Nous les zonards voyous

"[Bisogna] comprendere il motivo per cui i moti di Watts ebbero luogo e ciò che occorrerebbe fare per impedire che il fenomeno si ripeta. Questo perché soltanto se si studierà e assimilerà la lezione di Los Angeles, traendone le debite conclusioni, si potrà sperare di tenere sotto controllo le instabili componenti sociali che attualmente si scontrano negli Stati Uniti".
(Robert Conot, L'estate di Watts, 1967).

Impedire che il fenomeno si ripeta? Tenere sotto controllo? Attualmente? Negli Stati Uniti?
(Nota della redazione di n+1, 2006).

Noi di Clichy-sous-Bois…

Si chiamavano Bouna Traore e Zyed Benna, due zonards di 15 e 17 anni. Électrocutés in una cabina elettrica dove si erano nascosti perché inseguiti dalla polizia a Clichy. Abbiamo messo le loro foto sui pali della luce, sui muri, sulle vetrine. Poi abbiamo incominciato a bruciare tutto quel che capitava. Cosa importa se abbiamo incominciato noi o la polizia. Che comunque è arrivata ben prima, come un esercito coloniale.

Siamo la racaille di Francia, ha ragione Sarko. Siamo anche peggio. Nei primi giorni della rivolta giornali e televisione ci trattavano da sauvageons, voyous, criminels. Poi hanno tirato fuori bin Laden. Già, molti di noi sono musulmani. O almeno di famiglia musulmana, che è un po' diverso. Un po' di tempo fa un'agenzia israeliana (Debka File) ha scritto che esiste un'organizzazione centralizzata. In Francia al Qaida avrebbe reclutato 40.000 militanti. Proprio una guerra. Le Figaro ha scritto che cominciava un'intifada francese. Perché non europea? La stessa agenzia ha scritto che in Germania sono stati reclutati altri 30.000 terroristi. Dice che ha le prove.

Balle. Ma se anche fosse? Nessun partito francese ha 40.000 militanti, vorrebbe dire che c'è chi non ne può proprio più. Altro che integrazione. Del resto, integrare chi? I nostri nonni immigrati dopo la guerra? I nostri padri che lavoravano alla Renault? Noi siamo nati a Parigi, Lione, Marsiglia. Noi siamo alla terza generazione, i simboli dell'integrazione li abbiamo bruciati. I supermercati, i centri culturali, le automobili. Dicono che sono "nostri" e che ci diamo la zappa sui piedi. Se tutto questo lo fosse davvero, saremmo semplicemente degli idioti. Ma chi deve integrare chi? E come? Una società in disintegrazione non può pretendere di integrare un bel niente. Infatti ci tentano con il sarkonazismo, con i risultati che abbiamo visto. Per farti star buono nel marais, tanto per venirti incontro, ti riempiono di botte, oppure si dicono tra loro che bisogna avere tolleranza verso le minoranze, con quel sorrisetto buonista e idiota che usano quando parlano di pédés, di negri o di ebrei. Di prolos non ancora, almeno finché ne avranno un'idea mistica, tratta dai libri sulle belle lotte di classe contro i padroni. La zone è un miscuglio, per molti non c'è l'intermediario del padrone, c'è subito lo Stato. E questo fa incazzare molto di più. Non c'è un obiettivo preciso su cui riversare la rabbia. Forse siamo soltanto giovani e non vediamo niente davanti a noi, emmerdés in una città di merda che non ti permette di scrivere nero su bianco le tue belle rivendicazioni. Ecco, non abbiamo rivendicazioni. In realtà forse non è che non vogliamo, è che questa volta proprio non possiamo aiutarvi a risolvere il vostro problema.

Lì per lì hanno scritto tutti di tutto, specie i bobo-sociolo-démocrates. Alla fine hanno dato la colpa alla solita mancata integrazione degli immigrati, come dire al governo, alle leggi "sbagliate". Come dire: a niente. Quando le zones hanno smesso di bruciare si sono dati una calmata. E hanno finalmente scoperto una "pericolosa crisi sociale". Questi borghesucci bohèmes hanno partorito infine un'analisi veramente creativa. Non siamo più dei beurs imbecilli manipolati da qualche misterioso caïd. Come hanno fatto a non pensarci prima? Forse dovevamo bruciargli l'automobile tanto tempo fa. Si accorgono adesso che il referendum sull'Europa era forse un referendum sulla vita che facciamo. Il sessanta per cento dei francesi abita nelle periferie urbane. Due milioni di parigini abitano in città, ma dieci milioni sono zonards. Tutti arabi, negri, turchi, cinesi? Che debbono starsene buoni nei loro ghetti e nello stesso tempo integrarsi alla poltiglia socialdemocratica che parla di loro come parlerebbe di animali allo zoo? In zone c'è di tutto. Normale. In certi quartieri non entrano neppure i keuf. Normale. Non siamo degli angioletti e tra noi circolava parecchia manovalanza delle mafie di quartiere. Si sa. Ce l'avete tanto con la communautarisation, con la chiusura spontanea in comunità-famiglia etniche, ma non vi viene in mente che nel deserto urbano queste specie di tribù sono il rifugio dell'individuo, anche se non certo la sua salvezza. E la famiglia che sopravvive nella metropoli non può che essere mafia. C'è qualcosa che non quadra. Volete la communauté ma non la nostra, o meglio, non quella che ci costringete ad avere. Tanto per dire: abbiamo inventato il rap della zone; è urbano, internazionale, conosciuto fino in America, globalizzato, per niente un prodotto communautariste e la famiglia la fa a pezzetti. Ma da quando vende, quello sì che lo chiamate "rap francese".

Parigi sarà la Francia, ma le banlieues lo sono ancora di più

La banlieue è la città vera. I centri per turisti e affaristi dove non abita nessuno non sono città. Minoranze etniche? E di quale strana etnia mondiale? Togliamo i contadini, che comunque in Francia contano, la periferia è la Francia. Chi va in periferia a vedere le cose come stanno e non si accontenta di giocare all'animuccia candida sa che cosa vuol dire per esempio fare il pendolare con le zone industriali, insegnare in una scuola della banlieue o anche solo vendere giornali, kebab e frites. Le cosiddette periferie sono il cuore pulsante della città, non il suo lato marginale. Al posto del "ventre di Parigi" di Zola adesso c'è, simbolicamente, Le grand trou, un buco vuoto con negozi intorno. Il ventre s'è aggiornato e s'è diffuso in periferia.

A forza di dire che Parigi è la Francia s'è finito per crederci. Ma non siamo più al tempo dei giacobini. Nell'epoca delle reti non ha più senso il centralismo piramidale, il vertice nevralgico da cui partono le direttive e arrivano i resoconti, dove si crede vi sia uno Stato efficiente e invece c'è solo burocrazia e inefficienza sbirresca. Bisognerebbe chiedersi perché uno Stato non funzioni almeno come una fabbrica, dove ognuno ha un compito che non gli deriva dal padrone (che magari è ai Caraibi a fottersi il cervello di cocaina) ma da un piano di produzione impersonale.

Dunque Parigi non è più la Francia da un pezzo, la Francia è un'immensa banlieue. Nelle fabbriche si produce e lo si fa in modo organizzato, c'è uno sciopero e ci si muove organizzati, ma fuori è l'anarchia, la contrapposizione fra uno Stato simbolo, concentrato, e un non-Stato diffuso. È una contraddizione, anzi, la contraddizione: l'anarchia del mercato e dell'intera società contro il piano di produzione all'interno delle singole fabbriche. Poi ci si lamenta che va tutto fuori controllo. È semplice: i banlieusards nelle fabbriche fanno sciopero organizzati; gli stessi banlieusards fuori dalle fabbriche (o quelli mai potuti entrare in una fabbrica) fanno casino.

È vero, i rivoltosi in fabbrica ci sono stati poco, da precari mal pagati. Ci sono stati i loro fratelli grandi e naturalmente i loro padri. Non tutti, ma molti. Comunque non è questo che conta. Quello che conta è che i banlieusards sono gli abitanti del cuore della Francia. Lasciamo sfogare i giornalisti sulle bande dei ragazzi di strada, sulle incursioni "mordi e fuggi", sulle spavalderie di fronte ai poliziotti, senza paura di subire l'inevitabile macelleria (non sapremo mai quanti feriti non sono riusciti a contare; hanno potuto contare solo i 5.000 fermati e interrogati, ma non le migliaia e migliaia cui hanno fatto crescere odio e sentimenti di vendetta). È vero, i prolos non c'erano. Però, subito dopo l'affermazione, viene spontanea la domanda: ma i ragazzi violenti e incendiari, chi sono realmente? Solo teppisti? Questo lo dice lo sbirro, che prende la carta d'identità individuale e legge con l'occhio di un computer dell'anagrafe. Ma se si legge con l'occhio di chi nella banlieue non vede un programma televisivo o un film, ma quella vera, dove ci sono degli insiemi umani, si rende subito conto che lì pulsa il cuore autentico del capitalismo globalizzato. Che non è quello di cartapesta della sua rappresentazione turistica e affaristica, delle sue classi decadenti e parassitarie. I prolos fanno parte di un blocco che non compare sui documenti dell'anagrafe, sono coloro che non hanno altro che la prole o, come disse qualcuno, dei "senza riserve".

