Teoria e prassi della nuova politiguerra americana (4)

III. Ventotto tesine senza tempo

1. Considerare nello stesso tempo le parti e il tutto.

Tutti conoscono von Clausewitz soprattutto per il celebre aforisma secondo cui la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi. In realtà egli disse molto di più, giungendo a saldare in un tutt'uno storia, economia, società, guerra e politica. Percorrendo l'intera sua opera, lo vediamo demolire la posizione pacifista borghese che considera la coppia di opposti pace/guerra separandoli completamente. La guerra da ormai mezzo secolo non è più lo sbocco della politica che continua con altri mezzi, ma è lo stato permanente di una società basata sulla concorrenza fra individui, aziende, Stati. Essa non ha un principio e una fine (politica, guerra, pace), non vi è separazione netta fra pace e battaglia. L'arte della guerra del XXI secolo è il suo sostituirsi alla politica. La "pace" non esiste più, il capitalismo l'ha estinta. E il fenomeno è strettamente connesso ad un altro, da noi affrontato più volte: la cronicizzazione della crisi di accumulazione.

Naturalmente ci stiamo occupando di un lungo processo storico, dato che la guerra, per giungere ad essere quello che è oggi, si è adattata a tutte le epoche. Ma ciò che ci interessa è argomentare, con von Clausewitz, che, al di là del modo contingente di "fare" la guerra, vi è anche un modo universale di "intenderla". Egli, abbiamo detto, non è dei nostri, è un idealista, seguace del pensiero di Kant e di Fichte, ci dicono. Può darsi. Sta di fatto che i nostri maestri lo apprezzarono e noi, per gli stessi motivi, possiamo trarre dai suoi scritti alcuni spunti per le nostre analisi, del tutto controcorrente.

Per dare una definizione della guerra von Clausewitz è costretto a utilizzare altri termini che a loro volta richiedono una definizione. Per definire la guerra come "continuazione della politica con altri mezzi" egli deve dunque definire anche la politica. In alcuni passaggi sembra che intenda la guerra come uno strumento della politica, ma siccome alla fine della sua opera è la politica che diventa "continuazione della guerra con altri mezzi", ecco che fra politica e guerra non abbiamo solo una sequenza logica ma due aspetti dello stesso fenomeno. Per von Clausewitz – come vedremo più avanti - essi non sono solo intercambiabili ma complementari, devono co-esistere, e la politica non è altro che l'intelligenza dello Stato. Benissimo. Adottando il suo rigore logico, ecco che noi possiamo derivare un'altra definizione perfettamente compatibile: la guerra non è altro che una delle forme sotto cui si presenta l'intelligenza dello Stato.

In questo primo punto, che fa da introduzione al suo lavoro, l'autore ci raccomanda di tener d'occhio contemporaneamente le parti e il complesso, e opera la prima di ventotto grandi astrazioni per rispondere alla domanda generale: "che cos'è la guerra?"; poi, procedendo, egli passa da un'analisi del complesso (teoria della guerra, strategia) alla realtà della guerra (combattimento, forze in campo) e infine, giunto all'ultimo libro, percorre la strada in senso inverso come per una verifica. Ce lo comunica egli stesso negli appunti lasciati prima di morire: "Quando le mie idee si troveranno ad essere nettamente definite nell'ottavo libro, e i lineamenti fondamentali della guerra risulteranno chiaramente fissati, mi sarà molto più facile far penetrare lo stesso spirito nei primi sei libri [il settimo è solo un'estensione abbozzata del sesto] e lasciar intravedere quei lineamenti anche in essi. Solo in un secondo tempo ne intraprenderò l'elaborazione". Se fosse sopravvenuta una "morte precoce" – continua – l'intera opera, non sottoposta a questa elaborazione di ritorno, non sarebbe stata altro che "una massa informe di pensieri esposta a interminabili malintesi".

Si tratta di un metodo familiare ai nostri lettori: la conoscenza parte dall'insieme caotico per giungere alle determinazioni più semplici, astratte. "Di qui, si tratta poi di intraprendere il viaggio all'indietro, fino ad arrivare finalmente [al complesso] ma questa volta non come ad una caotica rappresentazione di un insieme, bensì come a una totalità ricca, fatta di molte determinazioni e relazioni. Quest'ultimo è, chiaramente, il metodo scientificamente corretto." (Marx, introduzione a Per la critica dell'economia politica, 1857).

Siamo dunque giunti non solo alla definizione (che, quando si parte dal concreto invece che dall'astratto, si è sempre rivelata piuttosto difficile da "centrare"), ma anche, più in generale, al perché della necessità del procedimento adottato, quindi ad un vero e proprio "manifesto" sul come si debba affrontare l'arte della guerra, dalla "politica" al campo di battaglia e viceversa. Se la politica è l'intelligenza dello Stato, essa ne rappresenta l'andamento economico e sociale, è lo specchio delle determinazioni geografiche e storiche passate e dello sviluppo futuro, come lo stesso von Clausewitz rileverà in uno dei 28 punti. L'azione dei singoli e dei gruppi va analizzata in rapporto a tutta la dinamica rappresentata dallo Stato, dalla sua storia e dallo sbocco cui questa dinamica conduce. D'accordo, per giungere a questo risultato ci basta il materialismo storico, ma il generale prussiano lo dice trent'anni prima di Marx. Non perché fosse più in gamba, ma per la semplice ragione che la guerra si sviluppa prima dell'economia e della politica, come è detto a chiare lettere proprio nell'Introduzione citata.

I "grani" di storia, che von Clausewitz voleva consegnare al lettore specialista affinché fossero da lui ordinati con la logica dell'esperienza, si sono ordinati da soli, la materia si è imposta, come previsto, la cronaca e l'attualità vengono sopraffatte. E noi, su questa base, traiamo le risposte alle domande: che cosa verrà dopo l'Afghanistan e l'Iraq? Che cosa c'è stato prima dell'11 settembre 2001? Quale concatenazione continua dobbiamo rintracciare invece di limitarci a fare un semplice elenco degli incomprensibili avvenimenti discreti che i mass media ci mettono sotto gli occhi? Quale, insomma, è l'astrazione che dobbiamo operare Quale il percorso dal complesso al semplice che dobbiamo seguire e poi ripercorrere nel senso inverso, come ci ha insegnato Marx?

2. La guerra è un atto di forza per imporre la propria volontà all'avversario.

Eccoci alla definizione. Guarda caso è la stessa che troviamo nel famigerato documento americano sulla "guerra preventiva", che recita: "Gli Stati Uniti vogliono e possono mantenere la capacità di sconfiggere ogni tentativo fatto da un nemico – sia uno stato che un non-stato – di imporre la propria volontà a noi, ai nostri alleati, o ai nostri amici" (in: The National Security Strategy of the United States).

Come i matematici giunsero alla conclusione che fosse necessario ridurre tutta la loro materia a pochi semplici assiomi, anche solo per capirsi, cioè per non dire cose simili con linguaggi diversi (o per non usare linguaggi simili per dire cose diverse), così in von Clausewitz c'è, giustamente, la necessità di stabilire un punto di partenza per lo studio del fenomeno guerra, specie se, nella storia dell'umanità, questo è un invariante che si presenta sotto grandi trasformazioni: la guerra sotto le mura di Troia non è evidentemente la guerra senza limiti di tempo e di spazio che conosciamo oggi. Non va mai dimenticato che invarianza e trasformazione vanno considerati insieme, mai separati. Certi "leninisti" ripetono ancora oggi parole d'ordine lette nel contesto della Prima Guerra Mondiale, quando i fantaccini si sparavano a vista da trincea a trincea, e potevano "fraternizzare"; quando c'era il "popolo in armi" e aveva senso appellarsi ad esso. Non si rendono conto che, nell'epoca in cui il combattimento, come in Afghanistan, è pianificato e condotto da Tampa, in Florida (dalla Luna sarebbe lo stesso); quando la guerra è proiezione di potenza di fuoco indipendentemente dalla presa immediata del territorio, come avvenne invece per migliaia di anni; quando agiscono sul campo professionisti che fanno parte di un sistema ibrido fra il pubblico e il privato; in questa particolare epoca, dicevamo, occorre un altro tipo di approccio al problema.

Allora vediamo che cosa significa oggi fare astrazione alla maniera di von Clausewitz-Marx. Nel definire la nozione generale di "guerra" si è ricorsi a tre "categorie semplici", cioè ad un alto livello di astrazione: "atto di forza", "imporre la propria volontà" e "avversario". Esse sono universali, valgono per ogni tempo e per ogni guerra, per gli eserciti di Agamennone e Priamo come per quelli di Bush e bin Laden, ma anche per due lottatori di sumo o due giocatori di scacchi. All'immediatista non servono a niente, dato che non spiegano, per esempio, le ragioni della guerra in Iraq. Ci servono però per capire che il fenomeno "guerra" non è riconducibile semplicemente a ciò che si riflette nelle teste per via di millenari luoghi comuni.

La guerra può essere anche qualcosa che non si combatte con spade o cannoni. Tant'è vero che – come abbiamo già accennato – è stata formalizzata una teoria valida per ogni contesto in cui le tre sub-definizioni entrano in gioco. Quindi il concetto di "guerra" si allarga praticamente a tutte le relazioni che esistono nella biosfera, dai rapporti fra predatori e prede ai rapporti fra capitalisti e proletari, da quelli fra singoli uomini a quelli fra masse enormi, fra elementi diversissimi e fra simili, come succede nella concorrenza capitalistica. Tanto che la nostra corrente si chiese, mentre procedeva alla pubblicazione del semilavorato sulla "questione militare", se questa non potesse essere trattata come un invariante universale, persistente addirittura nella futura società comunista. Nella quale certamente il problema non si presenterà nella forma "guerra" come la si intende oggi, ma come dialettica interna alla società, mantenimento della positiva bio-diversità anche all'interno della nostra singola specie, incoraggiamento di dinamiche assolutamente necessarie affinché qualunque società non precipiti nel ristagno e quindi nella decadenza, lotta per ovviare ai disastri ereditati dal capitalismo o per affrontare le grandi forze della natura, dai terremoti agli asteroidi in eventuale rotta di collisione.

Quando esistono enormi differenze fra le capacità economiche, politiche e militari, come ci mostra la realtà dell'attuale fase imperialistica, un atto di forza per imporre la volontà all'avversario può anche assumere la forma di un "potenziale", per cui la sottomissione si ottiene tramite la deterrenza invece che tramite la guerra. Oppure, e lo vedremo meglio in seguito, si può agire sul contesto in modo che l'avversario non possa far altro che rovinarsi con le proprie mani.

Ma è il terzo elemento della questione quello che ci interessa di più nella ricerca della definizione di "guerra": ci deve essere un avversario. La condizione di "avversario" d'altronde non può essere che reciproca; per questo si innesca, come in tutte le cose umane, il concetto di "funzione". Nella società siamo sempre di fronte a soggetti che agiscono e reagiscono in una molteplicità di modi che è tipico della complessità dei sistemi viventi. Quindi ogni elemento di una società qualsiasi non può che agire "in funzione di…". Vengono lanciati aerei sui simboli dell'imperialismo, si invadono paesi e si annichiliscono le forze di altri tutto "in funzione di…". E non si riesce a fissare un momento, nel processo generale, in cui chi è aggressore diventa aggredito e viceversa.

Nella storia si sono presentate molte forme sociali in cui erano presenti vari tipi di avversari reciproci, e il capitalismo, in quanto forma sociale più complessa della storia umana, le assomma praticamente tutte, conservandone i residui. Ma di veri avversari ne ha solamente tre, in combinazioni estremamente dinamiche:

1) ogni forma sociale sopravvissuta dal passato che non serva direttamente alla produzione di plusvalore o alla sua salvaguardia;

2) ogni forma di concorrenza che, nell'incessante sviluppo della produttività sociale, produce reciproca espropriazione fra capitalisti (Marx: "La produzione capitalistica tende incessantemente a superare i suoi limiti immanenti, ma li supera solo con mezzi che le contrappongono di nuovo, e su scala più imponente, questi stessi limiti. Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso");

3) ogni forma di lotta che sia l'espressione della società futura.

Questa è la situazione in cui si sviluppa la guerra imperialistica, e non sarà possibile capirne nulla se si parte dai singoli aspetti senza collocarli nel contesto dinamico che comprende tutti e tre i punti, non uno di meno. L'avversario più pericoloso, quello cui la società attuale ha dedicato più energie, violenza e risorse materiali, è il terzo. L'esercito permanente dello Stato borghese contro il comunismo è composto solo in minima parte da militari che combattono sui campi di battaglia: il resto è formato da un'armata molto più potente e coinvolgente, fatta di polizia, magistratura, scuola, informazione, famiglia, consumi, ecc.

3. Non si può introdurre un principio moderatore nell'essenza della guerra.

Siamo appena al terzo punto e già incominciamo ad avere idea di quali suggerimenti possiamo ricavare dal nostro autore. Proviamo adesso a iscrivere la dinamica della guerra in una sequenza "discretizzata", cioè separata in fasi distinte di combattimento e pace, così come si fa per il movimento di produzione e circolazione del Capitale D – M – D', denaro, merce, denaro maggiorato del plusvalore). Avremo una serie guerra/pace G – P – G – P… di cui non possiamo fissare l'inizio e la fine, così come è del tutto arbitrario stabilire se il ciclo capitalistico di accumulazione incominci da D o da M, dato che in ogni caso si finisce nel paradosso dell'uovo e della gallina. Solo la Bibbia stabilisce che Caino uccidendo Abele dà l'avvio alle guerre. Ma a ben vedere in questo caso abbiamo addirittura un'indiretta provocazione divina, perciò persino il primo omicida non è responsabile dell'inizio del ciclo. Del resto nella Bibbia, da quando Dio pianta insieme gli alberi della vita e della conoscenza, cioè da subito, la "pace" finisce di esistere.

