città erano ancora costruiti entro limiti compatibili col normale passo umano e il cittadino poteva quindi sentirsi in sintonia fisica con un ambiente facilmente fruibile e conoscibile. La gran massa contadina imponeva, col solo fatto di esistere, il riconoscimento di una differenza sostanziale, e il cittadino si sentiva parte specifica di una realtà urbana che era effettivamente un altro mondo. Si era al culmine di un'evoluzione urbana paragonabile a quella biologica dell'uomo stesso. Nel passaggio dal primate all'uomo, il nostro corpo si è evoluto molto presto verso la statura eretta, gli arti conseguentemente snelli, il tronco diritto; solo la testa si è sviluppata tardi, perdendo le caratteristiche scimmiesche; e il cervello ancora più tardi, con l'aumento del volume e soprattutto delle sue connessioni interne. Da un certo momento in poi, l'evoluzione sociale dell'uomo è stata molto più veloce della sua evoluzione biologica. Memoria, intelligenza, connessioni, comunicazione, si sono espanse dal cervello all'ambiente che circondava l'uomo, si sono proiettate all'esterno della sua capace scatola cranica. E hanno incominciato a funzionare autonomamente, come un risultato della specie, per la specie, con una possibilità di elaborazione superiore. Da Marx in poi, tutto questo lo chiamiamo "cervello sociale", evoluzione/negazione che è nello stesso tempo affermazione della società futura. La Sinistra Comunista non fece che confermare in via sperimentale osservando i caratteri del capitalismo ultramaturo.

La forma urbana è comparsa molto presto, almeno cinque, seimila anni fa. Da allora, per tutto questo tempo tranne che per l'ultimo paio di secoli, ha mantenuto più o meno le stesse caratteristiche. Se la città tradizionale era assimilabile al corpo umano e alla sua scatola cranica che non poteva contenere il cervello sociale, la sua espansione "all'esterno" era altrettanto inevitabile. La megalopoli risponde a quest'esigenza, ma è un tentativo mutante dell'evoluzione, una neoplasia, un cancro che continua la sua attività ipercostruttiva di cellule e che per adesso si barcamena fra errori e correzioni genetiche. Il suo futuro è la sua propria soppressione, cioè la morte in quanto concentrazione e la rinascita attraverso l'espansione razionale, armonica, organica, sul territorio. Non era possibile due secoli fa, non c'erano scienza e tecnologia sufficienti, non era abbastanza sviluppata la forza produttiva sociale, non c'era l'armamentario teoretico adatto. Adesso siamo pronti, ma prima di affrontare il domani, approfondiamo ancora alcuni punti sul limite raggiunto oggi.

Città e politica

La rottura rivoluzionaria è sempre stata un fatto politico e la politica è sinonimo di vita urbana. Presso i greci era l'arte di essere cittadino ed ogni attività connessa era negata ai non greci. La politica è quindi strettamente legata all'evoluzione della città-stato, di cui la radice del termine (polis) conserva il ricordo; legata perciò all'evoluzione delle forme cittadine e del dominio classista sul territorio circostante. Sviluppatasi come arte o scienza del governo, all'inizio la politica non si occupava che di uomini, dato che questi amministravano le cose da sé; la politica non derivava ancora dal possesso o dal comando sulle cose. Il "capo" coordinava l'attività di un ristretto gruppo tribale, e le cose erano possesso dei singoli o dell'unità famigliare. Nella forma micenea, quando la polis non esisteva ancora, il "capo" (wanax, guasileus) lo troviamo sia come rappresentante supremo della comunità che come coordinatore di un gruppo, ad esempio, di vasai o di pastori. In Omero il basileus è "re", ma nella struttura del racconto emerge ancora che si tratta del semplice responsabile di un'unità sociale o produttiva. Il poeta è cantore di storie che precedono di mezzo millennio il suo tempo, ancora impregnate di tradizione micenea. Perciò il termine sopravvive nei versi per indicare una funzione diversa da quella del re come lo s'intenderà successivamente. A Itaca egli cita molti basilees. Alcinoo, "re" dei Feaci, era in compagnia di ben dodici basilees.

In quali tipi di forme urbane abitavano i personaggi omerici? Negli scavi dei "palazzi" del mondo egeo sono state trovate tavolette che si riferiscono a un gran numero di "città", la cui esistenza non è mai stata provata. Forse erano altri "palazzi" e quindi bisognerà riconsiderare le traduzioni dei termini arcaici e non separare il wanax miceneo dal domos (la comunità), cioè considerare tutt'uno il capo di qualcosa e l'essere comune, destinatario della maggior parte della terra (nella Grecia classica sarà demos, popolo).

Fino a poco prima di Omero (e ancora più indietro nel tempo in altri luoghi) la forma urbana è stata funzionale alla vita di specie, dovendo servire semplicemente a raggruppare un'unità sociale organizzata. Perciò il disegno della "città" è stato determinato dall'attività che, da primitiva, si è trasformata, ha avuto bisogno di coordinamento, razionalizzazione, centralizzazione. In alcune aree popoli semi-nomadi e pastori si sono sedentarizzati circondandosi di recinti fortificati, all'interno dei quali sorgevano solo edifici comuni al centro di sparse abitazioni famigliari, ovili e orti. In altre aree si sono formate comunità urbane non fortificate, semplici aggregazioni casuali di case. In altre ancora sono nati quasi di colpo tessuti urbani complessi apparentemente costruiti secondo un progetto unitario. In ogni caso tutte queste proto-città si sono evolute quasi sempre in vera forma urbana crescendo su sé stesse per millenni, aumentando di poco in estensione e stratificandosi, spesso fino a formare una collina, come nei tell medio-orientali. In nessun caso la città antica andava ad occupare il territorio circostante, diversamente dalla città moderna. Persino Roma imperiale, quella della speculazione edilizia, dei suburbi, della selvaggia espropriazione delle terre da parte del latifondo e dell'espansione delle sue mura, per secoli e fino al medioevo aveva tenuto sgombro il pomerio, la vasta area sacra oltre le fortificazioni che non poteva essere contaminata da edifici o sepolture.

In tutta l'antichità pre-classica la politica è ancora soprattutto il far parte di una comunità urbana, il praticare l'arte del cittadino, e il "governo" della vita comune è caratterizzato dalla semplice necessità di amministrare le cose. L'autorità è quindi un bisogno collettivo derivato dalla maggiore organizzazione produttiva e, di conseguenza, dalla maggiore complessità sociale. Non vi sono classi propriamente dette perché la divisione del lavoro è in gran parte divisione di compiti, spesso temporanea, e non divisione sociale del lavoro. L'archeologia ha svelato che le attività venivano svolte in costruzioni e ambienti predisposti, templi, palazzi, laboratori, magazzini, separati da spazi appositamente lasciati vuoti, scenografie progettate affinché fossero liberamente fruibili dalla comunità.

In questa fase l'autorità politica deve soprintendere ai lavori di interesse comune e soprattutto alla contabilità sociale. Le tavolette d'argilla cotte da incendi antichi ci ricordano che addirittura con la contabilità nasce la scrittura, per designare le cose, numerarle, immagazzinarle e scambiarle. Specifici oggetti e persone vengono spostati o si muovono da un luogo all'altro, spesso in seguito ad uno "scambio" pattuito, ma vengono contabilizzati nella loro specificità, non ancora come valori intercambiabili. La parola "contabilità" è ovviamente tarda ed ha assunto un significato ben diverso dal semplice "numerare"; in effetti in antico si hanno semplici inventari e il "contabile" non è altro che un elemento della politica: attraverso la sua funzione, la comunità, cioè l'essere comune wanax-domos, memorizza la propria attività produttiva e distributiva. La politica nasce con l'entità urbana, come sovrastruttura ad essa necessaria, perché l'uomo non produce più immediatamente per sé stesso e per il suo nucleo famigliare ma per l'altro uomo, per la comunità. Il prodotto non viene subito consumato ma ammassato; quindi deve essere inventariato, perché, così come l'uomo deve conoscere sé stesso, anche la comunità deve conoscere sé stessa. Questo nella storia varrà fino alle estreme conseguenze, fino all'immane complessità della società capitalistica moderna; la quale, con le sue mostruose metropoli, sarebbe completamente "ingestibile" se essa stessa non producesse al suo interno dei meccanismi di autoregolazione per sopperire al caos.