L'Île de France è una regione in cui la rivolta è stata particolarmente dura e si sono concentrati gli episodi violenti. Lì risiede il 19% della popolazione francese, lì c'è il 23% dei posti di lavoro, lì si produce il 26% del PIL nazionale e lì sorge almeno una delle sedi del 50% delle più grandi industrie di Francia (almeno 500 dipendenti). Occhio alla progressione dei numeri: se il 19% della popolazione produce il 26% del reddito, vuol dire che la produttività è altissima, cosa che spiega da sé un'altissima disoccupazione non da sottosviluppo ma da eccesso di sviluppo. Il rivoltoso del novembre francese sarà l'irriducibile fainéant islamico, nero e teppista, ma è "prodotto" dal fior fiore del capitalismo, da un ambiente con il quale è perlomeno costretto a confrontarsi. Idem per la Seine Saint-Denis: area industriale e duri scontri, un ambiente dove tra il 2002 e il 2004 sono nate 16.000 aziende, ma la ristrutturazione produttiva ha fatto perdere il 12% dei posti di lavoro. Non esiste più il lumpenproletariat, la non-classe stracciona. Ci sono ormai solo proletari, senza aggettivi: quel proletariato che non ha più posto di lavoro fisso e non ancora una regola per quello precario (e forse non ci sarà mai più). Per cui il banlieusard non è tanto sballottato da un posto di lavoro salariato all'altro quanto impegnato costantemente in una ricerca di lavoro o perlomeno di denaro per sopravvivere. Non è più né un "miserabile" alla Victor Hugo o alla Dickens né parte del classico "esercito industriale di riserva" fra crisi e boom economico. È invece parte di una popolazione senza riserve, inutile al Capitale ma che non muore di fame grazie all'alta quantità di plusvalore che lo Stato può distribuire nella società dopo averlo prelevato dal lavoro produttivo. È una bella differenza, perché il banlieusard non può più riempire i piroscafi ed emigrare in America o altrove, è già immigrato qui da due o tre generazioni.

Periferia centrale

L'immensa banlieue nazionale e planetaria, cresciuta in un paio di secoli come luogo specifico della fabbrica e dell'operaio, diventa lo specchio del modo di produzione di un capitalismo decadente. Lì la legge della produzione di plusvalore è sempre la stessa, ma le modalità delle sue espressioni sono assai cambiate, come se fosse passata un'intera epoca storica. La banlieue è il centro di smistamento del valore complessivo prodotto nella società (v+p), ma non beneficia più come un tempo della sua parte salariale (v) a causa della perdita di posti di lavoro. Il valore complessivo poteva essere così alto, e derivato dal lavoro di così pochi, che per anni vi sono stati licenziamenti. Di valore ne restava molto da distribuire nella società, tramite i soliti canali o tramite mille altre vie meno tradizionali. La borghesia non muore mai di fame, e la sovrappopolazione relativa nemmeno, andava mantenuta. Ma adesso la quantità di valore da distribuire è ormai insufficiente allo scopo. E allora il tutto non può che esplodere.

Ma vediamo da vicino che cos'è la banlieue delle grandi città. Fenomeno generalizzabile al mondo intero, nonostante le differenze di sviluppo. L'industria cresce intorno al nucleo più antico, trascinandovi le abitazioni degli operai. Si ridisegna una nuova città con le fabbriche nel tessuto urbano e le strade che si allontanano a raggiera. Con la concentrazione industriale le fabbriche s'ingrandiscono, ma le abitazioni devono trovare spazio all'esterno, verso la campagna. È la prima rivoluzione industriale, che costruisce case operaie in buona muratura e lascia un po' di verde, in reazione agli eccessi della sua preistoria londinese descritti da Engels. Oggi questa cintura è occupata dalla piccola borghesia dei professionisti e dei commercianti, per la quale sono state ristrutturate le vecchie case ed edificati i blocchi nuovi con un minimo di vivibilità.

La seconda cintura inizia a svilupparsi fra le due guerre, quando le fabbriche lasciano la prima, che viene lottizzata, edificata e abitata dalla piccola borghesia. Il fenomeno dell'immigrazione interna plasma i blocchi di case operaie, in un primo tempo legate alle fabbriche ma poi sempre più popolari, cioè costruite e vendute o affittate anche alla piccola borghesia bottegaia e artigiana che segue lo sviluppo industriale insediandosi dove c'è salario da intercettare. In molti casi questa cintura distrugge, e in un certo senso ingloba sotto altra forma, preesistenti bidonvilles. Dopo l'ultima guerra essa diventa la città vera, la placenta del capitalismo, che regola l'osmosi fra l'interno e l'esterno, producendo il bisogno di acciaio, cemento, asfalto, laterizi, mobili, rubinetti, soprammobili e milioni di bagnoles sia per spostarsi fra le aree urbane che per evadere nel fine settimana. L'ambiente prolo delle case a ringhiera si trasforma completamente e la cellula umana si chiude nel suo bozzolo, si stipa nelle razionalissime scatole di sardine teorizzate da Le Corbusier e copiate da tutti i geometri del mondo. Il progresso chiama città-giardino i formicai umani, ridimensionandoli ben presto a città-dormitorio. In realtà l'osmosi naturale e anarchica è garantita dal flusso umano fra centro e periferia, fra affari e fabbriche, sempre attraverso la placenta della banlieue. Grazie alla rete di trasporti e comunicazioni non c'è soluzione di continuità nell'insieme metropolitano, che diventa un unico organismo vivente (un cancro con le sue metastasi è vivo, anzi, troppo vivo). Rimangono le suddivisioni di classe, scandite dal muoversi dei bobo-4x4 o dei metro-boulo-dodo, come registra la neo-lingua della periferia centrale (e quando un linguaggio mutante si evolve e si diffonde come un virus vuol dire che sta succedendo qualcosa alla specie).

La terza cintura è molto lontana dal centro e può esistere solo perché esiste un sistema di trasporti pubblici, perché chi ci abita ha una bagnole a cranio e ha sviluppato una pazienza rassegnata nell'utilizzare entrambi a costo di perdere una parte notevole della propria vita negli spostamenti. Si aggiunga la formazione di città-satelliti della metropoli, in genere amministrate dai socialdemocratici, in grado di fornire servizi come supermercati, piscine, centri culturali. Alla forza economica centripeta per le rappresentanze capitalistiche corrisponde una forza centrifuga per gli esseri umani. I banlieusards del secondo cerchio sono presi tra le due forze. Come Cesare all'assedio di Alésia, non possono che vincere o farsi distruggere. Non hanno la meticolosa organizzazione dei Romani e anzi, sono loro i barbari, ma vinceranno contro la civiltà, è solo una questione di tempo. Da una parte, verso il centro, ci sono i professionisti e i bottegai che non possono allontanarsi troppo dal luogo in cui svolgono la professione, alla quale dedicano dodici ore al giorno; dall'altra, verso l'esterno, il resto della piccola borghesia o dell'aristo-prolo che, scacciato dagli alti prezzi immobiliari del centro, agogna allo spazio individuale, alla pelouse da radere, al barbecue, a qualche canna nella parte nascosta del giardino. Sono le due cinture degli zombie, quelli che ti mettono il 4x4 sui marciapiedi del centro, tanto per far vedere che sembrano vivi.

Fate un esperimento: prendete la mappa satellitare di Google su Internet e digitate "Paris". Poi zoomate a piacere e fate scorrere. Vedrete case, case e ancora case, ma anche una costellazione di fabbriche intorno alla piccola città storica che tutti hanno visto in cartolina. La banlieue non è un lieu de relégation, come hanno detto in molti: per certi versi è veramente la proverbiale città dormitorio, ma è anche il luogo dove lavorano milioni di persone. Quelle fabbriche ci sono, e se molte sono chiuse è peggio ancora, vuol dire che qualcuno non lavora più lì e neppure altrove. E comunque ci sono anche gli addetti ai trasporti, agli uffici postali, alle amministrazioni comunali, ci sono le piccole attività artigianali e bottegaie.