Di fronte a una sequenza continua la domanda è: se ci fosse la "pace", da dove scaturirebbe la "guerra"? Se ad un certo punto si dà voce alle armi non sarà certo per la follia di qualcuno, anche se fa comodo ogni tanto rispolverare la teoria del cattivo (che ovviamente è sempre il reciproco nemico). La guerra guerreggiata è quindi la continuazione non tanto della politica quanto di un'altra guerra non condotta con le armi e, allorché si scatena, la sua stessa esistenza ci prova che in nessun punto della sua genesi è rintracciabile un principio moderatore. Oggi sono in molti a riconoscere che le sanzioni al Giappone sono state un vero atto di guerra e che l'attacco di Pearl Harbor è stato provocato, come una trappola. E' facile notare che tutta la Seconda Guerra Mondiale, dalla guerra-lampo del '39 contro la Polonia (la quale, come la Russia e l'Italia, aveva ancora la cavalleria), alle atomiche sul Giappone, non è altro che una immane verifica del principio di non-moderazione nella guerra.

L'11 settembre non è considerato dai più un atto militare ma un "attacco terroristico". Non è la definizione che ci disturba in quanto tale, essa non ha importanza nel contesto generale. Ma ci piacerebbe sapere adottando quale criterio si possa pensare, ancora oggi, che la turboguerra varata dal governo americano sia esclusivamente effetto dell'11 settembre. E continuare a pensarlo anche dopo la pubblicazione di innumerevoli documenti ufficiali americani che provano il contrario, cioè che la macchina militare degli Stati Uniti si sarebbe messa in moto comunque, senza bisogno di sfruttare un'occasione piovuta così favorevolmente dal cielo: non c'era bisogno del "vile attacco" cui rispondere, erano decenni che non si aspettava che il momento adatto per completare l'opera avviata con le fasi USA-II e III, era scritto dappertutto, non solo nei testi della Sinistra Comunista "italiana".

Dare la "colpa" al clan dei bushiti, ai trafficanti e ai petrolieri che avrebbero "imposto" un tipo particolare di governo sborsando fior di miliardollari, non ha alcun senso; essi avrebbero potuto scegliere un qualsiasi gruppo di candidati se l'atmosfera elettorale avesse portato ad un voto differente. Il Partito Democratico era ed è sulle stessissime posizioni (i neocons hanno fatto proseliti anche nelle sue file), e soprattutto era ed è perfettamente consapevole della situazione internazionale che pesava e pesa sull'economia americana portandola verso il disastro. Il solo principio moderatore della guerra, dice von Clausewitz, non può provenire dalla guerra stessa ma dalle ragioni che la originano, dai rapporti fra le nazioni che sono giunte a combattersi; perché la guerra non è "un semplice e razionale atto di governo", essa non trae origine da un moto del sentimento ma da determinazioni precedenti e, anzi, farà più o meno leva sulle emozioni "a seconda non del grado di civiltà, ma della grandezza e durata degli interessi in conflitto".

Devono essere ben grandi gli interessi in conflitto se gli Stati Uniti lanciano una crociata contro il mondo scomodando non solo emozioni e sentimenti patriottici, morali e religiosi, ma anche le più viscerali e animalesche spinte dovute all'istinto di sopravvivenza, ben alimentato dai mass media subito allineati e coperti come una massa di soldati obbedienti. Dev'essere ben profonda l'angoscia per le conseguenze di una crisi mondiale se stiamo assistendo all'impianto di un sistema di controllo e di terrore mondiali, dove la necessità della tortura, dei campi per prigionieri senza status, della repressione più brutale e del lavaggio dei cervelli vengono promossi sugli organi d'informazione.

Che il principio di moderazione sia una fandonia non lo si vede nella singola guerra: sia in Afghanistam che in Iraq la conduzione puramente militare è stata caratterizzata da pochissime perdite dovute ad accordi diretti con l'avversario. Lo si vede nel corollario dei combattimenti, dove il territorio è consegnato a partigianerie che incominciano da subito a regolare conti e a condurre guerre intestine con molti più caduti rispetto alla guerra ufficiale; lo si vede nella spudoratezza con cui, appena finita una guerra, si minaccia di iniziarne subito un'altra, in caso il nuovo paese inquadrato nel mirino (nel caso specifico la Siria) non si piegasse alla volontà della potenza dominatrice. Lo si è visto nel brutale trattamento inflitto ai soldati e ai prigionieri, che non è quello che veniva ammannito normalmente in televisione, ma che si poteva cogliere in qualche flash sfuggito alla droga mediatica: la primissima immagine di caduti iracheni a Um Qasr li mostrava dilaniati dalle bombe, semisepolti nella loro trincea, fissati dalla morte mentre stavano innalzando una bandiera bianca; una delle ultime, a Baghdad, mostrava soldati iracheni che si arrendevano sdraiandosi a terra davanti a un carro armato mentre il suo equipaggio li falciava con le mitragliatrici.

4. Nell'azione reciproca per abbattere l'avversario ogni contendente perde il libero arbitrio.

Libertà: parola senza senso in ogni sistema di interazioni, figuriamoci nelle società di classe. La guerra "è accompagnata da restrizioni insignificanti, alle quali si dà il nome di 'diritto delle genti', ma che non hanno capacità di affievolirne essenzialmente l'energia". Affermazione da far rabbrividire un pacifista, ma assai concreta. Sappiamo che nella società capitalistica tutti sono liberi sul libero mercato, ma nessuno è libero nella vita, schiacciato com'è dalle determinazioni del profitto, del salario, della concorrenza, della proprietà. Quando la guerra – armata o no – domina la situazione, si è meno liberi ancora, perché essa elimina ogni margine di compromesso e fa esplodere "l'impiego assoluto della forza" per raggiungere il suo scopo. Sono spazzati via i Diritti dell'Uomo con la maiuscola, via la sovranità nazionale, via la sicurezza, via il lavoro, via persino il cervello, che diventa un terminale del Capitale impersonale, per cui la vita si riduce a una rappresentazione, come nel film Matrix. Persino la memoria della nostra specie soccombe al triviale rincorrere la salvezza del plusvalore: ed è saccheggiato il museo di Baghdad, bruciata la biblioteca, vengono polverizzate testimonianze del passato. Il petrolio no, i pozzi sono stati pattugliati e mantenuti in efficienza, e tutto era programmato. Con grande prova di civiltà preventiva, i tecnici erano già in Kuwait da settimane. E così le squadre di appaltatori per il fine-guerra.

Appena dopo l'11 settembre dicemmo che non ci interessava gran che sapere chi fosse stato ad attentare, poiché in ogni caso si sarebbe semplicemente accelerato un processo in corso. Gli Stati Uniti non erano liberi di scegliere e avrebbero dovuto mettere in atto la loro potenza. Per far cosa? Chi era il nemico? I piloti suicidi erano, sembra, in maggioranza arabi sauditi, come rivelarono con sospetta sollecitudine CIA e FBI dopo che nel modo meno plausibile avevano ammesso di non aver visto la guerra crescere in casa per almeno un paio d'anni. Una rivendicazione immediata, poi smentita, faceva risalire l'attacco all'Esercito Rosso giapponese. I nazisti americani (e non erano i soli) attribuivano l'attacco agli ebrei, i cui servizi segreti erano stati scoperti a trafficare fra i grattacieli di Manhattan. Alcuni giornalisti fecero notare che solo i russi o i cinesi avrebbero potuto mettere in campo un apparato militare di un centinaio di persone in grado di combinare un disastro come quello del Pentagono e delle Twin Towers. Infine ecco spuntare bin Laden con i suoi talibani e l'Afghanistan. Ma sta di fatto che l'azione degli Stati Uniti era già programmata dalla loro stessa storia, e infatti il governo agì secondo schemi sfacciatamente prestabiliti.

Proprio come si è detto, l'assoluto nell'uso della forza non deriva dagli atti di un governo ma dall'insieme degli interessi in cui questo è immerso. Il grande gioco continua, ma la grande guerra invisibile (quella visibile ha appena sfiorato l'Afghanistan e l'Iraq) ha già colpito molto a fondo in Europa e in Giappone. Almeno da dieci anni.

Ricordiamo la definizione: la guerra è un atto di forza per imporre la propria volontà all'avversario. Banalmente, però, l'avversario va individuato. Si può certamente strombazzare che il nemico della più grande potenza mai esistita sia bin Laden, o Saddam Hussein; si può lavare il cervello a milioni di americani; ma ciò non toglie una virgola alla realtà nuda e cruda: una potenza come quella americana deve avere antagonisti un po' più consistenti. Se si trattasse solo di imporre la propria volontà ad avversari come quelli appena nominati, non ci sarebbe neppure bisogno della guerra, tant'è che in tempi non troppo lontani essi non erano per nulla avversari, erano semplici pedine.

In Afghanistan l'Alleanza del Nord disponeva di circa 15.000 uomini e praticamente nessun armamento se non quello individuale. L'esercito regolare talibano, 30.000 uomini, non era affatto un esercito ed era anch'esso senza armi pesanti, trasporti, aviazione, contraerea, trasmissioni. I combattenti veri e propri erano molto meno, circa 5.000 per l'Alleanza, 7-8.000 per i talibani. Americani e inglesi stavano peggio ancora: le loro truppe speciali, le uniche adatte a uno scenario di guerra come quello che si profilava, erano costituite da qualche centinaio di uomini in tutto, come fece notare l'istituto specializzato Jane's Group. E non si può rimediare in fretta, dato che occorrono anni per addestrare alla guerra super-tecnologica un buon gruppo, in fondo un team-robot teleguidato da un centro (una curiosità: anche negli antichi eserciti cinesi descritti da Sun Zu l'informazione sul campo serviva per coordinare gli uomini, che venivano letteralmente teleguidati con un sistema di segnali visivi e acustici). Perciò gli americani avrebbero dovuto: o mandare un enorme esercito fra le montagne afghane (a fare una brutta fine, anche se non proprio come i russi) oppure, con molta meno spesa, comprarsi le tribù locali e procedere con la costruzione di inattaccabili basi locali per assicurarsi il tipo di controllo che è ormai loro tipico: la proiezione esterna e lontana della loro potenza.

Per quanto riguarda l'Iraq vale lo stesso discorso: siccome in questo paese era ancora più impensabile una occupazione stabile del territorio per mancanza di truppe, sia regolari che speciali, fu imbastita una specie di guerra-lampo per conseguire un risultato simile a quello raggiunto in Afghanistan. Anche in questo caso nessuna libertà d'azione, neppure per la più grande potenza, ma solo azione e reazione in una serie di rapporti con il resto del mondo. La parte più importante della guerra non s'è vista in televisione e non si vedrà mai; essa si è svolta, e si svolgerà, soprattutto in futuro, in modo sotterraneo fra le potenze concorrenti, durante il lungo processo che dalla caduta dell'URSS ha portato gli Stati Uniti ad avere basi permanenti in Arabia, Kuwait, Iraq, Oman, Qatar, Georgia, Armenia, Afghanistan, Uzbekistan, ecc. lungo un asse che ora unisce anche via terra, quasi concludendolo, il loro circuito aeronavale planetario. Ci vuole poco a capire che il "quasi" si elimina congiungendo l'Iraq all'Afghanistan, cioè eliminando il regime iraniano, e facendo della Cina il futuro obiettivo.

Se lo scopo è quello di ridurre il nemico all'impotenza, la guerra preventiva è un ineccepibile mezzo. Sun Zu la raccomanda come massimo esempio di intelligenza militare: "Ottenere cento vittorie con cento battaglie non è il massimo dell'abilità, ma vincere il nemico senza combattimento è il trionfo massimo". Non c'è niente di meglio che levare l'ossigeno, gli alimenti, tutto ciò che tiene in vita l'avversario. L'aggressione è un obbligo. Come il blocco del petrolio e del ferro al Giappone provocò l'attacco di Pearl Harbor nel '41, così la minaccia di un controllo planetario del petrolio da parte americana mette in apprensione tutti i maggiori paesi industriali. Abbiamo visto altrove, più volte, l'importanza economica e politica di questa particolare materia prima: basti qui sottolineare che per quanto la riguarda non esistono gradi di libertà nelle azioni dei governi, perché vi sono paesi che ne hanno, altri che la controllano e altri ancora che non ne hanno e non ne controllano. Quando si parla di guerra, quindi, il petrolio non è un combustibile, è un'arma. Tutti sono costretti a fare ciò che l'intero sistema di relazioni impone. Il nemico è come i parenti, non si può scegliere.

In ambiente capitalistico il peggior nemico è il concorrente. Se non può essere combattuto in modo diretto lo si fa aggirando gli ostacoli. Ed è inutile andare a indagare se gli Stati Uniti attaccano in Iraq per colpire indirettamente l'Europa e il Giappone, rei di non finanziare più come prima il deficit americano e di intendersela con la finanza islamica contro il Dollaro, oppure se sono Europa e Giappone che ne hanno abbastanza dell'egemonia americana e si vogliono distaccare dall'abbraccio mortale creando delle loro specifiche aree di influenza. Come si dice nella traccia clausewitziana che stiamo seguendo, occorre badare all'insieme dei fattori, senza privilegiarne alcuno, perché ogni cosa succede "in funzione di…" in un mondo complesso nel quale è inutile lo sport della ricerca su chi sia l'aggressore di turno.

