La battaglia di Falluja

È impossibile ricostruire fedelmente gli avvenimenti singoli in una guerra che sul campo è condotta come fosse un wargame pilotato via computer, e sul piano mediatico sceneggiata da esperti venuti da Hollywood. È però possibile distillare un andamento d'insieme dall'enorme mole di informazione che arriva dall'Iraq.

Falluja, secondo gli americani, era diventato un centro autogovernato dalla guerriglia, la quale vi aveva depositi di armi ed esplosivi, reparti armati e magazzini logistici. Non era ovviamente possibile, per l'occupante, tollerare uno stato di cose del genere e, altrettanto ovviamente, i guerriglieri lo sapevano. Ma avevano lo stesso trasformato la città in una loro roccaforte provvisoria, da lasciare non appena fosse incominciato l'attacco. Questo fu preannunciato con largo anticipo e la popolazione (300.000 persone) fu sgombrata. Lasciarono il campo anche i guerriglieri, tranne una retroguardia, forse con il compito di agganciare gli americani e attirarli in aree prestabilite per colpirli e poi ritirarsi senza subire troppe perdite, come del resto avevano fatto i reparti regolari durante l'invasione.

L'attacco incominciò di notte, in condizioni di non visibilità per i guerriglieri, in modo da permettere agli assedianti di utilizzare al meglio il vantaggio tecnologico (visori notturni, coordinamento telecomandato, ecc.). Dopo tre giorni di bombardamento la città risultava "polverizzata" secondo i comunicati della guerriglia, e "poco danneggiata" secondo il comando americano. Stranamente però, quest'ultimo dichiarava che l'intera operazione, compresa la "bonifica" da parte delle truppe, aveva "liberato" solo il 70% della città. Al bombardamento attuato con ogni mezzo (dai missili aria-terra alle bombe "intelligenti", dal gas "mostarda" alle bombe a frammentazione) era seguito un rastrellamento porta-porta condotto da truppe specializzate con l'appoggio di carri armati. In case e moschee erano state scoperti numerosi depositi di armi ed esplosivi, ma anche sistemi di mine-trappola simili a quelli usati dalla guerriglia vietnamita. Alla fine della battaglia, leggiamo sul sito del Pentagono, vi furono 51 caduti e 425 feriti americani; 8 caduti e 43 feriti iracheni dell'esercito collaborazionista; 1.200 caduti e 1.000 prigionieri fra i ribelli.

Dalle lettere dei soldati pubblicate dalle organizzazioni dei reduci risultano massacri della popolazione civile, sgombrata dal centro ma raccolta in campi più o meno attrezzati nella periferia cittadina. Risultano danni che comprovano la "polverizzazione" della città piuttosto che non l'operazione "chirurgica". Risulta che la battaglia ha raggiunto i suoi obiettivi di distruzione ma che, come del resto afferma anche il Pentagono, la guerriglia è stata soltanto "delocalizzata".

Ciò avviene anche nelle altre parti d'Iraq, non solo a Falluja. Vuol dire che le tre guerriglie (semplificando assai: baathista, sunnita e al qaedista – quella sciita è per ora rientrata pur senza deporre le armi) non sono state vinte, anche se esse non possono vincere militarmente. Del resto nessuna guerriglia tende a prevalere con battaglie campali, bensì con l'effetto politico dovuto alla durata nel tempo. È istruttivo il fatto che, dopo la "vittoria" americana di Falluja, le truppe siano state chiamate ad affrontare nuovi focolai di resistenza, mentre l'intensità degli attacchi guerriglieri è ovunque immutata; in qualche caso, per esempio a Mosul, si segnala addirittura un incremento degli attacchi.

Il tempo giocherà a favore dell'apparato civile e militare baathista entrato in una clandestinità certamente preparata ben prima dell'occupazione americana. Esso rappresenta la parte organizzata della guerriglia e, se per ora è forzatamente emarginato, sarà indispensabile agli esportatori di democrazia, così come furono indispensabili, nel '45, gli apparati tecnico-amministrativi fascisti di Italia, Germania e Giappone. La guerriglia "confessionale" non ha retroterra storico in Iraq, e il terrorismo qaedista meno ancora. Perciò il vero interlocutore di Washington non è e non potrà mai essere il raffazzonato governo fantoccio, assolutamente inerme di fronte agli attacchi guerriglieri, ma la vera borghesia irachena, i suoi tecnici, il suo vero esercito e persino il suo vero partito, il Baath, qualsiasi nome esso possa prendere in futuro. Questa realtà non è stata intaccata dalla guerra e rappresenta l'unica alternativa al caos e alla guerra civile o addirittura alla sua versione tribale.

Rivista n. 17