Se nell'intero arco della società pre-classica la politica consistette nel fare i conti utili alla vita dell'essere comune, più tardi consisterà nel fare i conti in tasca all'individuo, posto di fronte a uno Stato, incarnato a sua volta in un altro individuo o in pochi rappresentanti della società. La contabilità sarà in valore e la politica avrà il compito, definitivamente, di regolare i flussi di valore nella società, più precisamente fra le classi. Risultato che sarà spinto al massimo livello dal capitalismo; e la forma urbana ad esso congeniale sarà disegnata da questi flussi. Templi, fabbriche, palazzi e spazi comuni assumeranno un significato ben diverso. Oggi che la fabbrica tende a diffondersi sul territorio e che la città è mera quinta per il business, lo spazio comune più significativo è l'ipermercato!

Il trapasso dalle forme arcaiche della politica a quella attuale avviene sulla base materiale del trapasso dalle forme urbane primitive alla forma sviluppata, capitalistica. In origine, l'autorità era determinata da necessità primordiali, per quanto organizzate, e ad essa corrispondeva una forma urbana disegnata da un'esistenza ancora di tipo comunistico. Oggi l'autorità si è completamente separata dalle determinazioni che l'avevano generata, conosce solo termini di valore, e la politica, mentre esalta la persona, la schiaccia sotto un interesse di classe, e si riduce a volgarissimo mezzo per spillare quattrini.

Dalla politica alla tecnica

Dall'armonia primitiva con la natura alla formazione dell'autorità coordinatrice, dall'arte di essere cittadino all'arte del governo della città (politiké, tekhné) e al suo perfezionamento, il passaggio prese millenni, ma dall'arte del governo dello Stato come Assoluto hegeliano a quella del dominio totale del valore sull'uomo il capitalismo impiegò meno di cent'anni.

Il percorso dovrebbe essere ben conosciuto dai comunisti e non lo descriveremo qui ulteriormente. Basti accennare al fatto che esso si accompagna al passaggio dalla sussunzione formale del lavoro al Capitale alla sua sussunzione reale, dal rapporto dell'operaio con il capitalista alla forza-lavoro che perde la sua individualità e si riconduce al Capitale inteso come totalità sociale. Ciò significa a grandi linee e in termini meno ostici che, dopo millenni, nel corso di un secolo scarso l'umanità è passata da una società punteggiata di manifatture che impiegavano operai nella produzione di merci, ad un sistema integrato d'industria dove ogni singola fabbrica, ufficio, podere, apparato organizzativo, ideologico e militare, è parte inscindibile della complessiva produzione di plusvalore.

In un testo della nostra corrente, Politica e costruzione, il passaggio storico viene descritto per mezzo di una critica alla filosofia del potere, il quale si manifesta attraverso fasi in cui il generale interesse si rivela per quello che è: la patina ideologica di ogni interesse di classe. Un "generale" ben famoso, commenta il testo, per aver perso tutte le sue battaglie. Non c'è interesse comune nella società di classe, non c'è quindi "città radiosa" capitalistica, né può esservi, nonostante le elucubrazioni dell'urbanista moderno che, con la maschera dell'assessore, dell'architetto e dell'ingegnere, rappresenta il prodotto più specifico della putrefazione ideologica, lo sventratore della città storica a vantaggio dell'alta e bassa speculazione, dell'affarismo sfrenato in un campo, quello della rendita, che per lo stesso capitalista sarebbe vantaggioso combattere. La rendita è plusvalore che, invece di diventare sovrapprofitto, finisce nelle tasche del proprietario immobiliare, il quale, parassita supremo, riesce, per la semplice esistenza della proprietà, a succhiare valore dalla società intera.

Sbaglia di grosso chi crede che la teoria marxista della rendita fondiaria abbia perso d'importanza al giorno d'oggi, nella società della scienza e della tecnica, delle città immense e dei grattacieli, dell'agricoltura ridotta a servizio pubblico dell'alimentazione sociale. Mai la teoria della rendita è stata più importante, proprio perché sulla crosta terrestre si è estesa a dismisura la rete delle sterminate metropoli. La forza-lavoro viene sfruttata nel tempo, si rinnova; il capitale industriale entra in un ciclo dinamico di valorizzazione, si rinnova anch'esso. La rendita invece è accumulo di lavoro morto. Essa assorbe valore dal salario dell'operaio e dal profitto del capitalista vendendo i prodotti della terra e impedendo l'accesso al suolo e ai fabbricati se non dietro pagamento della tangente-rendita, sempre più spesso aumentata dalla frenesia speculativa.

Il ciclo di rinnovo del suolo (fertilità) e dei fabbricati è dunque infinitamente più lento di quello del rinnovo del capitale e del lavoro nella produzione, tanto che nelle metropoli più antiche convivono testimonianze edilizie di ogni epoca. A Roma, l'esempio più aberrante, molti abitano in case le cui strutture risalgono all'Urbe antica, in un tessuto urbano di mura, archi e rovine classiche brutalmente violati da massicciate ferroviarie, autostrade su sopraelevate d'acciaio, antichi splendori ridotti a spartitraffico negli incroci tra i viali ricavati dagli incongrui sventramenti dell'urbanista e coperti d'automobili. Come si osserva nel testo citato, l'autorità dell'uomo sociale ha impiegato millenni per far posto alla razionalità borghese, poi tutto è precipitato velocissimamente e quest'ultima è diventata idealità, proiezione del cervello capitalistico nel tessuto urbano, quindi, più velocemente ancora, economicità ed infine, prodotto estremo del pensiero moderno, tecnicità. La città come museo, meglio, cimitero della conoscenza passata e come grande expo permanente della tecnica capitalistica.

La speculazione urbana, il trionfo della rendita moderna, non consiste in particolar modo nell'umiliare un chiostro bramantesco facendone l'atrio di un condominio di lusso, né nell'affiancare un supermercato ad una pieve romanica o nello sventrare un intero quartiere antico per farne tronfie scenografie che inneggiano al Capitale. In fondo ogni società in ogni epoca ha distrutto e ricostruito come sapeva fare. Era rivoltante la spudorata ipocrisia del ministro francese della cultura che, di fronte alla furia talibana contro i budda di Bamian, affermava: l'Occidente non si è mai macchiato di delitti simili. Vero, non simili: la distruzione delle città dell'antichità classica è stata industrializzata dai cristiani per secoli, durante i quali cave e miniere erano superflui, dato che c'erano monumenti in abbondanza cui attingere pietra e marmo per le chiese e i palazzi del nuovo potere, e sufficienti sculture pagane in marmo calcareo per far funzionare a ciclo continuo le fornaci da calce. Ma tutto ciò è nulla in confronto agli scempi del capitalismo.

L'epoca borghese è molto più distruttiva dei cosiddetti secoli oscuri del cristianesimo in ascesa e anche della furia cieca di residui sociali antichi (nel caso dei Taliban oscurantisti fin che si vuole, ma figli chiarissimi della gran civiltà del dollaro e suoi strumenti finché ha fatto comodo). Il capitalismo rende l'Uomo Pubblico suo schiavo, condottiero o legislatore che sia ne compra il cervello portandolo all'ammasso dell'omologazione, lo asservisce allo Stato come strumento della sopravvivenza del Capitale. Tutto, nella nazione, nel suo territorio e nella forma urbana moderna, dev'essere regolato a misura del Capitale, tramite la legge dello Stato. Washington e Kabul pulsano con lo stesso sangue, quotato a Wall Street come a Tokyo. Scienza, tecnica, finanza, sono prodotto e fattore del capitalismo ed è naturale che tutta la società ne sia permeata. La vita degli uomini è ormai talmente scandita dall'accumulo di scoperte, invenzioni, macchine, comunicazioni, velocità, conoscenze ecc. che ogni attività, anche semplicemente fisiologica come il mangiare, il bere, il dormire, l'abitare, il parlare, è condizionata, influenzata, modificata dall'ambiente tecnologico-urbano. Ormai comunicazioni e trasporti tagliano lo spazio, lo accorciano, facendo aumentare ovunque la densità relativa della popolazione, e anche la più sperduta cittadina è diventata un semplice nodo della rete che avvolge il pianeta.