Invece è oltremodo importante ricercare la tendenza verso il futuro, perché l'esclusione della libertà d'azione, del libero arbitrio delle nazioni, è anche un ottimo rivelatore di ciò che esse saranno costrette a fare, specialmente le più importanti ma anche le piccole, volenti o nolenti, da sole o coalizzate. In uno dei documenti dei neocons si legge: "La realtà ineluttabile è che l'esercizio del potere americano è la chiave per mantenere la pace e l'ordine mondiale. Immaginate un mondo in cui gli Stati Uniti non esercitassero questo potere…" (Schmitt). E segue l'elenco di ciò che oggi non succede solo perché gli Stati Uniti lo impediscono, dall'invasione di Taiwan da parte della Cina all'espansione di un imperialismo locale iracheno a spese degli altri paesi del Medio Oriente, dal caos nei Balcani all'anarchia mondiale. È un'osservazione sacrosanta: gli Stati Uniti non sono liberi di lasciare che il mondo sia libero di assestarsi secondo tendenze spontanee. Al quarto punto di von Clausewitz si affaccia un argomento cruciale: senza le armi americane potrebbe sovvertito l'ordine capitalistico.

5. La guerra è una gara che tende all'estremo

Veniamo a individuare un altro criterio importante che impedisce l'auto-limitazione della guerra. Si tratta di quella che oggi chiameremmo "simmetria" fra le forze in campo e che se fosse teoricamente perfetta porterebbe ad uno stallo totale senza possibilità di vittoria o sconfitta. Naturalmente ognuno degli avversari cerca di spezzare a proprio favore la condizione di simmetria in modo da assicurarsi la superiorità. Ma in tal modo il circolo diventa vizioso e porta a fenomeni come l'escalation del Vietnam: la guerra scopre da sé le proprie simmetrie, per cui i potenti Stati Uniti si trovarono impantanati contro i guerriglieri, mal armati e peggio equipaggiati da Russia e Cina, in una guerra senza scopo apparente, con un impegno in uomini e mezzi spropositato rispetto ai compiti originari, come quello di proteggere il governo fantoccio e impedire un temuto "effetto domino". I documenti segreti di allora, pubblicati poi dal New York Times, ci rivelano che ad ogni proposta dei militari di intensificare la guerra, corrispondeva un'inchiesta del governo per cercare di capire come mai non fosse servito a niente intensificarla, cui seguiva, inevitabilmente, la spiegazione: "non abbiamo intensificato abbastanza". E così via, per dieci anni, dal 1965.

Se nella guerra delle società antiche c’era ancora qualche remora nell'utilizzo estremo e massiccio della violenza (è assodato che persino la leggendaria violenza dei Mongoli fosse finalizzata ad evitarne di maggiore), dalla rivoluzione borghese in poi la violenza e il terrore diventano armi generalizzate che dai campi di battaglia si espandono alla popolazione civile. Quindi, come piace dire agli idealisti, lo Stato assume caratteri assoluti, diventano assoluti la guerra, i mezzi, la volontà, i fini, i principii, tutto. Non è ammessa la devianza. Il linguaggio assume toni iperbolici. Dio, che è l'entità più colossale e impalpabile che gli uomini abbiano mai creato, diventa l'ingrediente principale di ogni proposizione. Il nemico è semplificato, meglio se gli si riesce a dare nome e cognome, farne circolare la fotografia. Lo stesso per l'amico, e l'omologazione interna diventa obbligatoria.

Nella concorrenza tra capitalisti all'interno di uno Stato, come abbiamo sempre saputo, il motto è: mors tua vita mea. Figuriamoci nella concorrenza spietata fra Stati capitalisti sul mercato mondiale per la conquista di un proprio spazio vitale. È ovvio che ogni questione vitale, o percepita come tale, induce una tensione estrema delle forze che sono chiamate ad affrontarla. In nessuna organizzazione umana si raggiunge una tensione unitaria verso lo scopo come negli eserciti. Quindi, dal momento che la società intera partecipa alla guerra moderna senza fronti, ecco che la società intera viene trattata come un esercito in guerra.

Persino le ONG "umanitarie" sono chiamate a fare la loro parte, e la fanno, organizzando operazioni di logistica sul teatro di guerra mondiale. Ci è stato chiesto in una delle nostre conferenze sulla guerra: ma allora lascereste morire di fame i profughi, di malattie i bambini, di ferite soldati e civili? Questo è esattamente il problema: no, non si può essere indifferenti di fronte all'indicibile cumulo di sofferenze provocato dalla guerra moderna. Ma è proprio per questo che la guerra può, con cinico calcolo, provocare i peggiori danni materiali e sociali per poi lasciarne l'onere alle organizzazioni sociali, cioè alla società internazionale. Può darsi che la maggior parte degli organismi siano encomiabili e pochi i corrotti (così risulterebbe dalle cronache), ma non si può negare che tutti partecipano alla guerra. Perché è la guerra che sceglie i suoi strumenti, arruola i suoi soldati, addirittura li origina e li plasma.

Nell'epoca delle guerre totali, gli strumenti devono essere totali. È fin troppo evidente che l'esercito americano in Iraq si è autosollevato da alcuni compiti sapendo benissimo che se ne sarebbero occupati direttamente gli organismi nazionali o internazionali, governativi o meno. Persino la rete di solidarietà islamica con centro nelle moschee è stata messa in conto. Uno degli spettacoli più osceni dell'invasione dell'Iraq è stato il sincronismo ben organizzato tra la copertura mediatico-politica, la preparazione fisica delle truppe con i loro mezzi e il fervente dispiegarsi dell'apparato umanitario che si sarebbe fatto carico delle conseguenze sulla popolazione. I campi profughi con ospedali, medici, infermieri ecc. erano pronti prima che iniziasse l'invasione e lo zelo fu tale che a Bassora gli inglesi dovettero chiedere un po' di decenza, che gli lasciassero almeno finire di conquistare la città.

I compiti del dopoguerra ai militari in quanto tali non interessano più, è la politiguerra che ha bisogno di strutture supplementari, come del resto l'amministrazione americana ha scritto nel proprio documento sulla cosiddetta guerra preventiva: "Così come combattiamo i terroristi in Afghanistan, noi continueremo a lavorare con le organizzazioni internazionali, l'ONU o le organizzazioni non governative, per fornire assistenza umanitaria, politica, economica oltre alla sicurezza. In questa nuova era, il personale [del Dipartimento di Stato] e le sue istituzioni devono interagire in modo efficace sia con le organizzazioni non governative che con le istituzioni internazionali. I suoi funzionari devono estendere il loro sforzo di comprensione verso i compiti complessi di governabilità locale in ogni parte del mondo, inclusi salute, istruzione, rafforzamento delle leggi, magistratura, diplomazia. Essi sono in servizio sul fronte delle negoziazioni complesse, delle guerre civili e altre catastrofi umanitarie. Quanto più riusciremo a capire le esigenze umanitarie, tanto più riusciremo ad aiutare la formazione di corpi di polizia, sistemi giudiziari, codici legali, istituzioni governative locali e regionali, sistemi elettorali". Notare l'ordine, prima la polizia, ultima la democrazia. Perfetto. La guerra odierna non solo porta alla tensione estrema delle forze tradizionali sue proprie, ma ne coopta di nuove, permea tutta la società.

6. Determinazioni dal futuro

La forza della volontà umana, dice von Clausewitz, non trae mai origine da sottigliezze cerebrali e la guerra non si manifesta mai sul campo riproducendo la perfezione platonica dei progetti. Essa non è mai un atto isolato, non sorge all'improvviso, non è slegata dalla vita antecedente degli Stati. Le decisioni non vengono prese una volta per tutte, ma dipendono dalla dinamica di fatti che interagiscono in un continuum spazio-temporale. Soprattutto non esiste guerra che possa racchiudere in sé stessa il risultato come in una partita di scacchi: il risultato dipende dalla situazione politica futura, precisamente quella che ha scatenato il combattimento. Ma lo stesso andamento della guerra influisce a sua volta sul risultato futuro, che potrebbe non essere quello previsto o voluto.

La "pazzesca" determinazione con cui gli Stati Uniti hanno attaccato l'Iraq ha un fondamento logico assai semplice che, come abbiamo visto più volte su questa rivista anche in rapporto ad altri argomenti, va ricercato nella dinamica del capitalismo mondiale che sta schiacciando l'economia americana verso una crisi catastrofica. Questa crisi, come ormai ammettono molti economisti (non era così anche solo un anno fa), ha forti connotazioni sistemiche, legate alla difficoltà di produzione di nuovo plusvalore, per cui la nostra affermazione che è in gioco la salvezza pura e semplice del capitalismo è ben fondata.

Un piccolo modello di economia mondiale se lo può costruire ognuno di noi con carta e matita, tracciando – per i principali paesi e per almeno un secolo – il diagramma dell'incremento percentuale della produzione anno su anno, servizi non vendibili esclusi. Questo diagramma, come mostrammo nel nostro quaderno La crisi storica del capitalismo senile, è identico a quello del saggio di profitto. Esso mette bene in evidenza:

1) un andamento a forma di imbuto che si avvicina asintoticamente alla linea dello zero;

2) la sincronizzazione delle economie maggiori;

3) una forma storica della curva, del tutto irreversibile.

Se invece di matita e quaderno a quadretti utilizzassimo un foglio elettronico da computer, disaggregando i dati avremmo la possibilità di immettere anche gli investimenti e interrogare il futuro. Non occorre una fantasia particolare per capire che l'andamento è catastrofico. Non solo siamo in presenza di una crescita zero per i maggiori paesi, ma, poiché alcune aree come la Cina, l'India e il Sud-Est asiatico crescono del 5% circa reale, ecco che i paesi a capitalismo maturo, in confronto, sono matematicamente destinati ad essere scavalcati non solo come ritmo di accumulazione, ma anche come massa del capitale accumulato. Inoltre, il calcolo del valore nazionale prodotto ex novo è di sicuro drogato per quanto riguarda gli Stati Uniti, che godono di una situazione classica di rendita (conteggiano come valore interno una parte di quello prodotto altrove); perciò se esso fosse eseguito con i criteri della legge del valore ci darebbe come risultato una situazione ancora più nera.

L'andamento è comunque ben conosciuto, e la crescita di nuove potenze è una vera e propria determinazione del futuro sul presente: per gli Stati Uniti sarebbe letale perdere il dominio attuale e quindi devono maturare una politica conseguente, atta a modificare il futuro. L'ipotesi non è per nulla fantapolitica, i dati disaggregati mostrano in tanti modi una degenerazione dei rapporti capitalistici: nel numero scorso abbiamo per esempio citato l'importanza della finanza islamica che segue criteri differenti nella ripartizione del plusvalore che si fissa in forma di rendita petrolifera e che proviene quasi interamente dai maggiori paesi industriali. Pensiamo inoltre a tutte le altre materie prime: oggi sono "prelevate" a prezzi non certo decisi dai paesi produttori, ma proprio per l'effetto di questo prelievo al "giusto prezzo", deciso dal mercato, non è possibile costituire una riserva di valore da attivare a favore dell'economia locale e quindi dell'accumulazione al di fuori dei soliti dieci o dodici paesi. Pagare poco il capitale costante fa certo piacere al singolo capitalista o al singolo paese: essi vedono il loro saggio di profitto individuale crescere, ma venendo a mancare un utilizzo locale della rendita-plusvalore, vengono anche a mancare gli effetti rigenerativi sul valore complessivo. E questo fenomeno riguarda i paesi più popolosi e più poveri, che in linea del tutto teorica, se esistesse un governo mondiale, sarebbero l'unico elemento di potenziale sviluppo per il capitalismo.

La sopravvivenza del sistema imperialistico ha prodotto un mucchio di sub-ideologia rispetto a quella centrale della classe dominante. Ci sono variazioni sull'economia classica, ipotesi neo-coloniali, esperimenti di cosiddetto commercio equo e solidale, utopie del ritorno ad un mondo primitivo, a-tecnologico e "sostenibile". Accanto ai sofisticati modelli economici che tengono conto di scenari futuri, si sono formate delle pure e semplici pulsioni emotive intorno al tema della governabilità mondiale, globalizzata o meno. Tutta questa eclettica materia è come una secrezione sovrastrutturale della dinamica del capitalismo e in genere finisce dimenticata, a volte dopo ondate di effimera notorietà. Ma siccome c'è di tutto, c'è anche – proprio perché prodotta da precise determinazioni – la materia utile al capitalismo nelle sue fasi di crisi grave, ed esso vi attinge.

Così vediamo balzare in primo piano, per esempio, la produzione, abbondante ma assai povera dal punto di vista teoretico, dei neocons tra i quali vi sono molti bushiti e loro supporter. Questi personaggi, nipotini farseschi di Bismarck per quanto riguarda le loro velleità di riforma mondiale dall'alto, hanno ricevuto una immeritata dignità teorica quando qualche giornalista in cerca di scoop ha reso noto che dei parenti di costoro erano stati seguaci di James Burnham, un ex trotskista americano, autore nel '42 di La rivoluzione manageriale, ispirata (qualcuno dice copiata) dall'opera di Bruno Rizzi – un ex appartenente alla Sinistra Comunista "italiana", poi trotskista e infine ex trotskista pure lui – La burocratizzazione del mondo, apparsa in Francia nel 1939. Spiritoso, ma fuori luogo, il parallelo fra la trotskista rivoluzione permanente e la guerra permanente dei neocons.

