La prima grande rivoluzione (2)
Il passaggio dalle società comunistiche originarie alle società di classe come immagine speculare della transizione futura

Le più antiche società proto-urbane ancora comunistiche

"Nella valle dell'Indo niente ha permesso veramente di evocare templi o palazzi; nessuna tomba reale ha fornito tesori… Non s'è trovato neppure una stele o scultura che esalti la gloria degli dei, dei re o dei sacerdoti… La stessa vita religiosa che, come in tutte le civiltà antiche, dovette giocare un ruolo essenziale nella vita quotidiana, ci sfugge come il resto" (Autori vari, Les cités oubliées de l'Indus, Musée National Guimet, 1988).

Dal neolitico di diecimila anni fa al fiorire della civiltà di Harappa e Moenjo-Daro nel terzo millennio a.C. si sviluppò nell'attuale Pakistan una civiltà che meglio di altre dimostra la persistenza di rapporti comunistici anche in presenza di evolute strutture sociali in ambiente urbano, anzi, metropolitano. La prenderemo qui a paradigma, ma è utile ricordare velocemente che non è l'unica e che l'elenco di civiltà urbane analoghe è lunghissimo.

Anche se il primato è in discussione, la "città più antica del mondo" per antonomasia è Gerico, in Palestina. Per motivi ancora sconosciuti essa anticipa la forma urbana a partire dall'inizio dell'VIII millennio a.C., quindi ancora in pieno mesolitico medio-orientale, vale a dire prima della proverbiale rivoluzione neolitica. Di certo negli strati più antichi è stato ritrovato almeno un edificio che dimostra l'esistenza di attività centralizzate (culto, magazzini) fra case familiari poste entro un semplice recinto megalitico. Si tratta di una civiltà evolutasi dal precedente periodo mesolitico detto natufiano, durante il quale caccia e pesca incominciarono ad essere integrati con una raccolta sempre più importante di cibi di origine vegetale, come attestano i ritrovamenti di industria (falcetti di osso con incastonate lame di selce) e le ben organizzate sepolture rituali. I primi strati di Gerico sono pre-ceramici, riflettono una società comunistica di passaggio verosimilmente poco strutturata ma con accenni di coordinamento centrale.

Dal 6850 a.C., svolta accertata dal carbonio 14, la società di Gerico entra nella rivoluzione neolitica. La città copre ora circa tre ettari e ospita 2.000 abitanti, un'enormità per l'epoca. Compaiono case meglio organizzate, strutture centralizzate e fortificazioni con alte torri poggianti su basi megalitiche. L'agricoltura è già fiorente e contribuisce per gran parte della dieta abituale degli abitanti, che addomesticano alcuni animali, di certo la pecora, la capra e il cane. Fiorisce una produzione "artistica", soprattutto collegata al culto dei morti. Dopo ripetute distruzioni Gerico è riedificata e, nel IV millennio a.C., la città presenta finalmente una struttura chiaramente proto-urbana, tale da permetterci di collocarla fra le forme sociali sviluppate ancora comunistiche. Dalla metà del II millennio circa (distruzione da parte di Giosuè) tramonta il comunismo originario e i secoli successivi sono storia della società agro-pastorale dei patriarchi biblici.

A causa della cattiva conservazione degli strati superiori, sconvolti da troppa storia, di Gerico conosciamo meglio la fase più antica, e meno quella che ci interesserebbe di più, cioè quella proto-urbana centrale, tra il 3500 e il 3000 a.C. Questa carenza di dati non ci permette di avere prove certe rispetto alla nostra precedente affermazione, rispetto cioè alla sopravvivenza millenaria del comunismo anche in epoche tradizionalmente situate tra quelle classiste. Per avere tali prove è stato necessario uno studio comparato di contesti analoghi, ed è appunto da esso che distilliamo quanto andiamo scrivendo. L'archeologia contemporanea sta in effetti sfornando smentite eclatanti sulla presunta preistoria "animalesca" dell'uomo. Di conseguenza cade completamente l'equazione comunismo primitivo = stato selvaggio. Come abbiamo già visto, l'uomo preistorico era molto meno scimmione di quanto si pensi illuministicamente nella nostra epoca. Ma, più importante ancora, l'uomo neolitico, quello della proverbiale "prima rivoluzione", era molto meno primitivo persino di quanto ci descrivono gli archeologi che ne scavano i resti e i manufatti e gli specialisti che li analizzano con metodi sofisticati. L'uomo neolitico si dedica alla caccia e all'agricoltura, abita in prefigurazioni di città, costruisce edifici centralizzati per la propria organizzazione, culto, amministrazione e stoccaggio comune. E non sa che cosa farsene di proprietà, classi, Stato. Lavora, ma il suo tempo di lavoro, essendo per sé, è lo stesso che tempo di vita. Vive così per millenni e raggiunge l'apice della propria vitalità quando dimostra di saper costruire opere immani e stupefacenti con attrezzi primitivi e il massimo ricorso al lavoro comune guidato da un progetto centrale. Di lì in poi la vittoria dell'uomo comunistico sul corso precedente delle cose si ritorcerà contro di lui: progetto, centralizzazione e grande vitalità si trasformeranno nelle basi per la Grande Espropriazione Acceleratrice, verso lo Stato.