Tutto questo è mobile, dinamico. Non si potrebbe capire nulla se la descrizione delle tre cinture coincidesse esattamente con la realtà, con i confini fra di esse, e fra esse e il centro, perfettamente visibili. Tutto ovviamente si compenetra. Gli uomini, i mezzi e le informazioni si muovono. C'è chi non ha mai perso il lavoro e chi non l'ha mai trovato; chi se ne frega se suo figlio è in una scuola piena di islamici o se va a fare il bagno in una piscina piena di negri e c'è chi patisce; c'è chi si fa un mazzo così per quattro soldi e chi vive a sbafo. Sono cavoli di ognuno, d'accordo, ma le dinamiche si sommano e a volte salta fuori che si generalizzano; e scoppia, guarda caso, uno scontro che ha tutti i caratteri di classe, alla faccia dei bianchi, negri, caffelatte, islamici o cristianucci. Il melting pot, il crogiuolo, l'abbiamo visto in funzione a Chicago e a Los Angeles (due volte), e anche in Europa il miscuglio etnico viaggia sul filo del rasoio. Ma qui in Europa c'è un qualcosa di diverso, che negli States non c'è mai stato: c'è una tradizione storica di classe che, al di là delle chiacchiere dei bobos sociologodemocratici può emergere, com'è sempre successo, quando sia necessario un programma per andare oltre alla semplice rivolta. Contrariamente a quanto dissero gli opportunisti che tradirono l'ultima rivoluzione, e giusta quanto disse contro di loro la nostra corrente, le rivoluzioni e i partiti non si fanno, si dirigono.

Noi di Aulnay, Evry, Corbeil-Essonnes…

E di trecento altre città. Noi non abbiamo bruciato le nostre bagnoles, che tra l'altro non possediamo, ma quelle della cintura interna e quelle della cintura esterna. Ad Aulnay abbiamo bruciato l'edificio di un concessionario della Renault con tutte le vetture nuove dentro. Non abbiamo bruciato le nostre scuole ma quelle della repubblica (come le due a Evry), all'uscita delle quali la nostra prospettiva per il boulot è praticamente zero. Non abbiamo bruciato i nostri negozi ma i supermercati e i McDonald's (a Corbeil). Date la colpa ai teppisti, a bin Laden, a chi volete, ma se quest'anno abbiamo bruciato 30.000 automobili (fa un'ottantina per notte, ragazzi) le previsioni per l'anno prossimo arrivano a 40.000, perché con la rivolta abbiamo fatto impennare la curva statistica.

Abbiamo trovato molto divertente e simbolico il fatto che la polizia abbia scoperto una "fabbrica di bottiglie molotov" (BBC), con taniche di benzina e centinaia di ordigni già pronti, proprio in una stazione di polizia in disuso (a Evry). E poi: spiegateci perché bruciano 300 città in una volta, 255 scuole e asili, 233 edifici pubblici, in tutta la Francia e anche in qualche altro paese. Teppismo planetario? Date la colpa alla piccola delinquenza, ma sapete bene che se qui si spara abbastanza, si mira ben poco. C'è qualche furto, circola droga, ovviamente, ma soprattutto roba povera: lo sanno tutti che il giro grosso non è nei ghetti del marais ma nelle due cinture contigue, dove la droga si sniffa a quintali, di ben altro tipo e a ben altro prezzo. Il tutto gestito da qualche ufficio di lusso all'Étoile o alla Défense Qui al massimo c'è un po' di manovalanza.

La sublime prospettiva, i tre pilastri della vita: famiglia, scuola e lavoro, per i quali il governo e la televisione ci scassano le balle, sono per noi degli incubi. Le nostre famiglie sono state importate quarant'anni fa dalla campagna francese e soprattutto dalle ex colonie come forza-lavoro semi-coatta, la loro vita è un massacro a puntate. Ci sono 30.000 famiglie poligamiche, alcune con 25 figli; le mogli supplementari sono fatte arrivare clandestinamente perché in Francia la poligamia è pesantemente punita. Era inevitabile che le famiglie, di fronte a un ambiente ostile, si chiudessero in sé stesse riproducendo nella zone delle specie di mini-società. E che noi, i loro figli e nipoti, producessimo delle bande.

Nessuno si chiede perché le famiglie dei polacchi o degli italiani, venute negli anni '30, non sono passate alla storia come un problema (e le ricordiamo solo quando troviamo qualche sopravvissuto alla silicosi contratta nelle miniere francesi). Non è forse perché allora c'era un capitalismo in crescita ed esso oggi è in declino? Dite la verità, la coperta è stretta e qualcuno deve pur rimanere con i piedi al freddo. Sappiamo chi. Incominciate allora a preparare un coprifuoco permanente, a progettare nuovi commissariati di polizia, ad inventare nuove figure di poliziotto di quartiere che si chiamino Ahmed. E rintanatevi nei vostri ghetti con guardie e aggeggi elettronici contro gli estranei.

La scuola è l'istituzione che odiamo di più dopo la polizia. Lo chef repubblicano, coadiuvato dai sindacati più corporativi che ci siano, ci ha servito una soupe gauloise à prétention universelle, immaginando di eliminare per decreto i problemi della cosiddetta integrazione. Per noi "integrato" è un insulto, figuriamoci come vediamo una scuola pensata apposta per l'integrazione. Una scuola che riflette fra di noi il concetto elitario secondo cui i migliori passeranno, per cui dieci zeppard avranno il permesso dello Stato per accedere, poniamo, a ScienPo o all'ESSEC. Una scuola che, pensata come alto esempio di democrazia per dare a tutti la stessa opportunità di successo, s'è ovviamente rivelata una realtà di discriminazione, dato che gli abitanti della cintura esterna e di quella interna non la frequentano. Dato che gli insegnanti hanno il compito di livellare la conoscenza sugli argomenti di una rivoluzione altrui ― passata, ormai diventata un luogo comune per i discendenti di chi la visse ― invece di coltivare e persino migliorare positive differenze (oh sì, adesso che ve ne siete accorti avete inventato quell'obbrobrio della discrimination positive à la française, che poi vuol dire da una parte i buoni, dall'altra i cattivi, ma è tardi). Per adesso abbiamo bruciato edifici e soprattutto automobili. Pensate un po' se incominciassimo a bruciare dall'interno, nell'animo, se invece di spaccare tutto contro qualcosa incominciassimo a volere qualcosa. Se invece del passato incominciasse ad agire il futuro, come un demone di cui non ci si potrà liberare se non assoggettandosi ad esso. O forse è già il futuro che agisce così? A noi sembra tanto che abbiate un bisogno disperato di trovare un nemico esterno, immigrato, alieno, per riversare su di lui l'alienazione universale. Per non vedere l'evidenza dei dieci milioni della zone che magari si scannano un po' fra loro ma che in realtà assediano i due milioni del centro. E non è Parigi, cari bobos che vi fate un'idea della rivolta rispondendo semplicemente ai comunicati ministeriali, mettendovi sullo stesso terreno: è il mondo intero.

Dopo famiglia e scuola viene il terzo pilastro che è il lavoro. Figuriamoci che cosa possiamo dire del lavoro quando su questo argomento va a farsi benedire ogni pretesa differenza etnica. Noi zonards siamo nella stessa barca di tutti gli altri giovani, solo che per noi non c'è materasso ad attutire la caduta: non famiglia in grado di mantenerti a oltranza, non studi fino a metà della vita, solo la realtà nuda e cruda. La stessa che fra poco sarà quella di tutti. Non siamo alla frutta, siamo all'antipasto. Non avete ancora visto niente.

Ricordati di santificare il lavoro

"Nelle banlieues emarginate domina una specie di terrore strisciante. Quando troppi giovani, all'uscita dalla scuola, non vedono davanti a sé altro che disoccupazione, alla fine si ribellano. Per il momento lo Stato può lottare per imporre l'ordine e fare affidamento sui benefici del welfare per evitare il peggio. Ma quanto può durare tutto ciò?".

Questa Cassandra non è il primo che passa, la frase è del presidente francese Jacques Chirac, scritta nel gennaio del 1995, prima di essere eletto (maggio). Adesso che il peggio è scoppiato, molti riconoscono che la causa della rivolta risiede proprio nella mancanza di prospettiva e non in un generico teppismo che vien fatto derivare dalla composizione statistica dei casseurs. La rivista The Economist ha sottolineato per prima il fatto che la causa degli incendi francesi è soprattutto la disoccupazione, dimostrandolo con le cifre. L'hanno sottolineato anche Le Monde e Le Figaro. Ma tutti sono ricaduti nel moralismo affermando che è la mancata integrazione a produrre la disoccupazione, quindi la rabbia degli "immigrati" e la rivolta. È vero che oggi, in un colloquio di lavoro, se uno si presenta con la pelle non proprio bianca, dice di chiamarsi Ahmed e di abitare a Clichy-sous-Bois, non ha alcuna probabilità di essere assunto. Ma ciò non succedeva a suo padre o suo nonno, che anzi erano stati fatti arrivare apposta dal Nordafrica per lavorare magari nelle stesse fabbriche.

Per l'Economist i posti di lavoro sarebbero scarsi perché si suddividono ancora fra mercato libero e mercato regolato (posto garantito), perciò i capitalisti non assumerebbero a causa della poca flessibilità. A prova di ciò cita il capo del governo, de Villepin, il quale ammette che il 70% delle nuove assunzioni di ogni anno sono a tempo determinato. Ne conseguiamo che, per l'Economist, se il mercato del lavoro fosse completamente selvaggio, non vi sarebbe disoccupazione e nemmeno rabbia da sfogare. Non ci metteremo a criticare questi fondamentalisti del mercato, ci basta ricordare che c'è una differenza sostanziale tra il modello ideologico borghese e il modello effettivo basato sulla teoria del valore.