I due autori, indipendentemente dalle teorie sostenute, ebbero l'acutezza di anticipare la componente politica determinata dalla struttura capitalistica moderna, che faceva dei manager o burocrati i veri gestori del potere. Nessuna novità, ma un'elaborazione su considerazioni già pubblicate sia da Marx che da Engels, quando avevano fatto notare che il capitalista azionario è già di fatto socialmente inutile, sostituito com'è da un manager stipendiato. Molti dei neocons sono davvero dei manager "passati" alla politica, anche se in fondo vi partecipano come prima, se pur nella parte di chi è chiamato dalle circostanze a responsabilità pubbliche. Non ha nessuna importanza se la "chiamata" se la sono in pratica fabbricata, se è potuto succedere adesso ci sarà un motivo: come dice Burnham, né il nazismo, né il New Deal, né lo stalinismo sarebbero stati possibili senza una spinta che coinvolgesse la società intera.

Questi ibridi politici sostengono apertamente da molti anni la necessità di un'azione diretta degli Stati Uniti per un controllo mondiale a partire da un ridisegno del mondo capitalistico. Oggi una ventina di loro sono sostanzialmente "padroni" dell'esecutivo americano e maneggiano il potere con una sfacciata disinvoltura. Tuttavia, fino a quando non è stato necessario utilizzarli, anche nei due anni in cui erano al governo, sono stati ignorati. Nel già deprimente panorama politico mondiale, non emergono di sicuro: scrivono come dei tecnici alle prese con un catalogo o al massimo con il libretto di istruzioni per un elettrodomestico. Dove eccellono è nella leggibilità dei loro testi, come i pubblicitari con gli spot televisivi. Come disse un vecchio compagno a chi si lamentava che il marxismo fosse "difficile": gli scritti dei Mussolini, dei Nenni, degli Stalin, sono "facili" perché non hanno nulla a che fare con la teoria. Secondo l'Economist sostenere che una cricca di intellettuali si è impadronita della più potente nazione del mondo è darle troppa importanza e, nello stesso tempo, troppo poca. Troppa, perché il potere americano non sarebbe "prendibile" da qualche individuo, troppo poca perché la cricca ha importanti ramificazioni nel paese, un vero e proprio framework, un'ossatura sociale.

Come si deve intendere questa contraddittoria affermazione? Non sono gli individui che ovviamente ci interessano, è l'ossatura sociale. Ma è quest'ultima che spinge alla ribalta gli individui. Essi non sono da sottovalutare, in quanto specchio della società. Quando la "vecchia Europa" trattò con disprezzo e sufficienza i "liberatori", sbarcati in ben due guerre mondiali con un mastodontico dispiegamento di mezzi, lo stesso compagno di cui sopra scrisse che i boys, figli di una potenza mai vista nella storia, pur non sapendo combattere, avrebbero fatto vedere i sorci verdi agli ottusi militaristi nostrani. Eravamo negli anni '50. La corrente neoconservatrice, che affonda le sue radici in quel periodo, è diventata nel frattempo un movimento, chiamato nientemeno che a salvare la patria e il capitalismo tutto. Ed è salita, spinta da irresistibili interessi, fino alle responsabilità di governo della nazione più potente del mondo. La sua rozzezza teoretica non conta nulla per il semplice motivo che "ha ragione" per forza: fra tutti i paesi del mondo solo gli Stati Uniti potrebbero rappresentare la salvezza capitalistica. Nessun accordo è possibile su questo argomento, la politica globale dev'essere per sua natura unilaterale.

L'economia detta legge dal futuro molto più della catastrofica politica evocata dalle citate forze neocons: non c'è neppure bisogno di proiettare una tendenza negli anni a venire per vedere la catastrofe, basta osservare con attenzione i dati già presenti. I santoni addetti alla difesa del capitalismo, di qualunque colore siano, dediti all'economia come Soros e Krugman, o dediti alla guerra come Luttwack e Rumsfeld, sanno benissimo che sono minati i rapporti globali di produzione del plusvalore. Naturalmente chiamano il fenomeno con altri nomi, ma la sostanza è quella. Oggi nella politica che conta, al di sopra di personaggi e chiacchiere, dei Bush e dei PNAC, vincerebbe chiunque si desse da fare per l'impianto di una "macchina da guerra globale" in grado di ascoltare gli impulsi che vengono da un futuro oscurissimo per il Capitale. Ed è del tutto naturale che la stessa macchina abbia bisogno di carburante, energia, partigianerie, carne da cannone possibilmente non americana.

7. Elementi di complessità della guerra come processo.

Se la guerra fosse un atto isolato non ci sarebbe bisogno di studiarla cercandone le intime connessioni per giungere alle leggi generali. Per condurla basterebbero truppe ben addestrate e comandate da buoni ufficiali dotati di esperienza, buon senso e abilità. Isolata dal suo contesto storico, economico e sociale, la guerra sarebbe come una battaglia o al massimo una somma di battaglie. In effetti, nella chiusa società feudale, quando i signori locali si bruciavano vicendevolmente i castelli, era all'incirca quasi sempre così. Ma quando le guerre uscivano dall'ambito locale, scatenate per sistemazioni dinastiche, nuovi commerci o espansione territoriale, allora esse erano sottoposte alle leggi della complessità come in tutti i tempi. Da Carlomagno alle Crociate, dal Barbarossa all'espansione di Carlo V nelle Americhe alle soglie del capitalismo, le maggiori guerre furono prodotto e fattore di enormi spinte materiali che sconvolsero il mondo.

Non appena cerchiamo di trovare le leggi che governano il fenomeno chiamato guerra e ci addentriamo nel regno della complessità, ci accorgiamo che si tratta di un mondo fatto di relazioni e di rapporti, siamo perciò nel regno della dialettica. Tutti hanno percepito la guerra all'Afghanistan (paese di cui nessuno parlava più, almeno da quando l'esercito d'invasione russo era stato cacciato) come il culmine di un processo partito dall'11 settembre. Questa percezione, falsa, era in gran parte dovuta all'uso dell'arma mediatica, ma anche alla naturale disposizione umana ad occuparsi di un particolare alla volta. In realtà il processo che ingloba Twin Towers, Pentagono e Afghanistan copre decenni e coinvolge miliardi di persone entro le loro nazioni. Termini come "terrorismo", "bin Laden", "Bene", "Male", "civiltà", ecc. diventano solo ingredienti delle varie misture con cui si condisce la droga del consenso. Le stesse che, con segno negativo, condiscono il dissenso, quando non si esce dai meccanismi della società esistente.

Il semplice dissenso contro la guerra, il pacifismo, ha caratteristiche completamente omologabili al sistema. Come c'è sempre simmetria in una qualsiasi guerra (cfr. Leggi di simmetria, sul numero scorso), così c'è sempre simmetria nella pura e semplice "opposizione" alla guerra borghese. Per spezzarla occorre mettersi completamente al di fuori dei campi avversari. Quando la socialdemocrazia tedesca collassò di colpo, come colta impreparata di fronte alla Prima Guerra Mondiale, seguita da molti anarchici, socialisti di sinistra, anarco-sindacalisti, ecc., ci fu la dimostrazione che si era creata una corrente molto vasta che non era in antitesi col sistema, ma gli era complementare. L'antitesi si formò ugualmente, come dimostrarono i convegni di Zimmerwald e Kienthal, e il fatto che i promotori fossero assolutamente minoritari non impedì loro di rappresentare l'avvisaglia del grandioso tentativo rivoluzionario d'Europa a partire dal 1917.

L'attacco dell'11 settembre e la successiva guerra in Afghanistan con il rovesciamento del regime talibano non hanno risolto nulla dal punto di vista geo-storico. Hanno solo segnato le tappe di una lunga fase che vede il capitalismo lottare per la sua sopravvivenza in un tentativo disperato di stabilizzazione. Ma come conciliare questa necessità col fatto che, per giungere al risultato, il maggiore paese capitalista deve destabilizzare il mondo onde evitare che si inneschino processi di alleanza in competizione?

Una volta preso atto che un'amministrazione imperialista ha deciso di fare dell'Afghanistan… un Afghanistan (come annotò argutamente una vignettista), che l'Iraq è stato invaso e resterà probabilmente spartito in tre, che la divisione dell'Europa è stata consolidata, a che serve indignarsi per la sopraffazione americana? Come se gli Stati Uniti potessero agire diversamente. Gli americani stessi ci mostrano in una sconfinata saggistica di prima mano che questi sono atti di un lungo processo sfociato sovente in episodi ancora più tragici e gravidi di conseguenze. Lasciamo ai loro liberals l'illusione che possa essere possibile una leadership illuminata e rammarichiamoci piuttosto della vigliaccheria dimostrata dalle borghesie non-americane, che hanno venduto la loro sovranità nazionale in cambio di un servaggio giustamente disprezzato dai falchi di Washington.

È evidente che l'incapacità di coalizione anti-americana, che sembra tingersi di assoluto come la guerra moderna, è in parte dovuta a ragioni molto concrete, cioè all'impotenza economico-militare di fronte al concorrente. Ma – rimaniamo nel tema del punto clausewitziano – è anche evidente che "nessuno dei belligeranti è mai per l'altro una personalità astratta" e che quindi la capacità e possibilità di rovesciare la prassi, di prendere l'iniziativa, "non è del tutto indeterminata: dal come si manifesta oggi si può dedurre ciò che sarà domani". La "vecchia Europa", come la chiama beffardamente Rumsfeld, piange di fronte alla tabula rasa fatta dagli americani della sua già frammentata sovranità nazionale: ma se la prenda con sé stessa per aver permesso al suo avversario di sfruttare fino in fondo un'intelligenza militare più risoluta.

8. La guerra non è un urto istantaneo ma è influenzata dagli elementi geo-storici e dalle alleanze che questi producono.

La natura della guerra, che dipende dall'economia, dalla geografia, dalla demografia e dalla storia di più nazioni, è in contrasto con il concetto di urto istantaneo, limitato nel tempo e risolutivo di per sé. Si dice che ogni guerra incominci in un modo e finisca in un altro. Si tratta certamente di una "verità", ma i fattori dinamici prima elencati ne fanno un enunciato abbastanza banale. La guerra imperialistica moderna, in effetti, "incomincia" mettendo in moto ben più degli eserciti, e "finisce" dopo aver dato luogo a una serie di premesse per ulteriori sviluppi.

Il trattato di Versailles, che chiudeva la Prima Guerra Mondiale, non era altro che l'apertura di un nuovo ciclo di guerra, ne stabiliva (certo non esplicitamente) i motivi, le modalità, persino i tempi. Il piano americano di nation bulding che dalla fine degli anni '40 impose a Germania, Giappone e Italia una serie di governi servili, funzionò benissimo nel contesto della Guerra Fredda, finché fu possibile integrare economie rese complementari, ma si sbriciolò con il crollo dell'URSS e soprattutto con la repentina caduta mondiale del saggio di profitto dopo la prima crisi "petrolifera" del 1973-75 (in realtà il tentativo di rivincita della rendita non fu un fattore della crisi industriale ma un suo prodotto, dato che le difficoltà di accumulazione erano già in corso dalla metà degli anni '60). Il venir meno del reciproco interesse esistente tra gli Stati Uniti e i maggiori paesi industriali durante la ricostruzione post-bellica non provocò una vera concorrenza interimperialistica ma una corsa ai rattoppi economici e politici; dall'abdicazione dell'Europa scaturì un vuoto enorme nella leadership mondiale, che fu fatalmente riempito dagli Stati Uniti, del resto già in corsa da un secolo per il podio di unica potenza globale.

C'è chi prevede un formarsi di alleanze pre-guerra in vista della prossima Guerra Mondiale, la quale sarebbe, da questo punto di vista, periodizzata come Terza. Ma è troppo tardi. Come dice il saggio Sun Zu, è ben stolto chi lascia organizzare il nemico fino a che questi diventa più forte. Bisogna attaccarlo prima, o comunque terrorizzarlo a tal punto che rinunci per conto suo ad alleanze di guerra. Abbiamo visto nel numero scorso che questo concetto è ben ribadito nei mirabilmente chiari documenti americani.

Rispetto all'enunciato "la guerra comincia in un modo e finisce in un altro" (variante: "si sa come comincia ma non come finisce") è tutt'altra cosa l'osservazione di Engels: ogni guerra inizia con le modalità e le tecniche con cui era terminata la precedente (citiamo a memoria). Engels, nella prefazione a Le lotte di classe in Francia di Marx, annota anche l'impossibilità per ogni guerra moderna, dopo il 1870 in Europa, di essere locale. La guerra sarà ormai sempre mondiale. Nell'articolo Ciò che attende l'Europa, esclude che in futuro le diverse nazioni in guerra e i loro eserciti possano darsi un comando unificato, dato che tutta la società sarà permeata di affarismo, dai trafficanti di borsa ai ministeri guerreschi, dagli industriali ai capi militari. E rincara la dose sul fatto che per la Germania non vi potrà più essere che guerra mondiale, mentre la concorrenza produrrà alleanze assai labili, dove gli alleati si lasceranno alla prima occasione.

