L'Europa virtuale e i nuovi attrattori d'Eurasia: la Turchia come fulcro dinamico (2)

Il terzo paradigma geopolitico

La Turchia è ancora, ufficialmente, un alleato abbastanza fedele degli Stati Uniti nonché un avamposto della NATO. Il crollo dell'URSS, la disintegrazione della Jugoslavia, il caos caucasico e l'incongruenza europea nei Balcani, hanno rappresentato il dissolvimento del suo contesto geopolitico aprendo le porte a prospettive che fino pochi anni fa erano pura fantapolitica. L'invasione dell'Iraq ha fatto precipitare gli eventi con la ratifica di un'autonomia curda già fomentata dagli USA nella prima guerra del Golfo. Il significativo ammassamento di ben 100.000 soldati alle frontiere giustificato con la necessità di eliminare i "santuari" della guerriglia curda e di proteggere la minoranza turcomanna è lì a dimostrarlo.

Le direzioni dell'interesse turco sono quelle già stabilite dalla storia: i Balcani, l'Eurasia e il Medio Oriente. Se per il momento è perlomeno problematico uno sbocco pratico verso l'Eurasia, per la diplomazia turca è invece del tutto normale un interesse specifico nell'area balcanica dell'ex impero ottomano. In quest'area vi è qualcosa di più di una semplice "affinità culturale", come invece recitano i documenti diplomatici: vi sono comunità turche musulmane che assommano a sette milioni di persone, insediate da Bihac a Istambul, dalla Bosnia al Sangiaccato, dal Kosovo alla Macedonia, dalla Tracia bulgara a quella greca. Di conseguenza l'interesse non è certo platonico, anche se l'ingerenza effettiva è meno quantificabile di quanto paventino e denuncino la Serbia e la Grecia. Sta di fatto che buona parte dei turchi balcanici, e anche dei non turchi ma musulmani, vivono oggi in Turchia, espulsi dalle guerre balcaniche recenti. La situazione coinvolge tutte le "minoranze oppresse" balcaniche, spesso tali soltanto in alcuni paesi, mentre in altri sono maggioranze che opprimono. Il destino di una qualsiasi minoranza balcanica è infatti terribile: essa è usata come ostaggio nel paese "ospite" e come agente infiltrato dal paese d'origine. Per cui si creano a non finire pretesti per una "pulizia etnica". È in un contesto del genere che la Turchia, semplicemente, non potrà evitare di essere "interessata".

Ma anche l'area euroasiatica, pur non rappresentando come abbiamo detto uno sbocco immediato per la crescente "questione nazionale" turca, incombe con potenzialità assenti fino a poco tempo fa. Oltre alle già accennate potenzialità endogene del mondo pan-turco che ruota intorno alla Turchia propriamente detta, vi è il potenziale rappresentato da forze esterne a questo mondo. La catena di "nazioni" che va dal Caucaso allo Xinjiang e i cui anelli sono formati da Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Afghanistan, è a sua volta oggetto di attenzioni geopolitiche da parte di Stati Uniti, Russia, Cina, India e Iran, oltre che naturalmente da parte della Turchia. Essendo un'area aperta relativamente da poco alla prospezione petrolifera e fin da adesso ritenuta depositaria di grandissime riserve di petrolio, già attraversata da un'imponente rete di oleodotti e ancor più oggetto di programmi futuri, essa sembra fatta apposta per concretizzare il paradigma geopolitico dell'Heartland.

Oggi, ad esempio, un'ardita realizzazione tecnologica dell'ENI, Blue Stream (che gli americani, scettici, avevano chiamato Blue Dream quando era in fase di progetto), permette al gas russo di giungere dal Caucaso alla Turchia, e di qui al Mediterraneo e all'Europa, attraverso una conduttura che sale sulle montagne e sprofonda fino a 2.100 metri sotto la superficie del Mar Nero. Ciò significa che la tecnologia degli oleo-gasdotti, con relativi impianti di supporto, permette ormai di superare ostacoli un tempo insormontabili e, siccome né la Turchia né i paesi europei vogliono essere troppo dipendenti dalla Russia per l'energia, ecco che realizzazioni come quella citata attribuiscono un nuovo valore geopolitico ai giacimenti d'Eurasia. L'ENI è anche uno dei maggiori contraenti del progetto di estrazione dai più grandi giacimenti di petrolio mai scoperti, quello gigantesco di Kashagan (chiamato appunto supergiant) e quello di Karachaganak, entrambi in Kazakistan, dai quali un oleodotto dovrà raggiungere la rete esistente e in via di realizzazione, come l'oleo-gasdotto strategico BTC che da Baku giunge al Mediterraneo, a Ceyhan, questa volta per il petrolio dell'Azerbaigian via Georgia. A Ceyhan giunge anche un oleodotto da Kirkuk, nella zona curda dell'Iraq, distante 1.000 chilometri, capace di fornire un milione e mezzo di barili al giorno. Non per niente in Azerbaigian, Georgia e Kurdistan tutta la struttura statale è pagata dagli americani, i quali sono presenti con truppe, basi e armamenti, tanto per far capire a tutti gli Stati dell'area che cosa significa strategia, almeno per il momento.

La possibilità di collegare l'Europa all'Asia centrale, non fosse che per mezzo di oleo-gasdotti, complica e modifica la visione strategica classica, fossilizzatasi al tempo della Guerra Fredda, quando c'era ancora l'URSS, imperavano teorie di "equilibrio del terrore atomico" e si consumava molto meno petrolio. Mackinder e Spykman avevano elaborato teorie geopolitiche basate su linee di forza che seguivano i paralleli terrestri (Heartland, Rimland); Haushofer sosteneva che le linee di forza seguivano invece l'andamento dei meridiani (Eurafrica, Panrussia, Panamerica); oggi la Turchia, cardine fra i due paradigmi strategici, sembrerebbe diventare un terzo paradigma, sintesi dei primi due e che potrebbe essere disegnato a partire dall'impero ottomano così com'era alla fine del XVII secolo, ma con quelle propaggini verso l'Asia centrale che ad esso mancavano. Quella che è oggi la cosiddetta Unione Europea, nel paradigma non ha posto, ed è per questo motivo che per il momento è meglio parlare solo al condizionale. Per avere un'idea esatta delle linee di forza che emanano dalla Turchia e, soprattutto, vi sono dirette, il planisfero eurocentrico non è lo strumento migliore, perché l'Eurasia vi è troppo deformata dalla riduzione del pianeta sferico alle due dimensioni della carta. Occorre prendere un mappamondo, puntare sulla Turchia e di lì tracciare cerchi concentrici.

Struttura materiale del potenziale imperialistico

Ci troviamo di fronte a una situazione contraddittoria: da una parte abbiamo le quattro o cinque vecchie potenze d'Europa, con il corollario di un'altra ventina di nazioni a vario sviluppo ad esse recentemente federate, che non riescono a rappresentare una entità imperialista unitaria; dall'altra abbiamo un paese cui è possibile attribuire i caratteri imperialistici ma che molti ritengono arretrato, capace al momento di realizzare tutt'al più una zona di contatto diplomatico su una antica unità quasi esclusivamente linguistica. Unità che persino gli ideologi del nazionalismo turco riferiscono a una semi-storia mitica le cui origini si perdono nella notte dei tempi, quando società barbare delle steppe, diedero vita a "imperi" quasi sempre caratterizzati dalle civiltà conquistate.

Eliminiamo subito l'equivoco provocato dalla credenza, assai generalizzata, che la Turchia sia ancora oggi un paese arretrato, come dimostreremo con poche ma sufficienti cifrette, e incominciamo con la struttura del potenziale imperialistico turco.

Vi sono molte teorie dell'imperialismo. In Marx il contenuto precede la forma, quindi abbiamo ancora un lessico "imperiale" quando si parla di imperi (antichi o d'Inghilterra, Russia, Francia, ecc.), mentre nel III Libro del Capitale è già perfettamente delineata una teoria economica dell'imperialismo (nello schema del lavoro erano previsti capitoli − mai scritti − sul mercato mondiale e sulla guerra, conclusivi in tal senso). Hobson, Hilferding, Rosa Luxemburg, Lenin, Bucharin, Schumpeter, e altri elaborano una teoria dinamica a partire dai caratteri intrinseci del capitalismo, tutti sulla scorta delle considerazioni di Marx (ammettendolo o meno). Gli attuali economisti terzomondisti sono invece ritornati a una teoria moralistica sinteticamente riconducibile alla formula "scambio ineguale".

Come sempre succede in ambito scientifico, un conto sono le teorie, un conto sono le leggi che governano i fenomeni e che gli uomini scoprono prima o dopo aver elaborato teorie (una teoria può anche essere frutto di esperimenti mentali). Le leggi fanno parte del modo di essere della natura, le teorie scaturiscono dalla loro interpretazione e possono essere sbagliate. Non c'è dubbio che si possa parlare di "imperialismo" anche nel caso degli imperi antichi, ma a noi interessa al momento la definizione di Marx-Lenin, per cui chiamiamo imperialismo l'ultimo stadio del capitalismo. In tale stadio i rapporti fra paesi capitalisti hanno (ed è una legge) una serie di caratteri invarianti, come la preminenza del capitale finanziario, dell'estrazione di plusvalore relativo dal proletariato, della produzione socializzata, della statizzazione dell'economia e della capacità di proiezione militare su teatri lontani. Caratteri che sono indipendenti da fattori quantitativi.

In base a tale legge dire "paese pienamente capitalista" o "paese imperialista" è la stessa cosa, data l'equivalenza totale fra i due aggettivi. Ovviamente la grandezza e la potenza diventano fattori decisivi sul piano operativo, e si possono ricordare esempi estremi, come quello del piccolo Belgio colonialista e dei grandi Stati Uniti senza colonie (erano essi stessi una colonia). Osservata la legge, ci occorre una teoria, e questa ci è data dal corretto rapporto tra la base qualitativa e i dati quantitativi della realtà.

La Turchia è certamente un paese imperialista sia in senso storico che in senso economico-politico moderno. Era un vastissimo e potente impero, e ciò ha plasmato la sua storia, quindi l'ideologia della borghesia nazionale turca; è oggi un paese capitalistico alla "fase suprema" (i caratteri del capitale moderno predominano qualitativamente rispetto alle attività contadine e artigiane). A giudicare dall'attività militare recente al confine iracheno, il quadro si completa anche con la proiezione di potenza. Insomma, se era imperialista l'italietta stracciona con la Guerra di Libia nel 1912, è imperialista anche la Turchia.