Dal punto di vista pratico è vero che se i salari fossero a livello cinese aumenterebbe il saggio di profitto, anche se solo nei settori ad alto utilizzo di manodopera, e sarebbe incentivato l'uso di forza-lavoro aggiuntiva a basso prezzo come nel 70% precario del mercato. Al limite, se non ci fosse salario e ci fossero solo schiavi non pagati, tutto il ricavato del prodotto si tradurrebbe esclusivamente in profitto. Ma il rapporto di lavoro odierno è completamente diverso da quello antico basato sulla schiavitù. Oggi c'è il Capitale e le classi non sono che suoi agenti, per cui deve esserci un certo equilibrio fra profitto e salario affinché il modello di crescita del Capitale possa funzionare. Detto brutalmente, tutta la società deve versare il suo contributo al Capitale, i capitalisti che producono, i proletari che consumano, lo Stato che dirige il traffico del plusvalore ripartito socialmente. Al capitalista singolo conviene che il salario sia basso, ma al sistema nel suo insieme non conviene che lo sia troppo, dato che s'incepperebbe il meccanismo produttivo-distributivo. Il problema è che non c'è limite teorico alla produzione industriale, mentre c'è più di un limite al consumo.

Per l'ideologia borghese il lavoro è un'idea, è addirittura santo. È la linfa della vita morale. È il carburante della patria e della famiglia. Fa salire i consumi e quindi il Prodotto Interno Lordo. Lavora il capitalista come l'operaio, il prete come il poliziotto. Peccato che nella società capitalistica, poggiante sul valore, il "lavoro" in quanto valore non esista. Nel senso che ha valore solo l'applicazione della "forza-lavoro" ai mezzi di produzione con l'unico fine di produrre plusvalore (Marx: "Valore del lavoro, è un'espressione immaginaria", Il Capitale, Libro I, cap. XVII). Si dovrebbe chiamare lavoro il lavare i piatti a casa propria, il bricolage o la zappatura dell'orto a fini di consumo personale. Ma non l'attività specifica volta all'ottenimento di merci, che chiamiamo più correttamente produzione. Ovviamente il lavoro generalmente inteso è sempre esistito e continuiamo definire così ogni attività umana, anche quella produttiva. Bisognerebbe però forse specificare che il termine è perfettamente corretto solo quando voglia dire dissipazione di energia per ottenere qualcosa. Quando si fabbricano merci, la capacità umana di applicare energia al ciclo produttivo viene venduta in cambio di salario, viene venduta forza-lavoro finalizzata alla "produzione per la produzione" (questo è il fine, non il prodotto di per sé che può essere una cosa qualunque). Si poteva santificare il lavoro di San Giuseppe, ma non lo si può fare con il lavoro dell'operaio.

La forza-lavoro è l'equivalente di tutto ciò che serve a riprodurla: cibo, casa, vestiario, scuola e riposo rigenerante. Se si introduce ad esempio una macchina che sostituisce 100 operai, l'equi-valenza salta, la forza-lavoro di quei 100 non "vale" più niente. Ma tutto ciò che serve a riprodurre la forza-lavoro è a sua volta merce, prodotta da altri operai. L'equilibrio sarebbe ripristinato solo se i 100 operai disoccupati fossero reimpiegati nella costruzione della macchina che li ha messi sul lastrico. Ma così non è. Si costruiscono macchine a mezzo di macchine, si razionalizzano i processi lavorativi, si introducono sempre più merci che hanno sempre meno bisogno di stabilimenti per la produzione materiale (quelle merci che si pagano a tariffa, come Tv, cinema, telefono, acqua potabile, elettricità, gas, ecc.). Per di più la popolazione mondiale cresce, immettendo sul mercato nuova forza-lavoro inutilizzabile, giovane, piena di energia frustrata. Insomma, la tesi dell'Economist è del tutto assurda. Così come sono assurde tutte le tesi fondate sulla credenza metafisica che una diminuzione del prezzo della forza-lavoro possa migliorare davvero il risultato economico. Può migliorarlo per un singolo capitalista, ma non per una società. Se non si parla di prezzo, ma di valore, è forse più facile capire che: 1) se si abbassa il valore di tutta la forza-lavoro, allora devono abbassarsi i valori di tutte le merci che servono a riprodurla, altrimenti è la rivolta; 2) se si lascia una parte della popolazione senza lavoro, cioè senza salario, bisogna estrarre una maggiore quantità di plusvalore da quella occupata e dirottarne una parte al mantenimento di quella disoccupata, impiegandola in attività finte, inutili, sterili e persino dannose. Non servono super-modelli universitari o ministeriali, bastano carta a quadretti e matita, oppure, se si vuole proprio essere sofisticati, il piccolo foglio elettronico che regalano con il sistema operativo quando si compra un qualsiasi computer.

L'auto-referenzialità distruttiva di un sistema del genere è molto complessa, ma quanto detto ci basta per stabilire che si producono le condizioni ambientali perché qualcuno − bianco o nero, banlieusard o altro − trovi l'esistenza stessa sempre più insopportabile; perché cresca l'odio contro tutto ciò che rappresenta la conservazione dell'ordine esistente. Per la Francia le cifre parlano chiaro: la disoccupazione generale è a un livello di per sé preoccupante del 10%; la disoccupazione giovanile è al 23%; quella nelle aree "sensibili" individuate nelle banlieues è del 40%; in specifici quartieri arriva al 60%. E il processo è irreversibile, dato che in Asia, per fare un esempio, c'è già oggi la capacità industriale per produrre tutti i beni di consumo, e anche molti mezzi di produzione, non solo per quel continente ma per tutto il resto del mondo.

Noi di Bobigny, Aubervilliers, Matignon…

C'è chi dice che siamo solo straccioni senza organizzazione e senza un fine e c'è chi dice che siamo dei prolos di tipo nuovo, precari maledetti. In ogni caso, si incontra di continuo chi si accoda a quello che succede per mettersi a sentenziare. Ogni volta dopo, quando sente le notizie in televisione, mai prima. Invece bisogna saperlo prima, che stiamo sempre più conducendo una vita senza senso e che qualcosa deve scoppiare. Non fosse che in uno stadio, o nella statistica dei suicidi, o dei massacri in famiglia. Adesso chi voleva il "movimento" da prima pagina sui giornali, con fotogenici incendi notturni può stare tranquillo, ha di che teorizzare e scrivere a seconda di quello che gli frulla per la testa. Ma è come leggere una poesia sul fuoco scritta da un pompiere. La pentola è sotto pressione di continuo, non solo quando fischia la valvola. La rivoluzione è come una donna incinta, non si può dire "adesso sì, adesso no, adesso sì, adesso no…".

Sentite: i CRS hanno rastrellato i quartieri come truppe d'occupazione arrestando nelle strade e nelle case. Qualche deputato ha invocato l'esercito. A Bobigny c'è un tribunale che processa i casseurs della rivolta post-moderna e telegenica. Nei giorni della rivolta ha lavorato 24 ore su 24 in tre aule d'udienza contemporaneamente, condannando per direttissima gli arrestati. Giudici bianchi, avvocati bianchi, imputati tutti colorati. Adesso anche alcuni che credono di essere dei nostri ci invitano alla calma. Non è più possibile. Già ci fa ridere la bouillie servita dai parlamentari (sia quelli della pace che quelli dell'esercito), contro la quale abbiamo bruciato proprio i simboli delle vaghe pretese di integrazione, compresi gli asili, dove ci rincretiniscono già da piccoli. Immaginate che odio furioso ci prende quando vediamo che la pappa dell'integrazione serve anche ad alcuni zonards che si mettono al servizio dello Stato. Noi émeutiers incendiari e zonards veri, siamo completamente indifferenti verso la sociologia d'accatto bobo che ci studia come cavie. E non facciamo troppa differenza tra il cretinismo parlamentare e quello extra-parlamentare. In fondo è come se ci fosse una santa alleanza per inventare le rivendicazioni che noi non abbiamo neppure pensato. C'è un fronte unico bell'e pronto per operazioni tipo ONG, per far funzionare Uffici di Integrazione Soffice, un po' come i patronati della CGT. No, noi non abbiamo e non vogliamo interlocutori. Rispondete pure all'appello disperato di Chirac, noi non ci saremo.