Ci siamo occupati di Caral perché si trattava di una civiltà riportata alla luce da scavi recenti, ma qui potremmo occuparci allo stesso titolo degli Incas, degli antichi Egizi, di molte civiltà dell'Asia o delle antiche comunità proto-urbane dell'Anatolia. Molte di queste vitalissime forme sociali hanno resistito uguali a sé stesse e sono scomparse oppure si sono evolute in forme ibride con caratteri proprietari e di classe. Altre sono state distrutte da popoli invasori, o si sono estinte a causa di cambiamenti ambientali. Altre ancora hanno molto presto imboccato la strada della decisa formazione della proprietà, delle classi e dello Stato. Non possiamo qui analizzarle tutte, quindi prendiamo in considerazione quelle che, fra le più antiche e significative, abbiamo citato all'inizio di questo capitolo.

La civiltà di Mehrgarh, sorta nell'attuale Baluchistan (Pakistan sud-occidentale) anticipa con le sue forme proto-urbane quella che sarà la civiltà della Valle dell'Indo, sorta quattro millenni dopo più a oriente. Fin dal neolitico, VII millennio a.C., prima ancora di conoscere la fabbricazione della ceramica, essa assume una struttura che va ben oltre al villaggio o alla lega di villaggi di capanne. Soprattutto sviluppa una produzione e un ammasso centralizzato delle derrate alimentari in magazzini comuni, cui si accompagna un fine artigianato, fattori che dimostrano la convivenza di rapporti comunistici e di funzioni differenziate. Su questa civiltà si sono scritti libri e articoli in cui gli autori esprimevano il loro stupore per quei tratti così sviluppati in piena preistoria. In effetti, però, è normale che il passaggio dalla caccia e raccolta all'agricoltura e all'allevamento comporti, prima della nascita di rapporti classisti (quando nascono), una fase transitoria in cui il potenziale del lavoro comune viene esaltato, amplificato dal nuovo assetto produttivo e riproduttivo. E ciò anche in comunità vaste per numero di individui, per territorio occupato e per durata nel tempo (in questo caso 5.000 anni di insediamento continuativo).

Il sito attualmente esplorato di Mehrgarh si estende su 250 ettari nella valle alluvionale del fiume Bolan. I magazzini ritrovati potevano contenere derrate per un complesso di circa 25.000 abitanti contemporaneamente. Non sono state trovate tracce di strutture difensive, solo robusti terrapieni con funzione di sostegno dei terreni agricoli. Fin dall'inizio dell'insediamento, la popolazione era in grado di produrre con notevole perizia tecnica strutture murarie, oggetti d'industria e ornamenti. Alcuni dei materiali usati erano di provenienza esterna, a volte da zone lontane centinaia di chilometri, come nel caso delle conchiglie. Quando comparirà la ceramica, uno dei prodotti più diffusi, a parte quelli per l'uso domestico, sarà una statuaria femminile dalle forme sessuali assai pronunciate, la qual cosa fa presumere uno stadio matriarcale.

Il sito mostra chiaramente il passaggio all'agricoltura e allevamento, ma tale processo, come altrove, richiese molto tempo e non si svolse in modo lineare. Le tribù semi-nomadi che si stanziarono nella valle non abbandonarono del tutto la caccia e la raccolta ma ne mantennero le tradizioni per millenni, anche quando si sviluppò enormemente la produzione alimentare. Nelle abitazioni e negli scarichi sono stati trovati resti di pasti a base di animali già addomesticati, come pecora, capra e bovide, mescolati a quelli di animali ancora selvatici. Ciò dimostra che agricoltura e allevamento furono all'inizio una integrazione all'attività principale, e ciò ebbe effetti sulla durata degli originari rapporti comunistici.