È un risultato storico del capitalismo, perché il meccanismo della rendita porta a fissare sempre più capitale nell'immensa quantità di manufatti che coprono il territorio. Essendo il ciclo produttivo un fattore dinamico del capitalismo, mentre il suolo e gli immobili sono elementi che si rinnovano molto lentamente, sempre più valore, proveniente da profitto e salario, si deve fissare in rendita. La rendita diventa l'intero scenario su cui si muovono i singoli capitali, su cui si deve modellare l'azione dello Stato e dell'Uomo Pubblico. E la politica nazionale diventa politica del territorio su cui si muove il Capitale. La scienza diventa parte integrante di questa simbiosi. La politica estera degli stati diventa la politica del territorio da rendere terreno fertile per i capitali altrui. Quando cadde il Muro di Berlino, il fenomeno dell'unificazione tedesca assunse aspetti straordinari: alla vista di chi si aggirava nel grigiore dei quartieri dell'Est si offriva una quantità spropositata di nuove insegne colorate e stridenti; i big del capitalismo mondiale, come cani che segnano il territorio, avevano velocemente tappezzato la città col loro marchio, utilizzando persino i tralicci delle gru, diventate presto una vera e propria selva. E sotto ogni gru un cantiere, prima ancora di sapere che cosa costruire, mentre un esercito di architetti e urbanisti si dava da fare… per il nuovo, strabiliante, luccicante centro direzionale europeo, una nuova capitale per il Capitale. Arte urbanistica, tanta da riempire le riviste specializzate per vent'anni buoni. Eppure l'architetto è bravo, i materiali e le tecniche sono superlative, l'organizzazione è scientifica, l'energia sociale è altissima: perché il risultato finale è sempre un freddo monumento alla disumanizzazione sociale?

Tecnica, velocità, capitale: una miscela distruttrice di vita comune e di ambiente biologico, costruttrice di angosce esistenziali e di ambiente asettico, la cui bellezza, quando ne ha una, è come quella di un minerale tolto dalla roccia e messo in vetrina. Interi paesi non sono più nazioni ma servizi al capitale mondiale. L'Olanda non solo ha costruito e costruisce, ma ha pure ridisegnato la terra su cui costruisce, ha rifatto la sua stessa mappa. Hong Kong e Singapore nel loro piccolo han fatto lo stesso. L'Irlanda è stato l'ultimo esempio e la vecchia Dublino di Joyce non esiste più, è stata distrutta, anch'essa ridisegnata e ricostruita dal Capitale in pochi anni come nessun urbanista avrebbe saputo fare. I centri nevralgici della vita preistorica riproducevano le stelle, quelli del potere religioso nelle città medioevali riproducevano la Gerusalemme Celeste, le capitali storiche della borghesia rivoluzionaria erano monumenti alla Ragione, le innumerevoli Dublino odierne adescano capitali come fossero discinte professioniste stazionanti agli incroci del traffico finanziario mondiale.

Città-lucciola, quindi; armate di tecniche sofisticate e di strumenti profilattici e terapeutici. Città-macchina come servizio al Capitale, così come l'agricoltura mondiale è diventata servizio pubblico all'alimentazione degli abitanti delle metropoli. Città-scenografia, come neppure il più kitsch degli spot pubblicitari potrebbe immaginare (la nuova illuminazione del Castello Sforzesco a Milano è la visione onirica di una casalinga intossicata da merendine supercaloriche). Si tratta di un intreccio mostruoso, perché è chiaro che, se questa complessità va coordinata, governata, è altrettanto chiaro che non lo si può fare che attraverso i risultati tecnici raggiunti dalla società complessa. E più la tecnica si impadronisce dell'uomo, più egli diventa "costruttivista", più ha bisogno di macchine, strutture, infrastrutture, comunicazioni, reti, ecc. in un circolo vizioso perverso che contribuisce a disegnare la città. Ecco perché anche il recupero del vecchio tessuto urbano, delle architetture, dei monumenti, pur eseguito con capacità di lettura dell'oggetto e con tecniche di restauro un tempo inimmaginabili, è ormai un'operazione museale all'aperto, dove oggetti completamente decontestualizzati servono solo da quinta al movimento di uomini-macchina intenti a rincorrere il Capitale. Ma non è detto che al Capitale sia utile investire ovunque in immagine: l'opera degli sventratori storici d'Europa impallidisce di fronte allo scempio che sta avvenendo in Cina, dove intere città millenarie stanno scomparendo a velocità inaudita, mura, palazzi, tombe, monumenti, inghiottiti dalla voracità insaziabile di Mammona. Nei nuovi distretti industriali cinesi il ritmo di costruzione è tale per cui un decimo della popolazione mondiale lì concentrata sta utilizzando la metà di tutte le attrezzature edili del pianeta. Intorno al progetto delle Tre Gole, il sistema di dighe sullo Yang-tse, è nata quasi dal nulla una municipalità (Chongqing) con più di trenta milioni di abitanti, di cui sei milioni modernamente urbanizzati. Al Capitale piacerebbe un sacco cinesizzare, trantorizzare il pianeta con una simile intensità di costruzione e urbanizzazione.

Da più di mezzo secolo ripetiamo, non solo a proposito delle città, che non è più il caso di costruire, ma di incominciare a pensare che la follia costruttivistica ha raggiunto limiti che occorre bloccare. Decostruire, smeccanizzare, diselettrificare, demineralizzare, insomma, ri-naturare l'intera società e l'ambiente in cui vive l'uomo, ecco la parola d'ordine veramente futuristica d'oggi (Politica e costruzione cit.). Questo non significa affatto rinunciare alla scienza e alla tecnica, significa semplicemente fare a meno una volta per sempre del loro dominio, o meglio, del dominio che il Capitale esercita anche attraverso di esse. Al solito, dialetticamente, come lo Stato servirà all'uomo per liberarsi dello Stato, così scienza e tecnica gli serviranno per liberarsi dalla schiavitù di scienza, tecnica e Capitale.

La tecnica e il piano

Il capitale agisce concentrato, si valorizza meglio là dove c'è altro capitale. Quindi tende a concentrare uomini e mezzi in aree ristrette, su cui deve costruire gli ambienti che contengano uomini e mezzi. La metropoli moderna è verticale non solo per mitigare la speculazione della classe fondiaria sui terreni fabbricabili, ma soprattutto perché è figlia della storica e irreversibile concentrazione di capitale. Deve espandersi, ma lo spazio gravita attorno ai centri d'accumulazione e l'altezza degli edifici ha dei limiti. La tecnica costruttiva verticalista costa moltissimo; e poi non si può costruire un'acciaieria-grattacielo, né la si può impiantare nelle city; dove rimangono dunque gli "uffici", cioè le arterie dove pulsa il Capitale. L'uomo, una volta terminati i suoi compiti è allontanato; si moltiplicano le città-satellite e s'ingrandiscono in orizzontale. La città, negata alla vita umana, nello stesso tempo diventa essa stessa una forma artificiale di vita: un corpo di acciaio e cemento con i suoi organi, la sua circolazione, il suo metabolismo, i suoi nervi, la sua intelligenza, la sua crescita. Dalla sua struttura, così com'è, verrà la sua metamorfosi in forma naturale di vita.

Quando il Capitale non c'era e il lavoro coincideva in gran parte con la vita, cioè non era pagato e tantomeno pagato a tempo, la città era quasi esclusivamente fatta di imponenti opere pubbliche in grado di sfidare il tempo. La città moderna è abbandonata al rifacimento continuo delle opere private, la manutenzione è un costo passivo, meglio demolire. All'intervento pubblico è lasciata l'infrastruttura, cioè lo spazio e l'attrezzatura di servizio al capitale privato. Quest'ultimo intasca il profitto, mentre il passivo è scaricato sulla collettività.

Pubblica, meglio, collettiva, fu l'edificazione delle città più antiche, fino a quando lo schiavismo esasperato dalla "sete di pluslavoro" del tardo ellenismo, e soprattutto di Roma, non portò alla costruzione di metropoli che anche le cronache di allora descrivono come invivibili. Il collasso dell'impero coinvolse le città, ma sopravvisse la loro tradizione, e con essa, almeno in Italia, si produsse un tipo di società comunale che non conobbe mai il pieno feudalesimo. La ripresa economica e sociale a cavallo tra il primo e il secondo millennio fu caratterizzata in tutta Europa dalla moltiplicazione di città e borghi che costellarono il territorio di cantieri, riempiendo i vuoti lasciati dai secoli barbarici. Nacque una rete di cattedrali e di abbazie che, nella loro unità di stile, trasmisero un messaggio universale in tutta Europa. Nell'immane slancio costruttivo si formarono maestranze specializzate e con esse nacquero le prime forme di lavoro salariato. Questo fu il motore possente per l'ulteriore esplosione produttiva che, tra il '200 e il '300, si manifestò attraverso l'affinamento della tecnica costruttiva, nello slancio verticale che le opere assunsero in brevissimo tempo. L'unione dell'uomo con il suo dio diveniva più che mai visibile nella materia terrena e il mastro costruttore caricò di nuovi significati mistici ed esoterici non più l'ornamento ma la costruzione stessa. Il lavoro dell'uomo era giunto a sfidare molto pragmaticamente la legge di gravità innalzando archi e guglie con arte che darebbe del filo da torcere a maestranze moderne dotate di strumenti tecnicamente più efficaci. L'architetto scoprì e introdusse nel progetto l'intreccio di spinte e controspinte che la pietra, senza il nuovo criterio progettuale, non sarebbe stata in grado di sopportare. Il vuoto e la luce del gotico ebbero la meglio sul pieno e sulla penombra del romanico.