Abbiamo già visto che il "nazionalismo" cambia nel tempo anche se la sua natura borghese è sempre la stessa. E abbiamo visto che vi sono rivendicazioni nazionalistiche utilizzate dalle grandi potenze per i loro scopi e nei loro scontri, e che in tale processo si ingigantiscono. Vi sono però potenzialità nazionalistiche molto più ponderose che oggi non sono contemplate dalla strategia delle maggiori nazioni imperialistiche e che quindi covano sotto la cenere. Ciò non toglie che siano grandi potenzialità. Nel caso turco si tratta di potenzialità già ben individuate e ideologicamente coltivate apertamente, per adesso, solo da minoranze politiche. Anche se qualche volta vengono allo scoperto personaggi politici di primo piano, come l'ex presidente turco Turgut Özal, il quale, già diversi anni fa, si riferiva apertamente alla creazione di una "comunità turca dall'Adriatico alla Muraglia Cinese". E il suo governo, oltre a riferirsi idealmente alle varie componenti nazionali, avviava con esse scambi assai concreti.

È in tali contesti che la "questione nazionale" può assumere le più svariate forme pan-etniche, come successe con la Grande area slava propugnata dagli zaristi, la Grande Germania tedesca dai nazisti o l'Impero italico dai fascisti. Non si tratta solo di questioni passate. Oggi il nazionalismo sionista pan-ebraico parla apertamente di Grande Israele; non c'è compagine palestinese che non evochi una Grande Palestina, con o senza la popolazione ebraica; il nazionalismo pan-arabo di origine nasseriana o baathista rivendica ancora oggi una Grande Arabia. È persino nata un'ideologia della Grande Europa, nonostante non vi siano elementi unificatori a sostenerla. Non è perciò strano che oggi il nazionalismo turco riprenda la parola d'ordine sulla Grande Turchia, per metà concetto e per metà fatto reale. In fondo tale nazionalismo non fa che occupare un vuoto geopolitico lasciato dalla Russia, dall'Unione Europea e in parte anche dagli Stati Uniti. Un'occupazione che anzi è favorita da un moto di ritorsione contro le difficoltà accampate dall'UE per l'ingresso della Turchia, paese della NATO, mentre non si son sollevati troppi problemi nell'accettare un'ondata di ex membri del Patto di Varsavia legati all'ex URSS. Un'occupazione naturalmente facilitata dal comportamento di Washington nella conduzione della guerra in Iraq, specie per quanto riguarda le attenzioni verso i Curdi.

Da quando è stata fondata la Turchia moderna sui resti anatolici dell'impero ottomano, il nazionalismo turco ha caratteri ben precisi e ricorrenti. La borghesia fondatrice volle darsi un assetto europeo nonostante la tradizione radicata, impostando una struttura sociale completamente nuova. Dopo un periodo di governo a partito unico, vi fu la transizione (1950) a un assetto parlamentare democratico classico, intervallato da alcuni colpi di stato nel 1960, 1971, 1980 e 1997 (quest'ultimo definito "post-moderno" dalla stampa) dovuti al fatto che l'esercito si pone all'interno della società turca come difensore dell'ordine costituzionale e di una società laica.

Affermare che la Turchia è un paese imperialistico, l'abbiamo visto, ha bisogno oggi di una spiegazione di fronte a chi crede che esso sia una specie di paese del Terzo Mondo. Comunque non è difficile dimostrare che invece ha il potenziale necessario per agire in perfetta sintonia con il capitalismo giunto alla sua fase imperialistica. Esporta merci e capitali (anche finanziari), ha un forte assetto militare, fa parte di un'aggressiva coalizione imperialista e proietta il proprio ascendente, in parte fomentandolo con programmi statali, su alcune aree che ritiene di propria pertinenza. Nel 1974 è intervenuta a Cipro con uno sbarco militare per prevenire l'annessione dell'isola da parte della Grecia, instaurando una "Repubblica turca di Cipro Nord". Dal 1984 interviene militarmente anche fuori dai suoi confini per contrastare l'attività del Congresso del Popolo del Kurdistan (l'ex PKK). Nella guerra fra le regioni dell'ex Jugoslavia ha appoggiato finanziariamente e militarmente le minoranze avverse alla Serbia. Come vedremo in dettaglio, interviene direttamente, con investimenti e relazioni "culturali", nell'area turcofona d'Eurasia.

Pur tenendo conto che c'è ancora una grande differenza fra la parte industrializzata e alcune zone povere dell'Anatolia centrale, anche i dati economici rivelano un paese assai più sviluppato di quanto comunemente si crede. La Turchia occupa un'area di 780.580 Kmq, due volte e mezza l'Italia. Ha quasi 72 milioni di abitanti, in buona parte urbanizzati, ben alfabetizzati, con un'età media di 28 anni (Istanbul, Ankara e Smirne hanno da sole 22 milioni di abitanti, la parte "europea" del territorio, la Trakya, con il 2,5% della superficie ha il 15% della popolazione). La terra agraria, in buona parte coltivata con metodi moderni, copre il 33% della superficie.

Il PIL ammonta a 667 miliardi di dollari così suddiviso: 31% industria, 60% servizi e 9% agricoltura, con una crescita del 5,6% all'anno (5,5% solo crescita industriale). Gli occupati sono 26 milioni, di cui 6 milioni nell'industria (23%). I rami d'industria, in ordine d'importanza sono: tessile, conserviera, automobilistica, elettronica, mineraria, siderurgica, petrolifera, edile, del legname e della carta. Il consumo elettrico totale è di 140 miliardi di Kwh, i telefoni cellulari sono 53 milioni, gli utenti Internet 12,3 milioni, le ferrovie 8.700 km, gli oleodotti e gasdotti 7.500 km (per un confronto con l'Italia: PIL 1.698; consumo elettrico 302 miliardi di Kwh; cellulari 70 milioni; Internet 29 milioni; ferrovie 19.000 Km; oleo-gasdotti 18.000 Km).

Bastano poche cifre per mettere in evidenza la spiccata funzione patriottico-nazionalista delle forze armate: i giovani chiamati al servizio di leva sono quasi 900.000, mentre gli effettivi di carriera, cui possono accedere anche le donne, sono 250.000; la spesa militare rappresenta il 5,3% del PIL, vale a dire che in proporzione la Turchia spende per il suo apparato militare più della Cina, degli USA o della Russia e ha l'obiettivo di diventare autosufficiente per il 50% degli armamenti e dei materiali entro pochi anni. La Turchia ha ancora un "esercito di popolo", struttura che Engels auspicava in quanto più è grande la quota della popolazione che viene sottoposta alla leva, più il proletariato è addestrato alla disciplina e all'uso delle armi. In effetti l'esercito è il nucleo della turchizzazione, e in quanto tale è depositario e garante della laicità dello Stato, capace non solo di inquadrare i militari ma di suscitare ondate popolari, anche moti di piazza, contro chiunque sia sospetto di travisare la Costituzione borghese. E siccome i militari e in genere i rappresentanti dello Stato non vanno per il sottile con chi sgarra, questa natura del potere borghese si riflette sulla politica estera, specie a livello di trattativa per l'ingresso nell'Unione Europea: i diplomatici turchi non sono affatto… diplomatici quando si vedono oggetto di prediche sulla presunta inadeguatezza della Turchia e rispondono sempre duramente di fronte a ingerenze, anche minime, rispetto alla sua sovranità nazionale.

Il dato più interessante è che la Turchia è ancora un paese industriale in crescita. Ancora e non già, per via di quel 31% del PIL dovuto al settore industriale che ha un tasso di sviluppo ancora uguale a quello dell'economia in generale, mentre nei paesi a vecchio capitalismo il settore industriale si assottiglia sempre più (USA 12%). Un paese che non è più "in via di sviluppo", ma è di capitalismo ancora giovane, capace di ulteriore slancio grazie a un vasto mercato interno e a buone prospettive per quello estero (le esportazioni ammontano a 112 miliardi di dollari). Sei milioni di cittadini turchi lavorano all'estero, dei quali 2,4 milioni solo in Germania; ma il bilancio attuale fra ingressi e uscite è pari a zero e si sta verificando anzi un rientro di manodopera qualificata dall'estero verso l'industria locale.

Un buon esempio di lungimirante politica economica statale dello sviluppo è offerto dal sistema di regolazione delle acque nella zona montagnosa del Sud-Est anatolico. Si tratta di un progetto integrato che prevede l'utilizzo dell'acqua per l'irrigazione e la produzione di elettricità. Esso è imperniato sui due grandi fiumi mesopotamici, il Tigri e l'Eufrate, ma in realtà copre un immenso bacino idrico di grandissima importanza strategica, tanto che l'Iraq ne aveva già denunciato la pericolosità per la propria agricoltura al tempo di Saddam Hussein. Il progetto è inoltre collegato all'attività mineraria che si svolge nella zona, dove tra l'altro è stato rinvenuto un giacimento petrolifero. È previsto l'utilizzo in massa di uomini e mezzi dell'esercito, il quale ha già dislocato le prime unità. Il bacino idrico menzionato è suddiviso in valli che convogliano l'acqua proveniente da grandi ghiacciai perenni, valli che saranno "attrezzate" con 22 sbarramenti in grado di fornire energia e di irrigare le campagne anche a grandissima distanza. All'interno di questo progetto è prevista la costruzione di centri urbani e industriali, insomma, uno sforzo nazionale "alla cinese".

Doppiezza della sovrastruttura ideologica

La posizione ufficiale del governo turco tende a rappresentare la Turchia come paese europeo che ha avuto la sua rivoluzione giacobina e che quindi rifugge ogni politica basata sulle differenze etniche, religiose e di altro tipo, sia dal punto di vista della discriminazione che da quello dell'aggregazione. All'interno della Turchia vi sarebbero dunque solo cittadini turchi, mentre il contesto "estero" sarebbe europeo, dato che buona parte dell'Europa attuale è il risultato del ritiro dell'impero ottomano. Il quale, a sua volta, s'era sviluppato essenzialmente su parte dell'area romana e bizantina e non, come si crede normalmente, sul Turkestan, cioè sull'area turcofona. La conseguenza di questa posizione è che la diplomazia ufficiale turca non fa mai cenno all'Asia turcofona, limitandosi a nominare un'Eurasia dai contorni molto vaghi. L'area turcofona sarebbe quindi interessante solo per i glottologi e gli storici, non per i politici turchi tesi verso l'europeizzazione della Turchia.