La cifra di 25.000 abitanti su 250 ettari ipotizzata per Mehrgarh è all'apparenza enorme rispetto alla densità normale degli insediamenti dei gruppi di cacciatori e raccoglitori. Pur supponendo che quella società si proiettasse verso un ricco territorio circostante ricavandone molto cibo e materiali per una crescente popolazione, sembra poco credibile una stima così diversa rispetto ad altre situazioni analoghe. Tuttavia bisogna considerare che il nuovo tipo di produzione e riproduzione attuato con strumenti e strutture tecnicamente avanzate, ha effetti di retroazione positiva: più cibo, più popolazione, più popolazione, più cibo, in un anello di condizionamento nei due sensi in grado di amplificare i caratteri del sistema. Alla fine, come vedremo, sarà questo meccanismo a distruggere in modo rivoluzionario le antiche forme, distruzione dalla quale si salveranno quelle che nei millenni riusciranno a "omeostatizzarsi", cioè a innescare processi di retroazione negativa ovvero di autocontrollo, come quelle definite "asiatiche".

Mehrgarh settimo millennio a.C.Figura 7. Abitazioni in strati sovrapposti a Mehrgarh, dal settimo millennio a.C. A destra assonometria di una casa-tipo con focolare e giaciglio. Mattoni crudi di fango pressato.

Nella stratigrafia più completa di Mehrgarh, che va all'incirca dal 7000 al 2500 a.C., vi sono undici livelli corrispondenti ad altrettanti periodi d'insediamento continuo. In gran parte del sito gli strati superiori sono stati erosi dalle piene del vicino fiume e quindi sono rimasti abbastanza ben conservati solo gli strati inferiori, i più antichi. In essi sono stati portati alla luce diversi "edifici" identificati come case di abitazione (figura 7). Si tratta di case unifamiliari a pianta standardizzata, a dimostrazione che non vi sono ancora differenze sociali, perlomeno visibili nelle strutture venute alla luce (cioè sono assenti templi, palazzi, ecc.). La casa-tipo del settimo millennio ha in genere forma rettangolare, è suddivisa da due muri disposti a croce in quattro stanze intercomunicanti e non ha alla sua base (l'unica preservata fino a noi) porte d'ingresso né finestre. Le aperture per il passaggio delle persone, della luce e per l'uscita del fumo (un rudimentale focolare era ricavato in un angolo tra due pareti) dovevano essere disposte in alto o ricavate nel tetto, come attestato anche in alcuni siti anatolici della stessa epoca. Non vi è disegno urbanistico e le case sembrano essere sorte in modo del tutto spontaneo, con pareti in comune, cosa che rende difficile agli archeologi l'individuazione delle singole unità. Importante è la collocazione di alcune strutture esterne alle case, come piattaforme, aree di lavoro, forni, pozzi intonacati per conservare gli alimenti, ecc. con tutta evidenza destinate all'uso plurifamiliare o pubblico.

Più tardi, verso la metà del sesto millennio, compaiono strutture con più locali della stessa dimensione adibiti a magazzino, discosti dalle abitazioni. Mentre il primo insediamento era avvenuto ad opera di cacciatori-raccoglitori, abituati a spostarsi e quindi attrezzati allo scopo con tende o capanne, solo in un secondo tempo sorgono, al posto dell'accampamento, le case con i magazzini per l'ammasso dei prodotti agricoli, mentre le sepolture rituali sono già numerose fin dall'inizio. Per un paio di millenni l'insediamento riproduce quindi lo schema della lega di tribù con terra, magazzini e necropoli comuni, mentre via via si precisa la pianta complessiva dei villaggi, nei quali compaiono nel frattempo piattaforme di uso sconosciuto e strutture connesse, probabilmente a scopo rituale.

Siamo evidentemente di fronte a comunità organizzate in modo elementare ma già con forti connotati di amministrazione, cosa che presuppone una notevole conoscenza dei propri bisogni in relazione al proprio prodotto. Non siamo ancora alle forme pre-Stato di civiltà posteriori più sviluppate, ma certamente il lavoro collettivo di queste comunità che attraversano la preistoria e arrivano all'età del bronzo si articola intorno a un organismo centrale di cui ovviamente non sappiamo nulla se non che c'era.

