La peculiarità della Sinistra Comunista "italiana" e il suo tormentato retroterra storico

"Negatori, falsificatori, aggiornatori. Noi li combattiamo tutti. La storia della sinistra marxista consiste nelle successive resistenze a tutte le ondate del revisionismo che hanno attaccato vari lati della dottrina e del metodo. È una storia di lotte attraverso le tre Internazionali storiche contro utopisti, operaisti, libertari, socialdemocratici riformisti e gradualisti, sindacalisti di sinistra e destra, socialpatrioti. Tale lotta ha coperto il campo di innumerevoli generazioni e, nelle sue varie fasi, appartiene non a una serie di nomi ma ad una ben definita e compatta scuola e, nel senso storico, ad un ben definito partito" (L'invarianza storica del marxismo, 1952).

Se la Sinistra Comunista "italiana" fu sconfitta – come sembra evidente ai più che si fermino alla sequenza storica tracciata a suon di date e di nomi – allora bisogna chiedersi quale fra le altre correnti che la contrastarono abbia vinto. Soprattutto bisogna chiedersi quale partito "vincitore" il proletariato abbia ora alla sua testa. Occorre chiedersi a quale stadio esso sia stato condotto dalle politiche "vittoriose" per quanto riguarda le sue condizioni di vita, la sua combattività, la sua organizzazione sindacale e la sua indipendenza politica rispetto all'ideologia borghese.

Sappiamo benissimo che la logica elementare non basta a convincere nessuno: per ora si continuerà ad essere seguaci di qualche "ismo" legato a nomi di morti che nessuna rivoluzione farà resuscitare. La nostra corrente, è vero, li combatté tutti, quando non furono coerenti con il percorso storico che deve portare alla società nuova. Non fosse che per questo, per aver previsto la catastrofe immane che incombe oggi sull'organizzazione della classe, e per aver tentato di dare soluzione coerente agli errori di teoria e di tattica (ma è la stessa cosa) essa ha vinto, come avrebbe vinto Galileo anche se i preti l'avessero bruciato.

Discriminanti entro il movimento rivoluzionario

Dati i tempi, occorrerà forse precisare che per "peculiarità" storica della Sinistra Comunista "italiana" noi intendiamo il fatto che essa è riuscita a rimanere un tutt'uno con il movimento originario che prese il nome di marxismo e a dimostrarne l'invarianza di fronte alla modernissima fase imperialistica di segno russo-americano. Oggi questa corrente non esiste più, anche se vi sono militanti che intendono continuarne il lavoro. Detto questo, non tracceremo una storietta in bell'ordine cronologico in guisa di riassunto per il lettore che va di fretta. Incominceremo dal fondo. Del resto, in apertura di un testo della nostra corrente, Tracciato d'impostazione, è detto chiaro che nel lavoro di proselitismo l'esposizione delle nostre tesi viene sempre prima della loro spiegazione (come del resto succede nei meccanismi di apprendimento in generale).

Il processo di assimilazione del programma rivoluzionario da parte di molti individui, la polarizzazione sociale che in certi periodi storici permette di utilizzare con proprietà di linguaggio il termine "masse rivoluzionarie", non sono dovuti all'azione di personaggi particolarmente dotati a conquistare seguaci con la scoperta di nuove politiche adatte allo scopo. Questi risultati si manifestano al culmine dell'azione costante e impersonale di individui e gruppi in cui si è determinata una frattura fra la conservazione dell'esistente e la necessità del suo superamento, della sua distruzione, per addivenire ad una società nuova. È solo allora che vengono scritti i nomi che sono o saranno celebri. Questo vale anche e soprattutto per la formazione della corrente rivoluzionaria in Italia, che avvenne in circostanze particolari, influenzata da una serie di importanti fattori interni ed esterni, quindi in un clima di lotta e di selezione fra correnti diverse, spesso inconciliabili. In nessun altro paese furono presenti tali condizioni, così come in nessun altro ambiente rivoluzionario si verificarono le condizioni "speciali" (Lenin) che permisero la formazione del gruppo comunista internazionalista bolscevico. È per questa ragione che noi sosteniamo ancora oggi: solo due correnti, in fondo una sola, ebbero la possibilità di raccogliere coerentemente il testimone lasciato da Marx ed Engels, quella "bolscevica" e quella "intransigente", l'una in Russia e l'altra in Italia, fino a che la prima non degenerò e la seconda non fu formalmente sconfitta.

"È il lavoro impersonale di una avanguardia dei gruppi sociali che enuclea e rende evidenti le posizioni teoriche verso cui i singoli sono portati, assai prima di averne la coscienza, dalle reali comuni condizioni in cui vivono. Il metodo dunque è antiscolastico, anticulturale, antilluministico", troviamo scritto nel testo appena citato. Eppure proprio in Italia, fino al culmine della formazione del Partito Comunista nel 1920-21, e dopo la sua breve esistenza come "organo della classe" (una realtà senza corrispettivo nel resto del mondo), avevano avuto il sopravvento concezioni illuministiche e culturalistiche. Esse furono alla base della degenerazione del Partito Socialista, sfociata poi nell'ibridazione crociano-gramsciana del marxismo, tipica del gruppo centrista allineato all'Internazionale ormai stalinizzata e gestore della liquidazione anche violenta della Sinistra ad appena tre anni dalla fondazione del Partito Comunista d'Italia.

Molto prima di quest'ultima fase, alle origini del movimento rivoluzionario in Italia, vi fu – come ovunque – discussione e battaglia circa le diverse soluzioni da dare all'organizzazione del proletariato. Tuttavia due sole si dimostrarono fondamentali per lo sviluppo successivo: quella del partito aperto, cui accedono tutti coloro che lavorano in armonia col suo programma, e quella del partito chiuso cui, con varie formule operaiste, accedono strettamente solo proletari. Questo fenomeno si presentò in tutti i partiti socialisti d'Europa e si presenta ancora oggi. È perciò assai significativo che il problema sia affrontato in apertura della serie dei volumi sulla Storia della Sinistra Comunista e soprattutto che lo sia per l'asserita impossibiltà, altrimenti, di trarre un bilancio, di giungere a conclusioni generali sulla marcia della rivoluzione verso la società futura.

Rivoluzione e controrivoluzione

Per la nostra corrente fu subito chiaro che la forma storica propria del partito rivoluzionario è quella aperta, quella in cui un programma unico fonde nel partito ciascuno dei suoi aderenti, senza distinzioni. In seguito ci furono precisazioni e integrazioni con l'introduzione del concetto di partito "organico", ma all'inizio questa fu la discriminante entro il movimento rivoluzionario, mentre altre differenze, come il credere possibile una riforma del capitalismo in senso rivoluzionario, furono invece discriminanti fra il movimento genuinamente proletario e le frazioni borghesi. In tutta la sua storia, la nostra corrente trasse le sue conclusioni più importanti proprio dal processo di formazione del partito e dalle concezioni che accompagnarono questa fase della dinamica rivoluzionaria.

La contrapposizione fra "partito di comunisti" e "partito di operai" non diede origine a una delle tante "questioni" – nazionale, sindacale, femminile, militare, ecc. – punte di iceberg di non risolte questioni teoriche generali. Essa al contrario si manifestò immediatamente, sul campo, non appena la maturità dell'industria e del proletariato posero il problema del partito politico. In organismi che si prefiggevano la difesa degli interessi immediati degli operai era naturale che in un primo tempo prendesse corpo la forma di "associazione operaia", nella quale i non-operai non avevano alcuna ragione di essere presenti. Ma in seguito, quando l'esigenza spontanea della lega di mestiere, legata alle condizioni materiali della sorgente classe operaia, fu superata, la formazione del movimento rivoluzionario e i primi tentativi di darsi una organizzazione imposero la dialettica fra conservazione della vecchia forma sindacale e sua separazione dalla forma-partito.

Perciò le due concezioni, operaista e universalista, divennero contrapposizioni importanti quando le condizioni materiali della classe operaia cambiarono e resero irreversibilmente superata la lega di mestiere o la vecchia società operaia di mutuo soccorso. Nel corso della incessante rivoluzione verso la nuova società, il programma politico si affina, non nel senso che si "adegua alle situazioni" come dicono gli opportunisti, ma nel senso che si lascia alle spalle i problemi posti un tempo dalle situazioni immature, come ad esempio quelli posti dal peso specifico di grandi masse contadine, dalle rivoluzioni nazionali ancora in atto, dal processo di formazione dei sindacati e dei partiti dal primitivo nucleo associativo.