In ogni caso il maestro costruttore era ingegnere-architetto ma non ancora urbanista, almeno nel senso che diamo oggi al termine. Era in qualche modo pagato, primus inter pares, ma non per raccontare balle al popolo su fantasmagoriche "città radiose". La città era in gran parte oscura, sporca e puzzolente, ma a nessuno passava per la testa di idealizzarla come un qualcosa di diverso. Le classi c'erano e nessuno pensava che si fosse tutti uguali su questa terra. La piazza era il luogo in cui si manifestava la vita, perché vi pulsavano la produzione e il commercio benedetti da Dio, il luogo dove andava nascendo e sviluppandosi la nuova classe rivoluzionaria. Su di un lato la chiesa, casa di Dio e porta dell'aldilà, unico tramite universale fra gli uomini. Sull'altro, il palazzo del governo e la loggia dei mercanti in un insieme che ricordava la vita comune del cittadino (e "Comune" si chiamerà la città con i suoi abitanti e le sue prerogative). L'unità del tessuto urbano, il suo stile, era l'unità del borghigiano, futuro borghese, con la sua funzione di classe, contrapposta alla condizione del contadino che era invece portatore di reazione. La città era civiltà, identità e appartenenza, non barbarie contadina, né alienazione e mistificazione come oggi. Per questo in ogni periodo della storia essa venne spesso fondata, disegnata, progettata, ampliata secondo un fine comune.

Nell'epoca della tecnica e della massima capacità progettuale e organizzativa, la città della borghesia morente è disegnata mille volte sulla carta secondo idee grandiose, ma lasciata miseramente a sé stessa sul terreno pratico. La nostra corrente ha scritto pagine feroci sull'urbanista, simbolo vivente della contraddizione fra produzione sociale e appropriazione privata, che nella città si manifesta come contraddizione fra necessità di un piano urbanistico ed effettivo sopravvento del caotico agire dell'interesse privato. Che guida l'attività di costruzione, che disegna l'architettura e il tessuto urbano, che toglie alle opere ogni contenuto comunitario.

Di piante urbanistiche e di costruzioni ardite l'uomo ne ha disegnate tante per le sue tante città, ma la differenza fra le varie epoche non è solo di stile, è di sostanza. L'urbanistica e l'architettura moderne sono per lo più speculazione edilizia allo stato puro. Quando hanno pretese diverse, alla pura speculazione si aggiungono aspetti individualistici di performance estetica e tecnica, il cui scopo è di imprimere sull'opera, se si riesce, la firma dell'autore. La pubblicazione, cioè la reiterazione pubblica della firma di bottega, è l'unica via per guadagnar punti, per aumentare le cifre che si scrivono sulla parcella.

L'America fu esempio eclatante di speculazione nonostante gli spazi immensi. Le sue abbondanti foreste furono base materiale per un'architettura di città in legno e la corsa alla "frontiera" fu troppo fulminea per sviluppare qualcosa di più che il balloon frame (struttura-pallone), una casa di legno fatta con travetti prefabbricati autoportanti. È uno sviluppo di quella che si vede nei film western, ma così furono costruite Chicago, dove nacque come standard a metà dell'800, e tutte le altre città americane; il nome le fu dato dai costruttori tradizionalisti per spregio, ma rappresentò una piccola rivoluzione tecnica che permise di costruire in breve tempo abitazioni per un paese intero. Queste città costruite ex novo su terreno vergine non conobbero i problemi di quelle antiche d'Europa, alle prese con la Storia che intralciava l'Espansione, e perciò la speculazione fu più brutale. Al culmine dell'espansione, furono lottizzate persino le invivibili paludi della Florida. E Miami, la "Venezia d'America", ebbe le case più care del mondo.

Di storia l'America bianca non ne aveva, ma per crearsela edificò la sua nuova capitale in marmo, come un gigantesco memorial urbano. A corto di idee, o meglio con le idee che offriva il mercato, la borghesia latifondista e affarista assoldò (1791) un costruttore francese di New York, ufficiale dell'esercito, che disegnò una mappa ispirata a Versailles. Nel volgere di un secolo vari architetti sparsero ovunque sul nuovo tracciato colonne doriche, lesene rinascimentali, pantheon romaneggianti e facciate neoclassiche. Nel 1845 uno di loro innalzò fino a 150 metri un obelisco di marmo in onore di George Washington. Non potendo ovviamente costruirlo di granito pieno, come gli egizi, usò l'acciaio, rivestendo di marmo un traliccio. Come capitale comunque non doveva essere riuscita troppo bene se cento anni dopo sorse un movimento cittadino per la sua beautification.

Verso la metà dell'800 tutte le capitali d'Europa entrarono in fermento edilizio: la rivoluzione industriale aveva fatto moltiplicare gli abitanti di due, tre, quattro e più volte e le case stavano aumentando di conseguenza. In mezzo secolo si costruì più di quanto si fosse costruito in tutta la storia precedente e nuovo plusvalore si fissò irreversibilmente in rendita fondiaria e immobiliare. A partire dal 1854 Parigi fu sottoposta ad una beautification tutta europea: memore della rivoluzione del '48 (e delle nove sollevazioni con barricate avvenute dal 1830), il prefetto-urbanista Haussmann ricavò dal cuore antico della metropoli una pianta barocca con grandi viali diagonali come a Washington, diminuì l'estensione degli isolati diradandoli, eresse monumentali prospettive e impedì per sempre le barricate (tranne che per i sessantottini, un po' in ritardo sulla storia). La medioevale Ile de la Cité passò da 14.000 abitanti a 5.000. I nuovi tracciati stradali, proiettati verso la periferia dove furono spinti gli operai, disegnarono grandi lotti triangolari edificabili. La più grande speculazione edilizia della storia si accompagnava alla più grande trasformazione della casa urbana continentale: dalla tipologia medioevale con cucina e servizi al piano terra e camere sovrapposte, si passò in massa all'alloggio con camere in piano, più funzionale per l'inquilino, ma anche per la grande proprietà immobiliare.

Nel 1871 un grande incendio distrusse la Chicago di legno e per la ricostruzione furono imposti materiali antincendio. Una manna per l'attività edilizia e ovviamente per la speculazione. Nel 1879, proprio a Chicago, l'acciaio fu protagonista di un'altra rivoluzione urbana: la casa, già diventata alta e torriforme nelle nuove metropoli americane, si sganciò definitivamente dai limiti d'altezza e per la prima volta incominciò a diventare "grattacielo". Involucro per attività miste, per viverci, lavorarci, far traffici, vero modulo frattale della città che lo circondava, con le sue arterie, le sue piazze, i suoi trasporti disposti in verticale. Modulo a sua volta suddiviso in sotto-moduli, perché oltre un certo limite è impossibile far circolare in verticale l'acqua, il calore, la gente, senza una ripartizione delle strutture. Persino l'aria, l'energia e l'informazione devono essere fatti circolare a blocchi nei moderni mostri che raggiungono altezze prossime al mezzo chilometro.