Nascita dell'amministrazione comunitaria

Dobbiamo per forza delimitare il campo dell'esposizione, quindi ci stiamo concentrando su pochi esempi, ma preghiamo il lettore di immaginare un'area geostorica di sviluppo che va dall'Iran all'Egitto, dalla Turchia al Golfo Persico. Nella Mesopotamia settentrionale (una zona che corrisponde oggi al Sud-est della Turchia) all'inizio del neolitico, circa 12.000 anni fa, incominciarono a formarsi delle comunità organizzate intorno a piccoli villaggi, forse federati, con alcune strutture a pianta circolare di utilizzo comunitario. Alcuni fondi di costruzione presentano stele e "scettri" in pietra scolpita, tracce abbastanza ben conservate di arredo, come sedili e rientranze, sempre in pietra, muri e pilastri megalitici. La società è ancora formata da cacciatori, perciò le raffigurazioni sono quasi esclusivamente di animali; le costruzioni sembrano essere utilizzate in un primo tempo come abitazioni ma ben presto come luoghi di culto e di cerimonia in cui operano sciamani, segno che è in corso la trasposizione dell'unità sociale comunitaria dalla singola tribù a una forma rappresentativa personalizzata, comune a più tribù. Quasi certamente queste strutture sono luoghi in cui si propizia la caccia, si celebrano matrimoni e nascite, si onorano i morti o si fissa l'attenzione collettiva su qualche simbolo (si suppone che le nicchie servissero all'ostensione di oggetti adatti allo scopo). È oltremodo significativo il fatto che in molti casi sia presente contemporaneamente la produzione di oggetti di selce scheggiata, quasi a mostrare l'unità di produzione e riproduzione. Nella seconda metà del nono millennio a.C., con l'inizio dell'agricoltura, compaiono case rettangolari con fondo a canaletti di pietra, con spazi suddivisi chiaramente per funzioni diverse e soprattutto con magazzini domestici. In un caso sono presenti anche un grande edificio con un locale adibito specificamente a laboratorio per la lavorazione della selce e un edificio cultuale megalitico.

Questo schema si ripete con alcune varianti in tutta la cosiddetta Mezzaluna fertile, e l'agricoltura accelera il processo di trasformazione. Le prime attestazioni di "gestione amministrativa" centralizzata compaiono in quest'area quasi contemporaneamente un po' ovunque nel settimo-sesto millennio a.C. sotto forma di sigilli e cretule, a volte accompagnati da "gettoni" di varia forma che si suppone servissero a far di conto, un po' come dei pallottolieri sciolti. Le cretule hanno una grande diffusione e sono ovunque adoperate allo stesso modo: una placca di argilla fresca viene posta su un vaso coperto, un sacco, una cesta di vimini, un chiavistello di porta o una corda che lega qualcosa. Sull'argilla viene premuto un sigillo e la si lascia seccare. Quando il contenuto del recipiente o della stanza dev'essere utilizzato, si spacca la cretula e se ne conservano i pezzi per un conteggio successivo o semplicemente per memoria dell'operazione avvenuta. Questo procedimento, con i relativi segni utili per il riconoscimento e per il conteggio, è uno dei fattori che portano alla nascita della scrittura, per alcuni forse il più importante. Non si sa con precisione a che cosa servisse un controllo di quel tipo sulle derrate. Studiando l'uso dei granai collettivi berberi sopravvissuti fino alle soglie del XX secolo si è ipotizzato un ammasso comune benché suddiviso per famiglie; ma non si capisce allora perché si verifichi il passaggio dai magazzini domestici a quelli comuni, con la necessità di adibire parecchi membri della società all'amministrazione permanente dei luoghi di ammasso (questa ipotesi è stata formulata sulla base dell'incongruenza fra la capacità dei magazzini e l'esiguità della popolazione dei villaggi in cui si trovavano). Sta di fatto che nella Mezzaluna fertile del settimo millennio, all'incirca lo stesso periodo in cui fiorisce Mehrgarh, si sviluppa l'amministrazione come divisione tecnica del lavoro. In qualche modo la società comunistica ha bisogno di conoscere sé stessa ed escogita il metodo adatto, "inventando" come risultato finale la scrittura, la matematica e l'economia.