Le alleanze europee sono già saltate, se mai sono esistite, proprio a causa della cecità geopolitica dei paesi europei, specie di Francia e Germania. Marx ed Engels furono sempre ferocemente critici verso l'inconseguenza delle borghesie nel condurre le guerre. A proposito del conflitto russo-turco del 1877-78, essi presero posizione risolutamente per la Turchia contro la Russia, anche se localmente i turchi avevano sconfitto la Serbia, socialmente più avanzata, con la quale si erano schierati tutti i socialisti dell'epoca. E utilizzarono la parola "tradimento" per definire l'atteggiamento dell'Inghilterra e dell'Austria, che non avevano avuto una visione strategica dello scontro, aiutavano la Serbia ingannandola con false promesse per interessi locali ed evitavano di muovere una decisa guerra alla Russia, "bastione della reazione". Di fatto veniva così impedita la conclusione della rivoluzione borghese in Europa, e di conseguenza l'avanzata di quella proletaria. Nello stesso tempo però Marx ed Engels criticavano anche la borghesia turca, che non solo non si era sollevata a Costantinopoli contro l'antico "regime del serraglio", ma aveva lasciato il comando della guerra agli esponenti reazionari della vecchia Turchia rendendo inevitabile la disfatta. Reazionari contro reazionari, dice Marx, era come se la Russia avesse nominato essa stessa lo Stato Maggiore che avrebbe dovuto combatterla.

A parte le differenze storiche, l'Europa (ammesso e non concesso che si possa parlare di Europa in senso unitario) è esattamente in una situazione del genere: da quando è caduta l'URSS, si comporta, sia al suo interno che nei Balcani e in Medio Oriente, come se nei suoi ministeri-chiave vi fosse insediato direttamente un proconsole americano. Se ciò poteva considerarsi "normale" quando era praticamente occupata dalle truppe USA, nello scenario storico attuale una simile subordinazione stride enormemente. Diventano persino ridicoli i sussulti di indipendenza manifestati su punti d'inconsistenza totale, come la legittimità o meno della guerra all'Iraq fatta dipendere da quel serbatoio di chiacchiere e corruzione che è l'ONU.

Fermo restando che oggi non c'è più nulla da sviluppare in senso borghese, e assodato che il non-sviluppo capitalistico è prodotto proprio dalla sopravvivenza del capitalismo, non avrebbe neppur senso parlare oggi di "tradimento" delle borghesie nazionali rispetto ai loro compiti storici, dato che esse hanno da tempo esaurito la loro forza propulsiva ovunque: non ci sono più interessi che possano essere particolari di una nazione in un mondo globalizzato in cui la divisione internazionale del lavoro ha raggiunto livelli altissimi che le multinazionali sfruttano, spesso al di là delle leggi nazionali. Se vogliamo, possiamo dire che le borghesie europee, rinunciando alla maggiore caratteristica storica del capitalismo che è la concorrenza espropriatrice, tradiscono sé stesse e, non riuscendo a dar vita a una coalizione contro il comune avversario (sempre che arrivino a capire che lo è), confermano che la loro è ormai una classe senza più midollo. Anche le borghesie dei paesi "minori" si dimostrano incapaci di coalizzarsi, e da questo punto di vista quelle islamiche offrono da cinquant'anni la gola al coltello.

Logicamente ci fa piacere constatare che la borghesia è una classe morta, ma ci fa molto meno piacere constatare che il capitalismo sopravvive di trasfusioni a favore dell'unica borghesia sulla faccia della terra ancora in grado di "investire" in progetti globali. Non nel senso che essa operi direttamente, alla scala di un tempo, nel campo di impianti, fabbriche, infrastrutture, ecc. ma nel senso che si accinge alla vampirizzazione del mondo progettando di realizzare un sistema in cui succhiare impunemente plusvalore altrui. Siccome il plusvalore è prodotto dal solo proletariato, l'impossibilità di una guerra vittoriosa agli Stati Uniti è una dannazione per la nostra classe. Fortunatamente, anzi, deterministicamente, questa impossibilità non è affatto assoluta, come ci insegna von Clausewitz, dal quale ci facciamo accompagnare.

9. Il risultato della guerra non ha mai costituito, né per i vincitori né per i vinti, un qualcosa di assoluto e definitivo.

Abbiamo visto che la sequenza delle guerre mondiali è individuabile in fasi temporali diverse a seconda dei criteri adottati. Con il criterio della nostra corrente ne abbiamo individuate quattro, entro le quali si è combattuto per determinati obiettivi con risultati altrettanto determinati. Il mondo entrò in guerra nel 1914 per una ragione squisitamente imperialistica: veniva messa in discussione la sua suddivisione in aree di influenza proprio nel momento in cui lo sviluppo del mercato estero in rapporto al prodotto mondiale raggiungeva il suo massimo. Forse non è molto noto che quel massimo è rimasto tale, dato che l'attuale rapporto fra il valore totale delle importazioni-esportazioni e il valore totale prodotto ex novo è uguale a quello del 1913.

Sembra impossibile, con tutto il gran parlare di mercati internazionali, di globalizzazione… Eppure è così ed è perfettamente spiegabile perché:

1) i grandi paesi industriali commerciano soprattutto fra di loro;

2) il commercio con gli altri paesi avviene in massima parte acquistando materie prime, semilavorati e prodotti finiti di largo consumo, i cui prezzi sono stabiliti (equamente) dalla legge marxiana del valore;

3) il commercio cresce ma cresce anche il prodotto lordo;

4) il valore dei prodotti industriali scende, mentre sale il valore totale investito in impianti (massa del lavoro morto);

5) il tributo pagato dal profitto alla rendita sale all'interno dei paesi industriali, mentre scende tra i paesi industriali e quelli fornitori di materie prime, dato che questi ultimi possono far valere solo la proprietà, mentre il prezzo, cioè il valore momentaneo di scambio, è stabilito dalla quantità di profitto-plusvalore che la società industriale può passare alla rendita.

Nel XX secolo si produce quindi una situazione internazionale bloccata sulla difesa a oltranza della crescita interna, per cui ogni paese, liberoscambista per quanto riguarda le proprie merci e protezionista per quanto riguarda quelle altrui, agisce oggettivamente contro l'estensione del mercato mondiale. Dieci anni dopo la fine della prima guerra, l'impulso dato da questa all'economia si dimostra effimero, giunge la Grande Depressione. Dopo altri dieci anni ci vorrà un'altra guerra mondiale per uscirne. I vincitori riescono a drogare il ciclo capitalistico e a coinvolgere i vinti nell'accumulazione generale. Il capitalismo grida vittoria su tutti i fronti, ma esporta merci e capitali come nel 1913. Gli indici di capitalizzazione di borsa, depurati dall'inflazione sono addirittura più bassi. Nel frattempo i vinti, che hanno anch'essi accumulato, ridiventano concorrenti degli ex alleati. A causa della già ricordata incapacità-impossibilità di coalizione, non si ri-forma un Asse Roma-Berlino-Tokio ma è chiaro che siamo alle solite. L'Inghilterra è nuovamente alleata fedele e interessata degli Stati Uniti. Tradisce l'Europa e la sua moneta, si insinua come un cuneo separatore favorendo la balcanizzazione. Dovrebbe essere buttata fuori dall'Unione, ma l'eroismo non abbonda fra "Po e Reno", nessuno rinuncia all'ipocrita unità di facciata, nessuno fa la prima mossa.

Il lancio mediatico della guerra infinita viene dunque a cadere in un mondo che, oltre a non risolvere i problemi per cui ha fatto due (o tre, dipende) guerre mondiali, lanciato atomiche, spostato un miliardo di uomini come lavoratori e profughi, inurbato un altro paio di miliardi e depredato interi continenti, ne ha fatti nascere di nuovi e più tremendi: l'Africa è terreno di prelievo allo stato puro, l'America Latina è allo spasmo, la Russia all'elemosina, il Giappone in coma da dieci anni, l'Asia non si è sollevata dalla supercrisi del '97, il Medio Oriente è invaso dai liberatori del mondo.

Tre miliardi di persone, metà della popolazione mondiale, fanno parte della fascia considerata di povertà. Il 64% del PIL mondiale è prodotto dai servizi, il 32% dall'industria e il 4% dall'agricoltura. I tre miliardi vivono quasi tutti di una piccola frazione di quel 4% agricolo, oppure di briciole che cadono sulle attività informali delle immense favelas del mondo. Se lavorano nell'industria è per salari da schiavi. Di schiavi-bambini ce ne sono 250 milioni. Strati interni alle borghesie frustrate dal predominio del Capitale occidentale si possono così saldare a una massa di senza-riserve che non ha nulla da perdere e che alimenta ogni genere di traffici ai confini della legalità borghese e delle guerre intestine della borghesia stessa. Allo stesso titolo, tramite esponenti delle ricordate borghesie, trova alimento l'ideologia del risentimento provocato dall'imperialismo, e non di rado ideologia e situazione materiale si scoprono complementari, perciò si saldano.

Tutto ciò può bastare per capire che il mondo capitalistico ha impiantato una fabbrica sociale di "terroristi" provenienti da tutte le classi. Un esercito potenziale che può alimentare tutte le guerre infinite che si vogliono, più o meno strumentalmente, dichiarare al pianeta. Ma ha anche impiantato una fabbrica di "partigiani", simmetrica, complementare, perfettamente utilizzabile come carne da cannone. Fino alla seconda Guerra Mondiale, alla guerra di Corea, alla guerra del Vietnam, abbiamo visto funzionare simmetrie classiche, eserciti contro eserciti, cui però si andavano affiancando sempre più spesso gli "irregolari" delle guerriglie, finché la guerriglia è diventata regolare. E fra Usa e URSS si sono incominciate a combattere le cosiddette proxi wars, le guerre per procura.

10. Il determinismo vince contro l'idea e la volontà, per cui le probabilità della vita reale moderano la tendenza all'estremo.

Secondo von Clausewitz la situazione reale detta legge sulla volontà degli uomini, i quali solo dai fatti possono trarre i dati utili per scoprire ciò che è ignoto. Perciò è necessario congetturare su ciò che farà l'avversario non solo in base alla logica ma anche secondo le leggi della probabilità. Un margine di non-conoscenza produce un'incertezza che allontana la guerra dall'assoluto e fa intervenire elementi di moderazione. Ognuno degli avversari cerca di sottrarsi a un impegno delle forze spinto all'estremo, riservando le proprie energie per utilizzarle man mano che la guerra rivelerà ciò che è oscuro. Questo indubbiamente ha molta attinenza con l'importanza fondamentale che si dà all'attività di intelligence e alla ricognizione sul campo per "prepararlo" mediante truppe speciali, come vedremo. Per ora basti anticipare che, nel trattato di Sun Zu, il "Modo di adoperare gli agenti segreti" è un capitolo intero sui tredici dell'opera e contempla tutte le tipiche varianti di questa attività: lo spionaggio, il controspionaggio, la ricerca sul terreno, il doppiogiochismo, l'infiltrazione, il finanziamento di cellule dormienti, la disinformazione, ecc. Egli scrive: "Chi affronta un nemico per anni, allo scopo di raggiungere la vittoria in una battaglia decisiva, e tuttavia non riesce a conoscere l'esatta situazione del nemico, è completamente privo di psicologia. Un tale uomo non può essere definito un generale né uno che può avere in pugno la vittoria". Indubbiamente "psicologia" è un termine che, tradotto dagli ideogrammi cinesi, può voler dire molte cose, per esempio comprensione delle profonde determinazioni, storiche, etniche, culturali, ecc. delle azioni e del comportamento altrui, parametri del resto ricorrenti in ogni capitolo. Noi utilizzeremo il termine inglese intelligence perché, alludendo ad un sistema di informazioni, ha un significato più vasto che non "spionaggio".

È interessante notare come nel caso reale, cioè nella situazione in cui si trovano gli Stati Uniti oggi, sia stato necessario prendere atto dell'elementare gioco dialettico fra la conoscenza delle caratteristiche del nemico e l'ignoto, fra il determinismo e la volontà, per cui la forza risulta graduata a misura dell'obiettivo, molto più di un tempo. Basti fare il confronto fra le due Guerre del Golfo: la relativa scarsità di energia cinetica messa in campo da entrambe le parti nell'ultimo conflitto non è dipesa tanto da fattori tecnici (obsolescenza delle armi irachene, poca disposizione al combattimento da parte dei soldati arabi, disgregazione del comando, tradimento, ecc.), quanto storici. I dodici anni intercorsi tra l'una e l'altra hanno fatto maturare l'assetto capitalistico mondiale in termini unipolari, impedito la mega-coalizione del '91 (la cui esagerata vastità denotava almeno un tentativo di controllo verso gli USA), ridotto la popolazione all'assistenza e isolato completamente l'Iraq, al quale oggi non restava che prendere atto dell'inutilità, anzi dell'assurdità, di accettare la guerra in campo aperto.

Ogni quattro anni il Pentagono pubblica un documento che aggiorna la dottrina militare degli Stati Uniti oppure la commenta alla luce di fatti nuovi, il Quadrennial Defense Review Report. Esso è uscito l'ultima volta il 30 settembre 2001, subito dopo l'attacco agli Stati Uniti, anche se, come ci tiene a precisare significativamente il ministro della Difesa nella prefazione, era frutto di elaborazioni anteriori. Affrontando il nuovo assetto mondiale dopo il crollo dell'URSS e la relativa stabilizzazione dei suoi resti, esso afferma che il sistema uscito dalla Guerra Fredda, allora caratterizzato da blocchi geopolitici ideologicamente definiti, è ora diventato "fluido e imprevedibile". Le alleanze dell'America sono rimaste forti, ma le relazioni con i vari paesi sono basate sempre di più su un misto di cooperazione e concorrenza, per cui è necessario tener conto del nuovo scenario in cui il mondo si darà (o gli verrà imposto) un assetto adeguato alle "sfide". E poi ci sono i nemici dichiarati, i quali sarebbero in grado di mettere in campo forze non-statali che aumentano a dismisura il campo dei fenomeni non conosciuti e quindi le probabilità di attacchi non previsti, il margine di incertezza delle operazioni, ecc.

