Ma allora il proletariato esiste!

Gli avversari del proletariato da anni credono di aver trovato un'arma ideologica che ai loro occhi appare come la "soluzione finale" della questione di classe: non solo affermano che il comunismo "è morto", ma negano addirittura che lo stesso proletariato esista ancora, poiché sarebbe ormai inglobato in una poltiglia sociale indefinita, presa in considerazione solo per essere blandita con slogan elettorali. Agli estremi della società non vi sarebbero dunque più classi ma solo ricchi e poveri, tutti politicamente accomunati nella ricerca di un capitalismo migliore.

All'annuncio della loro morte i proletari non si sono impressionati più di tanto. Regolarmente dimostrano non solo di esserci, di essere sempre combattivi, di essere gli unici a sopportare il peso di tutta la società, di cui non sarebbe permessa neppure l'esistenza se essi non producessero plusvalore da ripartire fra le classi. Ma anche di non credere affatto in un miglioramento del capitalismo; poiché hanno constatato, non per via ideologica bensì nei fatti, che ogni conquista all'interno di questa società è effimera, e che il confine fra il consumismo e la miseria è sempre più labile. Dagli Stati Uniti all'Asia, passando attraverso la vecchia Europa, i proletari non hanno mai esitato, quando messi alle strette dalla classe avversaria e dai suoi alleati, a piantarla con le chiacchiere e a mettere in campo la forza.

I lavoratori dei trasporti hanno condotto una magnifica lotta negando su tutta la linea le logiche del sindacalismo integrato e di quello sinistrorso. Contrariamente a quanto s'è letto su giornali e volantini, la lotta non è stata né "spontanea" né "selvaggia"; non è stata organizzata dai confederali per scopi politici; non è stata organizzata dagli "alternativi"; non ha dimostrato nessuna tesi ideologica da "autonomia operaia". I lavoratori non si sono abbandonati alle diatribe teoretiche di coloro che vorrebbero insegnare agli operai il "che fare" ma hanno "fatto"; non hanno pencolato fra il "lavorare dentro i sindacati" o "costituire nuovi organismi dal basso"; non hanno dato vita a ibridi fronti unici; non si sono schierati con nessuno, ricambiando fieramente l'odio di classe suscitato dalla loro battaglia; non si sono fatti usare da nessuno e hanno invece usato quel che c'era, soprattutto le contraddizioni dei confederali e degli assurdi sindacatini fotocopia.

Questo sciopero, reiterato e senza compromessi, invece, è stato "semplicemente" uno scontro per interessi immediati, molto ben organizzato dagli stessi lavoratori, tra l'altro con mezzi forniti dal capitalismo consumistico, come i telefonini e Internet. Esasperati dalle pratiche dilatorie e suicide dei loro pretesi rappresentanti, essi hanno formato nuclei organizzati e coordinati all'interno di ciò che esiste, senza dar vita a novità organizzative. Con una naturalezza inoppugnabile, i lavoratori dei trasporti hanno fatto piazza pulita di mezzo secolo di chiacchiere sulla "questione sindacale", hanno rifiutato la precettazione e rimandato al mittente le minacce.

Ci fanno ridere le ricerche dietrologiche della borghesia, sempre alla ricerca del "colpevole", dell'eminenza grigia, dell'organizzazione eversiva da demonizzare. Come se i proletari fossero deficienti, come se non potessero benissimo riuscire da sé a bloccare autorimesse, fabbriche, uffici. Come se fossero altri, e non essi stessi, a conoscere gli impianti, le regole, i turni, gli strumenti e soprattutto i loro polli, cioè i loro pretesi dirigenti. Questo è stato uno sciopero di categoria, ma si è elevato a lotta di classe nel momento stesso in cui ha scatenato l'attacco feroce della borghesia e la solidarietà entusiasta degli altri lavoratori. Con le mezze classi rovinate in mezzo, livide di rabbia e quindi in prima fila nell'invettiva isterica, buona dimostrazione che – esse sì – sono ormai cadaveri, obbligate a schierarsi ciecamente e pateticamente con la borghesia che le ha uccise.

