Chiudete agli uomini quelle dannate miniere!

I minatori inglesi del carbone tornano in lotta. Rispuntano vecchie parole d'ordine: "Opponetevi alla chiusura dei pozzi! lottate per la rinazionalizzazione!". L'industria mineraria parastatale era fallita, ora si chiede di tornare al punto di partenza. E di difendere il "diritto al lavoro". Per scendere nei pozzi più vecchi, profondi e insicuri del mondo. Come vent'anni fa, quando un anno di sciopero a oltranza non aveva impedito centomila licenziamenti e il passaggio dall'energia del carbone a quella del petrolio. Quella terribile sconfitta non ha insegnato nulla.

In luglio la più grande azienda estrattiva d'Inghilterra ha annunciato la chiusura dei pozzi e il licenziamento di 2.000 minatori. Altri 3.000 posti andranno persi nelle attività "indotte". La storia si ripete: nell'82 le industrie che non erano fallite erano state privatizzate. Ad esse erano state concesse le miniere più redditizie in cambio dell'impegno di mantenere i posti di lavoro. Adesso come allora il sindacato accusa l'industria di aver "stuprato" le miniere, di averle sfruttate fino all'estremo senza fare investimenti. Si legge sui cartelli: "Ci hanno preso a calci nei denti". Nella lotta a volte succede. Non è detto che debba essere sempre così; ma sedere a tavolino e scendere sul terreno dei padroni mettendosi a fare calcoli di redditività è come chiedere: dateci tanti calci sui denti. Dicono che la perdita di 5 milioni di tonnellate di produzione su 17 sarà la fine anche delle altre miniere; che i piani governativi (tracciati dagli stessi politici che vent'anni fa usarono lo sciopero contro la Tatcher) prevedono per il 2012 il passaggio all'energia da gas per il 70% del totale; che il gas sarà importato per il 90%; che oggi l'estrazione da pozzi profondi in Inghilterra è meno costosa che altrove e perciò conveniente; che la rinuncia al glorioso carbone britannico non è molto patriottica e danneggia i lavoratori.

Il carbone inglese costa meno proprio perché non si fanno investimenti. Cosa che nelle miniere vuol dire mancanza di sicurezza, di aerazione, di filtraggio e, soprattutto, di macchine che scavano e trasportano il minerale al posto degli uomini. Nel caso di tutte le miniere assassine, la teoria marxiana della rendita dimostra che la morte in miniera è dovuta alla resa differenziale: dove il terreno è "fertile" di minerale, a pari investimento il profitto è maggiore. Dove il terreno è difficile, sono magri investimento e profitto. In tal caso l'uomo è più redditizio della macchina. A causa della rendita differenziale, sale nei pozzi la tendenza all'omicidio da risparmio di capitale. E quando non basta si uccide anche la miniera: "La fame di sopralavoro non solo estorce ai vivi tanta forza lavoro da abbreviarne l'esistenza, ma rende un buon affare la distruzione di lavoro morto [capitale fisso], al fine di sostituirlo con altro lavoro vivo. Il capitalismo, oppressore dei vivi, è omicida anche dei morti" (cfr. Omicidio dei morti, 1951).

Le miniere verranno dunque "uccise". Chiedere come vent'anni fa, come adesso, che vengano tenute aperte significa chiedere che sia aumentato il rischio di morire. Difesa del posto di lavoro! Il luogo comune più deleterio per l'operaio, condannato così ad una castrante assuefazione all'esistente. Un proletario non corrotto da decenni di opportunismo sindacale si spingerebbe a rivendicare il salario per i disoccupati, non l'impossibile inversione delle leggi del capitalismo. Mai rischierebbe l'omicidio del lavoro vivo a favore dell'accumulo di lavoro morto. Per quanto tempo ci toccherà ancora vedere scioperanti che occupano le gallerie più profonde per implorare il diritto alla "morte differenziale"?

Rivista n. 9