Perciò la rivoluzione, che per i marxisti avanza comunque con lo sviluppo della forza produttiva sociale, si impadronisce delle due nuove forme, il sindacato e il partito politico, plasmandole e rendendole sempre più adeguate ai propri compiti. Il percorso è noto. Il sindacato diventerà lo strumento primario della difesa immediata dei lavoratori, mentre il partito si formerà in vista dei fini generali. Ben presto, però, la difesa immediata sindacale si dimostrerà anche una difesa delle condizioni dalle quali gli operai stessi traggono il sostentamento, cioè di un capitalismo che sappia dare qualcosa ai lavoratori, e questo avrà influenza sul partito che, parallelamente, sarà preso negli ingranaggi del cretinismo parlamentare. Tutto confluirà nella politica corporativa tipica del fascismo, dove la collaborazione di classe sarà teorizzata, ma anche tipica del patriottismo economico di segno russo e americano, basato sugli stessi meccanismi anche se con aspetti esteriori differenti. Prima che ciò si verificasse la rivoluzione aveva già fornito le sue alternative, tipiche delle fasi di transizione: una forma organizzativa immediata non più basata sulle rivendicazioni economiche ma politiche, il soviet, e un partito che non sarà più una semplice forma organizzativa, ma una vera e propria anticipazione organica della società futura, quindi senza più centralismo gerarchico, elezioni interne, concezione personalistica della funzione dei capi, ecc. ecc. ovvero completamente esente dalle caratteristiche della società attuale. Un partito che dovrà essere nello stesso tempo l'organo della classe e lo strumento più affinato che l'umanità si sia mai data per assolvere al passaggio da una forma sociale ad un'altra.

La concezione secondo cui il partito dovrà assumere i compiti specifici della società futura più che affondare in una risposta quotidiana alle sollecitazioni di questa, caratterizzò la Sinistra Comunista "italiana". Questo e non altro fu il senso del passaggio obbligato dal centralismo democratico a base gerarchica al più moderno strumento bio-cibernetico (non stupisca il termine, è solo un altro modo per dire organico, cioè tipico dei sistemi viventi e interagenti) propugnato dalla nostra corrente sulla base non di idee astratte, come si disse e si dice, ma sulla base della dinamica reale della società capitalistica stessa.

Tutto ciò dovrebbe essere particolarmente chiaro quando si analizzino gli eventi cruciali nel corso dei tentativi rivoluzionari del passato (vale a dire gli episodi acuti della rivoluzione in permanenza nel senso di Marx). Si tratta di "svolte" imposte dall'accelerazione sociale, che plasmano inevitabilmente la forma organizzativa, l'adoperano e infine ne precisano i contenuti, pretendendo una sempre più elevata coerenza con i compiti futuri. Questo procedere della storia ci dimostra che le questioni di organizzazione non sono risolte una volta per tutte da una particolare rivoluzione. Il Club dei Giacobini e il Partito Bolscevico (o le tre Internazionali) furono organismi superati nel corso stesso delle rispettive rivoluzioni. È della massima importanza capire come avvengano le trasformazioni per capire come sono maturati, e soprattutto come possano ulteriormente maturare, tutti gli strumenti della prossima fase acuta della rivoluzione, non solo il partito. "La rivoluzione non è una questione di forme di organizzazione", disse la Sinistra Comunista al Congresso di Lione, criticando l'ordine dell'IC (che da ciò si aspettava idealisticamente un ribaltamento della situazione diventata sfavorevole) di organizzare il partito su base di fabbrica e non territoriale.

D'altra parte il problema era ricorrente e bastava scorrere la storia: il laburismo inglese era stato, molto prima, fortemente permeato da tendenze operaiste; in Italia, prima della formazione del Partito Socialista, erano nate organizzazioni operaiste poi confluite in esso; in Germania la purezza operaia per il partito era stata disastrosamente teorizzata da frange del movimento operaio del primo dopoguerra. Venendo a tempi più recenti, all'inizio degli anni '60 vi fu un rigurgito di operaismo a livello europeo che si mescolò tragicamente con l'eclettismo del '68, e che partorì, tra l'altro, il "sindacalismo rosso", cioè la teorizzazione di organismi politico-sindacali formati da soli comunisti. In ogni caso, superato il periodo delle associazioni operaie di mutuo soccorso, la sopravvivenza e il ritorno di teorie operaistiche, comprese le varianti politico-sindacali, è sempre stata deleteria ed ha prodotto sconfitte brucianti, perché ha sempre ribadito le catene che legano l'operaio alla fabbrica, impedendogli di concepire la lotta e l'organizzazione fuori da quella galera, sul territorio.

La Terza Internazionale, che era nata sull'onda della reazione internazionalista alla catastrofe della Seconda, forte del nucleo bolscevico cui si erano legati i movimenti comunisti prodotti da un'epoca di fermento rivoluzionario, fu coerentemente per il partito aperto (ovviamente chiuso ai non-comunisti). Tuttavia giunse ben presto a teorizzare forme sempre più chiare di operaismo nonostante al suo interno e nei partiti membri, nei fatti, prendessero il sopravvento proprio gli esponenti e soprattutto le politiche frontiste delle classi non proletarie. Non si trattava di un banale "predicar bene e razzolar male", dato che ci si era scostati anche dalla concezione originaria del partito, ma del sintomo di una malattia profonda, prodotta dalla controrivoluzione che stava prendendo il sopravvento.

Questa contraddizione logica pesa tuttora sulla stragrande maggioranza delle organizzazioni che si richiamano al marxismo, influenzandone il programma, e di conseguenza l'azione pratica attraverso la quale vorrebbero arrivare ad essere comunque organizzazioni operaie di massa in un'epoca storica in cui non possono materialmente esserlo (a meno di non sposare fino in fondo le naturali reazioni verso "ciò che non funziona", e perciò diventare ecologisti, antiglobalisti, pacifisti, ecc.).

La forma operaista non può che diventare aziendalista

In fondo si tratta della solita questione: dato che in certi svolti storici le masse non sono orientate verso la soluzione comunista, gli pseudocomunisti tendono a orientarsi verso la soluzione di massa, cioè a fissarsi sulle rivendicazioni di modifica delle condizioni esistenti, fino ad abbracciare l'ideologia dell'avversario che è davvero di massa.

Agli albori del movimento operaio in Italia erano ancora mescolate le questioni riguardanti specificamente il proletariato e quelle riguardanti la rivoluzione nazionale della borghesia. Era del tutto inevitabile che si intersecassero i programmi delle due classi e che la carboneria, il mazzinianesimo, l'anarchismo e l'unionismo sindacale permeassero l'azione del proletariato. Ma se i moti carbonari e liberali del 1820-21 si collocavano decisamente nell'ambito borghese, pur essendo estesi e riscuotendo una partecipazione "dal basso", il processo storico che doveva portare all'unità nazionale era sempre più caratterizzato dal solco che divideva le due classi principali. In tale contesto fiorirono e grandeggiarono per un lungo periodo le società operaie, di carattere mutualistico all'inizio, cooperativo e sindacale in seguito, politiche verso la fine del secolo. È lungo tutto il percorso della formazione del partito che si sviluppa l'organizzazione operaia producendo parallelamente al suo interno il fenomeno che sarà chiamato operaismo, paradossalmente proprio nel momento in cui la Prima Internazionale (Associazione Internazionale dei Lavoratori), dissolvendosi, dimostrava che era matura un'organizzazione internazionale su basi politiche, per un programma non solo immediato ma di sconvolgimento dei rapporti esistenti.

Già da quando la concezione comunista del partito si era affacciata alla storia con il Manifesto di Marx ed Engels, l'operaismo era fuori dal programma rivoluzionario. Nonostante ciò, era ancora giustificata, specie in un paese arretrato come l'Italia, la persistenza di organismi prettamente proletari, improntati esclusivamente alla difesa di classe, caratterizzati dal rifiuto programmatico di "dedicarsi alla politica". La lotta contro tali concezioni e, più ancora, la maturazione del contesto reale della lotta di classe che le rese presto inadeguate, forgiarono l'ambiente politico necessario alla formazione di una corrente comunista "organica". Ed essa sorse molto prima che effettivi militanti si raccogliessero sotto la sigla di una frazione all'interno del Partito Socialista Italiano, anzi, prima ancora che tale partito fosse in embrione e fosse infine fondato.

Una volta concluso il periodo della lotta comune rivoluzionaria tra le classi moderne contro il feudalesimo o per l'unità nazionale, il ricorso a teorizzazioni che pongono il partito sul piano di fabbrica, "sindacale", diventa reazionario, perché lo scontro fra le classi coinvolge tutto il contesto sociale. Non era quindi possibile mantenere una tale concezione del partito e anche una concezione marxista del divenire storico senza entrare in contraddizione. La storia dei bakuniniani, soreliani, gramsciani e consigliari, tutti operaisti anche se a titoli diversi, lo dimostra. Giustamente i marxisti fecero notare, sempre, che il ricorso all'argomento della omogeneità di classe nel partito rispecchiava addirittura concetti di tipo feudale, corporativo: era lo stesso che aveva utilizzato la borghesia contro le prime associazioni operaie paragonandole alle vecchie corporazioni di mestiere, ormai soppresse.