Se attingessimo esclusivamente alle fonti ufficiali turche, verremmo a sapere soltanto che la Turchia sarebbe un elemento di stabilizzazione europea (a differenza della Grecia, naturalmente) nonostante le difficoltà storiche. Come parte integrante di un sistema troppo complesso, che comprende l'Europa, l'Asia, il Mediterraneo, il Medio Oriente, la zona del Mar Nero e del Caspio, il mondo islamico, la Cerniera balcanica, ecc. essa sarebbe stata messa in difficoltà da cause esterne, tanto da non riuscire ad esprimere la sua vera vocazione occidentale e a legarsi all'Europa, come avrebbe auspicato, non soltanto nella sua storia recente. Piegando la storia a questa "ideologia europeista turca", si giunge ad affermare che

"La vocazione dei Turchi, fin dai loro insediamenti in Asia Minore, cioè dal X secolo d.C., è stata europea. La storia dei Selgiuchidi dell’Anatolia e quella ottomana rappresentano una prova evidente di questa vocazione. La determinazione dei Turchi in tal senso continua fin dai giorni in cui furono chiamati i "sultani delle regioni romane", fino ai tempi moderni in cui i rappresentanti della Sublime Porta partecipano ai congressi di Vienna, Parigi e Berlino, e successivamente la Repubblica turca negozia una pace giusta e meritata a Losanna, e ancora più recentemente diventa un membro delle Nazioni Unite, della Nato e del Consiglio d’Europa, e infine quando firma l’accordo di associazione con le Comunità Economiche Europee ed entra a far parte di una vera unione doganale con l’Unione Europea (Umut Arik, Gli assi della geopolitica turca).

Abbiamo visto che c'è un fondo di verità in queste determinazioni storiche, ma di qui a negare che vi sia una nascente ideologia pan-turca ne corre. Nonostante quel che dice il governo di sé stesso, i governanti non sono così cauti ed europeisti nelle dichiarazioni personali di fronte ai giornalisti. Che siano dello schieramento destrorso o sinistrorso, spesso si lasciano andare ad affermazioni che evocano apertamente la Grande Turchia, se non proprio su di un'area che va dall'Atlantico al Pacifico come affermano alcuni ultranazionalisti, almeno sui territori effettivamente conquistati dai Turchi di Turchia nella loro storia. E, come abbiamo visto, ce ne sarebbe già abbastanza per alimentare contrasti geopolitici da parte di tutte le potenze interessate, da quelle europee alla Russia, alla Cina, agli Stati Uniti. Per quanto la diplomazia sia cauta, alla fine non può nascondere le pulsioni nazionalistiche presenti nella società turca e ravvivate enormemente dall'atteggiamento della Unione Europea:

"La Turchia è stata parte dell’Europa? Nossignori, questa è un’idea completamente errata. La Turchia e i Turchi sono una nazione che l’Europa ha tentato di annientare da mille anni, fin dalla vittoria di Malazgirt del 1071. Gli europei non possono nascondere queste ambizioni e manifestano chiaramente l’intenzione di ricacciare indietro i turchi dall’Anatolia all’Asia centrale" (Ömer Lütfi Turan).

(Nella battaglia di Malazgirt i Selgiuchidi vinsero i Bizantini, consentendo alle tribù turche di stabilirsi definitivamente in Anatolia. Nell'iconografia nazionalista è spesso rappresentata come un turbine soprannaturale).

Entrambe le citazioni (la precedente è la posizione ufficiale del governo e quest'ultima è tratta da un giornale nazionalista di destra) sono storicamente sbagliate, ma, anche se sembrano contrapposte, sono espressione di una pulsione politica largamente condivisa da tutto l'arco parlamentare-militare turco e di un'unica ideologia che ha il suo fondamento nella situazione reale della Turchia. Tanto più adesso che questo paese è passato da alleato di ferro degli Stati Uniti (e quindi attratto nell'area euro-atlantica) ad alleato recalcitrante di fronte al pesante ingresso americano nell'area di influenza turca, enormemente allargatasi con il crollo dell'URSS. L'apertura verso l'Eurasia non va a sostituire quella verso l'Europa, semmai la affianca, indurendo il rapporto con i paesi europei, cioè alzando la posta, a dispetto dei sermoni moralistici delle vecchie potenze.

Del resto è sempre stato così, a parte le oscillazioni dovute al cambiamento di situazione. Il citato ex presidente turco Turgut Özal era un acceso propugnatore del nuovo Turkestan, quando non era ancora possibile una politica diplomatica sul terreno e l'ideologia sconfinava con il mito. All'epoca, infatti, il nocciolo duro dell'ideologia pan-turca era costituito da movimenti come la setta esoterica destrorsa dei Lupi Grigi, oggi divenuta partito parlamentare centrista con il 20% dei seggi (1999). Non a caso il nazionalismo ideologico dei primi tempi avanzò di pari passo con la diffusione del pensiero di Ahmet Yesevi, un mistico sufi kazako del XII secolo. Ma il meccanismo di identificazione fra il mito nazionale turco e la realtà di un paese assai pragmatico portò alla definizione di una specie di modello da offrire alle "repubbliche sorelle" d'Asia, compreso uno specifico Islam turco moderato da contrapporre a quello iraniano; perciò sia la mistica sciamanica delle steppe che quella islamico-sufista presero piede per essere subito inglobate nella prassi diplomatica. L'Islam che la Turchia offre ai Turchi d'Eurasia ha assunto, ormai ufficialmente, un valore "laico", che peraltro era alla base del nazionalismo turco d'Anatolia, cioè il kemalismo.

Quando Özal morì, proprio al ritorno da uno dei molti viaggi nei paesi ex sovietici inquadrati dal nazionalismo pan-turco nei suoi irrealistici disegni, subentrò nel nazionalismo turco un ripensamento in chiave meno mistica e più operativa. Più Europa, quindi, e meno Turkestan ideale; più diplomazia e meno fantapolitica. In compenso più posti nelle università turche per migliaia di studenti turchi provenienti dai paesi ex sovietici, più televisione satellitare in lingua turca, più scambi commerciali, più convegni fra le nazioni turcofone, più accordi culturali, più linee aeree, telefoniche e telematiche. Fino al progetto di un Fondo Monetario Pan-turco e a quello di una scrittura comune basata sui caratteri latini già adottati da Ataturk.

Questi obiettivi e progetti, che in un primo tempo produssero solo saggi di linguisti e geopolitici più qualche articolo di giornale, incominciarono a produrre anche summit di capi di Stato turcofoni che a loro volta produssero una "idea" che prese forma sotto il titolo "Una Via della Seta per il XXI secolo" (1994), fatta non più di piste per cammelli e caravanserragli ma di oleo-gasdotti, stazioni di pompaggio, autostrade e infrastrutture. Firmarono Turchia, Azerbaigian, Turkmenistan, Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan. Siamo in un'epoca nella quale era ancora vitale il legame della Turchia con gli Stati Uniti e la NATO, e le compagnie petrolifere anglosassoni vedevano di buon occhio la penetrazione atlantica nell'Heartland post-sovietico. Per Ankara fino ad allora andava bene così: la sua posizione funzionale alla geopolitica atlantica la faceva diventare un cardine primario, capace di entrare nei meccanismi non del tutto distrutti del vecchio Comecon in quella parte critica del mondo. In quest'ottica riprese vitalità la ECO, Organizzazione per la Cooperazione Economica dell'Asia centrale, di cui facevano parte Turchia, Azerbaigian, Iran, Afghanistan e Pakistan.

Come si vede gli intrecci sono potenti. L'ideologia lasciò il posto alla pragmatica penetrazione "economica e culturale". Furono peraltro gli Stati Uniti, tramite il Segretario di Stato, a consigliare l'adozione del termine Eurasia, usato dagli americani per designare l'area asiatica post-sovietica. Per smorzare i toni pan-turchi nella sua diplomazia, Ankara adeguò il proprio lessico e acconsentì, ovviamente marciando per la sua strada. In quel momento la sua visione geopolitica combaciava con quella degli Stati Uniti, cioè con quella classic da noi già ricordata dei Mackinder e Spykman. Si era verso la metà degli anni '90. Le nuove tecnologie di prospezione e di trasporto del gas e del petrolio avrebbero potenziato l'interscambio energetico Est-Ovest e Nord-Sud (Eurasia, Europa e Africa), e l'Anatolia sarebbe diventata il perno con cui molti avrebbero dovuto fare i conti. L'ideologia s'era dunque presto fatta strategia geopolitica di lungo periodo.

Per quanto concerne l'ideologia funzionale all'imperialismo turco, sarebbe da affrontare anche il pregiudizio anti-arabo, che è tanto radicato quanto privo di fondamenti di qualsiasi tipo, a meno di non scendere al livello di idiosincrasia razziale, peraltro estranea alla tradizione antica e ottomana. La spregiudicatezza diplomatica con cui la Turchia affronta i paesi musulmani "fratelli" è nota, come è nota l'inimicizia esistente con Egitto, Siria e Iran, mentre vi sono accordi bilaterali con Israele. Durante la Guerra del Golfo, nel 1991, l'allora presidente Özal, prima che gli americani decidessero di fermarsi davanti a Baghdad, ventilò, di fronte all'esercito turco allertato, nientemeno che l'ipotesi di annettere le province irachene di Mosul e Kirkuk. Ora, tali province sono in un'area a prevalente popolazione curda con la presenza di una minoranza turcomanna, ma l'Iraq è un paese arabo e nelle due province vi sono vasti giacimenti petroliferi che contano certo più della guerriglia curda e della minoranza turcofona. Dichiarazioni di così vasta portata non scaturiscono per caso e di sicuro non facilitano i rapporti con l'area araba e persiana a Sud-Est della Turchia. Ciò sottolinea il fatto che l'interesse strategico maggiore non su quel versante, anche se detta area faceva parte dell'antico lebensraum (spazio vitale) ottomano, ma è verso l'Europa e soprattutto l'Eurasia, dove invece la Turchia sviluppa al massimo la sua diplomazia e la sua pazienza strategica.

Dal potenziale all'attuale: la "Grande Turchia" in moto

Nella ricerca di elementi che permettano una previsione sull'assetto eurasiatico nel prossimo futuro, abbiamo visto il contesto storico, geopolitico, diplomatico, economico, strategico. Il rapporto fra gli Stati fa parte del tutto, e non è solo una questione di politica estera o di strategia di ognuno di essi, ma di dinamica storica che contribuisce a plasmarne le caratteristiche nel loro insieme. Come abbiamo visto i rapporti della Turchia in Eurasia non potevano essere che con l'Unione Europea, la Russia, la Cina, l'India, cioè con i grandi paesi presenti fisicamente nell'area; e ovviamente con gli Stati Uniti, i quali su quella stessa area proiettano la loro enorme potenza economica e militare. Una certa asimmetria è quindi oggettiva.