Ne deriva, abbastanza automaticamente, che il comportamento militare della superpotenza deve abbandonare i criteri basati sulla minaccia rappresentata da un nemico ben conosciuto e quindi ben valutabile dal punto di vista del pericolo accertato; deve invece prepararsi ad affrontare il nemico probabile, studiare quale potrebbe essere e prepararsi a prevenire gli attacchi di una guerra definita asimmetrica.

Questo cambiamento di ottica, su cui abbiamo già scritto affermando che le guerre, se ci sono, non possono che essere simmetriche, ha un'importanza enorme perché sconvolge completamente un assetto militare di tipo imperialistico classico, adatto alla proiezione della potenza nazionale in luoghi distanti e per guerre più o meno tradizionali. Ora la dottrina militare contempla la possibilità che proprio gli Stati Uniti stessi diventino un obiettivo e siano attaccati sul proprio territorio, dal loro stesso interno, cosa mai avvenuta. Va da sé che tutto ciò è spudoratamente sfruttato anche a fini propagandistici, ma contiene verità innegabili: gli Stati Uniti hanno portato via al Messico immensi territori, poi hanno sottratto i Caraibi, le Filippine e il controllo del Pacifico alla Spagna; adesso attaccano le popolazioni islamiche; nel frattempo gli ispanici sono ritornati sui loro antichi territori (sono la seconda "etnia" negli Stati Uniti) e decine di milioni di americani hanno abbracciato l'Islam.

11. È l'obiettivo politico che genera guerre di ogni grado d'importanza e di energia, dalla semplice osservazione armata alle guerre di sterminio, per questo esso tende a prevalere.

Se l'obiettivo politico si accompagna a una enorme disparità di forze è chiaro che ci si può trovare indifferentemente in una delle due situazioni, quella dei nativi americani venuti a contatto con la civiltà ed estinti come nazione o quella dei popoli civili che trangugiano il rospo della loro condizione di clienti e servi, meditando sul motto imperiale si vis pace para bellum. La preparazione di guerra americana potrebbe effettivamente, in via del tutto provvisoria, annichilire le velleità di concorrenza economico-militare degli avversari. Basta che gli Stati Uniti attacchino preventivamente uno per volta i loro nemici/concorrenti, nella maggior parte dei casi senza dover neppure ricorrere alle bombe.

Leggendo i vari documenti prodotti dalla borghesia americana si nota un cambiamento importante, sul piano più propriamente politico, rispetto al passato. In tutta la fase USA-III (Guerra Fredda), i suoi criteri di ricerca delle alleanze non si basavano sulla natura del regime alleato, fascista sanguinario, satrapico-orientale, socialdemocratico e anche "comunista" se offriva carne da cannone, come nella Seconda Guerra Mondiale, purché fosse utile. Nel passaggio alla fase USA-IV, l'attuale, i criteri di utilità sono cambiati, l'alleato dev'essere integrato in altro modo nel sistema di controllo mondiale, avere caratteristiche della civiltà capitalistica, partecipare al libero mercato, essere permeabile alla potenza del Capitale, essere terreno d'investimento e di profitto, fornire, se necessario, truppe e denaro per le battaglie della guerra infinita.

In realtà ci troviamo di fronte ad un atteggiamento statale che deriva dalle necessità politiche della guerra e quindi dei suoi obiettivi: essendo il processo di decolonizzazione storicamente irreversibile, sarebbe assurdo ritornare a forme di dominio diretto; diventa molto più produttivo un assetto mondiale plasmato sulle esigenze degli Stati Uniti e in grado di vivere di vita propria, con delle borghesie nazionali legate a filo doppio a quella americana, un po' come fu architettato con Germania, Giappone e Italia dopo il 1945. Per far questo occorrerebbe spazzare via ogni residuo del passato in grado di intralciare l'ulteriore accumulazione e soprattutto la circolazione internazionale dei capitali.

Il cambiamento non ha nulla a che fare con il cosiddetto scontro di civiltà, che è una fesseria. La nuova politica – e quindi il nuovo modo di concepire la guerra – non esce assolutamente dai binari del proverbiale pragmatismo americano. È un dato di fatto che il capitalismo abbia bisogno, oltre che di un serbatoio di materie prime, anche di un grande mercato sviluppato che possa fornire un esercito industriale di riserva e non solo una miserabile sovrappopolazione relativa. Il lato "ideologico", così pesantemente ribadito nei documenti, ha persino risvolti etnici che hanno indignato più di un democratico liberista: la guerra sul campo contro l'Afghanistan e l'Iraq è stata condotta praticamente solo da Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda, cioè nel segno di forze WASP, cioè bianche, anglosassoni e protestanti. Tutte le altre componenti sono state trattate come vassalli i cui servigi si valutano a priori e a cui vengono distribuiti compensi a seconda dei comportamenti.

Tuttavia sarebbe sbagliato pensare all'influenza di pulsioni razziste: esse probabilmente non mancano, ma hanno un'importanza pratica quasi nulla. Il fatto fondamentale è che all'inizio della guerra infinita non è ancora chiaro lo schieramento generale e, semplicemente, gli americani non si fidano di nessuno. Nell'ambito di una guerra in cui l'intelligence è fattore primario, si tratta quindi di una elementare precauzione, tipicamente militare, contro i falsi amici che abbondano.

Le piccole guerre che stanno preparando quella grande, forse troppo grande anche per gli Stati Uniti, si incastrano l'una nell'altra come un puzzle il cui disegno complessivo riserverà, secondo il determinismo alla von Clausewitz, molte sorprese. Perché non è detto che la politiguerra prenda per forza il sopravvento sulla sola guerra; oppure, ed è lo stesso, prenda il sopravvento sulla sola politica la quale, sfuggita al controllo degli apprendisti stregoni, incomincia a darsi uno scopo irrealistico. In fondo che politica è quella che vorrebbe, con un supremo atto di volontà, rovesciare la prassi dell'anarchia capitalistica al punto di progettare l'assetto americano del pianeta addirittura "per il nuovo secolo" in cui siamo entrati? In questa nostra biosfera, con uomini, classi ed elementi vivi che interagiscono, persino il padreterno ha avuto qualche problema e non è riuscito a illuminare i suoi seguaci sulla millenaria faccenda del libero arbitrio.

12. La sospensione della guerra dipende soltanto dalla sua dinamica complessiva e non dalla volontà dei capi.

Il concetto di "sospensione" della guerra è molto più consono a spiegare la situazione capitalistica moderna che non i concetti separati di guerra e pace. Quando la guerra è avviata, la serie di operazioni non s'interrompe mai, "ma procede a soprassalti ché, fra le singole azioni sanguinose successive, s'intercalano tempi dedicati all'osservazione, durante i quali entrambi gli avversari si trovano sulla difensiva".

Il prevalere della politica non può voler dire automaticamente sospensione dell'attività bellica. Oggi è proprio il prevalere della politica americana ad imporre che la guerra sia continua. Dichiarare una guerra infinita, specificare che la sua durata è indeterminata e che passeranno anni, forse decenni, prima che il "terrorismo" sia sconfitto, è di per sé un buon riconoscimento del fatto che non c'è separazione netta fra politica e guerra, che il capitalismo vive ormai da un secolo in una guerra permanente e che intende, in modo del tutto esplicito, continuare su questa strada, ribadendolo di fronte al mondo attraverso il suo più potente e attrezzato rappresentante.

L’indeterminazione potenziale della durata della guerra sta, secondo von Clausewitz, nella sua stessa natura, nelle relazioni fra gli uomini e fra le cose e gli uomini. Il carattere dominante della fase USA-IV, nonostante l'aspetto "attivistico" della politica americana, è proprio la soggezione della volontà degli uomini al corso inesorabile dei fatti, cioè della crisi sistemica del capitalismo. Ci troviamo di fronte a una dichiarazione di guerra al mondo e a due guerre che hanno rappresentato il passaggio alla prima fase operativa. Le relazioni fra gli uomini si sono manifestate per ora come relazioni fra Stati e, dato che nessuno poteva fraintendere il messaggio, sono state assai significative nel delineare la futura politica mondiale. Le relazioni fra cose e uomini rappresentano il retroterra della situazione attuale, cioè la crisi di produzione di plusvalore, i tentativi di porvi rimedio, i fenomeni sociali che ne sono scaturiti e, soprattutto, ne deriveranno (per esempio i 110 milioni di persone in piazza contro la guerra nei paesi sviluppati, i contraccolpi sociali alla politica americana in un'altra vasta parte del mondo, la corsa ai ripari da parte delle varie borghesie nazionali, ecc.).

Perciò si spiega come l'amministrazione americana sia impegnata, e lo dichiari, in una guerra di estensione indeterminata, nel tempo, nello spazio e principalmente nei modi, che saranno più occulti che visibili. Ad ogni modo la guerra del capitalismo maturo può essere duratura ma non certo infinita. Nemmeno può durare troppo a lungo, dato che ogni guerra spesso inizia a muoversi di moto proprio sottraendosi al controllo degli uomini.

Alcuni sostengono che la guerra sarebbe un viatico per l'economia, un buon ricostituente per l'accumulazione del Capitale, e ciò giocherebbe senz'altro a favore dell'indeterminazione nel tempo, dato che uno stato di guerra permanente sarebbe, per sillogismo, uno stato di salvezza economica permanente. Ma non è vero che il sistema della guerra, il militarismo, ecc. siano di per sé fattori di accumulazione. Abbiamo dimostrato altrove, cifre alla mano, che la formazione di valore dovuta all'apparato bellico americano è insignificante rispetto all'insieme dell'economia. L'antimilitarismo economico è una sciocchezza senza fondamento: la guerra e l'apparato militare sono molto importanti, ma per stabilire le modalità dei flussi di valore prodotto altrove, non per produrne. Solo in questo senso la guerra, in quanto tale, può essere considerata una delle cause antagoniste alla caduta storica del saggio di profitto.

Perciò il fattore tempo, la durata del fatto militare, non è legato alla salvezza dell'economia in modo automatico e tantomeno alle decisioni dei capi di governo. La sospensione del combattimento dipende certo da cause interne alla guerra nelle situazioni locali, ma la dinamica complessiva della guerra stessa, e quindi l'intera sua durata, dipende da cause generali, dalla situazione globale. In ultima analisi la generalizzata guerra moderna produce un "nemico" che è considerato tale solo in quanto elemento della produzione di quel plusvalore che bisogna assicurarsi. Il fattore tempo dipende da quanto occorre per ottenere un controllo del flusso di questo plusvalore. Dato che gli uomini non possono abbracciare l'insieme delle relazioni nella sua completezza, è normale che essi abbiano difficoltà nel prevedere quanto potrà durare una guerra, quali aree del mondo coinvolgerà al di fuori dei piani e che modalità sarà costretta a seguire. Ovviamente questo tipo d'indeterminazione non è connaturato allo svolgimento dei fatti di natura bellica, economica o politica. Non si tratta infatti di confutare il determinismo (von Clausewitz non lo fa mai) ma di constatare che sono gli uomini ad avere difficoltà di conoscenza, a non poter determinare con precisione gli esiti di una guerra.

13. Ogni sosta nell'azione non è altro che la ricerca delle condizioni migliori per ottenere il non-equilibrio.

Il capitalismo è fondato sulla estrazione di plusvalore dalla classe proletaria, ma sul mercato mondiale si caratterizza specificamente per la concorrenza spietata, la quale ha tutte le caratteristiche della guerra, anzi, è guerra tout court. La concorrenza non ha soste, e Marx illustra, con pagine di potenza straordinaria, sia il suo acuirsi storico che le estreme conseguenze cui porta questa lotta fra capitalisti, e cioè la reciproca espropriazione, la loro morte, il loro annullamento dal punto di vista capitalistico.

Ciò significa che la ricerca del non-equilibrio, già insita nella dinamica del capitalismo in generale, si riflette via via nei comportamenti delle borghesie nazionali concorrenti, dei capitalisti singoli che cercano di sopraffarsi l'un l'altro e in ultima istanza sul modo di fare la guerra, in campo politico, economico e propriamente militare. Von Clausewitz ironizzava sugli accademici gallonati del suo tempo che vagheggiavano il ritorno alle belle guerre di una volta, con i loro rituali e i loro equilibri, a quella presunta "vera arte della guerra, alle parate, alle semibotte, al predominio dello spirito sulla materia". Ma la guerra non sarà mai più quella di un tempo, perché la rivoluzione borghese l'ha permeata della stessa violenza assoluta che è stata ed è necessaria alla nuova classe dominante per conquistare i mercati. Non si gioca più su un teatro vasto quanto alcuni campi di grano ma su interi continenti; non si mettono in campo solo soldati e baionette ma l'intera società e il suo sitema complesso di relazioni.