L'età dell'acciaio non poteva rimanere senza il suo monumento specifico, inutile e grandioso. E fu per una grande manifestazione del Capitale, l'esposizione mondiale del 1889 a Parigi, che la borghesia lo elevò facendone il simbolo della produzione, l'inno alla concezione della vita nel capitalismo moderno, cioè l'antenna mondiale della finanza e del commercio, servizi alla produzione di plusvalore. Eiffel, un chimico divenuto costruttore e ingegnere, aveva dimostrato che l'acciaio si presta a innalzare strutture prefabbricate, leggere, facilmente progettabili e assemblabili, perfettamente aderenti al secolo della rivoluzione industriale. Aveva costruito ponti e viadotti mirabili: ora aveva accostato quattro enormi ponti in quadrato issandovi sopra un ardito traliccio: trecento metri di esaltazione del capitalismo ingegneristico, di simbologia produttiva non solo nell'oggetto in sé, ma soprattutto nel modo di realizzarlo: putrelle, flange, rivetti, erano tutti elementi producibili come merce generica nelle fabbriche, pronti per essere trasportati e montati ovunque. Come nel vecchio meccano o nel moderno Lego, il disegno del particolare non dipendeva più dall'insieme e quest'ultimo poteva scaturire, anche estremamente differenziato, da poche parti tutte uguali. La siderurgica meraviglia simboleggiava così perfettamente il significato celebrativo immediato (l'esposizione mondiale capitalistica), quello storico (gli spettacolari sventramenti urbanistici di Haussmann su cui dominava) e quello produttivo (l'operaio parziale dedito alle singole fasi che confluiscono nel prodotto ultimo dell'operaio globale) che colpì l'inconscio di classe borghese e, da attrazione provvisoria, divenne monumento perenne, soppiantando come emblema di Parigi l'antica Notre Dame.

La tecnica autonomizzata domina il pensiero degli uomini altrettanto efficacemente del Capitale autonomizzato. Attraverso il suo utilizzo pratico, come abbiamo visto, essa permea la città e quest'ultima diventa metropoli gigante, complessa come il capitalismo che l'ha generata. Allo stesso modo del capitalismo essa contiene tutte le fasi che hanno preceduto la sua condizione attuale: fondamenta antiche nel sottosuolo, monumenti di epoche passate in superficie, copie moderne dal vecchio e dall'antico, accumuli di costruzioni in contiguità e in strati ai quali si mescola ogni genere di infrastrutture capitalistiche in continua lavorazione. La citazione dell'antico nel moderno, il suggerimento fantasioso da epoche irripetibili non è rispettoso omaggio a grandezze ammirate ma simbolo di esausta fantasia sociale, becero sfruttamento venale, prevaricazione individualistica: a San Francisco, a Tokyo e a Chicago ci sono grattacieli-piramide; piramidali sono il nuovo municipio di Northampton, un progetto per la biblioteca di Harvard, un ipermercato di Abidjan e l'ingresso del Louvre. La piramide è una forma architettonica che non ha giustificazione razionale nel contesto urbano capitalistico: a differenza del "rettangoluzzo" gaddiano, spreca spazio; è un oggetto autonomo, partorito con un processo intellettualoide, fatto apposta per essere "originale" e poco riproducibile. L'ego dell'architetto famoso non gli permetterà di disegnare un'altra piramide dove se ne erge già una del suo concorrente; tutt'al più possono proliferare anonime piramidine nei supermercati, nei distributori di benzina, nelle pensiline alle fermate dei tram e nelle portinerie delle fabbriche.

La moltiplicazione di unità autonome urbane, accostate casualmente e mai organicamente congiunte, è la confessione di aver accettato nel profondo il principio del caos, dell'anarchia, dell'anti-organicità. Eppure la città non può non contenere anche la sua antitesi, il motore della sua estinzione e superamento, la chiave del trapasso in una società nuova. L'inusitata quantità di materiali, tecniche, soluzioni edilizie e strumenti produttivi è la chiave per superare non solo il plurimillenario modo di costruire case e città, ma anche il modo di tenere coesa la società che vi abita.

Domani

Scienza, tecnica, edificazione, abbattimento

È ovvio che la società di domani avrà come primo compito il recupero dell'esistente, nel senso che non potrà togliere di mezzo tutto ciò che sarebbe desiderabile né riedificare tutto e subito secondo nuovi progetti. Il suo sarà un compito immane, ma nello stesso tempo facilitato proprio dall'assetto capitalistico del territorio e dalla standardizzazione spinta dei processi produttivi. Le moderne tecniche di recupero, oggi applicate solo ai restauri di monumenti o di edifici di lusso che permettono un "ritorno" economico, potranno essere applicate anche alle abitazioni normali.

La stessa demolizione di edifici irrecuperabili seguirà criteri completamente diversi. Oggi si demolisce per convenienza anche ciò che sarebbe tecnicamente recuperabile; sarebbe impensabile, per via dei costi, demolire le vecchie abitazioni riciclandone le parti utili. Eppure ogni città è un accumulo del lavoro di generazioni e generazioni, fissato in materiali che, con un minimo di lavoro aggiuntivo, mantengono la loro utilità. Si son viste buttar giù vecchie case dei centri cittadini con rovina completa di travi, tegole, mattoni e serramenti, vetri. Son finiti nelle discariche anche il marmo e la pietra lavorata di zoccoli, conci, ballatoi, stipiti ecc. Domani, con lo stesso criterio che già adottano poche amministrazioni cittadine per l'arredo e la pavimentazione litica, saranno creati magazzini di materiale edilizio di recupero, come elementi del ricambio nel metabolismo della città.

L'antitesi della città capitalistica è quindi già nella sua struttura, nei suoi materiali e soprattutto nella tecnica che nel tempo si è affinata per costruirla e restaurarla. Per esempio, il cemento armato è oggi trattato con spregio dagli ecologisti: ma il materiale in sé non ne può nulla dei disastri ambientali; è il risparmio sul valore del capitale costante che produce "rettangoluzzi". Il binomio cemento-acciaio può anzi agevolmente dar luogo alle forme più ardite in tecnica ed estetica. Liberando materiali e tecnologia dalla legge del valore sarà liberata la città e la vita di chi vi abita (cfr. "Il criminale cemento armato", in Politica e costruzione cit.).

Dicevamo che sarà un lavoro immane. Maggiore di quello che fu necessario per far diventare le città quel che sono. Nel Manifesto Marx afferma che ben altri portenti ha compiuto la borghesia rispetto alle piramidi d'Egitto, agli acquedotti di Roma e alle cattedrali medioevali. Essa ha ucciso definitivamente il mondo della conservazione, ha avuto e ha bisogno di rivoluzionare continuamente ciò che esiste, ha reso cosmopolita il mondo della produzione. L'ha fatto con le sue concentrazioni urbane, con la tecnica e con le comunicazioni, che mettono le città in rapporto fra loro. "Una circolazione e un'interdipendenza multilaterale fra l'una e l'altra delle nazioni sostituiscono l'antica autosufficienza e l'isolamento locale e nazionale… La borghesia ha sottomesso la campagna al potere della città". Anzi, non esiste più la campagna. Lo spazio fra le città è al servizio dell'uomo metropolitano, la terra è la banca del cibo, della pietra e del metallo. Il trasporto di uomini e merci, la comunicazione in genere attraversa questo spazio ma non lo integra, lo sottomette, lo plasma alle esigenze cittadine. Anche se tale spazio viene invaso dalle immense periferie, esso non diventa mai autonomo, rimane soggetto a forze centripete che lo fanno gravitare attorno al nucleo dove maggiore è la concentrazione di capitale. E gli stessi borghesi annotano che, come si parla di numero di abitanti per chilometro quadrato, così si può parlare di ammontare di capitale per unità di superficie. La specie umana dovrà drasticamente diminuire il primo parametro e cancellare per sempre il secondo. Su tutto il pianeta.

La città è un attrattore di capitale; un Paese-città attira capitale rendendo i Paesi-campagna periferia di servizio. Non è colonialismo, faceva già notare Lenin, non c'è dominazione politica, c'è estensione mondiale del lavoro socializzato, della divisione internazionale del lavoro. La colonia presuppone i coloni, uomini o truppe che siano. Adesso si muovono piuttosto i capitali (le truppe si trovano sul posto) e interi paesi assumono funzione di metropoli. Come l'effetto frattale si notava con uno zoom sul grattacielo-modulo (una città verticale nella città orizzontale), così lo stesso effetto frattale si osserva con uno zoom sulla città: che è modulo di un paese, e quest'ultimo è modulo di un insieme capitalistico più vasto.