Tanto per dire. Ad Aubervilliers e a Matignon ci sono state due riunioni di cittadini molto preoccupati per la nostra violenza "qualunquista e strafottente". Da una parte dicono che così non possiamo andare da nessuna parte, dall'altra sono spaventati per gli sviluppi possibili. E vogliono darsi da fare per la pace sociale, per aiutarci. Storcano pure il naso i benpensanti, gridino pure alla convivenza, ma noi siamo i "nuovi" prolos, senza riserve, disoccupati, sottopagati, schiavizzati e per adesso conosciamo solo odio. Non serve a niente rivendicare quello che avevano già rivendicato i nostri padri, i vecchi prolos di una e due generazioni fa. Le trattative ci sono già state. Il risultato non ci è stato "tolto", non l'abbiamo mai "avuto". Le leggi sanciscono soltanto ciò che è già accaduto, non lo provocano affatto. Quello che ci sta succedendo (e sta succedendo a tutti) è che il vostro mondo si sta sfasciando. Sta morendo il mito di un capitalismo costruttore e integratore, quello stesso capitalismo che edificò le zones con l'orgoglio dei diagrammi in ascesa, quello che rase al suolo la bidonville di Nanterre per costruirvi l'università del popolo. Adesso che le curve mostrano una società asfittica, le unità d'abitazione copiate dalle gabbie da conigli di Corbu sono il paesaggio di una vita da bestie, tanto che le state distruggendo per la vergogna e riedificando a migliaia nel tentativo di recuperare un po' di credibilità presso i vostri integrati aiutanti. Volete che ringraziamo?

Dicevamo: Aubervilliers e Matignon. Un collettivo di 155 associazioni di banlieue si è auto-convocato due volte per un appello alla pace nel rispetto della legge. S'è dato il nome Banlieue respect e ha promosso manifestazioni. Due delle associazioni, Citoyenneté et démocratie (Hauts-de-Seine) e Débarquement jeunes (Rouen), portavoci del movimento pompier, hanno dichiarato, per bocca di un loro rappresentante: "Crediamo sinceramente che il Primo Ministro e il suo governo abbiano l'intenzione di affrontare i veri problemi in queste zone sensibili". Noi crediamo sinceramente un cazzo. Nessun primo ministro potrà fare qualcosa per evitare che le città francesi brucino ancora. Neanche se lo volesse tutto il suo governo.

E intanto qualcuno ha fatto correre la voce che bisognava smettere la rivolta perché è un trucco dello Stato, una provocazione per una svolta autoritaria, addirittura un colpo di mano da parte di Sarko.

"Noi vi domandiamo di cessare le vostre violenze per impedire al signor Sarkozy di mettere in opera il suo progetto totalitario e dittatoriale contro la Francia, del quale voi sarete le prime vittime, a un livello di violenza ben peggiore di quello d'oggi",

scrivono diretti a noi due giornalisti (Smaïn Bedrouni e Christian Cotten) in una lettera aperta. Chiedendo anche al signor primo ministro de Villepin di scusarsi a nome della Repubblica per l'attacco alla moschea di Clichy-sous-bois. A questo pompieraggio che fa del terrorismo puntando su una presunta provocazione governativa si sono affiancati persino dei gruppi anarchici. Ma non erano proprio loro gli incendiari maledetti, spavento dei borghesi? Perfino alcuni anarchici italiani, che sono storicamente sempre stati più vicini a Malatesta o a Sacco e Vanzetti che non alla Banda Bonnot, si sono lasciati andare vergognosamente a queste conneries.

L'automobile non è solo un oggetto infiammabile

Le automobili hanno attirato irresistibilmente il casseur del novembre francese. A dire il vero è un fenomeno permanente se è vero, com'è vero, che in tutto il paese se ne bruciano un'ottantina per notte, 30.000 all'anno. Un fuoco perpetuo all'Emarginato Ignoto, a emulazione di quello all'Arc de Triomphe. Si tratta di mania incendiaria o di altro? Se si trattasse semplicemente della ben conosciuta pulsione all'incendio, saremmo di fronte a una sua forma nuova e aggravata: la piromania selettiva, specializzata in automezzi (come nella recente ondata a Roma).

Si è detto che è perché ce ne sono tanti, abbandonati di notte lungo ogni strada, pieni di carburante infiammabilissimo, facilissimo bersaglio del teppista che incendia e fugge senza rischiar nulla. Ma la tesi non convince. A Chicago e a Los Angeles furono incendiati gli edifici più che gli automezzi. In compenso vi furono moltissimi saccheggi di negozi e supermercati. Nel '68 parigino le auto servirono più che altro a costruire improbabili barricate e, se alcune bruciarono, ciò dipese non tanto dalle molotov quanto da scintille sui pavé intrisi di benzina uscita dai serbatoi. Anche i proiettili lacrimogeni della polizia possono incendiare la benzina. Negli anni post-sessantotto, durante gli "espropri proletari" che accompagnarono alcune manifestazioni, dar fuoco alle automobili avrebbe solo fatto perdere del tempo. Nel corso delle proteste contro il G8 a Genova furono incendiati tanti cassonetti e qualche auto, ma come fatto assolutamente secondario.

Invece i roghi sono stati così centrali in Francia anche perché non sono avvenuti in un contesto di distruzioni che caratterizzarono altre rivolte. I saccheggi, ad esempio, sono stati praticamente assenti in tutte le 300 città colpite dall'ondata di rabbia nonostante questa abbia coinvolto decine di migliaia di persone.

Gli 8.500 autoveicoli bruciati in tre settimane non hanno fatto che quintuplicare, in quel periodo, la media giornaliera complessiva. In tutte le notti dell'anno, in tutta la Francia, brillano falò di benzina, plastica e gomma, senza clamore mediatico, nella normalità quotidiana. Un furore "cieco" che si manifesta da anni contro uno dei simboli del consumo di massa dal quale molti abitanti delle periferie sono tagliati fuori. Un fenomeno che però a un certo punto ha invertito la prassi delle patologie sociali, perché da cronico si è trasformato in acuto, mentre di solito succede il contrario. Può sfuggire il motivo individuale, la molla che fa scattare la piromania nel singolo incendiario, la soglia misteriosa dell'emulazione, ma non si può negare che è stata incendiata sistematicamente la merce per eccellenza, la locomotiva del PIL, il prodotto dell'operaio tradizionale con posto fisso, nonché il serial killer meccanico, quarta causa di morte dopo le cardiopatie, il cancro e la malasanità.

La sociologia c'entra ben poco in questa nemesi sociale: quando i sanculotti, diseredati e disprezzati, assaltarono, incendiarono e poi demolirono con rabbia la Bastiglia, non pensarono neppure per un attimo alla rivoluzione borghese di cui erano parte, lo fecero e basta. Quando le pétroleuses della Comune del 1871, poi fucilate a decine dalla sbirraglia versagliese, incendiarono i palazzi del potere borghese, non pensarono affatto alla "società futura", lo fecero e basta. Inutile cercar di capire il movente del singolo, come se si stesse leggendo un romanzo poliziesco. Inutile sommare quel che dicono i singoli per trarne indicazioni "affinché non si ripeta". Le automobili sono bruciate in quanto attrattore simbolico, così come i supermercati, le scuole, gli asili, le sedi municipali, i commissariati di polizia. Ci sono simboli a sufficienza per pensare a ben altro che a teppisti che agiscono da vigliacchi, nella notte, sicuri di farla franca. Del resto, come recitano i Fonky, rappers parigini:

Ci state strizzando
Bene, adesso lo sapete
Ci dovremo difendere
E non cercate poi di capire.

La disorganizzazione organizzata

Gli amanti dei ricorsi storici hanno notato che il ministro di polizia francese ha chiamato i rivoltosi con lo stesso termine che viene usato nel Codice Teodosiano per la criminalità plebea del IV-V secolo: "feccia". Già nel II secolo a Roma si soleva dividere la plebe in tre categorie: quella corruttibile con il frumento gratuito e i giochi circensi (pars populi integra); quella dei miserabili irrequieti che non rientravano in alcun gioco politico (plebs sordida); quella che, all'interno della fascia miserabile, "si abbandonava al crimine come forma del proprio riscatto" (plebs infima, faex, feccia, appunto). A nessuno storico viene in mente di incolpare la feccia antica della propria rabbia e dei disordini che regolarmente ne conseguivano, ma all'esercito romano sì, dato che non studiava il problema a posteriori ma lo viveva, quindi non andava tanto per il sottile, specie verso la fine dell'impero. Per esempio trucidò 7.000 plebei rivoltosi in un solo giorno a Tessalonica, nel 390 (cfr. Tardo Antico e attualità).

La polizia francese, come l'esercito romano, rappresenta lo Stato e, come nell'antichità, ha il compito di definire ladrones gli avversari politici, in modo da legittimare meglio la repressione. Perciò ha comunicato che alla rivolta hanno partecipato 15.000 persone in tutta la Francia, che ne ha arrestate 5.000, delle quali 3.300 in "flagranza di reato", le quali a loro volta erano per l'80% "conosciute dalla polizia" (che è tutt'altra cosa rispetto al termine "pregiudicati" usato dalla stampa). Su 60 milioni di francesi e nelle 300 città in rivolta i ladrones non sono gran che. Sono cifre che rafforzano piuttosto l'idea centrale alla base del teorema ufficiale di Sarkozy: repressione spietata nei confronti di un teppismo praticato dalla feccia sociale, costituita da delinquenti comuni e da fuori di testa isolati (a proposito, Sarkozy ha comunicato, dopo tanto strillare sull'integrazione degli "immigrati", che fra i 5.000 arrestati è riuscito a scovare solo 130 immigrati veri, tutti gli altri erano francesi figli o nipoti di immigrati!).