In questo periodo in tutta la Mesopotamia, cioè gli attuali Iraq, Siria e Turchia, si sviluppano in modo fondamentalmente unitario centri urbanizzati con le caratteristiche appena descritte. L'assenza di gerarchia nelle case, addossate l'una all'altra e con i muri in comune tanto da non poterle distinguere l'una dall'altra, rispecchia l'assenza di gerarchia sociale, e gli archeologi sono concordi nel definire "egualitario" questo tipo di società. Il termine ovviamente non rende l'idea esatta dell'essere sociale di quelle forme ancora pienamente comunistiche, ma è già tanto che si riconosca l'assenza della divisione sociale del lavoro. Comunque, mentre compaiono strutture regolari formate da stanze tutte uguali per l'immagazzinamento collettivo, scompaiono gli edifici di culto o cerimoniali, almeno quelli architettonicamente distinti e riconoscibili come tali. Tutti questi elementi contraddistinguono società in cui l'unità strutturale di base sembra essere il gruppo residenziale nel suo insieme piuttosto che le singole famiglie, le quali, a giudicare dalla superficie delle abitazioni, dovevano essere già di tipo nucleare autonomo (la famiglia allargata era probabilmente il villaggio intero).

Un esempio di agglomerato residenziale con evidenti e grandiose parti collettive l'abbiamo a Umm Dabaghiyah, un sito iracheno, che è caratterizzato dalla presenza di un'area magazzini unitaria di evidente uso collettivo, composta da più di 80 locali quadrati suddivisi in blocchi. Essa è piuttosto interessante perché, mentre le case dell'abitato sono state modificate o riedificate in continuazione, il complesso è rimasto intatto per secoli: segno che i singoli componenti della comunità subivano gli alti e i bassi della propria storia, mentre l'insieme della comunità si occupava di mantenere inalterato e funzionale un proprio strumento "pubblico" di vita. Questi caratteri si ripetono in altri siti, ed è qui che le dimensioni spropositate della parte comune fanno pensare a un utilizzo più vasto rispetto alla popolazione delle sole case adiacenti. Probabilmente siamo di fronte a magazzini collettivi per una popolazione sparsa su diversi agglomerati residenziali e quindi con necessità di coordinamento dell'ammasso dei prodotti e relativa specializzazione degli abitanti stanziati sul luogo del deposito. In effetti sono stati trovati nel magazzino 2.400 dei già citati "gettoni" e un centinaio di grosse sfere in terracotta che, se è vero che sono oggetti di conto, potrebbero testimoniare una mansione specialistica nata in funzione del magazzino collettivo. Anche tenendo presente che è nello stesso periodo che nascono i sistemi di controllo tramite sigilli e cretule, di cui in siti assai simili tra loro si trovano centinaia di esemplari, come ad esempio a Sabi Abyad, in Siria o ad Arslantepe in Turchia. In quest'ultimo sito, del IV millennio a.C., l'attività amministrativa era così intensa che in un solo edificio, il cosiddetto tempio con annessi magazzini, furono trovate 6.000 cretule archiviate.

L'amministrazione, che compare assai presto, ai confini tra preistoria e civiltà, anticipa la forma urbana e quando si affiancherà a quest'ultima sarà il principale fattore del potere centrale di classe (Stato), sulle cui modalità e sviluppi archeologi, storici e urbanisti sono in completo disaccordo. È comunque certo che sin dalla fine del settimo millennio a.C. prende piede un metodo di autoconoscenza sociale della produzione e della distribuzione che sarà caratteristico, con l'invenzione della scrittura (IV millennio a.C. contemporaneamente in Mesopotamia ed Egitto), delle società proto-urbane e infine pienamente urbane e metropolitane.

Verso la forma urbana sviluppata ma ancora comunistica

Al culmine dello sviluppo mesopotamico in Medio Oriente, il declino di Mehrgarh in Asia coincide con l'ascesa della civiltà vallinda propriamente detta. Il sito viene abbandonato a partire dal 2600 a.C., probabilmente per l'azione congiunta di un cambiamento di clima e dell'attrazione rappresentata dalla fertilissima pianura sulla quale gravitano due nuovi poli di civiltà non più proto-urbana ma decisamente urbana, anzi, metropolitana: Mohenjo-Daro e Harappa.