In tale contesto la parte che conta della borghesia mondiale perde persino interesse nel coltivare direttamente la sua arma più potente, l'ideologia di classe. La sua vocazione internazionale, in un mondo ormai globalizzato, le fa dimenticare il vecchio armamentario ideologico il cui maneggio è tranquillamente lasciato alle mezze classi, zeppe di intellettuali in cerca di stipendio. Persa da tempo la sua carica propulsiva, la borghesia che conta lascia che l'ideologia come strumento di dominio continui a dominare attraverso un processo di auto-fertilizzazione all'interno della massa umana asservita nel suo complesso al Capitale. La borghesia come classe storica ha smesso così di assumere come fondamento ideologico un'etica e si appoggia sulla tecnica in tutte le sue forme. Democrazia, libertà, diritti, uguaglianza, benessere, diventano per essa categorie insignificanti, o perlomeno impregnate di significati dei quali si è ormai disfatta, puro mangime per l'anima del popolo. Abbandonato il terreno dello spirito e delle sue qualità, per la borghesia non ha più senso insistere sulla giustificazione morale della proprietà, degli interessi economici e del profitto. Essa è diventata completamente a-morale e vede ormai il suo mondo come un modello al computer, con input-output sensibili ai meccanismi regolatori interni, la cui taratura non richiede altro che particolari tecniche. La sua scienza è pragmatica, e quindi ottusa come un termostato: se fa caldo spegne l'interruttore, se fa freddo lo accende; le conseguenze "al contorno" sono irrilevanti, meri "danni collaterali", come i bombardamenti americani fuori bersaglio; il resto dell'universo si arrangi. Si prendono certi provvedimenti piuttosto che altri perché sono i mercati "caldi" o "freddi" che lo impongono, i bisogni degli uomini non fanno parte del modello, che obbedisce a un solo comandamento: l'output, il valore che ne esce, deve essere maggiore dell'input, il valore che ne era entrato. La politica della borghesia non può quindi che essere legata ad entità esterne agli uomini; la città, l'intera rete di città, che della politica è sede, non può che essere fatta crescere di conseguenza.

Per l'economia è ancora necessario fare bilanci, stendere scartoffie che registrino le entrate e le uscite. Ma per il "bene generale" ciò diventa un fattore secondario, quel che importa è la crescita globale; il mondo non è regolato da una serie di bilanci ma da un modello globale stabilito dalle metropoli (e sempre di più da una metropoli), dove le entrate e le uscite sono sostituite da flussi di valore che devono dirigersi verso i luoghi in cui sono maggiori le garanzie di valorizzazione. Non importa in quale area del mondo essi si trovino, quel che importa è che la produzione del valore si sposi con il controllo dei flussi. Non importa più il banale calcolo economico di chi "guadagna" e chi "perde": quel che importa è il Prodotto Interno Lordo, o meglio, il Prodotto Mondiale e il suo derivato pro-capite. Non importa se il risultato è la media fra classi separate da abissi. Confrontate con le vecchie unità di misura del benessere, fatti ad esse i conti in tasca, anche l'economista borghese ogni tanto sbotta: il Capitale è cresciuto a dismisura, al suo confronto la miseria ancora di più.

Noi comunisti lo sapevamo già, ovviamente, che più la società capitalistica vede accresciuta la massa di valore, più la classe lavoratrice ci rimette. La legge della miseria relativa crescente è la legge assoluta della società capitalistica. Ma adesso la nuova religione data in pasto al popolo è che solo nella crescita c'è la salvezza, e crescita vuol dire costruzione. Non costruzione di qualcosa di specifico, di utile, ma costruzione e basta. Non si creda che sia solo una follia berlusconiana tracciare schemi di trafori, ponti, autostrade, ferrovie e infrastrutture varie. È certo ridicolo vedere un ometto che crede di ridisegnare il mondo col pennarello in una trasmissione televisiva, ma non è poi così strano se teniamo conto che, prescindendo da ciò che l'individuo pensa di sé stesso, è in ultima analisi il Capitale a tirare i fili del burattino facendolo brutalmente parlare con la lingua dell'ideologia corrente: costruire, costruire, costruire…

A livello di uno scenario ben più vasto il presidente americano, un altro che in quanto a finezza personale non scherza, ha tracciato lo schema delle infrastrutture mondiali, delle arterie attraverso cui il flusso mondiale di valore si dovrà indirizzare. Per gli USA, bombardare l'Afghanistan è come far brillare le mine per la massicciata di una tangenziale, redigere un piano mediatico anti-islamico è come progettare una nuova metropolitana. E il popolo, credendo fervidamente alla crociata, sentitamente applaude.

"Mai il ciarlatanismo, il corbellamento del proprio simile, il gabellamento più sfrontato delle menzogne, hanno attinto così alto livello, come in questa epoca in cui siamo scientificamente governati giusta i canoni della tecnica" (Politica e costruzione cit.). Scienza e tecnica sono neutre, si dice, vanno al sodo e risparmiano le chiacchiere. Quando la scienza si accoppia contro natura col concretismo costruttivista noi drizziamo le orecchie perché lì c'è la fregatura. Il capitalismo, avendo fin troppo costruito, è preso nella morsa dell'alternativa: costruire ancora di più o distruggere. È difficile costruire e ricostruire oltre certi limiti nelle metropoli; ma non si può coprire l'intera superficie del pianeta di costruzioni e popolazioni; quindi non rimane che distruggere. Anche la rivoluzione distruggerà, ma nel senso di abbattere barriere per liberare e far avanzare la forza sociale dell'uomo, liberarlo dalla schiavitù della crescita e della tecnica asservita. Mentre l'autodistruzione necessaria alla sopravvivenza del capitalismo cancella non solo le cose ma anche la vita umana, la nostra "distruzione" riguarderà le strutture utili alla conservazione del capitalismo, sia quelle innalzate dai cantieri edili sia quelle, soprattutto, ideologiche, politiche, armate. "Occorre per questo uno studio della moderna tecnica, fatto con vastità di visione, senza nulla chiedere al singolo chiericozzo cui è affidato un banco nello spaccio della bestia trionfante" (id.).

Rivoluzione costruttivista?

Decenni di stratificazioni politiche hanno prodotto una percezione falsata della Rivoluzione russa. Oggi è abbastanza comune accettare il fatto che essa non è stata ciò che la storiografia stalinista ha voluto far credere; ma non è altrettanto comune la consapevolezza di ciò che è veramente stata, la consapevolezza che autentici sprazzi del domani l'avevano rischiarata. Ciò che la rivoluzione ha detto di sé stessa negli anni immediatamente successivi alla vittoria del '17 non offre elementi sufficienti per la comprensione del fenomeno. Gli uomini che la stavano materialmente vivendo avevano ovviamente preoccupazioni diverse dal resoconto ragionato, e i loro scritti registrano più la battaglia sul campo che non lo sconvolgimento sociale dal punto di vista storico, dialettico, materialistico, anche se era questa la visione che, in quanto acquisito armamentario teorico, determinava il loro agire.

Sta di fatto che vi era rivoluzione non solo in Russia ma in Europa e nel mondo, ed essa coinvolgeva masse enormi di uomini, obbligandoli ad esprimersi con linguaggio molto più coerente di quanto fosse coerente la politica dei capi e dei partiti. E per linguaggio intendiamo la comunicazione in senso lato, il comportamento, l'azione, l'espressione artistica. Quando il motore della rivoluzione è unico – ricaviamo da un nostro classico testo – unico è lo stile che essa manifesta, indipendentemente dagli attori sulla scena e persino dai suoi militi.

La rivoluzione di quegli anni fu dunque mondiale e, a dispetto delle leggende, ebbe uno stile straordinariamente unitario. Fu una rivoluzione costruttivista, quindi ancora immatura, aperta alle influenze mortifere di una società che, benché decrepita, aveva ancora qualcosa da aggiungere. Le rivoluzioni mature liberano un futuro già pronto e hanno da sbarazzare la strada, da togliere di mezzo, da demolire ostacoli che impediscono il cammino verso la società nuova. Il paradosso russo è nel paradigma costruttivo, edificatorio, che contraddistinse persino i discorsi di Lenin: "Soviet più elettrificazione!", una vera parola d'ordine che non sarebbe sfigurata in bocca al futurista Marinetti. A riprova dell'origine materiale delle espressioni e dei comportamenti, più unitario ancora fu lo stile della controrivoluzione che seguì: cancellando tutto lo straordinario fervore precedente, l'arte fascio-nazi-rooseveltiano-stalinista ebbe il sopravvento.