Tralasciamo per un momento il fatto che in parlamento l'odiato ministro, capo dei keufs, ha parlato anche di ben altro che di teppismo, e soffermiamoci sui dati ufficiali. Secondo i quali ci sarebbe stato dunque un arresto ogni 3 manifestanti. E questo nell'immensa banlieue di Francia, dove l'unica "tecnica" dei rivoltosi è "colpisci e fuggi", nella notte, in quartieri che essi conoscono benissimo e che i poliziotti non conoscono affatto. Un indice di produttività sbirresca eccessivo persino per il cosiddetto sarkonazismo. Optiamo perciò per un doppio falso: primo, la leggenda imbastita sulla feccia teppista (che c'è, come no, ma che fa tanto comodo per nascondere il resto); secondo, una blague del ministero a beneficio dell'opinione pubblica, vale a dire delle classi che bisogna rassicurare.

Ma il ministro degli Interni, il capo del governo e il presidente della repubblica, con tutti i rappresentanti della borghesia, sono costretti a dire fesserie del genere anche se sanno benissimo che le cose non stanno così. Sanno benissimo che in ballo non ci sono 15.000 teppisti ma il 60% della popolazione francese che vive nelle banlieues e che ha espresso, come punta di un iceberg molto pericoloso, il mero sintomo di una malattia profonda. Anche i banlieusards che hanno un lavoro e che secondo i sondaggi sono d'accordo con repressione e coprifuoco (il 75%), non se la passano tanto bene. Molti hanno pagato 3.000 euro al metro la casa e adesso hanno il mutuo, oppure pagano affitti corrispondenti. Fanno ore di viaggio per recarsi al lavoro. Sono stressati dalla società intera, non solo dai problemi della banlieue, che comunque è "luogo bandito" per tutti quanti, come dice il nome. Nessuno può pretendere che la polizia faccia il medico sociale, ma si sa che a reprimere il sintomo si aggrava certamente la malattia. Il 40% degli arrestati è minorenne e nella banlieue si cresce molto in fretta, mentre la malattia è estremamente contagiosa. Se dieci anni fa Chirac poté prevedere quello che è successo oggi (e i governi non fecero nulla), è facile oggi prevedere la situazione di qui ad altri dieci anni.

Sarkozy ha però detto qualcosa di veramente strano e importante: i teppisti minorenni, che dovrebbero agire d'istinto e in modo del tutto spontaneo, erano invece organizzati. Questo era evidente tanto agli occhi della polizia che dei giornalisti, per cui è stato facile tirare le somme e attribuire la direzione della rivolta alla delinquenza organizzata, alle moschee fondamentaliste, al governo provocatore o direttamente ad al Qaida. Anzi, per Sarkozy la rivolta è stata una risposta diretta della delinquenza organizzata e dell'estremismo a un'offensiva dello Stato che dura almeno da tre anni:

"Questa restaurazione della sicurezza l'abbiamo lanciata su tutto il territorio nazionale, compresi i centri qualificati come terra di nessuno. In queste aree abbiamo capovolto le più discutibili tradizioni, troncato i traffici, contestato la logica dei precedenti rapporti di forza… Il ritorno dell'autorità repubblicana non è indifferente all'agitazione di alcuni centri, nei quali una minoranza di individui pensavano di essere gli unici padroni. Tra il mondo della violenza e quello della pace pubblica, tra i codici che reggevano l'universo di certi quartieri e le regole che reggono la Repubblica, l'ora della verità è suonata! La posta in gioco è considerevole. Perché, se non è l'ordine della Repubblica a regnare in questi quartieri, sarà quello delle bande o degli estremisti" (intervento del 15 novembre 2005 all'Assemblea Nazionale).

Segue la descrizione dell'impressionante dispiegamento di forze che rappresenta una vera e propria risposta militare alla rivolta, con tanto di occupazione del territorio e instaurazione di un regime di terrore.

La prima considerazione che facciamo noi è che, dopo tre anni di durissima attività "pacificatrice" del territorio, al posto della pace è scoppiata una rivolta. Ma questo è del tutto secondario, dato che fa parte della tradizione poliziesca alimentare i conflitti invece di appianarli. La seconda, più importante, è che il controllo del territorio è rimasto in mano alle bande e agli estremisti, se dopo tre settimane di scontri e incendi, solo il coprifuoco e l'occupazione militare (condotta con tutto quel che c'era: CRS, gendarmes mobiles, BAC, RG) s'è potuto venire a capo dei "disordini". C'era organizzazione, questo è certo, ma forse non come l'intende il ministro attivista, abituato come tutti i politici a dare la colpa a qualcuno invece che a qualcosa. Nelle rivolte non è necessario che esista un'organizzazione immediata, essa emerge quando diventa necessaria, specie in una società che organizza completamente la vita degli uomini e offre di per sé la soluzione (per inciso, è il concetto di spontaneità proletaria organizzata di Lenin). Non c'è bisogno di oscure quanto comode dietrologie − la delinquenza, al Qaida o altri non specificati estremismi − per spiegare l'emergere di quella delle banlieues. Dalle interviste agli émeutiers e dal tam tam su Internet risulta chiarissimo che essi stessi non erano consapevoli della rete spontanea effettiva, rilevata meglio da chi vedeva le cose dall'esterno piuttosto che dall'interno. È sufficiente che si formi una convergenza di intenti e fluisca informazione attraverso i normali mezzi di comunicazione affinché si realizzi una rete spontanea che sembra enorme, capace di coordinare chi mette a ferro e a fuoco 300 città. Ed è ciò che ha scritto l'Economist, quando ha citato, senza comprenderne la portata effettiva, i cellulari e Internet (cfr. capitoletto "Noi di Bobigny…")

Pochi hanno osservato che la rivolta francese ha le stesse radici di quelle di Chicago e Los Angeles e anche quei pochi hanno più che altro fatto un parallelo fra i colorati di allora e quelli di adesso. Ma, e in America e in Francia, il colore c'entrava poco. Sarebbe come dire che in Sudafrica la maggioranza della popolazione, che lavora nelle fabbriche e nelle miniere, ha lottato perché è negra. A parte la manìa di tirar fuori connotazioni etniche, a nessuno è venuto in mente che la rivolta delle banlieues ha qualcosa in comune, per certi versi, anche con lo sciopero dei super-precari della UPS negli Stati Uniti. Sono due situazioni completamente differenti, ma ci sono anche delle analogie importanti. La mobilità, per esempio. Oppure la comunicazione via Internet e cellulari, come ha notato l'Economist. Il muoversi in un ambiente favorevole o perlomeno non ostile. Il fatto che ormai dire operaio è come dire diseredato precario. Anche nelle rivendicazioni si può vedere un'analogia: i banlieusards non ne avevano affatto, ma anche quelle dei precari della UPS non erano in fondo "rivendicazioni" classiche: tutto era incentrato sulla vita precaria. Su salario e norme le richieste erano poche e sono state solo parzialmente soddisfatte, ma sul precariato tutto è come prima e anzi peggio. In entrambi i casi, una rabbia incontenibile e soprattutto un'organizzazione spontanea che ha stupito tutti, hanno caratterizzato gli eventi.

Ci sarebbe da capire come mai le rivolte, a parte le giustificazioni sbirresche, sembrano sempre organizzate anche se non lo sono. Come mai qualche volta finiscano per essere organizzate davvero. Come mai, infine, si tramutino in un'ondata irresistibile, subiscano una metamorfosi, diventino passibili di direzione e quindi movimento rivoluzionario. Da Euno a Spartaco, dai Ciompi ai Sanculotti, da Stenka Razin all'Ottobre. Gli esperti di reti sanno che l'anatomia del passaparola (è anche il titolo di un libro sulle reti) porta alla scoperta di un sistema complesso di relazioni in cui inevitabilmente alcuni elementi diventano connettori e altri hub, ossia centri di smistamento di informazione. Per le tre settimane di rivolta in Francia non fu davvero necessario che ci fossero misteriosi burattinai dietro le quinte: bastava la rabbia, il passaparola e naturalmente un po' di tecnica, che aiuta sempre, come qualche telefonino e qualche accesso a Internet.

Per questo l'organizzazione territoriale aperta è più potente di quella locale a cellule chiuse. È un concetto che la nostra corrente ribadisce dagli anni '20, quando si oppose all'organizzazione di partito per cellule d'azienda, voluta dall'Internazionale, quando già si era sperimentato il disastro dell'occupazione delle fabbriche, con gli operai prigionieri al loro interno, e fuori esercito, polizia e fascisti, completi padroni del territorio.