Dal punto di vista del modello di sviluppo capitalistico la Turchia ricorda un po' la Cina. Ankara pratica una politica statale di sostegno all'economia di mercato (ormai siamo abituati a questa contraddizione) e attua una politica di penetrazione all'estero, anche se per il momento di basso profilo. Una dozzina di anni fa, sulla base di materiale raccolto da compagni spagnoli, affrontammo un lavoro proprio su elementi di similitudine fra i due paesi. Dodici anni fa la Cina non era ciò che è oggi e nel frattempo sono successe molte cose, ma il paragone può essere ancora sostenuto nonostante il diverso tasso di sviluppo che ha portato la Cina all'onor delle cronache, situazione che è destinata a durare ancora per molti anni.

Nella nostra ricerca degli invarianti le analogie hanno il sopravvento, ma prima di affrontarle è bene tener presente le differenze. Analizziamole. Divergono prima di tutto i dati quantitativi della popolazione, della superficie e della massa di valore prodotto. È macroscopica anche la differenza nel bilancio commerciale e finanziario, dato che Ankara ha un deficit di circa 40 miliardi di dollari mentre Pechino ha un attivo di dieci volte tanto, quasi 400 miliardi. Lo spazio vitale, cioè il bisogno di espansione, per la Turchia diventerà fisico, mentre per la Cina rimarrà economico. La storia passata dei Turchi fu un frenetico movimento di conquiste e ritirate, mentre quella dei cinesi fu una lotta per la conservazione della millenaria unità idealizzata nella "Terra di mezzo". In Turchia sono del tutto assenti fenomeni come la "questione contadina" o la mistificazione "comunista", mentre in Cina assumono enorme rilievo. L'approccio neo-coloniale verso altri paesi per la Turchia si configura come un vero e proprio lebensraum, mentre la Cina sta "solo" attivando una rete di affari estera.

Quest'ultimo punto va forse visto in dettaglio. La Cina, come documenta un inserto speciale di The Economist, sta penetrando in diversi paesi con i quali non ha alcun collegamento storico o culturale, ad esempio in Africa e in Sud America. Si tratta di un fenomeno completamente diverso rispetto alla tendenza turca verso l'Eurasia. In Africa la Cina è presente con missioni diplomatiche per una penetrazione economica scientemente e rigorosamente separata dai problemi politici, etnici, economici e sociali, al limite del cinismo, al solo fine di ricavarne un profitto. Al contrario, in Eurasia la Turchia fa leva sull'identità turca, reale o enfatizzata, investendo strategicamente su un futuro incerto con esito finanziario al momento decisamente negativo. L'investimento è rischioso, ma il profitto in gioco è immane.

Le analogie, come s'è detto sono più interessanti. Sia con Ataturk che con Mao si è avuta una "rivoluzione borghese fino in fondo" con caratteri giacobini, come rivendicano orgogliosamente i Turchi. I tassi di crescita dell'economia sono entrambi alti e dovuti a un "dirigismo liberista" con aspetti addirittura militari. La crescita demografica e l'urbanizzazione sono state velocissime, con la formazione di un proletariato numericamente formidabile in relazione alla popolazione totale. La questione sociale si basa sul gioco democratico parlamentare, ma in realtà è come se ci fosse un regime di partito unico, dato che in Turchia l'esercito si fa "garante" del rispetto costituzionale e, come abbiamo visto, non esita a promuovere colpi di stato per abbattere governi non ritenuti idonei. Le opere pubbliche, specialmente le infrastrutture, sono impostate sulla base di investimenti pianificati dallo Stato e realizzate in parte direttamente dalle forze armate. La politica estera è improntata a una grande insofferenza nei confronti delle ingerenze estere su questioni di politica interna.

Come il lettore avrà facilmente notato, sia le differenze che le analogie conducono a una dinamica di intervento in Eurasia da parte della Turchia. In parte abbiamo visto che già succede, ma non ancora al punto di preoccupare le grandi potenze come sta invece succedendo con la Cina. Ma è facile dedurre che è solo questione di tempo.

Il paese al momento più sensibile a un'eventuale incremento della penetrazione turca in Eurasia è la Russia. Questo non solo perché la maggior parte dei territori turcofoni faceva parte del sistema economico-militare sovietico, e quindi rimangono dei legami pratici che Mosca vorrebbe sfruttare per un riavvicinamento, ma perché la Turchia, nonostante il crescente contenzioso strategico con gli americani, è ancora fortemente legata agli Stati Uniti e potrebbe rappresentare un cavallo di Troia americano supplementare. Se il paragone con la Cina non è campato in aria, le determinanti che muovono la politica estera turca non sono più quelle paventate da Mosca. Primo, a causa della insofferenza crescente della Turchia verso ogni forma di condizionamento; secondo, a causa di alternative già trovate dagli Stati Uniti sia all'interno della Unione Europea (Polonia, Ucraina, Romania, Bulgaria), sia in Asia centrale (Afghanistan, Pakistan, Uzbekistan).

La Russia è in una posizione ambigua nei confronti della Turchia, suo nemico storico: da una parte avrebbe interesse a collegarla al suo ex lebensraum meridionale, che è in gran parte turcofono (cospicue minoranze russe fra i turcofoni stanno ritornando in patria e potrebbero rappresentare un collegamento; dall'altra non è pensabile un avvicinamento alla Turchia se questa rimane uno dei pilastri della NATO e continua a rispettare vincoli atlantici che si rafforzerebbero in caso di soluzione del contenzioso con l'Europa (cosa che al momento non è però all'orizzonte). Da notare che l'ex URSS, nel suo disfacimento ha abbandonato ovunque enormi basi militari, alcune con missili intercontinentali atomici, basi le cui dimensioni sono del tutto spropositate rispetto alle popolazioni e alle nuove realtà economiche locali. Ovviamente esse sono costruite secondo i criteri della guerra fredda e non sono utilizzabili così come sono nel contesto attuale, ma comunque rappresentano pezzi di una rete militare un tempo integrata, oggi inseriti nella ripresa economica e militare delle nuove nazioni indipendenti. Non è un caso che gli Stati Uniti abbiano dato priorità assoluta alla propria penetrazione economico-militare in Uzbekistan, il più popoloso dei cinque paesi centro-asiatici ex URSS (da solo ha un numero di abitanti pari alla somma di quelli degli altri quattro), appunto per rompere in anticipo eventuali catene di accordi in grado di rendere solidale l'insieme turcofono.

Fra queste manovre diplomatiche procede in sordina la penetrazione turca: nel 1992 viene siglato un trattato russo-turco per normalizzare i rapporti economico-politici, cui si dà il pomposo nome di "Mercato comune euroasiatico", con particolare riguardo, al solito, per l'energia; nel 1994 nasce il "T6" (Turkish 6), un trattato multilaterale fra Turchia, Turkmenistan, Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Azerbaigian con sede permanente a Istambul; nel 1996 nasce, su spinta della Turchia, il "D8" (Developing 8): Turchia, Bangladesh, Iran, Nigeria, Pakistan, Egitto, Indonesia e Malaysia (in tutto un miliardo tondo di abitanti). In queste occasioni alcuni esponenti del nazionalismo turco siano giunti a sottolineare che è turca anche metà della popolazione iraniana (normalmente i persiani sono ritenuti indoeuropei), segno che l'ideologia galoppa in parallelo alle realizzazioni pratiche. Fioriscono i summit ufficiali organizzati dalla Turchia su temi che interessano il "Mondo turco"; proliferano le associazioni "private" per la promozione della cultura pan-turca; si consolida una rete non ufficiale ma sponsorizzata dal governo, di licei turchi in Asia Centrale (alcuni anche in Cina!); nasce la Turkish International Cooperation Agency per gli investimenti diretti della Turchia nella stessa area (nella quale gli investimenti turchi sono secondi solo a quelli degli Stati Uniti); vengono lanciati tre satelliti per le telecomunicazioni (che il maggior giornale turco presenta come la voce del "nuovo impero ottomano", "sbagliando" volutamente per l'ennesima volta il riferimento storico); nasce infine un "Consiglio dell'Islam euroasiatico", formato da più paesi sotto la direzione della turca Diyanet, una specie di ministero per gli affari religiosi ma emanazione diretta dello Stato laico. Nel 2004 l'ammontare totale delle attività economiche turche verso l'area eurasiatica era di 12 miliardi di dollari e interessava 9.500 imprese, mentre la banca nazionale turca per l'import-export (Eximbank) aveva aperto linee di credito agevolato per 1,5 miliardi di dollari.

È in tale contesto che si consolida il rapporto con Israele mentre, nello stesso tempo e contraddittoriamente, negli ambienti militari si fa strada il timore che un troppo stretto legame con gli Stati Uniti possa frenare lo sviluppo nazionale della Turchia. Infatti gli Stati Uniti non stanno a guardare. L'Uzbekistan è l'unico paese ex URSS che non confina con la Russia ed è in posizione strategica ideale per gli interessi americani, per quelli russi e per quelli turchi. La grande attenzione degli Stati Uniti verso questo paese è in contrasto con l'attività della Turchia nella zona e ciò aggiunge motivi di screzio a quelli già abbondanti provocati dalla situazione irachena.

Questo conflitto tra USA e Turchia emerge oltretutto ai margini di un fenomeno usuale per il Capitale quando si trova ad agire nelle aree di frontiera: il proliferare di attività illegali ovunque vi siano forti interessi in gioco e deboli poteri statali. Per i paesi imperialisti il costruire teste di ponte utili alla penetrazione in Asia Centrale, come dovunque, comporta il coinvolgimento delle forze economiche e politiche del luogo e spesso queste non sono altro che mafie. Di qui scaturisce un'intensificazione locale dell'incredibile intreccio di traffici che gli osservatori internazionali già chiamano "Far West centro-asiatico", che a sua volta costituisce un richiamo di capitali di oscura provenienza, usati non solo per traffici di droga, uranio, oro, brevetti, ma anche per il riciclaggio di denaro dirottato da funzionari e persino da capi di stato dediti a prepararsi una tranquilla vecchiaia.