"Costruttivismo" non a caso è anche il nome di un movimento di avanguardie artistiche russe, che fu prima tollerato e poi spazzato via dallo stalinismo. Si trattò di un fenomeno parallelo ad altre correnti artistiche come il cubismo e soprattutto il futurismo. Se ci soffermiamo su di esso in particolare, è perché il suo nome è di per sé significativo, ma fu l'insieme del movimento artistico del primo quarto di secolo ad essere costruttivista. Certo, voleva demolire il vecchio modo di concepire l'arte, ma l'intento non era quello di andare da un'altra parte, era quello di costruire un'arte nuova.

I costruttivisti vollero progettare un nuovo linguaggio estetico basandosi sull'uso di nuovi materiali e sul riferimento alle tecnologie e ai metodi dell'industria. Si opposero alla separazione fra le arti e tentarono di impostare un lavoro unitario che le comprendesse tutte, che comprendesse anche la vita di tutti i giorni, il lavoro. La Rivoluzione d'Ottobre diede loro, ovviamente, energia ed entusiasmo.

Nel 1914 lo scrittore e critico letterario Sklovsky aveva cercato di dimostrare che le ricerche esplose con il futurismo facevano parte, o seguivano le stesse leggi, dell'evoluzione generale del linguaggio. Ora il linguaggio riceveva impulso dalla rivoluzione, doveva integrarsi con le "masse", rompere le barriere che impedivano a queste ultime l'accesso all'arte. Ogni progetto artistico doveva avere la sua realizzazione pratica, ogni prodotto doveva risolvere un bisogno di consumo. Del resto – si affermava basandosi in modo meccanico sul binomio distruzione/costruzione – non era forse il vecchio mondo già distrutto dalla rivoluzione? Ecco perché rimanevano i compiti costruttivi. Così, nel 1919, mentre nasceva la nuova Internazionale, nasceva anche il progetto costruttivista per il suo monumento: una spirale di acciaio e vetro alta più di 300 metri, intersecata da un cubo, una piramide e un cilindro, quest'ultimo proiettato verso il cielo come un telescopio. L'ingenuo progettista, emulo di Eiffel, non si rendeva conto che le rivoluzioni innalzano monumenti a sé stesse solo quando hanno reso vittoriosa una classe che succede al potere di un'altra. La rivoluzione comunista non ha bisogno di costruire, tantomeno monumenti a sé stessa. La classe che demolirà la vecchia forma sociale, a parte la fase di transizione, non sostituirà un altro potere di classe, abolirà ogni classe, compresa sé stessa e darà luogo a ben altre imprese "monumentali" che un traliccio celebrativo in più.

Non vi era solo ingenuità nell'ideologia (ché di questo si trattava) costruttivista. La rivoluzione la spingeva comunque verso mete confuse ma proiettate nel futuro. Mentre nel Bauhaus tedesco si sviluppavano forme razionalistiche accompagnate da progetti per la produzione di oggetti d'uso comune da realizzare nelle fabbriche, nel 1920 a Mosca si cercava di non rimanere limitati ad una corrente "artistica" ma di integrare ancor più il movimento, il suo prodotto e la vita della gente comune (che non era ancora "l'eroico popolo rivoluzionario e patriottico" di Stalin): la fabbrica non doveva solo ricevere i disegni ma essere la vera sede dell'elaborazione artistica e della conseguente realizzazione.

L'arretratezza sociale della popolazione, per lo più ancora dedita all'agricoltura, sarebbe stata superata mediante la generalizzazione degli esperimenti comunistici, cui il progetto costruttivista avrebbe fornito le stutture e gli ambienti. Le elaborazioni architettoniche (solo in minima parte realizzate) sono, con gli oggetti d'uso comune (disegnati ed effettivamente prodotti), l'aspetto più interessante del costruttivismo russo. Accanto ad espressioni del tutto idealistiche vennero alla luce progetti dettati dalla necessità reale di superare non solo le condizioni esistenti in Russia, ma anche quelle del capitalismo occidentale. I volumi abitati e gli spazi prospettici dei razionalisti vennero in alcuni casi superati dalla compenetrazione di spazi, dove il gioco del pieno e del vuoto rifletteva l'esigenza di superare il concetto borghese di città. Vi sono assonometrie che sembrano effettivamente disegnate dalla società futura nel presente; vale a dire che non appaiono come progetti per un'utopia da realizzare, ma anticipazioni sulla carta di ciò che sarà l'effettivo bisogno umano di abitare e produrre. Il Wright "organico" urbano e il Le Corbusier "razionalista", inscatolatore di uomini come sardine, sono superati per sempre da uno sprazzo di futuro, in un paese arretrato, su carte miracolosamente salvatesi dalla distruzione staliniana. Con buona pace degli odierni ambientatori di compromessi fra la produzione sociale e l'appropriazione privata (e delle parole in libera uscita sull'organicità e sul razionalismo architettonici).

La tipologia edilizia dei nuovi centri abbozzati dai costruttivisti supera nello stesso tempo il falansterio utopistico (unità integrata abitativo-produttiva) e la concezione tradizionale della "città del futuro", una pedestre rielaborazione estetica e tecnologica delle città attuali, con tanto di fabbriche, case in condominio, automobili, parcheggi sotterranei o pensili, ecc. (l'espressione massima di queste idiozie si trova nei progetti di città-stazioni-spaziali orbitanti degli anni '60, dove veniva racchiusa in gusci autosufficienti e proudhoniani una porzione della reazionaria società tipica della provincia americana).

Le strutture della futura comunità urbana saranno spazi e volumi organizzati per la vita sociale, dove non sopravviveranno, neppure sotto metamorfosi, le categorie della vecchia società (denaro, famiglia, scuola, azienda). Date le terribili condizioni in cui si trovava la Russia rivoluzionaria, gli spazi sociali urbani dei costruttivisti avrebbero dovuto svolgere la funzione di "condensatori sociali" in grado di accumulare l'energia potenziale della società in fermento e far scoppiare le potenti scintille dell'avanzata ulteriore. Anche se in questi progetti c'era un residuo di utopia (costruire le condizioni per la vera rivoluzione sociale), il loro disperato tentativo d'imporsi, il loro successo iniziale nonostante fossero alieni in un mondo primitivo, li innalza rispetto a molte correnti ben più radicate nella storia dell'architettura e dell'urbanistica. Sappiamo che questa esperienza finì, e che questo misto tra utopia ed effettiva anticipazione lasciò il posto ai teorici e costruttori del "socialismo in un paese solo". Alla presentazione del primo piano quinquennale, nel 1928, i costruttivisti furono definitivamente sconfitti con l'accusa di bloccare i grandi piani per l'economia sovietica. Questo fu il vero, terribile problema: mentre in Occidente l'economia era da distruggere, in Russia doveva ancora essere costruita.

Verso la città organica o la non-città

Architettura organica: anche questo un aggettivo, come molti altri, ormai rubato. Generalmente sotto questa definizione vanno le architetture che esaltano la coerenza tra il disegno delle costruzioni, l'uso dei materiali e soprattutto il contesto topografico (suolo, paesaggio ecc.) in modo da valorizzare l'individualità psicologica di chi le abita. Esse si contrapporrebbero a quelle razionalistiche, che invece privilegiano la semplificazione della forma, il ricorso all'essenziale, l'aderenza alla realtà della produzione industriale come sistema sociale completo.

Non si tratta qui di appoggiare, confutare o comunque entrare nel merito delle diverse correnti. D'altra parte, nel contesto qui trattato, è impossibile non accorgersi che questa società ipersviluppata costringe persino architetti e urbanisti (ed è tutto dire) a scagliarsi contro alcuni aspetti del capitalismo. Dall'esplosione edilizia della rivoluzione industriale in poi sono esplose anche le critiche all'inurbamento incontrollato del territorio e con esse sono apparsi disegni, proposte, progetti che non sempre sono utopie o semplici opere letterarie. La Londra nera e miserabile di Dickens deve produrre come antitesi la "città giardino" di Howard (1898), un'unità urbana di 30.000 abitanti al massimo, di cui non più di 2.000 addetti all'agricoltura in grandi spazi che separano abitazioni e centri storici già consolidati.