Intervention de M. Nicolas Sarkozy, ministre de l'Intérieur

[Abbiamo estratto alcuni paragrafi dell'intervento di Sarkozy in parlamento il 15 novembre 2005. L'ordine con cui abbiamo realizzato il collage è leggermente diverso rispetto alla trascrizione pubblicata dal ministero, dalla quale abbiamo tradotto quasi letteralmente. Non siamo d'accordo con chi definisce "sarkonazismo" il contenuto: questa è la democrazia, altra non ce n'è. Pretendere che lo Stato non faccia il suo mestiere "per il bene del popolo" è sempre stata una sciocchezza].

Signore e signori deputati,

a quindici minuti dal centro di Parigi e nel cuore delle nostre grandi metropoli regionali assistiamo a incendi e distruzioni. Dei Francesi abbassano le saracinesche, si chiudono in casa a tripla mandata, vivono in una paura viscerale. La violenza genera angoscia, disillusione e amarezza. Non è questa l'idea che ci eravamo fatti della Repubblica.

La rivolta, come sapete, è partita da Seine-Saint-Denis, si è estesa a diversi dipartimenti dell'Île-de-France toccando infine più di 300 città. Funzionari della polizia, militari della gendarmeria, pompieri e medici in missione sono stati colpiti non solo da lanci di pietre, ma anche da tiri intenzionali di armi da fuoco. Ottomila veicoli privati e pubblici sono stati incendiati. E inoltre sono stati incendiati ospedali, scuole, asili, palestre, luoghi di culto di ogni confessione, persino presepi.

Perché questa rivolta urbana? Una condivisa lucidità ci deve condurre ad affrontare la prova, perché nessun governo può eludere le proprie responsabilità. Quella di aver costruito città-dormitorio. Di aver tollerato chi minaccia la vita dei cittadini con il pretesto dell'integrazione. Di aver preteso che l'insicurezza fosse un sentimento e non una realtà. Di aver sottovalutato la questione degli immigrati. Di non aver badato alla discriminazione razziale che penalizza i giovani più meritevoli. Di non aver valutato meglio politiche pubbliche e finanziamenti massicci. Di aver permesso la derisione dei valori repubblicani e nazionali.

Sì, ognuno di noi deve fare un bilancio per quel che gli compete.

I quartieri in difficoltà non sono altro che l'espressione esacerbata di un paese che nella sua maggioranza dubita, ha paura del declassamento e non ha speranza nell'avvenire. Come proporre più giustizia per i quartieri sensibili quando il sentimento d'ingiustizia attraversa tutti gli strati sociali? Come promuovere l'uguaglianza di opportunità quando il principio di merito non è rispettato? Come instaurare dei valori comuni quando l'intera società è tentata dall'individualismo, dalla chiusura etnica e dal corporativismo? Come trovare infine dei margini di manovra quando il nostro paese da anni vive con un tasso di crescita inferiore al due per cento?

In realtà dobbiamo edificare una nuova società di progresso e di giustizia, una nuova politica repubblicana che ci porti a rompere con le menzogne che troppo sovente diciamo a noi stessi e dietro alle quali prospera la conservazione. Molteplici fattori economici e sociali spiegano la rivolta dei quartieri. Ma oltre ai fattori suddetti vi è la precisa volontà di resistere all'ordine repubblicano. Sono tre anni che noi facciamo della lotta contro la delinquenza una priorità politica come nessun altro governo ha mai fatto. In passato le forze di polizia non avevano potuto agire in profondità nei quartieri. Prima della rivolta attuale, tra il 1997 e il 2002 ci sono state 25 giornate di distruzioni e di scontri, ma nemmeno un arresto. Questa concezione non è la nostra, perciò abbiamo rinforzato l'azione contro le bande che hanno base nelle zone sensibili, diventate vere zone franche.

Signore e signori deputati,

in questi tre anni abbiamo condotto 1.600 indagini; operato 12.000 fermi; incarcerato 3.205 persone; sequestrato 27 milioni di euro, 1.500 armi, 5 tonnellate di cannabis, 100 chili di cocaina, 1.300 automobili. Abbiamo smantellato traffici e produzione di oggetti falsi. Sbaragliato una rete clandestina per l'immigrazione. Bloccato una quantità di conti bancari, patrimoni immobiliari ed esercizi commerciali intestati a famiglie coinvolte nei traffici. In questi giorni di rivolta abbiamo effettuato 10 operazioni "pesanti", frutto di una strategia offensiva che si prolungherà e strutturerà con il mantenimento sul campo di una ventina di compagnie di polizia e squadroni di gendarmeria. Si tratta di forze con una formazione specifica basata sulla mobilità, la capillarità e gli interrogatori, forze che sono state sollevate in modo permanente dal servizio di ordine pubblico a vantaggio della sicurezza dei nostri concittadini. In parallelo alle operazioni di polizia, è stata condotta con determinazione un'attività di polizia giudiziaria coordinata con il ministero della giustizia. 3.300 persone sono state arrestate.

Infine, dalle ore zero di mercoledì 9 novembre, è stato dichiarato lo stato di emergenza su tutto il territorio metropolitano della Repubblica e, a discrezione dei prefetti, soprattutto il coprifuoco nelle zone sensibili. In venticinque dipartimenti sono state definite le zone dove possono essere prese misure complementari, in particolare perquisizioni. Conformemente alle istruzioni che ho diramato, i prefetti hanno fatto un uso misurato e responsabile dell'estensione di poteri a loro affidata, un uso proporzionato alla necessità di ristabilire l'ordine. In alcuni dipartimenti i prefetti hanno vietato la vendita di carburanti al dettaglio.

La logica della dichiarazione dello stato d'emergenza è in effetti una logica di precauzione e prudenza, che ci permette di dominare e inquadrare le iniziative necessarie. Vale a dire che è in vigore ovunque, ma saranno applicate misure solo dove necessario, per garantire un giusto equilibrio fra le libertà personali e le esigenze dell'ordine pubblico. Si sono già prodotti effetti: la violenza urbana e gli incendi sono diminuiti e toccano ormai solo 102 città. È naturalmente ancora troppo, tuttavia sembra esserci un progressivo ritorno alla calma. È comunque una ragione sufficiente per chiedere al governo di prorogare lo stato di emergenza che la legge prevede debba cessare dopo 12 giorni dalla proclamazione. Per questo occorre un'altra legge. Sarebbe saggio e ragionevole prevedere una proroga di tre mesi a partire dalla scadenza dei 12 giorni. Trattandosi anche di perquisizioni, assicuriamo che esse saranno effettuate rispettando tutte le formalità giudiziarie.

"Faire la part du feu"

Come si vede, la borghesia ha le idee chiare su come far quadrare le chiacchiere demo-populiste con la repressione armata. Meno chiare le ha l'ambiente che si autodefinisce rivoluzionario sulle sorti e sul compito del proletariato e del suo partito.

"Faire la part du feu" significa salvare il salvabile, più precisamente sacrificare ciò che non può essere salvato per preservare il resto. Oppure, rovesciando la prassi: incendiare coscientemente il caotico e cespuglioso sottobosco per preservare il bosco e i suoi grandi alberi secolari. Lo fa la borghesia all'interno della società per feroce istinto di conservazione; lo dovrebbe fare il proletariato per eliminare dai suoi ranghi la zavorra borghese che gli impedisce di guardare al futuro. Certamente la pratica di provocare incendi per poterli reprimere meglio è assai tradizionale fra i ministeri di polizia, li abbiamo visti all'opera, in Francia e altrove. Ed è proprio questa attività che ha portato gli ingenui (speriamo) anarchici a sospettare il granello della provocazione e a non vedere la montagna delle centinaia di milioni di banlieusards che nel mondo vivono la loro non-vita.

Qui dunque dobbiamo parlare non tanto di polizia quanto soprattutto di pulizia nel sottobosco sedicente rivoluzionario. E ce ne sarebbe di caotica cespugliosità da "incendiare", nel senso di collocarla definitivamente all'interno della borghesia senza più infingimenti, ambiguità, accuse di tradimento, giustificazioni e via politicantando. C'è gente che non tradisce più, non è che sia sulla sponda proletaria e si venda a quella borghese: è decisamente su quella borghese e basta. Quando la si sente insistere in modo sospetto sul fatto che la rivolta di banlieusards è priva di tutte le belle e sane caratteristiche di coscienza di classe come si leggono nei libri; che gli incendiari sono teppistelli estranei al classico proletariato; che quindi noi rivoluzionari non c'entriamo per niente con questi movimenti; ecco, allora si deve accendere in noi un allarme rosso, perché siamo di fronte a qualcuno che ha fatto propria la tesi sarkoziana della volontà criminale. Di fronte a qualcuno che invece di auspicare una rottura totale, ben più profonda di questa, vagheggia una rivoluzione senza botti, incendi e vetri rotti.