Ogni sosta non è che un modo diverso di condurre la battaglia e siamo sicuri che non tarderà a prodursi la risposta alla guerra, per ora afghana e irachena, come siamo sicuri che vi sarà la risposta alla risposta, come in una immensa palestina globale. I piani, l'abbiamo visto, ci sono, e sono assai ambiziosi: ma non c'è piano militare che non sia modificato dagli accadimenti sul campo. È sempre successo, e mai gli uomini hanno potuto evitare di essere legati ogni volta dal determinismo più elementare, quello che porta a situazioni impreviste, a causa delle quali occorre tracciare nuovi piani, ordini, percorsi e persino scopi finali.

Nella guerra che stiamo vivendo, quindi fra uno scontro e l'altro, sarà ricercato il vantaggio con ogni mezzo, e sarà avvantaggiata quella parte che riuscirà per prima ad arrivare a una situazione di non equilibrio in modo cosciente. Questo non significa affatto che chi raggiunge questo risultato abbia vinto: significa semplicemente che chi lo raggiunge attacca. L'origine della gran documentazione americana sulla necessità dell'attacco preventivo è tutta qui.

I fattori di vittoria stanno nella sorpresa e in tutto ciò che riguarda la preparazione degli scontri decisivi, dall'intelligence ai nuovi armamenti, esattamente come specificato nelle "nuove" dottrine americane, così ben descritte invece da von Clausewitz. Perciò non si stupisca nessuno nel leggere frasi di questo genere: "Noi [Stati Uniti] non esiteremo, se necessario, ad agire da soli per esercitare il nostro diritto all'autodifesa agendo preventivamente contro i terroristi… Più alta è la minaccia e più c'è il rischio che manchi la capacità di reazione, più diventa impellente la necessità di intraprendere un'azione anticipatrice in difesa di noi stessi, anche nell'incertezza del tempo e del luogo in cui si verificherà l'attacco nemico… Per sostenere le nostre azione preventive noi realizzeremo migliori capacità di intelligence, più integrate, per fornire informazioni accurate e tempestive sulle minacce, ovunque esse si profilino". Terroristi = Stati canaglia. E qualcuno viene a dire che questa non è ancora guerra!

14. La continuità delle operazioni rappresenta sempre un'ulteriore tendenza verso l'estremo.

Le guerre di un tempo avevano poche battaglie e molte soste. Distruzioni e massacri, nel bilancio finale, erano dovuti più che altro alla durata della guerra. Ancora nelle campagne napoleoniche le peggiori carneficine avvenute in singole battaglie avevano provocato alcune decine di migliaia di morti (per esempio 70.000 a Lipsia, 1813). Man mano che la guerra si tramuta in un'operazione continua e non si divide più in battaglie vere e proprie, diventa il modo di essere della società in un determinato periodo. La tendenza verso l'estremo è data dall'industrializzazione della carneficina. Di conseguenza il numero delle vittime sale enormemente. Nella Prima Guerra Mondiale il solo scontro della Somme (1916), che in realtà fu un episodio ben poco circoscrivibile come "battaglia", provocò più di un milione di morti. La Seconda Guerra Mondiale, finora la più dinamica e macchinizzata, spostò milioni di uomini e mezzi intorno al mondo, sulla terra, sugli oceani, in aria, coinvolgendo come mai nel passato l'intera popolazione civile dei paesi in guerra, provocando complessivamente da 70 a 100 milioni di morti (a seconda delle fonti).

Quali sono i periodi da considerare come "soste" nelle guerre che abbiamo "arbitrariamente" numerato con III e IV? Evidentemente quelli in cui gli avversari si preparavano a combattersi e, preparandosi, si avviavano verso la continuità della guerra, quella che porta alla maggiore tensione e che prepara il terreno alle "decisioni" fondamentali: "Ogni disposizione presa nello stato di tensione ha maggiore importanza, ed è più feconda di conseguenze, di una analoga presa nello stato di equilibrio; e questa importanza cresce infinitamente nei più alti gradi della tensione" (von Clausewitz).

Quando nel 1992 l'attuale sottosegretario alla difesa Paul Wolfowitz presentò un documento sulla necessità di impedire che rinascesse una potenza mondiale come l'URSS, allora appena collassata, esso circolò fra distratti generali e diplomatici senza riscuotere particolare successo e senza avviare quel dibattito che l'autore avrebbe desiderato. Anzi, il documento fu fatto ritirare dalla circolazione e secretato per le enormità (all'epoca evidentemente si credevano tali) che conteneva. Proviamo a leggerlo oggi: "Il nostro obiettivo è prevenire la riemergenza di un nuovo rivale. Questa è la considerazione dominante evidenziata dalla nuova strategia di difesa regionale; essa contempla lo sforzo per evitare che ogni potenza ostile possa dominare una regione le cui risorse potrebbero, se sottoposte a reale controllo, essere sufficienti a generare un potere globale. Queste regioni comprendono l'Europa occidentale, l'Estremo oriente, i territori dell'ex Unione Sovietica e l'Asia Sud-occidentale" (Excerpt of Defense planning guidance, 1992, New York Times).

Dieci anni fa considerazioni programmatiche del genere sembravano una provocazione e venivano nascoste; oggi sono di tremenda importanza e sono rivendicate, anzi gridate, ai quattro venti in un documento ufficiale della Casa Bianca. Da notare come nel documento si parli di "risorse" che, se controllate, potrebbero generare un potere globale: non si tratta certo di petrolio e di materie prime, dato che sono contemplate l'Europa e la Cina, poco interessanti da questo punto di vista. Di quali risorse allora si tratta? E quale "stato di tensione" oggi al contrario di allora rende quel documento (e le sue molto ufficiali riscritture odierne) così "fecondo di conseguenze"?

15. Il principio di polarità.

Stalin, col suo comunismo volgare, aveva stabilito che non valeva più la pena di studiare von Clausewitz e di ciò s'è visto il risultato in guerra, ma i comunisti l'hanno sempre tenuto in gran conto, non tanto per le parti tecniche della sua opera (probabilmente gli overcraft hanno scombussolato le tecniche di guerra in palude) ma per le concezioni generali. Il "principio di polarità" è nella sostanza identico a quello che troviamo sui testi della corrente cui ci rifacciamo. Si ha polarizzazione in campo sociale/militare quando gli interessi contrapposti non ammettono sfumature, il compromesso è impossibile e la società presenta schieramenti obbligati, quindi disposti a battersi per un fine estremo, ovvero per la scomparsa, l'annullamento di uno dei due (Sun Zu: "Il campo di battaglia è il luogo di vita o di morte e la guerra è la strada per esistere o scomparire").

Questa presenza di opposti, se essi sono di forza (potenziale o attuale) equivalente, in campo sociale produce sempre quello che abbiamo chiamato "dualismo di potere" e che per esempio la Rivoluzione d'Ottobre presentò nel settembre 1917 quando per il partito rivoluzionario scattò la parola d'ordine della presa del potere (volontà, rovesciamento della prassi). È una delle forme di simmetria, perfettamente spiegata dalle leggi fisiche: polarità, forze opposte di pari valore si elidono, la risultante è sempre zero. Da ogni rivoluzione, cancellata la vecchia società, scaturisce un mondo nuovo che non eredita nulla che sia specifico del vecchio.

Von Clausewitz si accorse subito che un principio di polarità perfetto non esiste, è solo un'altra delle idee platoniche di forme perfette, astratte. Non esistono nazioni uguali, con eserciti di pari potenza e con identiche modalità di combattimento. Gli scontri avvengono fra schieramenti impari e disomogenei, non confrontabili, quindi apparentemente estranei al principio di polarità. Tuttavia la realtà ci riconduce comunque a una possibile polarità presentando una varietà di relazioni che possono creare una simmetria anche nel caso di differenze enormi. Questo fatto – indispensabile per capire la nostra critica alla proposizione "guerra asimmetrica" – fu perfettamente compreso dall'autore, tanto che egli annotò nei suoi appunti la necessità di dedicare al problema un capitolo apposito, che però non fece in tempo a scrivere.

Uno squilibrio evidente dal punto di vista quantitativo può rivelarsi un equilibrio dal punto di vista delle relazioni qualitative. Gli eserciti di Sparta mantennero per un paio di secoli un vantaggio sui loro avversari sfruttando, e traducendo in manovra avvolgente consapevole, la tendenza naturale dei fanti, ordinati in ranghi compatti, a ruotare in senso antiorario durante il combattimento. Ciò avveniva perché ogni fante, combattendo con la destra, riparandosi con lo scudo sulla sinistra ed essendo coperto dal proprio commilitone di sinistra, era portato a ruotare in modo del tutto spontaneo. Il tebano Epaminonda distrusse la superiorità spartana disponendo ranghi numerosi sulla sinistra dello schieramento a sopportare il peso della manovra avvolgente, riaffermando quindi una simmetria di forze.

Quel che prima si poteva ottenere con una variazione quantitativa (numero di soldati) ora era il risultato di una caratteristica qualitativa (loro disposizione). Raggiungendo una simmetria di forze con la qualità della disposizione, era possibile causare una sua ulteriore rottura solo con variazioni quantitative, ecc. Infatti la nuova simmetria fu a sua volta distrutta dalle falangi macedoni che avanzavano spianando le temibili sarisse, lance lunghe sei metri che, opportunamente disposte, erano in grado di tenere a distanza fanti e cavalieri.

Negli esempi sopra ricordati è facile individuare la simmetria e la polarità, in questo caso praticamente sinonimi, dato che abbiamo due avversari alquanto simili (eserciti) entrambi scesi in campo con l'intento di vincere, perciò di "annullarsi" l'un l'altro, in modo metaforico e anche fisico. Non cambia molto anche in casi di eserciti assai differenti, quantitativamente e qualitativamente, dove a modificare un esito apparentemente scontato giocano innumerevoli fattori qualitativi. Uno degli esempi più celebri è la battaglia di Agincourt, nel 1415, in cui 6.000 inglesi affamati, malati di dissenteria e intrappolati, vinsero in maniera clamorosa contro 25.000 francesi perfettamente equipaggiati e attestati in posizione imprendibile.

Invece nel caso del "terrorismo", individuale, paramilitare o statale che sia, sembra non ci sia nessuna possibilità di ristabilire, nel confronto con gli avversari, né una simmetria né un principio di polarità, specie se abbandoniamo il campo dell'astrazione e scendiamo sul terreno dove da una parte combattono gli Stati uniti d'America e dall'altra forze neppur vagamente paragonabili. Nessuno Stato o gruppo armato sembra possa escogitare l'equivalente qualitativo dello schieramento di Epaminonda, delle sarisse di Filippo il macedone o della disperazione degli inglesi di Enrico V. D'altra parte sembra non gli sia neppure possibile agire secondo la definizione di guerra, cioè tentativo di "sottomettere l'avversario alla propria volontà". Sottomettere gli Stati Uniti?

16. Nell'attacco e nella difesa intesi separatamente non si applica il principio di polarità.

Von Clausewitz trae dall'esperienza e dalla logica il principio quantitativo e qualitativo della superiorità della difesa sull'attacco. Forze di pari intensità che si scontrino sullo stesso terreno – abbiamo visto – teoricamente si annullano. Forze di pari intensità poste una all'attacco e l'altra in difesa, subiscono un cambiamento qualitativo dovuto alla situazione. Poniamo che due eserciti schierino ciascuno 10.000 uomini; se uno si attestasse in posizione di difesa e l'altro si accingesse ad attaccare, e se la difesa in quella determinata situazione avesse un "peso specifico" doppio rispetto all'attacco, l'esercito attaccante dovrebbe chiamare in rinforzo altri 10.000 uomini solo per ristabilire l'equilibrio. A parte ogni altra considerazione, è evidente che il solo disporsi di forze pari in posizione di attacco o difesa distrugge il principio di polarità, e che per ristabilirlo occorre agire pesantemente sulle condizioni pratiche rispetto a quelle teoriche.

Nella guerra moderna le cose si complicano enormemente, sia perché si fa vago il confine fra difesa e attacco, sia perché aumentano le occasioni in cui il metodo sopperisce alla mancanza di mezzi e viceversa. Quelli che abbiamo riportato non sono che esempi per mostrare come si possa avere una "situazione" in cui non è così ovvio parlare di "asimmetria", come si è fatto abbondantemente durante tutti questi mesi, sia nella stampa specializzata che negli insopportabili incontri televisivi dove generali da salotto giocavano a Risiko in un delirio collettivo. Va detto, a difesa di alcuni tecnici, che le loro conoscenze erano rese del tutto invisibili dall'idiozia dei conduttori o comunque dall'ambiente di "confronto delle opinioni". Impressionava però il fatto che tutti parlavano come se fossero state possibili sul serio delle guerre tra Stati Uniti e Afghanistan, tra Stati Uniti e Iraq, oltre tutto combattute come guerre d'altri tempi.

Più volte e da più parti s'è letto che quello dell'11 settembre 2001 è stato un avvenimento unico nel suo genere. Nel senso che dal 1812 gli Stati Uniti non subivano più un attacco sul loro territorio. È vero, ma ciò di per sé non ha comportato cambiamenti nella grande strategia americana, che era già impostata. Quel che cambia è proprio il verificarsi di una situazione di polarità e la ricerca dei mezzi per infrangerla, per ripristinare un assoluto: la supremazia americana in tutti i sensi, mai messa in discussione prima. Del resto sono proprio gli americani a chiarire che, terminata quella che abbiamo chiamato "fase USA-III", hanno l'assoluta necessità di dare avvio alla "fase USA-IV". Il chiarimento è in Rebuilding America’s Defenses, un prodotto del già citato gruppo di potere oggi a capo dell'esecutivo, dal quale estrapoliamo, con parole nostre, la tabella n. 2.