Tuttavia in architettura e in urbanistica, più che in altri campi, abbiamo a che fare con correnti che inneggiano comunque alla riproduzione della società capitalistica, al massimo suggerendo espedienti per mitigarne alcuni difetti. Si tratta perciò di correnti che, lungi dall'essere illuminate da sprazzi del domani come quelle prima citate, sono plasmate esclusivamente dal presente in cui sono nate, vere forme di esistenzialismo architettonico e urbanistico. Anche se alcuni fanno risalire il razionalismo dei Gropius e dei Le Corbusier al fermento futurista, o l'organicismo di Wright al naturalismo poetico di un Whitman (ma come la mettiamo con il progetto del "grattacielo alto un miglio"?), si tratta di correnti perfettamente adatte all'ideologia della borghesia democratica industriale e non hanno nulla a che fare con alcuni caratteri distruttivi che si accompagnano a quelli costruttivistici tipici del futurismo e di altri movimenti analoghi. Tolto il quasi dimenticato (e un po' sgangherato) esempio russo che abbiamo ricordato, l'architettura e l'urbanistica moderne si vendono senza speranza sulla strada della conservazione, anzi, essendo espressione di ipercostruttivismo, nel senso di "più cantieri ci sono, meglio è" (così cresce anche il PIL), rappresentano uno degli aspetti più reazionari della presente forma sociale, l'ultima ratio keynesiana cui ricorre il potere borghese quando è in crisi nera. Capaci di inneggiare persino al ponte sullo stretto di Messina e a tutto ciò che ne consegue.

La prova decisiva del fatto che gli edificatori dei nostri giorni sono meno progressivi di un monaco del Monte Athos, è nella loro assoluta cecità di fronte al fenomeno della de-costruzione capitalistica industriale. Insistendo nella costruzione forsennata di città sempre più estese, con conseguente sempre più difficile razionalizzazione dei problemi che ne derivano, vanno in retromarcia rispetto al veloce processo di distribuzione territoriale e di riduzione della densità operaia nel mondo della produzione. Ora, non c'è città al mondo e nella storia, come abbiamo visto, che non abbia seguito le vicende della produzione sociale nelle diverse epoche. L'odierna, forsennata concentrazione abitativa capitalistica è seguita alla concentrazione del Capitale, riportando alla scala urbana ciò che succedeva nella fabbrica. Se si continua a pensare in termini di concentrazione degli uomini nelle città nonostante l'avvento della centralizzazione del controllo su elementi decentrati della produzione, vuol dire che un potente fatto economico e ideologico blocca i cervelli. Mentre la realtà della produzione è già una nuova espressione del cervello sociale, la realtà urbanistica è ancora abbondantemente espressione di vecchi, vecchissimi rapporti sociali.

L'attrattore urbano di masse contadine è stata la fabbrica, dove il nuovo operaio era stato messo a collaborare con altri operai fino a che, col passaggio dalla manifattura al sistema d'industria, l'insieme degli operai parziali era venuto a formare l'operaio globale. L'accrescimento del lavoro combinato fu una conquista storica che portò al ciclo di produzione verticale e all'azienda concentrata. Quando i mezzi di comunicazione, le nuove tecnologie e soprattutto il nuovo assetto finanziario del capitale portarono alla formazione di holding che riunivano sotto un solo controllo molte fabbriche differenziate, la vecchia concentrazione diventò obsoleta e la grande industria padronale fu sostituita da una più snella rete produttiva diffusa sul territorio, fatta prevalentemente di piccole e medie unità produttive fra loro collegate. Nello stesso tempo proprio le città, sempre più congestionate e inquinate, avevano contribuito al processo espellendo la produzione dai centri e relegandola nelle periferie. La "zona industriale" rappresenta il paradigma del nuovo assetto produttivo: tante fabbriche dedite a non importa quale produzione, dislocate su aree attrezzate e connesse fra loro mediante infrastrutture, il tutto fornito dalla finanza pubblica a vantaggio del capitalismo privato.

Perciò oggi, mentre la densità di capitale (il controllo unico su molteplici attività) tende ad aumentare, la densità di unità produttive tende a diminuire, e con essa tende a diminuire la densità operaia per unità produttiva. In poche parole, nel mondo la produzione risulta distribuita in un numero sempre più alto di fabbriche, più piccole, più automatizzate e più orientate a una produzione specifica. Persino le nuove dottrine militari della borghesia, e il suo comportamento sul campo di battaglia, corrispondono a questo nuovo assetto della produzione e del suo controllo: unità combattenti più snelle, tecnologicamente più attrezzate, con un volume di fuoco maggiore, più collegate e informate, più distribuite sul territorio, in un campo di battaglia che non conosce più fronti ma che permea tutto il territorio e la popolazione.

Come si vede, l'assetto urbanistico moderno, nato e cresciuto a immagine e somiglianza del Capitale fino all'epoca della sua concentrazione massima, non corrisponde più né alle esigenze del capitalismo stesso né alla sua intima struttura. Ormai le mostruose megalopoli stanno perdendo addirittura abitanti e attività, dimostrando anche in ciò che il ciclo storico borghese è al tramonto. Fin da ora si potrebbe accelerare enormemente il processo, sfoltire la densità dei centri urbani e redistribuire più razionalmente la popolazione sul territorio. Invece la popolazione tende a rimanere comunque concentrata intorno alle strutture esistenti; spostandosi semplicemente nella fascia suburbana, segue la nuova dislocazione dell'industria e fa aumentare spaventosamente sia il traffico che il tempo sprecato in esso. Già, perché le strutture esistenti non si possono spostare a piacimento, si possono soltanto smantellare. E siccome la rendita aborre lo spazio edificabile vuoto, ecco che si edificano case di lusso o uffici sulle aree delle vecchie fabbriche centrali, cacciando gli operai in periferia.

La rottura rivoluzionaria avrà come primo effetto quello di iniziare il processo di ricondizionamento ad uso abitativo di tutti i volumi oggi adibiti alla gestione del valore e della proprietà, di dare il via alla sistematica demolizione di tutti gli edifici costruiti con metodi e materiali scadenti, perciò dissipatori di energia, bisognosi di eccessiva manutenzione e non durevoli nel tempo. Analogamente inizierà lo sfoltimento delle metropoli e la loro trasformazione in più unità urbane meglio vivibili: sia con lo spostamento spontaneo della popolazione verso luoghi un tempo fiorenti e attualmente quasi disabitati, in cui si trasferiranno produzioni adatte e si ristruttureranno i volumi abitativi esistenti; sia con la demolizione degli edifici sorti da ondate speculative e con la realizzazione, al loro posto, di aree verdi, in modo che sia avviata l'integrazione della città con la campagna anche tramite spazi che si compenetrano e armonizzano.

Tutto il moderno sistema produttivo è ormai in grado di rispondere perfettamente alle esigenze della nuova società; già oggi unità produttive con pochi operai rispetto a quelle dello storico periodo delle concentrazioni sono collegate a grandi distanze per mezzo di organismi coordinatori unici, all'interno della stessa proprietà industriale o fra proprietà diverse, senza che la generale disciplina produttiva abbia a soffrirne, anzi, al contrario. Domani, fermo restando il lavoro coordinato in relazioni sempre più vaste, e scomparsa l'inutile proprietà, sarà possibile accentuare al massimo le esigenze umane, con la dislocazione razionale dei mezzi di produzione, delle persone e delle abitazioni, con lo studio scientifico e quindi con la progettazione dell'intero assetto del pianeta, compreso quello delle zone da lasciare disabitate per armonizzare l'esistenza della specie homo con quella di tutte le altre specie animali e vegetali: "Allora il verticalismo bruto dei mostri di cemento sarà deriso e soppresso, e per le orizzontali distese immense di spazio, sfollate le città gigantesche, la forza e l'intelligenza dell'animale uomo progressivamente tenderanno a rendere uniforme sulle terre abitabili la densità della vita e la densità del lavoro, resi ormai forze concordi e non nemiche" (cfr. Spazio contro cemento).

Letture consigliate

  • Partito Comunista Internazionale, Politica e costruzione, "Prometeo", II serie, n. 4, luglio-settembre 1952. Spazio contro cemento, "Il programma comunista" n. 1 del 1953. Ora entrambi in Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, Ed. Quaderni Internazionalisti.
  • Partito Comunista Internazionale, Riunione di Forlì, dicembre 1952, Il programma immediato della rivoluzione proletaria, Opuscolo "Sul filo del tempo", 1953. Ora in Per l'organica sistemazione dei principii comunisti, Ed. Quaderni Internazionalisti.
  • Il cervello sociale; Operaio parziale e piano di produzione. Rispettivamente su n+1 del maggio e del settembre 2000.
  • Isaac Asimov, Trilogia galattica, Mondadori, 1961.
  • Carlo Emilio Gadda, Le meraviglie d'Italia, Einaudi, 1964.

Rivista n. 8