Non è strano che ognuno, proprio mentre accusa i suoi concorrenti di connivenza con le potenti mafie che scorrazzano attraverso le frontiere centro-asiatiche, tenti di esportare o attrarre capitali appoggiandosi su qualsiasi forza locale in grado di assicurarne l'investimento in non importa quale settore. La Turchia è accusata non solo dagli americani, ma anche da russi ed europei, di assecondare le mafie internazionali e le connivenze dei governi-famiglia locali. La cosa sarà vera o non vera, ma una precisazione assolve ogni "colpevole": il Capitale soffre quando è posto di fronte a regole, restrizioni, vincoli istituzionali. E quando trova uno spiraglio su un'area selvaggia del mercato vi si butta con l'avidità dell'affamato in previsione di grandi profitti in poco tempo. È il capitale corsaro, quello dei meccanismi di accumulazione originaria, ma reso molto più feroce dall'ambiente finanziario modernissimo da cui proviene. E non ha bandiera. Di fronte ad esso vincoli nazionali e storici diventano strumenti, e ostacoli politici vengono spazzati via dando luogo a sceneggiature incredibili, degne di un romanzo d'appendice (senza storia d'amore) o di un film d'avventure: chi può infatti regolare il traffico di merci e denaro dove s'incrociano e regnano triadi cinesi, mafie russe, yakuze giapponesi, intrecciate con governi corrotti, asserviti ai governi delle nazioni più potenti del mondo?

La Turchia e l'Europa

Il primo approccio della Turchia verso l'Unione è del 1959. Nel 1963 i paesi che allora facevano parte della CEE diedero assicurazioni per l'ingresso, ma in realtà vi fu un accordo solo su questioni doganali di secondaria importanza. Fu comunque data assicurazione, negli anni successivi, per la piena adesione, dopo che la Turchia avesse avviato un piano di riforme politico-strutturali. Nel 1979-80 vi fu il veto (esplicito) da parte della Grecia e quello (implicito) della Germania. In pratica l'insieme dell'Unione rifiutava il processo di integrazione. La Germania accampava, tra le altre, una motivazione ufficiale di stampo razzista: la futura libera circolazione della forza-lavoro avrebbe permesso ai milioni di turchi immigrati di richiamarne altri con le famiglie; motivazione ancora più pretestuosa dopo Schengen, poiché da ogni paese, non solo dalla Turchia, verrebbe questo "pericolo".

La politica estera suicida della Germania risulta di difficile lettura. Al veto contro la Turchia seguirà il riconoscimento della Slovenia e dei pezzi balcanizzati della Jugoslavia, mentre la mitica ostpolitik sarà ridotta alla coltivazione di alcuni interessi industriali nel giardino geopolitico alle soglie di casa. Il più potente paese europeo dice no alla Turchia e no all'integrità della Jugoslavia, ma sì all'ingresso di paesi dalle politiche manifestamente dirompenti, come quelli dell'ex area sovietica, come se avesse timore della sua stessa politica europeista, sostenuta ufficialmente e demolita nella pratica. Un masochismo storico a livello sovrastrutturale che non ha riscontro nella effettiva, materiale potenza tedesca, una rinuncia di leadership europea che ha una sua spiegazione solo nella politica di governi completamente asserviti al Dipartimento di stato americano. Da questo punto di vista l'ingresso della Turchia nell'Unione sarebbe dirompente, perché porterebbe un po' di vento nazionalista borghese a smuovere l'aria stantìa che ristagna nello smidollato campo europeista. Cosa che di per sé spiega come mai la sua alternativa "forte", che comprenderebbe l'ingresso della Turchia, sia ancora impossibile dopo mezzo secolo.

Nonostante le abissali differenze, i Tedeschi sono "cugini" degli Italiani nell'albero genealogico tracciato dalla "terza opzione geopolitica" cui abbiamo fatto cenno più sopra. Nello schema europeista reale, non atlantico, le linee di forza, abbiamo ripetuto più volte, sono "federiciane" e non "carolinge" (cfr. La grande cerniera balcanica). Il che d'altronde corrisponde anche allo schema tracciato da Engels al tempo delle guerre d'indipendenza italiane, combattute sulle faglie create dai contrasti fra Austria, Francia e Inghilterra. Lo schema rimane invariato. La motivazione nazional-borghese secondo cui l'Europa starebbe inglobando il vecchio lebensraum tedesco può andar bene per la Volkswagen ma non regge alla prova di un qualsiasi schema geopolitico. Di fatto il "giardino alle soglie di casa" è una Unione separata nell'Unione, semmai una prova concreta di vacuità politica che si manifesta nella pretesa federazione. La Germania, l'Italia, la Turchia e l'Iraq, cioè il vecchio asse Berlino-Baghdad dei geopolitici novecenteschi sembra ormai cancellato, ma solo perché sopravvive la politica atlantica imposta dalla Seconda Guerra Mondiale. Se per realistica ipotesi questo vincolo fosse eliminato s'imporrebbe del tutto spontaneamente il vecchio asse, rafforzato da nuove prospettive.

Comunque per adesso la politica atlantica domina ancora. Perciò la strada per l'ingresso della Turchia rimane in salita, tanto che rischia addirittura di essere abbandonata. Nel 1981, dopo l'implicito veto della Germania e le esplicite promesse, i paesi dell'Unione si rimangiano queste ultime sospendendo i protocolli finanziari. Nel 1997 la Turchia è esclusa dal secondo round delle trattative, cui però partecipano Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Estonia, Slovacchia e Cipro. La Turchia è assente anche quando negli anni successivi si aggiungono alla trattativa Lituania, Lettonia, Romania e Bulgaria. E tale situazione persiste proprio mentre la Turchia sta prendendo le distanze dagli USA, mentre si sta costruendo, su basi materiali e per niente inventate, un Turkestan euroasiatico, mentre la Lega Araba ammette che proprio la Turchia è l'unico paese europeo ad avere simpatia per il mondo islamico (diverso che "arabo"), mentre gioca su sei scacchieri: Europa, Balcani, Caucaso, Medio Oriente, Asia centrale e Asia estrema. Una situazione che per qualsiasi europeista borghese dovrebbe essere considerata semplicemente pazzesca (e chiarificatrice per coloro che parlano ancora di "imperialismo europeo").

Dal 1959 ad oggi la Turchia ha vissuto una situazione schizofrenica, fra l'aspirazione "ottomana" all'Europa e quella "selgiuchide" all'Eurasia. Se viene meno l'integrazione all'Europa non è detto che nel prossimo futuro prenda il sopravvento unicamente lo sbocco dell'Eurasia: è molto più probabile che, come abbiamo visto, entrambe le opzioni si integrino in qualcosa di diverso. Ormai molti politici turchi manifestano aperto fastidio di fronte alle estenuanti e inconcludenti trattative. E dichiarano, riprendendo un motto kemalista, che la Turchia non è né Europa né Asia ma solo Turchia (il che può anche significare Europa e Asia allo stesso tempo). Il negoziatore turco, all'ultimo incontro avvenuto prima che l'Unione passasse da 15 a 25 e poi 27 membri, denunciava la "problematicità" dei rapporti, ponendo la questione non più in termini di negoziato ma di alternativa:

"Una eventuale cooperazione politica con i Quindici può, allo stato attuale, avvenire solo a condizione che questa corrisponda agli interessi geopolitici turchi e che garantisca ad Ankara la massima libertà di azione in ambito regionale".

Massima libertà di azione. La prospettiva che il collasso sovietico ha aperto alla Turchia è amplificata dal comportamento europeo, Germania e Grecia (abbiamo visto) in testa. Ma è evidente che i veti hanno senso solo nell'attuale contesto atlantista, in ossequio alla strapotenza americana. Che però è in declino, anche se per ora solo dal punto di vista economico-finanziario, ed apre squarci attraverso i quali si vede un orizzonte ben diverso rispetto a quello fissato dalla Guerra Fredda. Di fronte a una prospettiva così vasta, per una borghesia così orgogliosa e ambiziosa, il terreno della "trattativa" per "integrare" un paese che non è più solo "emergente" diventa meschino. Se non cambiano le condizioni, non avrà più senso spingere per una politica che ha come unico sbocco una condizione di inferiorità in Europa, proprio nel momento in cui è scodellata dalla storia una possibilità di leadership − e forse qualcosa di più − in Eurasia, dove si rafforza il mito panturco e l'intera geopolitica del XXI secolo.

Per quanto riguarda le strutture militari comuni dell'Unione, la Turchia chiede di essere al più presto ammessa sia alle riunioni per la politica di sicurezza e difesa, sia nei centri di comando (Political and Security Committee, European Military Committee e Military Headquarters). E questo perché si trova in una posizione contraddittoria, essendo membro a pieno titolo della NATO come i maggiori paesi europei, ma esclusa dalle politiche militari comuni vincolanti per gli stessi paesi. Essa considera l'OSCE (Organization for Security and Cooperation in Europe) un veicolo per la stabilizzazione della regione balcanica, ma ovviamente pretende di partecipare alle sue decisioni, dato che già interviene con accordi bilaterali di vario genere, in particolar modo verso Bulgaria, Romania, Macedonia e Albania.

La Turchia è in contrasto con l'Unione anche per l'atteggiamento tenuto nei confronti della guerra in Iraq. Mentre molte delle operazioni militari partono da basi di paesi dell'unione, le basi turche sono state negate per l'invasione e per le successive operazioni dirette. Ancor prima della guerra il governo turco aveva chiesto di eliminare le sanzioni dell'ONU verso Baghdad, mentre i maggiori paesi europei le avevano accettate. Diversi anni prima dell'attacco americano, aveva anche fatto appello alla "comunità internazionale affinché si adoperasse per mantenere l'indipendenza, la sovranità e l'integrità territoriale dell'Iraq" dichiarando che ogni attività in quel senso non sarebbe stata tollerata e sarebbero state prese misure energiche per impedire il venir meno dell'autorità centrale di Baghdad su parti del territorio iracheno. Il riferimento era alle attività americane di sostegno ai Curdi, ma forse i servizi segreti di Ankara sapevano qualcosa in più rispetto a quel che si leggeva allora sui giornali.

Le forze armate come super-stato

Secondo gli specialisti di cose militari le forze armate turche sono ancora organizzate con criteri di vecchia concezione e armate con materiali obsoleti, in buona parte provenienti dalle dismissioni degli eserciti degli Stati Uniti e dei paesi europei. La struttura di comando sarebbe verticistica, non esente da carrierismo, clientelismo e corruzione. Dopo tanti anni di potere militare esercitato più o meno palesemente sarà anche vero. Comunque sia, i militari turchi si pongono come depositari ideali dello spirito rivoluzionario borghese a salvaguardia dei caratteri kemalisti dello Stato. E negli ultimi anni lo sforzo per l'ammodernamento materiale e organizzativo è stato enorme, come dimostrano i numeri del bilancio militare.