Peggiore ancora fu, in seguito, l'argomento secondo cui, essendo l'operaio organizzato in fabbrica, la sua emancipazione procede dal suo impadronirsi del processo produttivo, argomento che fu fatto proprio non solo dagli ordinovisti ma anche da molti loro eredi, consapevoli o meno di esserlo, attirati dalla logica elementare di questa visione.

Nella fabbrica l'operaio tende ad affrontare solo i problemi legati al lavoro e al suo rapporto con il capitalista, mentre l'appartenente ad una classe rivoluzionaria deve poter spaziare su tutti i problemi sociali, anche quelli della società futura. La discussione, per decenni, fu decisamente aspra, ma permise una sana reazione di rigetto, e ciò molto presto, molto prima cioè che si presentassero le teorizzazioni tardo-operaiste di un Gramsci o quelle decisamente reazionarie dei "bolscevizzatori" stalinisti. In seguito alla rottura fra anarchici e comunisti in seno all'Internazionale, si precisò per molti gruppi la natura del processo storico che porta alla società nuova: in un paese pienamente capitalistico i passaggi dovevano necessariamente essere quelli del Manifesto: formazione del proletariato in classe, organizzazione in ampie strutture per la difesa delle condizioni di vita immediate, organizzazione in partito politico, organizzazione in classe dominante. Il sindacato non poteva che organizzarsi in base ai suoi compiti immediati; il partito non poteva che organizzarsi in base ai suoi compiti futuri.

L'Italia era a tutti gli effetti un paese capitalisticamente maturo e non sfuggiva a questa regola: anche se con un'industria poco sviluppata, conosceva una classe pienamente borghese da almeno settecento anni. Era terribile doverlo ricordare, ancora nel 1921, di fronte al frontismo della Terza Internazionale e dell'accozzaglia di partiti più o meno federati che la componevano, ma lo strumento organizzativo della rivoluzione proletaria pura non poteva che essere forgiato in funzione del suo scopo e quindi il partito doveva essere adatto alla direzione della società nel periodo della dominazione del proletariato e non a condurre una politica immediata di tipo frontista, parlamentare, sindacal-operaista o addirittura nazionale.

A maggior ragione il partito non poteva essere organizzato per fabbriche e posti di lavoro, non poteva "rivendicare" alcun controllo operaio, non poteva teorizzare alcuna "autonomia" del proletariato rispetto… al partito stesso. "Questi ideologismi mostrano in chi li adopera solo la totale impotenza teorica e pratica a lottare per una società che non sia una cattiva copia di quella borghese. Chiedono l'autonomia (di essi stessi) solo da un compito arduo, dalla forza del Partito di classe, dalla dittatura rivoluzionaria. Il giovanissimo Marx fresco di formule hegeliane (in cui quella gente crede ancora oggi) avrebbe risposto che chi cerca l'autonomia del proletariato trova l'autonomia del borghese, eterno modello dell'uomo" (PCInt., I Fondamenti del comunismo rivoluzionario).

Il partito rivoluzionario non nasce dal nulla, nasce dalla contrapposizione fra due inconciliabili interessi di classe e quindi è assurdo pretendere che non sia un tutt'uno con gli interessi del proletariato, soprattutto quelli futuri. Ma non è il proletariato, né parte di esso, perché anticipa una società senza classi. La concezione organica del partito rivoluzionario, con il suo funzionamento coerente, agguerrisce proletari e comunisti contro ogni sorta di operaismo e aziendismo perché esclude, sulla base della necessaria differenziazione delle cellule in un corpo vivente (e il partito lo è) un'omologazione indifferenziata dei proletari e, nello stesso tempo, il ricorso a meccanismi interni democratici, che riproducono la divisione sociale del lavoro presente nel mondo borghese in cui i "capi" vengono eletti secondo il rito di un ostentato quanto inesistente "libero arbitrio".

Determinazioni storiche del partito rivoluzionario in Italia

Nella prima metà dell'800, nonostante l'occupazione straniera, la frammentazione del territorio, la presenza delle soffocanti monarchie sabauda e borbonica, il movimento rivoluzionario borghese italiano si era avvantaggiato della maturità dei rapporti sociali, nel senso che ogni residuo feudale era già stato spazzato via da secoli. Rispetto per esempio alla Germania, a parte gli episodi e i personaggi risorgimentali finiti nelle italiche antologie scolastiche, vi era qui una più complessa articolazione della grande rivoluzione liberale che scuoteva l'Europa. I moti carbonari e liberali fin dal 1821 avevano aperto le porte a un ambiente che, se analizzato con il metro del rifiuto della vecchia società, compresa quella capitalistica che si stava prefigurando, in qualche caso può essere definito proto-marxista.

È in tale ambiente che maturarono le posizioni peculiari dei rivoluzionari borghesi italiani, molti dei quali lottarono non solo con parole e scritti ma impegnandosi anche sul piano militare. Elementi diversissimi, tra i quali alcuni, in un modo o nell'altro, avevano ben intravisto il problema sociale di fondo e rappresentavano già un prodotto del cervello sociale moderno. Basti pensare all'ipotetica unione – certo allora come oggi impossibile in campo borghese – fra la concezione rivoluzionaria attiva dei Pisacane, quella ingegneristica-galileiana dei Cattaneo, quella storico-deterministica dei Ferrari e quella dei De Sanctis che cercavano di individuare la dinamica della società nelle espressioni dell'arte. Personaggi come questi, e non possiamo ovviamente nominarli tutti, furono fortemente determinati dalla loro epoca e dall'ambiente in rapido cambiamento, pieni di contraddizioni, certo, ma coerenti con il loro scopo a costo di rischiare la pelle combattendo.

A loro volta, molti dei portatori di istanze borghesi rivoluzionarie, saldate nella lotta nazionale a quelle operaie, entrarono in contatto con le nuove leve internazionaliste non appena il progredire dell'industria e del proletariato imposero un conflitto e quindi una selezione. E questa avvenne, sicura, drastica, fondamentale più che in ogni altra parte d'Europa. Solo in Russia (o meglio, tra l'emigrazione russa in Europa e più tardi), il processo rivoluzionario fu altrettanto selezionatore. Gli internazionalisti italiani, quasi tutti anarchici, furono protagonisti di una maturazione a suo modo paradossale: mentre in tutta Europa, dopo la sconfitta della Comune di Parigi, le organizzazioni operaie erano state investite da un'ulteriore ondata di rifiuto della "politica", in Italia ci fu invece una politicizzazione del movimento operaio con l'abbandono da parte di molte organizzazioni dell'operaismo primordiale. Fu l'ampliarsi per ragioni esterne di un fenomeno già in corso, dato che a quell'epoca stava già crescendo l'influenza degli internazionalisti socialisti e l'anarchismo incominciava a perdere le caratteristiche importate del bakuninismo, fino a quel momento assolutamente dominante nel movimento in tutta la penisola.

Il primo esempio di nucleo marxista, cui a ragione si è fatta ascendere l'origine della Sinistra Comunista in Italia, sorse in Lombardia (1868) con il gruppo che lavorò intorno al periodico La Plebe (di cui Enrico Bignami fu il maggior animatore). Da poco era sorta l'Internazionale e già il gruppo si definiva repubblicano, per distinguersi dai gruppi operaisti che si dichiaravano indifferenti in politica; razionalista, per distinguersi dalla mistica repubblicana mazziniana e per collegarsi al filone scientifico dei Cattaneo; socialista, per fondersi – come poi fece – con l'Internazionale marxista. Tutta la storia di questo gruppo, che divenne movimento a livello nazionale e lavorò infine alla fondazione del Partito Socialista Italiano nel 1892, è storia di lotta contro l'operaismo e contro il rifiuto della concezione politica del partito, anticipatrice di una società nuova.

Perciò esisteva un contesto, un ambiente dove potevano radicarsi tesi marxiste fino a influenzare anche gli avversari del marxismo, che in molti marciarono verso la soluzione politica del partito. Nel decennio a partire dal 1871, ripetuti moti operai misero in evidenza la necessità che alla loro testa vi fossero capi energici e organizzazioni unitarie sotto l'influenza del socialismo. E vi fu la soluzione, naturale per tutte le rivoluzioni, di attingere a quello che c'era, trasformandolo. Perciò fu meno paradossale di quanto appaia il passaggio di molti dal libertarismo bakuniniano, dal mazzinianesimo, dal garibaldinismo e da quello che Marx chiama socialismo borghese, al socialismo scientifico.

Il fenomeno più sorprendente fu la nascita, al posto del libertarismo classico, di una corrente peculiare dell'anarchismo italiano, che possiamo definire partitista e comunista (cfr. Malatesta in Necessità dell'organizzazione). Sta di fatto che questi anarchici insoddisfatti dell'inconcludente libertarismo, i garibaldini abituati più al combattimento che alle chiacchiere, i mazziniani disgustati dall'ormai desueto insurrezionalismo risorgimentale, gli anonimi capi delle lotte operaie, confluirono tutti lentamente ma inesorabilmente verso il socialismo trascinati dalla critica del movimento reale contro le sopravvivenze del passato. La svolta rappresentata dalla Comune di Parigi, con i suoi grandiosi insegnamenti, derivati soprattutto dagli errori, in campo politico, sociale e militare, fece incontrare forze giovani ed esuberanti con il programma rivoluzionario marxista. L'esigenza del partito, e di una forma peculiare di partito, era materialisticamente inevitabile.

