Il futuro immediato del capitalismo

In questo numero vogliamo dimostrare due assunti in un certo senso correlati:

1) il capitalismo distrugge le sue stesse basi dilapidando in modo insensato le fonti energetiche minerali; essendo impossibilitato ad adottare rimedi tecnici e riformisti per trovarne di alternative, e non potendo per sua natura dissipare meno energia, deve tentare di ricavarne anche dall'agricoltura, affamando il mondo;

2) l'Unione Europea non può rappresentare un vero polo capitalistico unitario in grado di contrastare l'egemonia degli Stati Uniti; essa è già sotto tutela americana per le note ragioni politico-militari, e la sua mancanza di autonomia non potrà che peggiorare a causa dell'emergere di nuove potenti nazioni e della dipendenza dall'estero per le materie prime minerali, energetiche e agricole.

Il controllo americano su gran parte delle fonti energetiche fossili e del ciclo alimentare rende quasi automatico il dirottamento della ricerca verso la produzione di alcoli da miscelare con i combustibili tradizionali. Ma siccome la terra oggi coltivabile è già sfruttata oltre la sua capacità di rigenerarsi biologicamente, ecco che entra pesantemente in gioco la legge marxista della rendita: una parte crescente delle foreste e dei terreni agricoli oggi dedicati alla produzione di cibo sarà convertita alla produzione di materia prima per combustibili alcolici od oleosi.

I due argomenti, agrocarburanti e Unione Europea, sono correlati perché la fame di energia scatenerà una corsa al controllo delle fonti (già s'è scatenata la speculazione su di esse) e di conseguenza i grandi poli capitalistici si scontreranno in modo molto più violento di quanto non stia succedendo ora. Tuttavia, mentre Cina, India, Russia, Giappone e altre potenze emergenti, oltre ovviamente agli Stati Uniti, sono in grado di muoversi autonomamente e di sviluppare una politica estera coerente con il loro essere nazioni, i paesi dell'Unione Europea si presentano al grande appuntamento della svolta energetica sempre più sparpagliati.

In questo campo v'era già stata una svolta, a metà degli anni '70, provocata, allora, dall'esigenza, da parte dei paesi produttori di petrolio, di intascare una maggior quota della rendita, accaparrata in misura notevole dalle grandi compagnie petrolifere. Quella svolta, energetica e finanziaria, fu assecondata da una politica lungimirante degli Stati Uniti, i quali contavano di intercettare una consistente quota di petrodollari tramite il controllo dei flussi finanziari, che sarebbero risultati potenziati rimanendo comunque fermamente ancorati ai mercati di New York, Chicago e Londra. La prossima svolta sarà invece provocata dalla penuria pura e semplice di petrolio, fatto che avrà gigantesche conseguenze sull'intero assetto del capitalismo e, noi auspichiamo, sui tempi della sua scomparsa.

Infatti, in questa prospettiva, il petrolio non è solo la scintilla che farà scattare politiche di maggior controllo delle sue fonti e quindi ulteriori guerre, fame e distruzione. Ciò che è in gioco è la sopravvivenza stessa del capitalismo, che verrà percepita ovviamente dai singoli Stati come sopravvivenza di sé stessi, e che li costringerà a prendere provvedimenti drastici. Le conseguenze sul proletariato mondiale sono facilmente immaginabili.

Oggi il 35% dell'energia dissipata nel mondo proviene dal petrolio, il 25% dal carbone e il 21% dal gas naturale. Il 19% da altre fonti: idroelettrica, nucleare, geotermica, ecc. D'altra parte i giacimenti di gas e petrolio sono geologicamente associati, e quindi in effetti il mondo oggi dipende dagli di idrocarburi per il 56% del fabbisogno. Questa è però l'istantanea di una realtà che sta mutando, non fosse che per i due miliardi e mezzo di cinesi e indiani in procinto di consumare più merci, possedere un'automobile e muoversi di più su navi, treni, aerei.

C'è naturalmente una relazione diretta fra la crescita economica e il consumo di energia, ma la crescita riguarda soprattutto società fresche di capitalismo, che quindi consumano molto di più che non quelle vecchie, giunte a saturazione. Quel che è ancora peggio, il consumo di energia sta aumentando a dispetto degli alti prezzi del greggio e del gas, mentre la produzione di questi ultimi sta raggiungendo il suo massimo; anzi, secondo alcuni istituti di ricerca, l'avrebbe già oltrepassato, e la prospettiva non può essere che un suo calo.

Secondo il recente rapporto (ottobre 2007) dell'Energy Watch Group, i dati finora resi pubblici, specie quelli americani e inglesi, sono falsati da una ricerca basata solo sulla prospettiva dello sfruttamento dei giacimenti esistenti e delle nuove riserve accertate, mentre nel modello EWG si tiene conto della serie storica, che affonda le radici nel passato e si proietta nel futuro con dati certi sul consumo già verificato. La conclusione sarebbe che il "picco petrolifero", cioè l'insieme delle variabili che mostrano quando la curva del consumo crescente e quella della produzione calante s'incontrano, è già stato raggiunto nel 2006. Se i dati saranno confermati dalla realtà, ne risulterebbe davvero una svolta epocale. Come ognuno può ben comprendere, ciò avrebbe conseguenze enormi, specie sui paesi che importano totalmente i prodotti energetici. Non si tratterebbe solo di variazioni di prezzi, tensioni sui mercati finanziari o monetari, ma della vita stessa in molti paesi industrializzati, in primo luogo quelli europei.

La percezione di questo fatto sta evolvendo velocemente e quando questa rivista uscirà dalla tipografia probabilmente gli argomenti energetici saranno sulla bocca di tutti ancor più di adesso. Ma per il momento c'è ancora la convinzione che l'età del petrolio sia lungi dal terminare, anche se, come diceva lo sceicco Yamani, bisogna tener presente che l'età della pietra non ebbe certo fine perché fosse esaurita la pietra. Molto prima dei limiti intrinseci del sistema, la conversione delle fonti porterà tra l'altro a un massiccio uso dell'agricoltura per produrre combustibili, e allora sarà fame prima ancora che si fermino le automobili e le centrali.

Anche i responsabili degli scenari più ottimistici, come quello finora mostrato dall'International Energy Agency, incominciano ad ammettere che bisogna tener conto dell'avvicinarsi più veloce del previsto di un oil crunch, un collasso petrolifero. I dati sono impressionanti: nel 2006 la produzione mondiale di petrolio ha eguagliato la domanda con 81 milioni di barili al giorno. Ma la domanda cresce quasi in parallelo con la crescita economica, che per Cina e India insieme significa un incremento di almeno il 7%, un tempo di raddoppio ogni 10 anni. Pur ammettendo il solito flesso nello sviluppo con il crescere dell'economia, di fronte al consumo crescente si ha la certezza di una produzione calante. L'EWG calcola che la produzione mondiale passerà dagli 81 milioni di barili odierni a 58 milioni nel 2020 e addirittura 39 milioni nel 2030. Di qui al 2030 l'economia mondiale crescerebbe, mantenendo i ritmi attuali al 3-4%, fino a più del doppio. Il consumo di petrolio dovrebbe essere conseguente, mentre la sua produzione si dimezzerebbe. Il capitalismo sembra dunque arrivato al capolinea. Ammettiamo pure che i dati siano sbagliati, che si trovino nuovi giganteschi giacimenti e li si possa mettere in produzione prima del previsto: che cosa potrà mai storicamente cambiare se pur ci fosse per il sistema una dozzina di anni d'agonia in più o in meno?

Rivista n. 22