Il potere militare in Turchia è esercitato attraverso il National Security Council (MGK), composto di militari e civili fedeli alla linea di Atatürk, formalizzato durante il colpo di stato del 1960 e inserito nella costituzione l'anno dopo. Con questo organismo veniva sconvolta la tripartizione classica dei poteri borghesi perché, se è vero che esiste un parlamento (legislativo), un governo (esecutivo) e una magistratura (giudiziario), l'MGK poteva "suggerire" l'approvazione o l'abrogazione di leggi, sovrintendere la loro applicazione e mantenere per di più un apparato giudiziario indipendente. Aveva anche il compito di controllare radio, televisione, cinema e produzione multimediale. Fino a poco tempo fa ogni tentativo interno ed esterno di mitigare questa situazione era fallito. Dopo il colpo di stato del 1980 l'MGK era stato addirittura rafforzato con la revisione costituzionale, attuata prima che il potere fosse rimesso formalmente nelle mani dei civili (1982). In seguito, a dispetto delle raccomandazioni internazionali, il numero dei militari al suo interno è stato aumentato rispetto a quello dei civili. Solo nel 2003 e 2004 i suoi poteri sono stati limitati nel corso delle trattative per l'ingresso nell'Unione Europea. Il Financial Times nell'occasione aveva scritto che questo parziale ritorno alla democrazia rappresentava "un rivoluzione silenziosa"; in realtà l'MGK lasciava ai civili i compiti di ordinaria amministrazione per concentrarsi su prospettive meno banali.

Il "Libro bianco" sulla struttura e i compiti delle forze armate, pubblicato nel 2000 in occasione della loro riforma ammodernatrice, rispecchia fedelmente la natura ambiziosa del "pensiero militare" vigente in Turchia e può spiegare l'abbandono delle attività riguardanti la politica di ordinaria amministrazione che nel 1980-82 erano state poste sotto tutela. La copertina riporta un'oleografia a tutta pagina di stile maoista del fondatore storico Kemal Atatürk. A pagina 1 c'è un planisfero turcocentrico che assomiglia molto a quelli eurocentrici, sinocentrici ecc. La Turchia vi è evidenziata in forma di bandiera (rossa con mezzaluna e stella) e, sotto l'immagine, si legge una significativa didascalia:

"Collocata esattamente nel mezzo della massa del mondo, la Turchia è al centro delle regioni che collegano l'Europa all'Asia; e il Mar Nero, il Caucaso, il bacino del Caspio all'Africa".

La premessa alle 171 pagine che formano il documento è lapidaria: la Repubblica di Turchia, nonostante sia un paese a stragrande maggioranza musulmana, ha adottato la civiltà occidentale come modello fin da quando fu proclamata. Essa condanna ogni fondamentalismo religioso da qualunque credo sia originato. Pur essendo situata esattamente al centro di un'area di instabilità e di scontri, essa continua a rappresentare un'isola di stabilità in virtù della sua speciale struttura che le permette un governo laico e democratico, basato sulla supremazia del diritto, sull'economia di mercato e sulla sua multiforme dimensione culturale.

Questo tipo di dichiarazione è la falsariga su cui sono costruiti tutti i documenti governativi. Superflua per ogni nazione occidentale, per la Turchia è nello stesso tempo un manifesto politico e un avviso: sappiano i potenti alleati che senza la Turchia il futuro dell'area sarà caotico e senza soluzioni; che nel contesto specifico le sue forze armate si presentano come l'unica garanzia per una lotta di frontiera fra l'Occidente e l'ondata barbarica che avanza. E il riferimento all'Islam estremistico è sempre volutamente palese. L'esagerato orgoglio nazionale rispetto al ruolo reale e alle effettive realizzazioni ha un fondo di verità. La Turchia non si presenta infatti come bastione passivo contro l'avanzata del caos ma come strumento attivo per combatterlo. E, naturalmente, la riforma militare tende a procurare la struttura e le armi adatte allo scopo. Nel "centro" di un'area estremamente sensibile, le forze armate chiedevano nel 2000 di raddoppiare l'impegno militare, soprattutto dal punto di vista della modernizzazione, passando dal 20% delle forniture prodotte all'interno al 50% in dieci anni, stimolando l'industria nazionale a produrre in proprio carri armati, elicotteri, avionica, tramite accordi economico-industriali che permettessero un technology transfer dall'estero alla Turchia Il programma è in corso di realizzazione, ma la spesa è già passata dal 2,7% del PIL al 5,3%. Il tutto sotto la supervisione di un'autorità nazionale controllata dai militari, garante dell'autonomia e persino della "qualità totale" nell'intera filiera (le commesse militari dovrebbero comportare un incremento dell'occupazione di almeno 80.000 unità).

Se si guarda alla "lista della spesa" contenuta nel documento citato, balza all'occhio che non si tratta di materiale definibile difensivo. Essa è posta alla fine, dopo che per decine di pagine la struttura e i compiti delle forze armate, attuali e in progetto, vengono descritti come si fa con quelli di uno Stato espansionista, con la sua politica interna ed estera, teso a rassicurare amici e nemici sulle sue buone intenzioni. Non per niente nel capitolo fondamentale si sviluppano tesi improntate ad una certa esuberanza − diciamo così − in sintonia con il suo titolo: "Importanza geopolitica, geostrategica e geoecologica della Turchia", dove per "geoecologica" si deve intendere la politica dell'energia di origine fossile e delle acque (comprese quelle del Bosforo e dei Dardanelli, dove passano migliaia di petroliere con grave pericolo per le città rivierasche). E comunque tale esuberanza (che potrebbe essere confusa con ingenuità se non fosse che è la situazione sul campo a renderla plausibile) permea ogni pagina del testo, dove i concetti chiave sono ossessivamente utilizzati per descrivere le determinazioni geopolitiche incombenti sulla Turchia, la cui politica sembra così scaturire da un retroterra quasi messianico. Il paese, insomma, non farebbe che assecondare la storia. È questa che l'ha proiettato in "una posizione influente" rispetto a congiunture che metterebbero in difficoltà altri paesi, persino potenze di primo piano, non attrezzate "culturalmente" allo scopo. Soprattutto nel futuro, dato che si aprono sfide tremende: quella del Medio Oriente e del Caspio, "che hanno le più importanti riserve di petrolio del mondo"; quella del Mediterraneo, in cui si intrecciano le più importanti linee di comunicazione navale d'Europa; quella del Mar Nero e degli Stretti turchi "che vedono mantenuta tutta la loro importanza strategica nella storia"; quella dei Balcani, in cui sono in corso "cambiamenti strutturali dovuti al crollo dell'URSS e della Jugoslavia"; quella di Caucasia e d'Eurasia "che hanno abbondanti risorse energetiche ma sono afflitte da conflitti etnici".

"La Turchia, che è in un'importantissima posizione geostrategica dato che connette l'uno con gli altri tre continenti, è un paese allo stesso tempo europeo, asiatico, balcanico, caucasico, mediorientale, mediterraneo e del Mar Nero. In breve, è un paese d'Eurasia… Una superba sintesi di varie culture [che] come storia è parte dell'Oriente ma è nello stesso tempo indiscutibilmente parte dell'Occidente se valutata con criteri occidentali".

Nel ribadire i caratteri capitalistici pieni e democratici della Turchia, il documento elenca minuziosamente le ragioni economiche e culturali che legano il paese con tutte le sue aree d'influenza, facendole coincidere con i flussi di petrolio e di gas tra Est e Ovest, i quali "provengono dal 70% delle riserve energetiche mondiali" e per i quali si offre come "ponte naturale per il prossimo secolo". Ricorda duramente all'Unione Europea che senza la Turchia non esiste programma di difesa comune in tutta l'area, specialmente quando si tenga conto che il paese non rappresenta più il "fianco Sud" della NATO ma è diventato il nucleo centrale della sua proiezione in Eurasia. E per di più le forze armate turche sono le prime d'Europa in termini quantitativi e lo stanno diventando in termini qualitativi. Insomma, Unione Europea, Stati Uniti e Russia sappiano che, pagando il giusto e senza porre inaccettabili condizioni, possono essere partner di un paese rampante proteso verso l'Eurasia. Non tutti insieme. Uno per volta, possibilmente in concorrenza tra loro a beneficio di Ankara. Evidentemente fra Bruxelles, Strasburgo e Francoforte non s'è capito qualcosa, mentre Mosca e Washington hanno capito benissimo, per il momento senza intervenire.

Naturalmente, come ogni paese imperialista che si rispetti, la Turchia si propone come faro di pace, di libertà e di benessere nella sicurezza. E l'esercito garantisce che oleodotti e gasdotti non siano oggetto di attenzione da parte di gruppi terroristici. Anzi, proprio l'esercito turco si affretta a dimostrare di aver più esperienza di tutti in fatto di terrorismo, "questione" che per i turchi s'è posta storicamente ben prima che balzasse prepotentemente all'ordine del giorno dopo gli attacchi dell'11 settembre 2001. Con queste credenziali l'esercito, immedesimandosi nello Stato e utilizzando un linguaggio statale, si candida come fondamentale elemento risolutore dei conflitti che serpeggiano in un'area immensa, la cui peculiarità è però rappresentata da una popolazione di 200 milioni di Turchi verso i quali la repubblica kemalista

"È il modello da cui si può prendere esempio, a causa della sua stessa esistenza e successo, dell'evidenza che Islam e democrazia sono compatibili. [La sicurezza d'Eurasia e di conseguenza d'Europa e Medio Oriente] può essere realizzata soltanto con il contributo e la partecipazione della Turchia, che sta facendo ogni sforzo per mettere in pratica il proprio credo filosofico − basato sull'unica ideologia del modernismo e della civiltà − a livello globale e regionale, fino a diventare il paese leader del movimento di integrazione… in un mondo in cui le distanze geografiche non hanno più importanza e in cui la ricerca degli amici, dei mercati e delle reti di relazioni copre uno spettro che va dall'Estremo Oriente all'America Latina. In breve, essa sta avanzando nel processo per diventare uno Stato globale, consapevole delle responsabilità che il suo ruolo comporterà nel XXI secolo." (passim).