La gioventù rivoluzionaria fu determinante nel processo di formazione del partito, e lo sarà per molti decenni. I "tre ragazzi terribili", Cafiero, Costa e Malatesta, amici e seguaci di Bakunin, avevano alla proclamazione della Comune rispettivamente 25, 20 e 18 anni. Furono accusati negli anni successivi, come tutti gli agitatori, di essere responsabili di sollevazioni di cui la borghesia ebbe davvero paura. La loro azione fu naturalmente amplificata dai borghesi a scopo repressivo, ma soprattutto fu amplificata dal proletariato e dai contadini che avevano bisogno di esempi e vedevano nella nascente e difficile organizzazione di un partito socialista la soluzione ai loro problemi. Non furono i giovani rivoluzionari ovviamente a sollevare le masse, anzi, quasi tutti dovettero fuggire per non finire in galera (ma i tre non riuscirono a evitarlo), furono bensì le masse in movimento a forgiare loro e a spingerli alla loro testa.

Pochi anni dopo la caduta della Comune, nel 1875, al Congresso di Firenze della sezione italiana dell'Internazionale, dominata allora localmente dagli anarchici, come avveniva all'estero, risultò vincente una maggioranza che si proclamò "comunista anarchica", mescolando proposizioni non troppo lontane dal comunismo con i soliti proclami sulla santa proprietà dei frutti del lavoro. I pochi comunisti italiani (il ricordato Bignami, con i redattori della Plebe di Milano e pochi altri) non erano presenti perché bloccati dalla polizia. Pochi giorni dopo ebbe luogo a Berna il Congresso dell'Internazionale dove però vinse la tendenza sindacal-operaista anarchica. Fu in quell'occasione che Cafiero e Malatesta presero una posizione precisa contro l'operaismo. Fino a quel momento solo il proletariato aveva espresso nei fatti l'esigenza di superarlo ed essa era stata raccolta programmaticamente solo dai pochi marxisti italiani. L'Internazionale – disse Malatesta – non doveva essere "un'associazione esclusivamente operaia" ma doveva "raggruppare tutti i rivoluzionari senza distinzione di classe", perché il suo scopo non era "solo l'emancipazione della classe operaia ma la liberazione dell'intera umanità". La rottura fu completa: nei documenti ufficiali e nelle corrispondenze successive l'anarchismo internazionale mise l'accento sul "fatto insurrezionale" e sull' "azione dimostrativa", accelerando la catastrofe che fece crollare la prima Associazione Internazionale dei Lavoratori: ma essa aveva già nel nome i motivi della sua caduta.

Nel giro di pochi anni si allargò invece in Italia l'influenza dei marxisti che da Lodi, Milano e L'Aquila, città in cui nacquero i nuclei originari, si radicarono a Mantova, Imola, Piemonte, Sicilia e in molte altre città italiane, attraverso la rapida diffusione di gruppi operai tendenti a federarsi o a unirsi, come successe con la Federazione dell'Alta Italia, organizzata intorno a La Plebe (che uscì per alcuni periodi come quotidiano), federazione nettamente socialista e antianarchica, coerente come il ceppo da cui era nata. Nel 1880 i socialisti de La Plebe pubblicarono a Milano, insieme al gruppo che faceva capo ad Andrea Costa, sempre più vicino alle tesi marxiste, la Rivista Internazionale del Socialismo. L'organo teorico ebbe un peso notevole nella preparazione del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna fondato dallo stesso Costa l'anno successivo, il cui programma, sorprendentemente avanzato fino a contemplare il concetto di dittatura di classe, non fu criticato solo dagli anarchici ma persino da compagni di lotta come Bignami, che lo trovarono troppo autoritario (per un partito fondato da ex anarchici non c'è male). Il giornale del nuovo partito fu chiamato Avanti!, testata che poi sarà ripresa dal futuro Partito Socialista Italiano, e la sua tiratura fu di 7.000 copie.

Il rapido sviluppo dell'industria e del proletariato

Come diceva giustamente Metternich, l'Italia non era diventata che un'espressione geografica. Ma dal punto di vista della maturità rivoluzionaria ciò, lungi dall'essere uno svantaggio, rappresentava un trampolino di lancio per superare d'un balzo la cronica arretratezza economica che attanagliava la Penisola da quattro secoli, da quando cioè le nuove rotte atlantiche avevano improvvisamente spostato i traffici mondiali. La ricucitura di staterelli senza importanza geopolitica dava al governo centrale una forza che di per sé non avrebbe avuto, sotto l'egida di una monarchia come quella dei Savoia e di una borghesia capace ma senza la forza dell'industria. Inoltre l'economia e l'amministrazione delle piccole unità statali, in un ambiente che non conservava nemmeno più il ricordo del feudalesimo, si erano completamente emancipate dall'aristocrazia terriera. La loro debolezza intrinseca le aveva obbligate a mantenere una forma statale centralizzata, in cui la città, per antica prassi italica, era il centro di un mercato borghese controllato da governi statalistici e interventistici in economia. Paradossalmente, come già aveva fatto notare Pisacane, era proprio il Piemonte unificatore ad essere il più arretrato territorio d'Italia. Allora, come mai, in una situazione di debolezza economica e sociale estrema, di molecolare divisione politica, di contrasto da parte delle maggiori potenze d'Europa, la rivoluzione italiana ha avuto un tale successo con le armi e con la politica? Il fatto è che l'antica tradizione politica aveva, nonostante le divisioni, rafforzato la capacità di combattimento delle debolissime classi sociali, la stessa politica che in seguito le avrebbe divise con un taglio rivoluzionario, poi riunite nel segno del riformismo, fatte combattere nel segno del comunismo e infine – ed era l'ultima possibilità della controrivoluzione – saldate nel mostruoso modello corporativo fascista, ancor oggi imperante sotto altre forme.

La rivoluzione borghese in Italia fu un capolavoro politico più che un'epopea armata, anche se le buone prove militari non mancarono (come i disastri, del resto). Il proletariato non poteva non essere influenzato da un simile corso storico: se fu costretto ad importare modelli arcaici bakuniniani dall'estero, essi soccombettero alla lotta fra il mazzinianesimo, il garibaldinismo e il socialismo operaista autoctoni mentre il programma marxista prendeva piede. E questo avvenne in un contesto favorevole, data la formazione del nuovo Stato nazionale.

Se l'unificazione "piemontese" da una parte aveva gettato la maggior parte della popolazione in una miseria più nera di prima, sconvolgendo le economie locali, il centralismo statale di una nazione effettiva, unito alla sua tradizione storica non-feudale, era anche premessa per un recupero di sviluppo nei confronti del resto d'Europa. Più dei capitali, che erano ben scarsi, queste furono le premesse per la nascita di una struttura produttiva moderna, di un proletariato, che si svilupparono su una tabula rasa industriale, proprio come in Russia, con la non trascurabile differenza che là c'era ancora feudalesimo e qui non c'era praticamente mai stato.

Perciò non è strano che nel corso di trent'anni o poco più il movimento operaio abbia oscillato fra un'arretratezza che lo consegnava in mano ai bakuninisti, e un'avanzata in cui questi scomparivano di fronte all'affermarsi del socialismo di buona tradizione marxista (il solo Cafiero farà il percorso inverso, dalle simpatie marxiste all'anarchismo, proprio mentre divulgava il Capitale di Marx in un celebre compendio, fino a non sopportare la contraddizione e a cadere malato di mente); fra l'avanzata di un rovinoso riformismo e infine l'affermarsi, fin dall'inizio del '900, di una corrente come la Sinistra Comunista, nuovamente legata alle origini, prodotta da un fermento scientifico e industriale moderno, perfettamente in grado di produrre tesi e tattiche "invarianti" per una situazione mondiale completamente nuova, con una guerra mondiale e una rivoluzione in corso.

Significativo il fatto che Andrea Costa contribuirà a fondare, dopo il Partito Socialista Rivoluzionario, il Partito Socialista Italiano, che Errico Malatesta tenterà di conciliare l'anarchia con posizioni partitiste e antioperaiste mentre il giovane avvocato riformista Filippo Turati, futuro gran "navigatore politico", sarà il coronatore dell'operaismo apolitico morente partecipando alla fondazione del Partito Operaio Italiano. Un discorso a parte meriterebbe la parabola di buoni marxisti come Costantino Lazzari, Antonio Labriola e tanti altri socialisti rimasti sconosciuti che ci dimostrano come non siano gli uomini a "fare" la rivoluzione ma sia questa che adopera gli uomini come strumenti per i suoi scopi. Se c'era un Labriola ad aver assimilato il materialismo dialettico al più alto livello in Italia prima della Sinistra Comunista, se c'era un Cafiero che sentiva l'esigenza di divulgare il Capitale in esatto compendio, se c'era un Lazzari da ricordare (lo farà Bordiga) come intransigente rivoluzionario marxista, essi non potevano essere soli, dovevano far parte di una scuola di cui occorre stabilire l'insieme coerente e soprattutto il suo divenire, il precisarsi come tale, il suo ripulirsi dalle scorie fino a giungere al partito organico.