  Fase USA-II Fase USA-III Fase USA-IV
Sistema di sicurezza mondiale in base ai rapporti fra gli imperialismi maggiori Multipolare Bipolare Unipolare
Compiti strategici dal punto di vista degli Stati Uniti nei confronti dei concorrenti Demolizione dei rapporti interimperialistici fra le vecchie potenze coloniali Contenimento nei confronti dell'URSS con un sistema fisso di alleati Promuovere la pax americana planetaria cercando di volta in volta gli alleati
Principale missione militare (la questione militare è sempre stata al centro degli interessi della borghesia americana, ma è una vera e propria ossessione per il suo attuale esecutivo) Adeguare l'apparato bellico al processo di espansione USA nel mondo - Costituire una forza di guerra mobilissima, slegata dal territorio ma in grado di proiettare la propria potenza di fuoco ovunque Costituire un deterrente nei confronti dell'espansionismo dell'URSS Rafforzare ed espandere le aree di democrazia, di capitalismo avanzato e di libero mercato - Impedire la crescita di nuove potenze in grado di competere con gli Stati Uniti - Controllare le zone chiave del mondo - Avviare la trasformazione della guerra sulla base di nuovi concetti.
Determinazioni materiali che modellano la strategia USA nei confronti dei potenziali avversari Potenzialità di guerra globale, su molteplici teatri nel mondo, fra schieramenti basati sulla spartizione fisica del territorio - Protettorati e colonie Potenzialità di guerra globale, su molteplici teatri nel mondo, fra due soli schieramenti ideologicamente omogenei al loro interno - Lotta per la spartizione del mondo in "zone di influenza" Potenzialità di guerra globale su molteplici teatri in tutto il pianeta - Attacchi diretti per la prima volta anche sul suolo americano - Guerra diffusa con schieramenti variabili e differenziati per "culture" - Controllo delle risorse e dei flussi di valore
Area in cui si focalizza la concorrenza a livello strategico Europa - Colonie Europa Asia centro-orientale

Tabella n. 2

Come si vede, rispetto al contesto d'attacco siamo di fronte alla sua evoluzione fino all'esasperazione del bellicismo quando, al quarto stadio, le determinazioni materiali che modellano la strategia degli Stati Uniti mettono pesantemente in causa il "principio di polarità" in una dialettica unione di difesa e attacco: difesa della civiltà e "attacco difensivo" per debellare il Male. Ma allora, se l'assioma è: il più debole deve combattere in difesa, perché mai chiamiamo attacco quello dell'11 settembre? Il Male è più forte della Civiltà? La contraddizione è solo nei termini, proprio perché intorno alla ricerca di polarità si stabilisce una fluttuazione continua.

Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale sembrava chiaro, per esempio, che Germania, Italia e Giappone fossero gli "attaccanti". Ma la questione non era così semplice. Un'analisi non ideologica della guerra dimostra che gli "attacchi" dell'Asse non furono che fughe in avanti, nell'assurda ipotesi che servissero ad ottenere una pace di compromesso equilibrato, come nelle guerre di un tempo, dato che l'America sembrava lontana. Ma lontana non era affatto, perché l'espansione americana produceva effetti tangibili sul mondo. E all'espansione stessa si attagliavano benissimo le teorie sullo "spazio vitale" attribuite invece esclusivamente ai suoi avversari. Per i quali il non aver compreso la portata storica della guerra rappresentò di per sé il motivo clausewitziano della tremenda sconfitta e gli attacchi risultarono gesti suicidi.

Comunque sia, lo sviluppo di un capitalismo giovane, intraprendente e cinico come quello americano aveva avuto come contraltare il tentativo di affermazione di altre potenze, che reclamavano ormai anch'esse non tanto delle colonie, ma una serie di Stati satelliti in un nuovo sistema economico. La Russia stalinista aveva piani analoghi per una propria area d'influenza e fu l'unica potenza non americana a realizzarli. Alcuni borghesi che sono riusciti a non ideologizzare troppo i loro studi sono giunti a conclusioni simili a quelle della nostra corrente. Sia lo storico J. P. Taylor che l'esperto militare B. H. Liddel Hart, per esempio, hanno sostenuto che la responsabilità della guerra fu degli anglo-americani, i quali lasciarono che la Germania desse il via ai suoi piani, sapendo bene che non erano dissimili da quelli di tutti gli altri imperialismi; salvo poi voltar faccia nel 1939, fatto che fece cambiare completamente, quanto inutilmente, la strategia tedesca e che viene giustificato, più o meno esplicitamente, con la motivazione che occorreva "difendersi" in tempo, "attaccando" la Germania con una guerra preventiva.

Una potenza declinante è per definizione conservatrice, quindi in difesa. Nel caso degli Stati Uniti questa condizione diventa assolutamente macroscopica. Le misure che i loro avversari/concorrenti mettono in campo, e che vanno dalla costituzione di blocchi economici alla costituzione di monete transnazionali, dalla pesante ristrutturazione della divisione internazionale del lavoro alle forme di reazione "terroristica" diffusa, ecc. sono considerate in blocco dagli americani come una vera e propria aggressione militare. Ed è vero, perché la storia del processo mondiale di accumulazione ha portato ad un drastico ridimensionamento del peso economico degli Stati Uniti rispetto all'insieme degli altri paesi. Nell'ipotesi clausewitziana di equilibrio nella politiguerra ciò richiede di per sé un aumento della potenza militare.

Ecco perché non dobbiamo stupirci, o peggio indignarci moralmente, se ad un certo punto leggiamo che gli Stati Uniti si sentono in dovere di:

1) difendere il suolo americano dagli attacchi;

2) lottare altrove per essere decisamente vittoriosi sul teatro di una eventuale guerra, multipla, simultanea e generalizzata;

3) compiere il proprio dovere storico, che sarebbe stabilito da una specie di destino naturale, di gestore dell'ordine mondiale (lett. constabulary duties, doveri propri della polizia);

4) plasmare a proprio favore l'ambiente nelle regioni critiche specie dal punto di vista della sicurezza strategica;

5) trasformare le forze armate e l'apparato inerente per lanciare una "rivoluzione" negli affari militari (cfr. Rebuilding ecc. cit.).

17. La superiorità della difesa sull'attacco, distruggendo l'effetto di polarità, provoca spesso la sospensione dell'azione.

Secondo i neocons, gli Stati Uniti non sono affatto quel mostro di aggressività descritto dai loro nemici. Esattamente come sembrano credere i pacifisti e i sinistri vari (che scoprono l'attivismo militare USA e protestano solo quando cadono le bombe, mentre spariscono quando la guerra si svolge in altro modo), i falchi governativi accusano i responsabili degli armamenti e della difesa di essere stati passivi per almeno dieci anni, durante i quali la potenza americana si è logorata, impiegando tutto quel tempo a capacitarsi di essere rimasta l'unica al mondo. Un mondo che era diventato unipolare e le imponeva nuovi e più vasti compiti.

Ma se è vero che l'attivismo militare americano era stato un po' ridimensionato dalla scomparsa dell'URSS, è anche vero che c'erano state grosse contropartite. La fine della fase USA-III aveva fatto mancare un elemento del vecchio equilibrio e aveva provocato una poco stimolante (per i fabbricanti di armi, ecc.) mancanza del principio di polarità, ma in geo-economia le armi offensive alla Luttwak avevano sparato bordate micidiali. In genere l'attivismo militare viene incoraggiato quando quello negli altri campi non dà i risultati sperati, ma in questo caso la guerra senza bombe ne aveva dati, eccome: senza sparare un colpo il nemico "comunista" s'era squagliato, il Messico e il Canada erano praticamente annessi, il Giappone era fuori gioco, l'Europa era caduta nella trappola balcanica riconoscendo per prima le varie secessioni iugoslave, infine si era praticamente impiccata da sola allargando la partecipazione all'Unione senza prima comprarsi gli stati dell'ex Comecon, cosa che invece avevano fatto molto accortamente gli americani.

Nel caso specifico degli USA, dunque, lo stallo non era tanto provocato, clausewitzianamente, dalla superiorità della difesa o da qualche altra rottura di polarità, quanto dal fatto che non c'era apparentemente nulla da attaccare o da cui difendersi. Non era vero, naturalmente – il vuoto non esiste in natura – ma è certo che i falchi promotori del nuovo secolo americano gridavano nel deserto. L'inerzia ("irresolutezza dello spirito umano", la chiama von Clausewitz) è una delle ragioni di pausa. Ma ve ne sono altre: la "imperfezione delle conoscenze umane", che noi individuiamo con l'impossibilità della borghesia di comprendere la dinamica storica del suo stesso modo di produzione; l'ottundimento delle "facoltà di giudizio", che può essere provocato dalla relativa sicurezza data dall'apparente mancanza di nemici; infine l'inghippo logico insito nel differente peso specifico di attacco e difesa: dal 1975 fra paesi europei, Giappone e Stati Uniti vi era un contenzioso pesantissimo iniziato con il controllo americano dei flussi di valore che andavano a pagare petrolio e che, trasformati in "petroldollari", come si diceva allora, tornavano nelle banche anglosassoni o in titoli americani. La difesa degli Stati Uniti si imperniò sull'indebolimento forzato delle monete euro-giapponesi per sostenere le proprie esportazioni, che provocò di conseguenza un innalzamento generale dei prezzi. Il freno alla svalutazione delle monete dei paesi esportatori netti non bastava; ad esso si aggiunse lo sfruttamento sfacciato della crisi borsistica del 1987, ripetuto nel 1997 e nel 2000, aggravato in ultimo dal persistente deficit americano nei confronti del mondo. Insomma, si era stabilizzato un sistema che fino alla crisi della cosiddetta new economy aveva permesso un equilibrio da imperialismo unico rentier cui gli stati clienti versavano un contributo al "padrone" per la sua sopravvivenza, e quindi in ultima analisi anche per sé stessi.

Gli Stati Uniti erano perciò in uno stato di oggettiva debolezza a causa del diminuito peso economico e dell'accresciuta dipendenza dal mondo, vivevano di rendita sul potere di deterrenza accumulato, ma la loro miglior difesa continuava ad essere un buon attacco. È per questo che alla loro debolezza oggettiva non corrispondeva una crescita della forza presso i loro avversari/concorrenti, nemmeno dal punto di vista della concertazione economica, dato che sul piano militare questi ultimi non si potevano neppure sognare un avvicinamento.

Il risultato è che la sospensione decennale (relativa, certo, la guerra non finisce mai) e l'attacco dell'11 settembre hanno infine reso gli americani ben consapevoli del fatto che una potenza globale in un mondo come quello d'oggi non poteva essere armata e preparata come ai tempi dell'URSS. La relativa riscoperta dell'armamentario dottrinale adatto non è che una conseguenza. Nel frattempo, mentre il resto del mondo si muoveva, faticosamente, ma si muoveva, in Europa non maturava alcuna consapevolezza dei compiti che potevano aprirsi ad una effettiva Unione, e ancor oggi siamo di fronte a un'accozzaglia gollista di patrie-nazioni dalle tendenze centrifughe che per di più sfrutta oggettivamente il socio con la maggiore economia, cioè la Germania che ha visto svanire la supremazia del Marco, sorgere un maggior confronto di competitività industriale, che deve pagare le più alte quote agricole, ecc. Perciò il problema della "sospensione" legato alle capacità alternate di attacco e difesa è assolutamente classico, come il solito problema della corazza e del proiettile: il proiettile non si era evoluto perché la corazza era immobile (e viceversa).

Detto ciò, dovrebbe essere chiaro che non sono descrivibili molti scenari, dato che essi sono riducibili a un modello composto di pochi elementi: la guerra procederà allargando il numero e la qualità degli obiettivi, Iran, Siria o Corea (ma è l'Iran che nell'immediato si frappone tra l'Iraq e l'Afghanistan conquistati). Il "terrorismo" risulterà del tutto congeniale al piano americano, il quale anzi fomenterà situazioni tali da spianargli la strada e indirizzarlo verso sbocchi oggi appena intravisti, fino a obbligare i concorrenti degli Stati Uniti a diventare perfettamente malleabili per necessità. L'imperialismo maggiore marcerà dunque a grandi passi verso quello che cerca, cioè il controllo del mondo, senza apparenti ostacoli.

La perdita di polarità è prevista anche da Sun Zu: "Essere invincibili dipende solamente da sé stessi; la vulnerabilità del nemico dipende soltanto da lui. Ne deriva che chi ha competenza in guerra può rendersi invincibile, ma non può indurre un nemico a diventare vulnerabile". Di fronte a un sicuro successo degli Stai Uniti ci sarà l'inevitabile contraccolpo: la guerra a cui l'America si era nel frattempo preparata e che crederà di aver vinto, provocherà troppi vincoli insopportabili, la borghesia americana non potrà ovviamente sopprimere né le borghesie nazionali né soprattutto il proletariato e gli strati oppressi che non tarderanno a esplodere. Il "terrorismo" incomincerà a essere alimentato con più denaro mezzi. Tutto come a grandi linee previsto nella dinamica della guerra: altri stati canaglia, di peso specifico un po' più consistente di quelli attuali, si aggiungeranno alla lista (se non sta già addirittura succedendo adesso). Poniamo Russia, o Giappone, o Cina, o Germania, ecc.

Rivista n. 11