Non possiamo citare più di tanto, ma ciò che fa impressione è il linguaggio progettuale, per certi versi omologo a quello visionario dei neocons americani, con tanto di ossessione per la modernità, la democrazia, la forza e il modello sociale da esportazione. Lo stesso linguaggio e atteggiamento è utilizzato nell'elencare i compiti interni dell'esercito, in un capitolo significativamente intitolato "Contributi delle forze armate alla vita della società". Non sono evidenziati soltanto i compiti che potrebbero essere tipici di una forza militare utilizzata anche per compiti civili, quali la forestazione, la protezione civile, il monitoraggio delle zone sismiche, l'aiuto nelle campagne, la preparazione degli atleti per le competizioni internazionali ecc., ma soprattutto i compiti permanenti che rappresentano una vera e propria struttura statale parallela a quella ufficiale. Questo succede un po' in tutti gli Stati del mondo, ma solo in Turchia esistono organismi militari strettamente integrati con quelli civili, come quello della giustizia, della sanità e soprattutto dell'istruzione, che è collegato al sistema educativo nazionale fino a livello universitario, e mira a preparare non solo i quadri delle forze armate ma i migliori dirigenti della borghesia nazionale, forgiati all'ideologia di Atatürk, ultranazionalista, laica e, oggi, imperialista.

È interessante sottolineare come la percezione delle situazioni geostoriche sia influenzata dall'ideologia degli schieramenti internazionali. In Occidente la Turchia viene percepita come un paese dove il potere laico domina una società islamica, mentre l'Iran viene percepito come un paese dove il potere teocratico domina una società laica costretta a nascondersi. In realtà in entrambi i paesi la popolazione è islamica e la percezione indica soltanto quale potrebbe essere la via per azioni di destabilizzazione in appoggio a eventuali fazioni borghesi interne.

Il proletariato di un paese "veramente moderno"

L'economia turca, nonostante la prevalenza di industria e servizi moderni, è frenata da un'agricoltura che non riesce a liberare contadini per le fabbriche. Ciò, come in altri paesi di recente industrializzazione, primo fra tutti la Cina, è dovuto essenzialmente al fatto che la modernizzazione è recente, e quindi il Capitale è saltato velocemente dalla fase dello sfruttamento estensivo a quella dello sfruttamento intensivo (sussunzione reale del lavoro al Capitale). Nonostante l'agricoltura produca solo il 9% del valore totale, lo fa ancora con il 35% degli addetti.

La crescita economica molto elevata (superiore al 6% nella media degli ultimi dieci anni) è stata un fattore e nello stesso tempo un prodotto di rapporti con l'estero, avvenuti in pratica su tre fronti: l'attrazione di investimenti diretti da paesi sviluppati e l'investimento diretto turco verso paesi in via di sviluppo; l'intervento regolatore del Fondo Monetario Internazionale; le procedure per l'ingresso nell'Unione Europea. Ciò ha portato l'economia interna a globalizzarsi e quindi ad adeguarsi agli standard internazionali di produttività, cioè di sfruttamento. E siccome l'economia turca era ed è ancora in buona parte controllata dallo Stato, il governo attuale ha promosso una serie di privatizzazioni e deregolamentazioni di tipo molto classico, soprattutto per rendere "flessibile", al solito, la forza-lavoro. Una indubbia spinta all'economia è venuta naturalmente dallo sviluppo interno, sul quale ha influito, come abbiamo visto, anche il militarismo.

Sei milioni e mezzo di salariati turchi (di cui 1,2 milioni transitoriamente all'estero) dell'industria e altrettanti nei servizi e nell'agricoltura si sono così visti migliorare le possibilità di consumo, quindi le condizioni materiali di vita, ma soprattutto si son visti aumentare lo sfruttamento in ragione più che proporzionale. S'è diffuso quindi nei sindacati e nella loro base un sentimento xenofobo, sia contro l'Unione Europea, che contro il FMI, quest'ultimo in veste di rappresentante simbolico della globalizzazione. In effetti l'intervento del Fondo è stato determinante per l'aumento dello sfruttamento e quindi per il rilancio dell'economia: il documento col quale si siglava l'accordo con il governo recita che occorrono "specifiche misure per ridurre le rigidità nel mercato del lavoro quali a) alleggerire le regole di assunzione per le medie e grandi aziende; b) razionalizzare le indennità di liquidazione obbligatorie [tipo la privatizzazione del nostro TFR]; c) introdurre una maggiore flessibilità nel mercato della forza-lavoro". Dal 2003 tutto questo è diventato legge. E come al solito l'imposizione del libero mercato è passata attraverso lo Stato, cioè con l'intervento della State Planning Organisation, vale a dire l'organo di pianificazione statale turco! I particolari delle regole adottate sono simili a quelli di tutto il mondo: precariato, part-time, lunghi periodi di prova e apprendistato, ecc.

E questo, non troppo sorprendentemente, in un paese dove, a detta della Banca Mondiale, nel 2006 lavorava in nero il 33% dei salariati industriali e il 75% dei salariati agricoli. Non sorprendentemente, si diceva, perché com'è noto le leggi di liberalizzazione del mercato del lavoro sono fatte per "aiutare" i lavoratori, cioè per far emergere il lavoro illegale e permettere a tutti di avere le assicurazioni sociali. Le quali però, sempre in accordo con gli eventi globali, sono ridotte a causa delle privatizzazioni e degli interventi diretti sul welfare. Come si vede la Turchia è un paese veramente moderno. Anche perché, come altrove, né i sindacati, né i partiti di sinistra hanno mosso un dito. I sindacati, in particolare, invece di chiamare allo sciopero (anche solo per salvare la faccia), hanno accettato un compromesso a livello istituzionale, partecipando alla formazione di un Consiglio Scientifico di professori universitari assistiti da rappresentanti delle "parti sociali".

La situazione del proletariato in Turchia non è rosea. Vi sono pesanti limitazioni riguardo alla possibilità di organizzazione e di sciopero, sia a causa di impedimenti giuridici, sia a causa delle condizioni materiali di lavoro. Uno degli aspetti più negativi è la frammentazione dei sindacati, più di 100 sigle che rispecchiano una situazione contraddittoria: da una parte la grande industria, modernissima e centralizzata, che è il fenomeno dominante e quindi s'intreccia con il potere politico-militare reprimendo le organizzazioni proletarie; dall'altra l'esistenza, subordinata ma numericamente maggioritaria, di sfere produttive poco concentrate e tantomeno centralizzate. Per legge è proibita ogni attività sindacale in "luoghi di lavoro con meno di 30 dipendenti". Ciò ha permesso alle industrie, anche quelle molto grandi, di suddividere i "luoghi di lavoro" in frazioni di 29 dipendenti o meno. Esempi del genere si possono trovare in gran quantità. Ovviamente la situazione per quanto riguarda le organizzazioni politiche e i partiti non è migliore che negli altri paesi. Come in tutti i contesti di capitalismo maturo, proliferano i gruppi "alternativi", di cui molti cosiddetti marxisti. A giudicare dalle sigle e dai manifesti, sono in parte "importati" dall'estero, come del resto ci hanno confermato proprio alcuni emigrati turchi.

Dal punto di vista generale di classe conta l'aspetto dominante della grande industria, collegata all'insieme della produzione socializzata e globalizzata del Capitale più moderno tipica dell'epoca imperialistica. Per questo motivo non c'è differenza fra le determinazioni sociali che muovono un proletario turco alle dipendenze di una piccola impresa dell'agro-alimentare anatolico e quelle che muovono un dipendente della Volkswagen, che sia in patria o nella casa madre di Wolfsburg in Germania non importa. Un mondo sempre più globalizzato li affascia, i compiti immediati e finali sono comuni, così come sono comuni le modalità di formazione degli organismi adatti. Le illusioni democratiche, nazionaliste, riformiste o interclassiste hanno lo stesso peso che in Occidente, ma nello stesso tempo si allarga il fossato che divide le classi. L'alto "indice di Gini" (misuratore del divario sociale) della Turchia non è più dovuto a fattori di sottosviluppo ma a fattori di sviluppo, come nei vecchi paesi industriali: non si rapporta più il milionario con chi non ha nulla, come nel Bangla Desh, ma il miliardario con chi ha un reddito medio, come in un qualsiasi paese occidentale. E in questo rapporto i dodici milioni di proletari contano, eccome: da essi dipende tutta la massa del valore prodotto nella società.

Conclusione

Non sono solo i nazionalisti turchi a individuare e teorizzare l'aumento di importanza della Turchia in Eurasia, in Medio Oriente e nella cerniera balcanica. Lo verificano e prospettano anche i think tank americani, europei, russi, cinesi, oltre ai maggiori organismi internazionali, dalla NATO alla WTO, dal FMI alla Banca Mondiale. Quest'ultima afferma in un suo documento che l'Eurasia sta diventando il mercato più dinamico del pianeta e che la Turchia è l'anticamera per chiunque voglia entrarvi. Se i militari turchi esagerano le possibilità di espansione dal punto di vista nazionalistico, le altre forze lo fanno per interessata speranza che, come al solito, un'apertura di nuovi mercati e la disponibilità di materie prime fornisca ossigeno al capitalismo. Da quel poco di documentazione che qui è stato possibile allineare si evince però che l'ossigeno ravviverà più la concorrenza fra Stati che non i meccanismi di accumulazione.

La natura dell'imperialismo odierno non è per niente simile a quella del colonialismo classico. Allora vigeva un'accumulazione basata sulla produzione, sul capitale finanziario inteso come capitale da investimento e sulla conquista di territori dove investire e produrre. La concentrazione del Capitale avveniva in parallelo, nel senso che alcune nazioni e alcune aziende si ingrandivano contemporaneamente, accrescendo la massa complessiva del valore prodotto nel mondo. Oggi non è più così. La centralizzazione del Capitale avviene in un contesto diverso. Sia le nazioni che le holding multinazionali tentano d'ingrandirsi le une a spese delle altre. Avendo bassi tassi di crescita, cioè non producendo più valore come un tempo, sono costrette a lottare per una ripartizione mondiale dello stesso. La situazione è aggravata dalle leggi della rendita, che permettono ai paesi possessori di materie prime di assorbire valore altrui, proprio mentre diventa evidente che non ce n'è abbastanza per tutti.