L'ambiente selettivo da cui scaturì la Sinistra Comunista

Dopo il 1880 due furono le frazioni marxiste del movimento che si caratterizzarono sempre più giungendo praticamente a soppiantare tutte le altre, eccetto quella anarchica (al cui interno continuavano a dibattere i seguaci di Bakunin e coloro che sostenevano, come Malatesta, la necessità dell'organizzazione per la lotta politica). Le due componenti agivano sulla scena ormai inserite in un processo irreversibile che le avrebbe portate alla fondazione del futuro PSI. Esse erano: il Partito Socialista Rivoluzionario, in cui venne eletto più volte Costa, ormai lontano dalle sue origini anarchiche; e il Partito Operaio Italiano, che si autodefiniva "partito delle mani callose", che raccoglieva buona parte delle energie combattive della classe e che rifiutava le elezioni per principio, al pari degli anarchici.

Nel 1873, a Ginevra, si erano riuniti due distinti congressi, quello dei marxisti e quello dei bakuniniani: al primo avevano aderito due sole sezioni italiane, Lodi e l'Aquila, che si erano separate dalla Federazione Italiana in mano agli anarchici. Se i due congressi sancivano la fine della Prima Internazionale, la Seconda addirittura iniziò con due assise parallele, a Parigi. Essa accettò nel suo seno, in un tentativo di compromesso unificatorio, gli operaisti e gli anarchici (Bruxelles 1891), se ne separò (1896) e, grazie alla poca chiarezza, si vide conquistare nuovamente da operaisti e sindacalisti "puri" (Parigi, 1900). Di lì in poi marciò definitivamente verso la forma federativa di partiti per nulla omogenei, dando luogo a dibattiti interminabili su questioni tutte interne al sistema capitalistico (Stoccarda 1907 e Copenaghen 1910), fino al disastro del 1914 che produsse la separazione delle sinistre presenti nel suo interno e la formazione di nuove correnti rivoluzionarie intransigenti.

Anche il Partito Socialista Italiano non fu esente dal fenomeno. Esso nacque nel 1892 al burrascoso Congresso di Genova che, come tutti i "congressi fondatori" di movimenti politici in epoche di fermento sociale (quindi altamente selettrici), rappresentò un tentativo di unificazione che si rivelò in effetti separazione. Le correnti socialiste, eredi dei primo gruppi formatisi al marxismo, si unificarono sull'ormai comune terreno politico e prevalsero su quelle anarchiche e operaiste pure. Lo stesso invito al congresso, aperto a tutti i membri delle associazioni operaie, era per la prima volta politico: furono invitate infatti "Le rappresentanze in numero illimitato di membri, che accettino in massima i principii cardinali del Partito" vale a dire l'organizzazione in partito unico del proletariato e l'organizzazione operaia al fine di conquistare i poteri pubblici come mezzo per l'emancipazione del proletariato. Uno dei mezzi sarebbe stata la partecipazione alle elezioni, cui operaisti e anarchici opponevano un rifiuto di principio.

Nel 1891 erano inoltre nate, sull'onda del processo di formazione e organizzazione del proletariato e per iniziativa degli originari collaboratori alla Plebe, le prime tre Camere del Lavoro a Milano, Torino e Piacenza. Un anno dopo la fondazione del PSI, nel 1893, si erano già aggiunte quelle di Pavia, Brescia, Parma, Cremona, Verona, Padova, Venezia, Bologna, Firenze e Roma. Siccome il programma del partito prevedeva un'azione sindacale specifica e una federazione fra le camere del lavoro, nasceva, insieme alla politica di partito, anche la politica sindacale, tendente non più alle federazioni di circoli e associazioni, ma al sindacato unico. Anche in questo caso le correnti anarchica e operaista pura agirono separatamente (la maggior parte degli operaisti, con Lazzari e Turati, entrarono nel partito).

La storia del movimento proletario è quindi storia di unificazioni, scissioni e ricomposizioni su nuove basi. Quando la temperatura sociale monta, una parte del movimento non sopporta più le incrostazioni mutuate dalla società borghese e dalle sue esperienze precedenti, e se ne libera drasticamente. L'immagine è nota: come in metallurgia si devono separare i minerali puri dalle scorie di fusione, nella società – e specificamente nella classe operaia – prima o poi si giunge alla fusione e alla separazione delle scorie.

Nel Partito Socialista appena formato le correnti non convivevano per nulla pacificamente. Se l'iconografia corrente ci presenta per lo più un "partito di anziani" dalle lunghe barbe, panciotti e cappelli, in realtà la sua forza effettiva, almeno dal punto di vista attivo nella maggior parte della sua storia, consisteva nella larga base della gioventù iscritta o simpatizzante. Riformisti e massimalisti avevano quindi a che fare quotidianamente con una vera e propria corrente di "giovani", difficile non solo da definire ma anche da tenere a bada.

Nel 1902 al Congresso di Imola, i giovani insorsero contro il tentativo dei riformisti di far passare tesi ibride rispetto al vecchio programma del partito. Queste tesi, riguardanti l'autonomia (chissà perché) del gruppo parlamentare rispetto al partito, erano integrate con una delle assicurazioni che diventeranno tipiche dell'opportunismo: il gruppo parlamentare, con la mediazione del partito, si sarebbe tenuto "continuamente in corrispondenza con la coscienza e la volontà della grande massa proletaria".

Si tratta di una frase senza alcun significato ma che la dice lunga su ciò che sta dietro di essa. Da ciò che nasconde si capisce l'importanza della lotta fra operaismo, sindacalismo e concezione organica del partito. I giovani credevano che il nuovo partito fosse riuscito a debellare per sempre il riformismo e adesso lo vedevano risorgere mistificato. Gli avvocati e gli intellettuali operaisti, i teorici del "partito delle mani callose" avevano conquistato il partito relegandolo a funzione di intermediario fra loro e la classe. Certo, dicevano di essere i veri interpreti della coscienza e della volontà delle masse. Turati, ex operaista, una volta abbracciata quell'idea di partito aveva rinfacciato ai suoi ex compagni rimasti operaisti di volere un partito di analfabeti. Questo i giovani, da cui sarebbe scaturita di lì a pochi anni la Sinistra Comunista, non l'avrebbero dimenticato.

L'azione misconosciuta della Federazione Giovanile Socialista

Quando, fra il 1907 e il 1920 dovettero lottare accanitamente contro le deviazioni opportunistiche, trassero nuova energia da quell'insegnamento. E quando qualche anno dopo sentirono le stesse parole a Mosca, in seno alla nuova Internazionale Comunista, mentre nuovi Turati si accingevano a inventare un nuovo "ismo" in nome di Lenin, non esitarono a continuare la battaglia con ancora più accanimento: "Chi ci disse che questo era leninismo non poté ingannarci, perché Lenin aveva imparato da Marx e insegnato a noi, giovani allora, che la coscienza e la volontà sono del partito e non delle masse, e nemmeno della classe proletaria, prima che il partito l'abbia resa capace non di sola forza fisica, ma di potenza rivoluzionaria" (Storia cit. vol. I, cap. 8). I fondatori di partiti, i facitori di rivoluzioni e di tattiche, gli adoratori della coscienza e della volontà delle masse furono sempre i primi a tradirle.

La sinistra nel PSI non era in grado di raccogliere l'eredità pur ben rintracciabile che come un filo rosso andava da La Plebe di Bignami, attraverso il Partito Socialista Rivoluzionario di Costa, fino alla separazione del '92 dagli anarchici e a quella troppo tarda dai riformisti. Il compito incombeva di nuovo sulla gioventù socialista, anche se il problema del riformismo, del partito e della coerenza marxista, come spesso succede ai giovani, fu da semplificato ed estremizzato nella lotta in corso. Molti di essi, disgustati dalla politica palamentare riformista e da quella unitaria a tutti i costi della sinistra del partito, fecero nuovamente l'equazione: riformismo e parlamentarismo = politica borghese. Non avevano ovviamente tutti i torti, ma ad essa contrapposero quell'altra equazione, speculare e ormai storica, che conosciamo bene: operaismo e sindacalismo = vera politica rivoluzionaria. Così, nel marzo del 1907, durante il terzo congresso dei molti circoli giovanili che fiancheggiavano il PSI e che si erano federati in un organismo nazionale, questi giovani si separarono su posizioni anarco-sindacaliste.