Quando si dice che gli autoferrotranvieri calpestano i diritti della popolazione, si ammette apertamente che essi sono considerati "altro". E infatti l'intruglio "popolare" si divide precisamente in classi ed è bene che ogni tanto questa realtà diventi esplicita. I cittadini hanno il "diritto" di essere trasportati, diamine, pagano tasse e biglietto; ma anche i lavoratori hanno il "diritto" di difendere le loro condizioni di vita e di lavoro, divenute insopportabili. È facile ammettere diritti a senso unico, ma quando si ragiona in base ad argomenti del genere si finisce per mettere in contrapposizione interessi inconciliabili, come, precisamente, quelli delle classi. Da che mondo è mondo, quando si contrappone diritto a diritto, chi decide è sempre la forza. Nessuno degli attuali, infuriatissimi rappresentanti dei mangiatori di plusvalore si preoccupava quando i trasportatori non vedevano onorato un loro diritto e non ricevevano quanto dovuto. Nessuno si accorge mai che l'intera società poggia sul lavoro dei proletari. Tranne quando essi si fermano.

Oggi non siamo di fronte a un semplice problema salariale e normativo di un gruppo di mestiere, ma a un problema di condizioni di lavoro in generale, di impoverimento crescente del proletariato. Per gli autoferrotranvieri adesso si tratta di affrontare anche la minaccia di una rappresaglia di classe. Queste sono anticipazioni di ciò che succederà sempre più spesso, perché l'intero Occidente capitalistico versa in una crisi sistemica e non c'è più tanto plusvalore da "mangiare" come un tempo e non se ne può estrarre ulteriormente da una classe sempre più tecnologicamente sfruttata e pauperizzata. Perciò la battaglia per le ragioni dei lavoratori del trasporto travalica le questioni specifiche e abbraccia la società intera, mettendo in campo la condizione di tutti i proletari. È in ballo il rifiuto di legare il salario a una produttività bestiale, il rifiuto di logiche classiste che non tengono assolutamente conto dei ritmi naturali di vita, il rifiuto di trattative spezzettate localmente per dividere gli scioperanti. E non da ultimo il rifiuto di logiche sindacali, oggi comuni ad ogni sindacato, legate alla categoria, all'azienda, al reparto. Il mantenimento di queste logiche è suicida per le stesse organizzazioni esistenti (non piangeremmo certo se il suicidio riuscisse), ma soprattutto per i lavoratori posti di fronte alla generalizzazione massima del precariato e dei rapporti di lavoro "atipici".

Non è dunque un luogo comune affermare che la battaglia degli autoferrotranvieri è la stessa di tutti i proletari, è una constatazione sulla base di condizioni materiali di vita. Pressati da una situazione insostenibile, essi hanno dovuto dar luogo a episodi importanti di auto-organizzazione che non è affatto spontaneismo ma forza cosciente. Hanno obbligato i sindacati ufficiali all'affannosa ricerca di espedienti per rimanere collegati alla loro stessa base organizzata per non apparire meri uffici dei ministeri del lavoro e degli interni. Hanno obbligato i sindacatini fotocopia a smetterla di appiccicare indebite etichette. Insomma, hanno fatto ballare tutti quanti alla loro musica, dimostrando che quando la classe si muove la vittoria non è una questione di forma bensì di forza, e soprattutto che, quando si è ben organizzati, essa è a portata di mano. Nessuno oggi può parlare a nome degli autoferrotranvieri tranne essi stessi. È questo l'insegnamento più importante della loro lotta. E non significa affatto autonomia anarchicheggiante bensì adesione naturale alla dinamica di classe, quindi a un programma storico.

Rivista n. 13