In tale contesto il problema non è più la conquista diretta dei territori bensì il loro controllo attraverso alleanze foraggiate con capitale finanziario e accordi militari. Alleanze che naturalmente producono più o meno vasti schieramenti interimperialistici. Ciò significa che i paesi più potenti, coalizzati o no, tendono a controllare gli altri, obbligandoli a formare coalizioni a loro volta. Gli Stati Uniti hanno già il controllo di una catena di paesi che va dalla cerniera balcanica, specie nella sua componente ex sovietica, all'Afghanistan, passando dalla Georgia e dall'Uzbekistan. L'Unione Europea deve accontentarsi di ciò che resta, ma sbracata com'è può fare ben poco. La Russia è accerchiata e non ha potenza residua sufficiente per il Grande Giuoco eurasiatico, né può accumularne di nuova in poco tempo. La Cina è assillata da problemi di sviluppo, dato che l'industrializzazione velocissima ha relegato ben 800 milioni di contadini al rango di "sovrappopolazione assoluta", impossibile da assorbire nell'industria, la quale è ormai ad elevata composizione organica di capitale. Per di più ha tre punti deboli: Taiwan, Tibet e Xinjiang, dove forze autonomiste o separatiste sono già abbondantemente incoraggiate dagli Stati Uniti.

Quale può essere realmente la funzione della Turchia all'interno dello schieramento interimperialistico di cui fa parte, di cui condivide anche le spinte contraddittorie fra elementi aggregatori e disgregatori, in cui dominano ancora incontrastati gli Stati Uniti? In realtà, al di là della prospettiva ideologica panturca, Ankara non ha molta scelta: per entrare nell'Unione Europea dovrebbe omologarsi non solo formalmente alle democrazie occidentali, rinunciare alla propria caratteristica kemalista-ottomana, e questo non lo può e non lo vuole fare. Per penetrare davvero in Eurasia avrebbe bisogno di legarsi alla Russia (che però era e rimane il suo nemico per eccellenza) oppure agli Stati Uniti. Cosa che inevitabilmente significherebbe "stare" con i russi contro gli americani o con gli americani contro i russi. Un legame che la vedrebbe in ogni caso in posizione subordinata.

E siccome il clima di "guerra infinita" prevede che lo scontro fra i "grandi" avvenga facendo scendere in campo i "piccoli", nessuno può immaginare di veder trascinare l'orgogliosissima Turchia in guerre per procura, fornire carne da cannone partigiana, come fece l'Iraq contro l'Iran (poi ripagato con amara moneta nel momento in cui presentò il conto, dopo un milione di morti). Potrebbe allearsi alla Cina, ma in questo momento il colosso asiatico, assillato dai problemi che abbiamo visto, rifiuta sistematicamente accordi che non siano di mero interesse immediato. Infine, per fare da sé dovrebbe ripetere all'inverso il percorso di Gengis Khan e Tamerlano, ma non ha né la forza politico-militare, né capitali sufficienti per farlo. Dati i ritmi di crescita e di ammodernamento avrebbe bisogno di tempo, che però forse non c'è già più.

La situazione geostorica è dunque complessa e avara di soluzioni. Essa è oggettivamente un ostacolo contro il grande sogno panturco e anche contro qualcosa di meno, ad esempio una semplice egemonia regionale. La NATO è un vincolo influentissimo e collega direttamente agli Stati Uniti. Mostrare i pugni verso le attività americane pro-curde non serve a niente, per cui i 100.000 soldati ammassati al confine iracheno, i voli, gli sconfinamenti, le cannonate contro i "santuari dei terroristi curdi", rappresentano una mera manifestazione di esistenza. Le discussioni con l'Unione Europea sono esasperanti e non conducono a risultati. La Turchia sarà costretta a richiudersi in sé stessa e a cercare di prendersi quel tempo che non c'è. Sempre che le teorie di guerra preventiva non abbiano il sopravvento. Ed esse ormai non sono solo americane: gli Stati Uniti dopo l'11 Settembre hanno prodotto diritto interno con il loro apparato legislativo e diritto internazionale con la forza dispiegata. Quindi non si tratta più di teoria, ma di prassi operante cui tutti si sono adeguati. La Turchia è forte, ma ha i suoi talloni d'Achille. I Curdi, appunto, ma anche la Grecia, Cipro, i "diritti umani", il libero mercato richiesto dai vecchi paesi imperialisti per meglio penetrare, l'ancora numeroso contadiname che alimenta l'Islam interno. Nelle grandi città, Istambul, Ankara, Smirne, i kemalisti possono portare in piazza milioni di persone in difesa dello stato laico. Ma con un minimo di "compellenza" (specialità tutta americana) che faccia leva su questi punti deboli la Turchia può essere costretta a una pericolosa politica difensiva interna ed estera. Ciò farebbe naturalmente esplodere il nazionalismo e l'ideologia panturca. O il proletariato, preso fra due fuochi.

Letture consigliate

  • Ferdynand Ossendowski, Bestie, uomini e dei, Casa del libro dei Fratelli Melita, 1988.
  • Sergej Kozin (a cura di), Storia segreta dei Mongoli, Guanda 1988.
  • Ata-Malik Juvaini, Gengis Khan (Titolo originale: Storia del conquistatore del mondo), Mondadori 1991.
  • F. Taeschner, I turchi e l'impero bizantino, Storia del mondo medioevale, Cambridge University Press, vol. III, cap. XVII, Garzanti 1978 (con un sezione sull'origine e sullo sviluppo dei popoli e degli imperi turchi).
  • Un sito ufficioso turco di notizie e dati sul mondo turcofono d'Eurasia si trova all'indirizzo: www.Bornova.ege.edu.tr./Turk-world/Turkic.Html
  • International Taklamakan Uighur Human Rights Association con notizie sul popolo uiguro: www. Geocities.com/Capitol Hill
  • Ömer Lütfi Turan, "La Turchia non è una provincia d’Europa", Ortadoğu, quotidiano dell’Mhp, 10 luglio 1999.
  • Partito Comunista Internazionale, I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, 1953, ora in Quaderni di n+1, stesso titolo, 1993.
  • "Il pianeta è piccolo", Battaglia comunista n. 3 del 1950.
  • "Le cause storiche del separatismo arabo", Il programma comunista n. 6 del 1958.
  • "Egitto. Le lotte delle masse operaie e contadine alla luce dello sviluppo capitalistico", Il programma comunista nn. 7, 8 e 9 del 1977.
  • Russia e rivoluzione nella teoria marxista, Ediz. Il programma comunista, 1990.
  • "La grande cerniera balcanica e il futuro dell'Unione Europea", n+1 n. 17, aprile 2005.
  • "Feticcio Europa. Il mito di un imperialismo 'europeo' ", n+1 n. 22, dicembre 2007.
  • Charles Fairbanks, C. Richard Nelson, S. Frederick Starr, Kenneth Weisbrode, Strategic Assessment of Central Eurasia; The Atlantic Council of The United States, Central Asia-Caucasus Institute, Sais, 2001.
  • Ministero della Difesa turco, Turkey's Defense White Paper, Ankara, 1 agosto 2000.
  • Duygu Bazoğlu Sezer, Turkey's Security Policies, Adelphi Papers n. 164, spring 1981.
  • Elliot Hen-Tov, The Political Economy of Turkish Military Modernization, Global Research in International Affairs, http://meria.idc.ac.il, con una voluminosa bibliografia.
  • Wolfango Piccoli, Enhancing Turkey’s EU Membership Prospects via Securitizing Moves - The Role of Turkish NGOs in the Country’s Europeanization (draft version) Department of International Politics, University of Wales, Aberystwyth, United King-dom, http://www.hks.harvard.edu/kokkalis/GSW7/Piccoli%20_paper.pdf.
  • Sinan Ikinci, New Turkish government prepares assault on working conditions, 21 september 2007, http://wsws.org/articles/2007/sep2007/turk-s21.shtml.
  • M.Kemal Öke, Neo-liberal attack on labour in Turkey, Abant Ýzzet Baysal University, Bolu, Turkey, http://iibbf.ibu.edu.tr/bolumler/kamuyonetimi/mkepdf/4.pdf.
  • International Trade Union Confederation, Survey of violations of trade union rights - In Turkey - Serious limitations on the right to strike. Police against unions, september 2007, http://survey07.ituc-csi.org/getcountry.php?IDCountry=TUR&IDLang=EN.
  • Center for European Integration Studies Bonn University, EU-Turkey-Monitor, periodico sui rapporti turco-europei e sull'integrazione della comunità turca in Germania, http://www.zei.de/zei_deutsch/publikation/publ_turkey_monitor.htm.
  • Survey Turkey, "Looking to Europe", The Economist, 17 marzo 2005 (12 articoli).
  • Turkey Briefing, The Economist (pagina dedicata alla Turchia con diversi articoli e analisi) http://www.economist.com/countries/Turkey/index.cfm
  • Gérard Chaliand, Jean-Pierre Rageau, Atlante strategico – La geopolitica dei rapporti di forze nel mondo, Società Editrice Internazionale, 1986.
  • Elenchiamo qui di seguito alcuni articoli comparsi sulla rivista Limes e rintracciabili facilmente nella raccolta completa in DVD tramite l'indice interno:
  • Fabrizio Vielmini, Dal Turan all’Eurasia;
  • Jean-François Pérouse, Il mondo turco come volontà e rappresentazione;
  • Fabio Mini, Xinjiang o Turkestan orientale?
  • Giandomenico Picco, Il grande Medio Oriente;
  • Umut Arik, Gli assi della geopolitica turca;
  • Angelantonio Rosato, I corridoi energetici di Ankara resteranno un sogno?;
  • Piero Sinatti, La Turchia nel Grande Gioco del petrolio;
  • Gianluca Sardellone, La commedia degli equivoci (Turchia ed Europa);
  • Vincenzo Pergolizzi, Balla coi Lupi Grigi;
  • René G. Maury, Potenza dell’acqua, potenza del fuoco: il progetto Gap;

Il Consiglio Nazionale della Sicurezza (MGK) …stabilisce le misure ritenute necessarie in tema di salvaguardia, indipendenza, integrità territoriale dello Stato e di indivisibilità del paese, di pace e di sicurezza della società. Stabilisce le misure necessarie per preservare l'ordine costituzionale provvedendo all'unità e all'integrità nazionale, orientando la Nazione Turca verso l'ideale nazionale e i suoi valori, unificandola intorno al Pensiero Kemalista, ai Principi e alle Riforme di Atatürk… Stabilisce i criteri per lo stato di emergenza, la legge marziale, la mobilitazione o la guerra… Stabilisce i principi necessari per ottenere misure e risorse riguardo soggetti finanziari, economici, sociali, culturali, ecc. rese necessarie da questioni inerenti alla politica di sicurezza nazionale dello Stato e delle sue strutture, oppure dalla difesa generale, in modo da essere incluse nei piani di sviluppo, nei programmi e nei bilanci annuali… (dal Libro Bianco 2000 sulla Difesa della Turchia).

Rivista n. 23