Il risultato fu che i giovani rimasti si riunirono in congresso a settembre, presero atto della separazione, si proclamarono Federazione Giovanile Socialista e aderirono formalmente al Partito Socialista. Si trattava ancora di un movimento programmaticamente indefinibile, ancora riproducente le contraddizioni della organizzazione "adulta" nonostante un'apparente unanimità, ma combattivo e deciso di non farsi assimilare dal riformismo. Nell'anno successivo, nuovamente riunita a congresso, la nuova FGS mostrò di avere sviluppato al suo interno una corrente di sinistra. Questa presentò un ordine del giorno, poi accettato a maggioranza, che stabiliva come la Federazione fosse un organo politico di battaglia, principio che non era stato ancora ben digerito anche da vecchi socialisti del partito "adulto", pur temprati alle dure selezioni precedenti. Inoltre al congresso decise autonomamente di chiudere l'accesso ai cristiani democratici e, quel che è più importante, "propose" al partito di fare altrettanto. Iniziò così una pratica che divenne poi consuetudine e che dette non poco fastidio alla direzione del PSI.

Nel primo volume della Storia della Sinistra sono riportati alcuni passi dell'importante congresso del 1910, dove vennero prodotti documenti, votati dall'assemblea e quindi conclusivi, che potrebbero stare a pieno titolo nell'archivio storico della Sinistra Comunista, in quegli anni non ancora formata. Nel 1912 il partito escluse i riformisti di destra, e la federazione giovanile inviò una delegazione presso l'organizzazione "adulta" (nella persona di Serrati) per bloccare la tendenza generale a liquidare l'organismo giovanile, bestia nera non solo dei destri.

La battaglia anticulturalista

Nello stesso anno scoppiò la battaglia "anticulturista" contro le tesi sostenute da Tasca, che si dimostrerà una lotta anticipatrice contro una concezione intellettuale e astratta del partito, mascherata da un finto rispetto per le esigenze delle masse e delineata con chiarezza negli anni successivi con il movimento dell'Ordine Nuovo. Parallelamente si formò a Napoli un gruppo di giovani intransigenti per contrastare la politica bloccarda del partito, non solo in sede locale. Un folto numero di militanti, sull'onda di questa lotta, uscì dalla sezione napoletana pur rimanendo legato al partito e diede vita al Circolo Socialista Rivoluzionario Carlo Marx. Questo gruppo raccolse l'eredità delle battaglie precedenti, si collegò alle sezioni di altre città, specie attraverso i congressi e le riunioni di partito, e sarà attivo nel corso degli anni successivi.

Lo scontro della sinistra socialista con la corrente culturalista cui Tasca apparteneva avvenne al congresso giovanile di Bologna del 1912. Tale corrente avrebbe preteso di ridurre il movimento dei giovani rivoluzionari ad una scuola di marxismo perché, sosteneva, la crisi di sentimento del movimento operaio era causata da una endemica mancanza di cultura del proletariato. La Sinistra opponeva che la cultura e l'educazione sono nella storia fattori di conservazione, tradizionalisti e antirivoluzionari. Sottolineava che erano piuttosto la difesa del particolarismo, del corporativismo e del localismo ad impedire al proletariato di avere una visione complessiva delle finalità rivoluzionarie. I proletari non dovevano fare corsi di filosofia socialista o altro, ma combattere per la propria classe avendo fede nella vittoria. Si disse che i giovani della Sinistra contrapponevano, loro sì, la fede e il sentimento alla cultura proletaria e questi rispondevano che in certo senso era così, a parte le sottigliezze terminologiche, e che contare su queste spinte non era affatto uno scivolamento fuori dal terreno materialistico.

Quel che bisognava deridere era la pretesa di ottenere, affinché la rivoluzione fosse possibile, la "coscienza" di ogni singolo proletario, poi la somma delle coscienze, ecc. il tutto magari nella piena "autonomia" delle sezioni, dei parlamentari, dei singoli notabili locali del partito. In una lettera a Salvemini Bordiga ricordava che le "le autonomie sono volute, caldeggiate, provocate non dai proletari, ma dagli intellettuali, che hanno concetti troppo ristretti dell'azione socialista derivati dalla specializzazione a cui essi si danno nello studiare problemi immediati e pratici, spinti da interessi locali ed egoistici che impediscono loro di sentire le necessità collettive, universali della classe lavoratrice".

Secondo la Sinistra il problema andava quindi affrontato attraverso un indirizzo politico che servisse come "movimento di argine vivacemente antiborghese, un vivaio di entusiasmi e di passione…". La battaglia fu perenne e fu ingaggiata a più riprese anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, addirittura contro vecchi compagni d'armi che, nello stesso partito, subivano ancora la seduzione della cultura, dell'arte contrapposta a scienza, della funzione dei capi geniali, ecc. In un articolo del 1949 intitolato Intellettuali e Marxismo Bordiga precisava che il movimento proletario socialista non era in nessun caso un movimento di cultura e di educazione e aggiungeva: "Le possibilità di sviluppo del pensiero sono derivazione e conseguenza del migliore sviluppo di vita fisica e quindi verranno dopo la eliminazione dello sfruttamento economico. Gli appartenenti alle classi a basso tenore di vita per lottare non hanno bisogno di sapere, basta che si rivoltino all'affamamento. Capiranno dopo". E più avanti: "Il movimento comunista rivoluzionario annovera tra i suoi nemici peggiori i 'pensatori' e gli 'intellettuali' indiscriminati, gli esponenti della 'scienza' e della 'cultura', della 'letteratura' e dell' 'arte', accampate come movimenti e processi generali al di fuori e al di sopra delle determinazioni sociali."

La cultura di una data epoca storica è inevitabilmente un prodotto dell'ideologia della classe dominante e, specialmente oggi, nel programma di un partito rivoluzionario che ha il dichiarato fine di distruggere la società capitalistica non trova posto un "progetto culturale", come si suol dire. C'è chi vorrebbe mobilitare la "forza del pensiero" intorno alle "idee" rivoluzionarie e sforna una pensata al giorno senza collegarsi a nient'altro che alle sue proprie elucubrazioni. La più bella definizione dell'intellettuale la dobbiamo proprio alla Sinistra: intellettuale è colui che parla senza aver mai imparato ad ascoltare e scrive senza aver mai imparato a leggere, come dire che produce secrezioni del proprio cervello in assoluta autonomia, senza storia in avanti né indietro, come produce scarti metabolici dal proprio intestino.

Dunque, la cultura come tale non serve alla rivoluzione; ma è anche vero che la rivoluzione produce una propria conoscenza. Conoscenza rivoluzionaria – se è lecito chiamarla così – come sistema unitario di teoria e prassi, risolutamente antiformista, che ripudia l'ideologia delle idee in partita doppia e dei "valori" traducibili esclusivamente in unità di conto. Una conoscenza rivoluzionaria che non va certo ricercata in un doppione "socialista" del sistema scolastico borghese che riflette soltanto la divisione sociale del lavoro e la specializzazione professionale.

Essa va animata facendo del partito un sicuro rifugio dei proletari che rifiutano il modo di produzione capitalistico, va sentita con l'istinto e la passione prima che con la ragione, va "Eccitata portando i giovani proletari nel vivo della lotta e del contrasto sociale, che sviluppa in essi il desiderio di rendersi più adatti alla battaglia".

Tutto si collega

Il racconto di queste vicende cruciali è svolto nei particolari sul volume della Storia ricordata e non è il caso di ripeterlo qui. Ma non si può fare a meno di sottolineare – con più vigore di quanto là non sia fatto dai protagonisti diretti – che le vicende della Federazione Giovanile Socialista italiana la differenziano da tutte le analoghe federazioni giovanili degli altri paesi europei. Mentre nella Penisola la vita della federazione era pervasa da continui interventi attivi nelle battaglie sociali, politiche e sindacali, negli altri paesi europei l'azione dei giovani socialisti si limitava sostanzialmente a banali attività ricreative, assistenziali e, appunto, culturali. Le notevoli energie della gioventù socialista dell'epoca venivano indirizzate e consumate dalle varie socialdemocrazie europee in sterili battaglie, tipo leghe contro l'alcolismo, o in generiche proteste contro la "povertà del popolo". Al contrario, la federazione giovanile italiana partecipava agli avvenimenti politici assumendo un ruolo autonomo trainante fra i giovani e, come abbiamo visto, spesso più avanzato di quello svolto dal partito "adulto". Questo alto profilo politico si manifesterà nettamente nei momenti più significativi, come le prime elezioni a suffragio universale, l'opposizione alla guerra di Libia, la ricordata lotta contro il bloccardismo e il culturismo, la lotta per la neutralità e infine la mobilitazione contro la Prima Guerra Mondiale.

La grande capacità di partecipazione all'interno del movimento sociale, anzi di esserne la parte trainante (Manifesto) ha una radice evidente che spazza via decenni di leggende sulla presunta passività della Sinistra: una volta che siano veramente acquisite le basi programmatiche, teoria e prassi sono automaticamente collegate come una cosa sola; al cambiare delle situazioni entra in gioco il principio d'invarianza, che non significa "comportarsi sempre allo stesso modo" ma muoversi sempre all'interno di un quadro teorico in cui tutto si concatena, cause ed effetti, propositi e azione, tattica razionale e lotta ai paradossi logici (per esempio contro chi, di fronte a una borghesia che cerca di sopraffare il movimento proletario, teorizza la necessità del fronte unico con essa per evitarlo).