Come può essere che all'inizio del III millennio ci siano dei nipotini di Turati, Tasca e Gramsci che credono ancora alla religione hegelo-crociana secondo la quale "in principio era la coscienza, cioè l'idea, poi venne l'azione"? Li abbiamo conosciuti gli operaisti che teorizzavano lotte di classe belle e coscienti e poi, quando ad esempio nel '62 a Torino ne scoppiò una vera, magnifica, estesa, potente contro tutti, la sconfessarono vigliaccamente, aderendo alla tesi degli stalinisti e della questura, i quali vedevano solo giovani meridionali teppisti che tiravano pietre e incendiavano camionette della Celere (cfr. Viva i teppisti della lotta di classe, e il nostro L'operaismo italiano e il suo sessantotto).

Così c'è gente che si dice rivoluzionaria e che fa notare con rincrescimento come il governo abbia preferito "inviare puntualmente una armata di CRS portando la guerra… mentre nei quartieri cosiddetti sensibili non sono aumentati i poliziotti di prossimità o postazioni di polizia permanenti" (Arlette Laguiller, Lutte Ouvrière). E nello stesso articolo si invoca una politica diversa per le masse popolari da parte del governo, con un linguaggio e un atteggiamento tutto interno alle logiche di governo. Non molto diverso l'ex "teorico dell'illegalità di massa" Toni Negri: "Occorrerebbe una vera apertura di processi di partecipazione, che sono cose serie. La partecipazione è messa in discussione dei rapporti di potere, scuole che funzionano, casse di risparmio che abbassano i tassi di interesse" (intervista a La Stampa). Casse di risparmio! Non c'è dubbio: tutti medici al capezzale del cadavere capitalistico, ansiosi di guarirlo e farlo funzionare al meglio.

Ma basta così, questa spazzatura riformista non merita tanto spazio. Lasciamo piuttosto l'arma della critica al banlieusard.

"Oh, les anars, les cocos! Né dio né padroni. Che forte. Non abbiamo coscienza, vero. Non è stata una ribellione come si deve, vero. Ma è molto duro fare qualcosa mentre ti schiaffano sotto un proiettore a causa di quel che sei e mentre tutti, dall'imam al sindacalista, ti invitano alla calma. Mentre la sinistra è in cerca di crediti perché l'incendio per una volta non è colpa sua. Mentre la destra chiuderebbe volentieri il ghetto gettando la chiave ai servi che si prestano volontari per il lavoro. Questo non è molto catho, ragazzi. Perciò questa volta dirò qualcosa di veramente réac, da piccolo borghese zonard senza coscienza: preferisco i teppistelli che mimano i rappers e che mettono le molotov sotto le bagnoles come voialtri imbucate il curriculum per l'iscrizione a ScienPo. Preferisco i piccoli voyous che imbastardiscono la lingua facendovi andare in estasi o incazzare a seconda che siate degli accademici intello-bobo o accademici normali. Se avrete lasciato un po' di spazio sui marciapiedi con i vostri gipponi 4x4 andrò a spasso con altri réacs come me, che se ne fottono di qualsiasi avvenire repubblicano, della flicaille di Sarko e delle elemosine di Villepin. Ahmed, tiens le coup. Né dio né padroni, che forte".

Il messaggio del banlieusard − il solito collage, tanto per rendere l'idea − ci sembra più chiaro di tante "prese di posizione" intellettualoidi: faire la part du feu, bruciare (ovvio: metaforicamente) sinistri ormai insalvabili, per salvare ciò che ha un futuro. Non è detto che le rivolte, anche se sono mute, non abbiano qualcosa da dire. E non serve a niente farle parlare con parole che non sono le loro, come se si mettessero a caso i sottotitoli a un film di cui non si capisce il linguaggio.

Letture consigliate

  • Robert Conot, L'estate di Watts, Rizzoli, 1967.
  • Jean Baudrillard, Fuck your Mother! Libération, 18 Novembre 2005.
  • Debka File, France’s Ramadan Uprising, Special Report, 7 novembre 2005.
  • Associated Press, Des associations de banlieue appellent à manifester sur les Champs-Elysées, 9 novembre 2005.
  • Dictionnaire de la zone (con le definizioni del linguaggio banlieusard e alcuni audio interessanti), http://cobra.le.cynique.free.fr/dictionnaire/index.php?index=lexique.
  • The Economist, An underclass rebellion, 12 novembre 2005 e numeri successivi.
  • Arlette Laguiller, La violence dans les quartiers populaires et ses responsables, Lutte Ouvrière, 4 novembre 2005.
  • Elaine Sciolino, Immigrant Polygamy Is a Factor in French Unrest, New York Times, 18 novembre 2005.
  • Nicolas Sarkozy, Assemblée nationale, Intervention du Mardi 15 novembre 2005, publié par le Ministère de l'Intérieur et de l'Aménagement du territoire.
  • Smaïn Bedrouni et Christian Cotten, Jeunes émeutiers de banlieue: jusqu'à quand jouerez-vous les marionnes? (appello lanciato su Internet e diffuso con volantino).
  • Azouz Begag, Trafic de mots en banlieue: du "nique ta mère" au "plaît-il?", Migrants -formation, n° 108, mars 1997.
  • Ministère de l'Intérieur et de l'Aménagement du territoire, Un défi républicain: la discrimination positive à la française, 26 octobre 2005.
  • Andrea del Ponte, Tardo Antico e attualità, da Teodosio a Sarkozy (articolo ricevuto come newsletter in redazione).
  • Toni Negri, "Ma per la rivoluzione c'è tempo", intervista a La Stampa, 12 nov. 2005.
  • Jean Chesnaux, C'è un muro tra Parigi e la banlieue, intervista raccolta da Anna Merlo (ricevuta come newsletter in redazione).
  • Il programma comunista, "Evviva i teppisti della lotta di classe! Abbasso gli adoratori dell'ordine costituito!", n. 14 del 1962.
  • Rivista n+1, "L'operaismo italiano e il suo sessantotto", n. 14 del 2004.

Glossario dei termini comparsi nell'articolo

Anar: Anarchico.

BAC: Brigade Anti Criminalité.

Bagnole: Automobile.

Beur: Arabo, in senso spregiativo.

Bobo: Acronimo di Bourgeois-Bohème, termine coniato dal giornalista David Brooks del New York Times per indicare il borghese sinistrorso pieno di manìe salutiste, ecologiste e un po' new age, che però va a spasso con un enorme gippone 4x4, che fa tanto campagnolo ma inquina come un camion. Bobo-sociolo-démocrat è il borghesuccio che non è solo socialdemocratico (socialo-démocrat) ma è anche sociologo, studioso dello zoo-banlieue.

Bobo4x4: Bobo sul suo gippone.

Banlieusard: Abitante della banlieue (significa anche anche "pendolare").

Bouillie: Pappa, poltiglia.

Caïd: Capoccia, boss.

Casseur: Colui che rompe qualcosa. In argot anche "scassinatore".

Catho: Cattolico. Il termine non sempre viene utilizzato con riferimento alla religione ("n'est pas très catho", detto da un beur a un bianco: "Non sei coerente, non va bene quello che dici").

Coco: Comunista.

Communautarisation: Formazione spontanea di comunità, etnicizzazione.

Connerie: Fesseria, stronzata.

Corbu: Le Corbusier, architetto e urbanista.

CRS: Compagnie Républicaine de Sécurité (un po' come la nostra "Celere")

Électrocuté: fulminato.

Émeutier: Chi partecipa a una sommossa, ma anche "casinista".

ESSEC: Business Scool, istituto privato (ha corsi in comune con la Bocconi).

Fainéant: Nullafacente.

Flic, Flicaille: Sbirro, Sbirraglia

Gendarmerie Mobile: Truppe scelte anti-terrorismo.

Keuf: Sbirro.

Lieu de relégation: Luogo di confino.

Marais: Palude, sinonimo di zone nel senso di ghetto.

Métro-boulo-dodo: Termine assolutamente spregiativo per indicare chi è occupato e integrato, cioè prende il Métro per andare al lavoro (boulot) e ritornare a letto (dodo).

Pédé: Gay. Il termine viene però usato anche senza specifico significato sessuale.

Prolo: Proletario.

Racaille: Feccia.

Réac: Reazionario.

RG: Renseignements Généraux (Servizi d'informazione del Ministero degli interni).

Sauvageon: Ragazzo selvatico.

ScienPo: Sciences-Po, Institut d'étude Politiques de Paris (fondazione privata).

Soupe gauloise à prétention universelle: Zuppa tipica alla francese con pretese universali; frase ricorrente nei testi della sociologia zonarde scritta da zonards.

Voyou: teppista.

Zeppard: Da ZEP, Zones d'Éducation Prioritaires, una legge dell'81.

Zone: "Un tempo zona militare che si estendeva all'esterno delle fortificazioni di Parigi, dove era proibito costruire qualsiasi edificio ma era occupata illegalmente da costruzioni leggere e miserabili; oggi spazio esterno di una città, caratterizzato dalla miseria dei suoi abitanti" (Larousse). Qui useremo "zone" e "zonard" nei capitoletti scritti in prima persona e i sinonimi "banlieue" e "banlieusard" nei restanti.

Rivista n. 19