Abbiamo visto che la formazione del movimento operaio italiano è stata combattuta sul filo dell'operaismo, del riformismo e della coerenza programmatica marxista. Al rifiuto da parte della FGS – netto e senza corrispondenti altrove – dei metodi anarchici e riformisti a favore del socialismo scientifico, si aggiunse in via del tutto naturale una coerentissima lotta contro il militarismo, inteso non come una generica protesta pacifista ma come parte integrante della lotta di classe. La lotta antimilitarista rappresentò il filo conduttore dell'attività dei giovani socialisti, una delle linee dorsali lungo cui si snodò tutta la loro azione all'inizio del '900. Venne rifiutato e criticato l'antimilitarismo di "protesta", pacifista e imbelle a favore di una lotta per obiettivi politici. Contro la guerra, ma anche contro l'impiego delle forze armate nei conflitti sociali e negli scioperi, e più in generale contro l'uso dell'esercito come strumento di repressione borghese.

La lotta sul tema dell'antimilitarismo, inteso come sinonimo di anticapitalismo, e in particolare la lotta sulle vicende delle spese militari che condusse i giovani socialisti a una critica globale del metodo parlamentare, staccò sempre più la federazione giovanile dall'influenza dei settori riformisti del partito e agì come propulsivo verso una sempre maggiore politicizzazione della FGS. La prova cruciale fu l'opposizione all'impresa libica del settembre 1911: i giovani socialisti svolsero un ruolo propagandistico e organizzativo di primo piano, accentuando i caratteri politici dell'antimilitarismo. L'Avanguardia, il loro giornale, tenne una posizione molto chiara nel negare ogni fiducia all'azione del gruppo parlamentare: lo scontro vero non era quello che si svolgeva in parlamento ma quello sulle piazze, dove manifestava il "paese reale" contro quello delle chiacchiere. Occorreva combattere la paura di rimanere isolati, anzi, i giovani esaltarono il processo reale che dimostrava la necessità dell'isolamento rispetto alle classi reazionarie.

Anticipando di dieci anni la lotta dei comunisti contro le concezioni frontiste nella futura Internazionale, la gioventù socialista si batté quindi per separare il partito dal quadro politico nazionale, con l'obiettivo di unire e rafforzare l'ambiente proletario giovanile che comprendeva ormai centinaia di migliaia di persone (all'epoca, la sola Avanguardia stampava 10.000 copie ed era il settimanale più diffuso in Italia). Anche l'anticolonialismo, dunque, si rivelò un elemento importante nella concatenazione invariante tra teoria e prassi.

L'espansione coloniale era stata caldeggiata fin dal primo risorgimento in circoli ristretti della borghesia italiana a riprova della tesi marxista che, in campo borghese, ogni colonizzato è potenziale colonizzatore. Il movimento borghese era quindi già colonialista quando era ancora rivoluzionario. Esso si proponeva, ovviamente, di elevare i popoli primitivi alla civiltà, cosa che significava esportare il capitalismo per lo sfruttamento, nel caso specifico, del continente africano. La parola d'ordine "via dall'Africa" sarà, nei settori giovanili più avanzati, una indicazione intransigente, che finirà per scontrarsi con tutta la retorica tardo-risorgimentale e porsi come autentica demarcazione fra quella tradizione e il socialismo. Una vera rottura di classe, forse ancora istintiva, ma netta e in grado di coinvolgere quei settori della gioventù rivoluzionaria che si erano formati seguendo il filo rosso della tradizione marxista del peculiare socialismo italiano. Una rottura anche con alcuni esponenti del partito "adulto", come Arturo Labriola, che appoggiarono l'impresa libica.

La guerra

Allo scoppio della prima guerra mondiale l'Internazionale Socialista fu drammaticamente messa alla prova. A dispetto di tutti i deliberati precedenti, quasi tutti i partiti socialisti non espressero alcun tipo di opposizione antimilitarista, neanche di mera protesta. Fecero eccezione il partito russo, quello serbo e quello italiano. Quest'ultimo si pronunciò in un primo tempo per la "neutralità assoluta".

La radicalizzazione politica nella società europea, conseguente alla proclamazione della guerra, determinò un netto peggioramento dei rapporti tra la federazione giovanile e la direzione riformista del PSI, già compromessi fin dall'epoca della mancata opposizione alle spese militari (ricordiamo che poco prima del Congresso di Reggio Emilia, nel maggio del 1912, la direzione aveva addirittura tentato di sciogliere d'ufficio la Federazione giovanile). Ma nel contesto della crisi internazionale del socialismo, il PSI riuscì ad evitare il disastro che aveva colpito gli altri partiti, anche se al suo interno si tentennava sulla neutralità "assoluta", tanto che la sinistra dovette chiedere all'Avanti! di precisare che per "neutralità assoluta devesi intendere opposizione ideale e pratica del proletariato italiano ad ogni atteggiamento guerresco della borghesia", e invitava tutti i militanti "a plasmare l'azione immediata del nostro partito su questo preciso concetto" (Odg. della sezione di Cesena).

Due sono di solito le spiegazioni degli storici sulla peculiare condotta neutralista del partito italiano: primo, l'impresa libica aveva già fornito un'esperienza di lotta contro la guerra e aveva portato all'espulsione dell'estrema destra riformista; secondo, dato che l'entrata in guerra dell'Italia fu successiva rispetto a quella degli altri paesi, il partito fu messo nella condizione di non dover prendere subito posizione. Tant'è vero che all'entrata in guerra cambiò poi la formula neutralista "assoluta" in quella ambigua di "non aderire né sabotare". Tuttavia un spiegazione completa della iniziale compattezza del PSI sulla neutralità non può prescindere dalla tradizione di lotta antimilitarista intesa non come "rivendicazione di pace" ma come tratto indistinguibile da tutto il resto dell'attività di partito in ogni luogo e frangente. La gioventù socialista aveva assimilato così profondamente questi principii che essi si erano diffusi in tutta la rete militante del partito, fino a diventare patrimonio essenziale e irrinunciabile di coscienza e di memoria classiste. Fin dalla guerra di Libia l'antimilitarismo era parte integrante dell'intransigenza e dell'anticollaborazionismo di classe applicati in ogni altro campo. Questo dato di fatto si rafforzava – come dimostrano i notevoli articoli che chiamavano alla lotta – non con semplici proclami, ma con una spiegazione razionale delle profonde radici economiche e politiche di una guerra che ai più era scoppiata per motivi poco comprensibili. Lo "splendido isolamento" rispetto a tutto il resto della società si riaffacciava adesso con l'imposizione della parola d'ordine della neutralità assoluta, intesa come assoluta negazione di ogni forma di politica nazionale "socialista".

La Jugend-Internationale

Un altro fatto importante dell'esperienza socialista italiana durante la guerra fu il rilievo che i giovani del PSI ebbero nella politica internazionalista. La guerra mondiale aveva causato un brusco passaggio dalle enunciazioni ideologiche alla prassi, facendo drammaticamente emergere i limiti della Seconda Internazionale e ponendo i partiti nazionali di fronte ad alternative stringenti e indilazionabili. Molti elementi delle federazioni giovanili socialiste dei vari partiti d'Europa si mossero sin dal 1915 per la rifondazione dell'Internazionale. In aprile (prima dunque della Conferenza di Zimmerwald, che si tenne in settembre) si riunirono in congresso a Berna 14 delegati in rappresentanza di 56.000 affiliati. Fu uno dei primi e più importanti momenti nel processo di ricostruzione dell'Internazionale proletaria e servì d'esempio. I giovani socialisti italiani ripresero la pratica, che era ormai sospesa da alcuni anni nel PSI, di ingerenza nelle contese di partito, e decisero di appoggiare tutti i gruppi rivoluzionari di opposizione a quelli che vennero chiamati "socialimperialisti". Attraverso l'emarginazione del vecchio quadro dirigente, si avviò così un vero e proprio processo di rifondazione dell'Internazionale giovanile. Venne fondata una rivista dal nome Jugend-internationale che fu non solo la prima della gioventù proletaria internazionale, ma la prima del socialismo rivoluzionario durante la guerra (del primo numero furono diffuse 70.000 copie). Il ruolo dei giovani socialisti italiani nel nuovo coordinamento era assai ampio e per molti versi determinante. All'interno del movimento giovanile la situazione sociale in Italia era infatti riconosciuta come quella più avanzata, e l'azione della FGSI, da tempo in polemica aperta con gli orientamenti riformisti del Bureau Internazionale della gioventù, come l'esempio da seguire. Per gli italiani non era difficile essere coerenti: il lavoro internazionale non era che un'estensione di ciò che avevano sempre fatto in patria, perciò sapevano benissimo che non si trattava di riallacciare rapporti in un'organizzazione esistente, ma di allargare il lavoro preparatorio per la costituzione di un nuovo organismo internazionale su basi rigidamente classiste.

Nel 1915 un programma del genere testimoniava indubbiamente una notevole chiarezza di vedute e una coraggiosa radicalità nell'azione che potevano svilupparsi esclusivamente sulla base delle determinazioni passate e dell'aderenza al programma marxista, dato che non c'erano punti di riferimento né all'interno del partito italiano, né nel contesto internazionale. L'eco delle posizioni bolsceviche non era ancora giunto e i giovani che avrebbero formato l'ossatura della futura Sinistra Comunista non potevano quindi saldarsi al bolscevismo che, come avrebbero poi affermato, era "pianta di ogni clima". Di conseguenza le sbandate furono inevitabili.

Lenin aveva criticato, fra le tesi esposte sulla Jugend-Internationale, quella dello svizzero Grimm, pur da lui considerato fra i socialisti più radicali nei confronti della guerra. Al posto della parola d'ordine "armamento del popolo", contenuta nei programmi minimi dei vecchi partiti socialisti, e al posto di "rifiuto del servizio militare", tipica degli operaisti e degli anarchici, Grimm aveva proposto "disarmo".

Quella di Lenin era la stessa critica che da anni i giovani socialisti facevano ai riformisti, operaisti e anarchici: "Anche nella gioventù socialista italiana in quegli anni fu discusso a fondo e non solo teoricamente ma anche in famosi processi il problema antimilitarista. Si condannò come prettamente borghese la posizione individualista idealista: Io sono contro lo spargimento di sangue e non prendo il fucile. Quando la questione verteva sull'entrata dell'Italia in guerra, affermammo che nel dirci neutralisti si presentava male la nostra posizione rivoluzionaria: noi non ci ponevamo come traguardo la neutralità dello Stato borghese, e nemmeno il suo compito di mediatore, e di propugnatore della assurda idea: disarmo universale, tanto borghese quanto quella del disarmo individuale. In pace o in guerra dicemmo (a nostra vergogna, Lenin non lo conoscevamo nemmeno): Siamo nemici dello Stato borghese: dopo la mobilitazione, quali che le forze nostre possano essere, non gli offriremo neutralità, non disarmeremo la lotta di classe" (Struttura economica e sociale della Russia d'oggi).

Verso il partito organico

Alla fine del 1915 il nuovo Bureau e le federazioni ad esso affiliate si trovarono ovviamente in rotta di collisione con i loro rispettivi partiti "adulti" e in sintonia con l'ala più radicale affermatasi a Zimmerwald e a Kienthal. Comunque, alla conferenza, una delle questioni più spinose rimase la solita subordinazione delle organizzazioni giovanili ai rispettivi partiti, ancora sostenuta dal delegato francese, mentre quello italiano, sulla base della propria esperienza, ribadiva la necessità di una disciplina al nuovo Bureau internazionale dei giovani.

Dopo la scissione-fondazione del 1907, la maggior parte dei giovani socialisti si era separata dagli orientamenti a-marxisti, prendendo le distanze dal volontarismo idealista, portando il loro patrimonio a diretto contatto con i giovani operai, influenzandone l'azione. Allo stesso modo, dopo la guerra, la federazione giovanile si trovò nelle migliori condizioni per incidere sulla battaglia di tendenza interna del PSI. Il contributo che i giovani diedero alla costituzione della Frazione Comunista fu certamente decisivo, ma l'interpretazione "generazionale" sulla scissione di Livorno, avanzata da alcuni ricercatori, è solo una piccola parte di verità. È vero che rispetto agli altri partiti dell'Europa occidentale, il Partito Comunista d'Italia fu soprattutto un partito di giovani (a Livorno, su 43.000 iscritti alla FGS, 35.000 passarono direttamente alla FGC); è vero che nella travagliata formazione del suo gruppo dirigente operarono quasi esclusivamente militanti formatesi dopo il 1912; è vero infine che la federazione giovanile diede un apporto organizzativo preponderante nella preparazione della scissione.

Ma tutto ciò non fu che il coronamento di un lungo processo che partiva dalle caratteristiche millenarie della società borghese italiana da cui, rappresentate non solo dai personaggi che abbiamo citato, scaturirono forze rivoluzionarie in grado di saldare le lucide anticipazioni con l'azione militare, i giornali marxisti con i primi partiti e i primi sindacati italiani, persino l'anarchia con la necessità del comunismo e dell'organizzazione per giungervi. Forze che furono, con la loro passione e la loro lucidità, al servizio della scienza e dell'organizzazione rivoluzionaria. La saldatura con il bolscevismo originario produceva infine il grande risultato storico di completare la distillazione del partito più coerente col marxismo che sia mai esistito. Purtroppo non fu possibile far sì che questa saldatura con il gruppo bolscevico giungesse ad una fase operativa vera e propria, ma questa è una storia ancora tutta da scrivere.

La spiegazione generazionale non è falsa di per sé, ma la può avanzare solo un immediatista che non veda come una storia di secoli possa, alla fine di un ciclo, adoperare lo strumento migliore che trova, una gioventù temprata da mille battaglie, messa nelle condizioni di rifiutare gli errori dei padri e dei nonni da una situazione rivoluzionaria montante. Questi sono i motivi per i quali la Federazione Giovanile Socialista portò al nuovo partito comunista uno stragrande numero di iscritti, dimostrando di saper leggere nel filo rosso del passato la sua propria collocazione nel nuovo contesto rivoluzionario del dopoguerra, in presenza dei risultati dell'Ottobre e della nascente riorganizzazione della borghesia con le sue guardie bianche in veste fascista. L'evoluzione stessa del movimento giovanile, con le sue lotte e tradizioni, determinò in Italia la formazione di una struttura politica particolarmente combattiva in grado di amalgamare le aspirazioni, il ribellismo, le insoddisfazioni dei giovani proletari in una prospettiva rivoluzionaria. La scissione fu caratterizzata da una strettissima continuità con le dure battaglie e le prese di posizione precedenti.

In questo processo, che, è bene ribadirlo, non ha eguali nella situazione di nessun altro paese europeo, risiedono le ragioni che spiegano la peculiarità internazionale dell'ambiente generatore di una sinistra comunista oggi misconosciuta, ma in grado, fra il 1920 e il 1926 di tener testa a Lenin, a Trotsky, a Bucharin, a Stalin nei congressi mondiali, dimostrando che la degenerazione dell'Internazionale veniva da lontano, precisamente dalla concezione operaista del partito contro la quale in Italia si era lottato vittoriosamente dando vita nel '21 al PCd'I, l'unico partito al mondo che mai abbia iniziato a funzionare sulla base del centralismo organico. Disgraziatamente per un periodo troppo breve, ma comunque dimostrando che era stato possibile realizzare l'organo politico della classe in armonia sia con le condizioni che lo determinarono, sia con i suoi compiti futuri. I compagni della Sinistra (fra i quali è inevitabilmente più conosciuto Bordiga per essere stato proiettato sulla scena, dalla storia materiale della corrente cui apparteneva, come interlocutore degli esponenti delle altre correnti dell'Internazionale) riuscirono dove altri partiti e altri marxisti europei fallirono. Ciò non certo a causa di loro particolari doti individuali, ma perché l'ambiente in cui si formarono, agirono e lottarono li spinsero al culmine di un processo fornendo loro una sequenza di fatti materiali utilizzabili allo scopo.

La Sinistra fu vittoriosa e riuscì a dar vita ad un partito autenticamente comunista perché l'ambiente organico formatosi con la gioventù socialista aveva prodotto gli anticorpi nel percorrere fino in fondo il calvario delle fusioni-scissioni-ricomposizioni. La selezione in Italia fu più feroce che altrove, e questo "altrove" schiacciò i risultati raggiunti fino a cancellarne addirittura la memoria. Il primo e unico tentativo di partito organico non durò neppure tre anni. Troppo poco per lasciar tracce visibili dopo una tremenda controrivoluzione, ma abbastanza per lasciarci un'eredità, meglio: un lavoro da continuare.

Letture consigliate

  • PCInt., Tracciato d'impostazione (1946) - I fondamenti del comunismo Rivoluzionario (1957), Quaderni Internazionalisti.
  • PCInt., Storia della Sinistra Comunista, vol. I, Ediz. Programma comunista, 1964.
  • PCInt., L'invarianza storica del marxismo, 1952, ora in Per l'organica sistemazione dei principii comunisti, Quaderni Internazionalisti.
  • Errico Malatesta, "Necessità dell'organizzazione", in L'agitazione, 11 giugno 1897.
  • Giulio Trevisani, Storia del movimento operaio italiano, Edizioni Avanti!, 1960.
  • Richard Hostetter, Le origini del socialismo italiano, Feltrinelli, 1963.

Rivista n. 12