Le due città sorgono in modo evidente dalle ceneri della società precedente, della quale ereditano alcuni caratteri, come l'ammasso comune delle derrate. Esse hanno una pianta simile, con ampie strade ortogonali, scoli coperti per le acque, case di ottima fattura con servizi igienici, granai pubblici, piscine, magazzini per vari alimenti e per attrezzature. Dato l'impianto generale che mostra la mancanza di una stratigrafia soggiacente più antica, è assodato che non sono sorte come insiemi spontanei ma sono il frutto di un progetto. Gli archeologi si chiedono ovviamente: progetto di chi e realizzato da chi in nome di che cosa? Come vivevano gli abitanti di queste città perfette, disegnate "a misura d'uomo" come si direbbe oggi (ma allora con ben altro senso)? Erano contadini urbani, artigiani o commercianti? Le definizioni ipotizzate dagli archeologi ingannano, e nessuno di loro è riuscito a spiegare chi vi abitasse, come si reggesse e cosa producesse una città dell'età del rame i cui abitanti usavano ancora strumenti di selce scheggiata ma risiedevano in migliaia di case e usufruivano di grandi edifici pubblici. Anche qui, nonostante le dimensioni e la qualità urbana, non sono stati trovati i famigerati "segni del potere". Non c'è tempio, non c'è palazzo, non c'è caserma, né tomba reale o monumento celebrativo. Non sono state trovate armi, se escludiamo asce, coltelli, piccole daghe, punte di freccia e di giavellotto, forse più adatte alla caccia che alla guerra. Sono invece abbondanti attrezzi, strutture, stoviglie e ornamenti adatti ad una vita tranquilla, scandita da una visibile conoscenza di sé e da una situazione produttiva e riproduttiva perfettamente sotto controllo e quindi "ben amministrata".

I Vallindi avevano già una scrittura, ma essa ha sinora resistito alla decifrazione, dato che i segni ritrovati sono in numero troppo esiguo e quasi tutti in contesto poco significativo, come sigilli o timbri. Essendo la scrittura un derivato della contabilità e dell'amministrazione in genere, il fatto che nella Valle dell'Indo si sia fermata ai sigilli significa che quella civiltà non aveva un gran bisogno di scrivere. Aveva pesi e misure ma non denaro. La "gestione contabile" era ancora di tipo squisitamente quantitativo e quindi bastava un segno di riconoscimento qualsiasi impresso sull'oggetto da riconoscere. Anche se intratteneva rapporti di scambio con varie altre comunità, distanti anche migliaia di chilometri, non li aveva ancora portati a livello di "sistema", cioè di mercato. Nella scala dello sviluppo sociale veniva dunque prima delle coeve città mesopotamiche.

Nonostante ciò, quando nel 1927 a Mohenjo-Daro fu scoperta la statuetta alta una spanna di un vallindo barbuto con un nastro sulla fronte, l'archeologo di turno non resistette alla tentazione di vedervi un sovrano con tanto di corona e battezzò il reperto "re sacerdote", secondo ciò che si credeva esistere in Medio Oriente, senza aver trovato l'ombra né di monarchie né di religioni. Il nostro lavoro di liberazione della storia antica da matrici interpretative borghesi di questo tipo si fa veramente arduo. Eppure non è difficile constatare che è possibile il persistere di una mirabile struttura sociale comunistica in società molto evolute e metropolitane.

Mohenjo-Daro  Mohenjo-DaroFigura 8. Mohenjo-Daro: a sinistra, il Bagno e parte delle strutture ciclopiche del Granaio (blocchi quadrati). A destra, una delle grandi vie dorsali con fognatura coperta e abitazioni.

Abbiamo visto che negli strati più antichi delle due città maggiori della civiltà vallinda erano già presenti i segni di un progetto. Strade e grandi viali lastricati larghi fino a 10 metri delimitavano quartieri rettangolari, case spaziose usufruivano di un pozzo ogni tre di esse, di fognature e pozzetti di decantazione collegati a sistemi di scolo dalle vie minori in modo da mantenerle asciutte. Il tutto edificato con mattoni ottenuti da stampi di standard perfetto. Mohenjo Daro, la meglio conservata, è composta di 12 isolati ortogonali di circa 400 metri per 200 ognuno, disposti perfettamente in direzione Nord-Sud. L'edificio più imponente è il basamento del granaio comune, costituito da 30 blocchi massicci alti sei metri tagliati da corridoi di ventilazione. Questi blocchi si suppone dovessero sostenere magazzini in legno serviti da un piano di carico sopraelevato. Vicino al granaio vi è una grande struttura a stanze e pilastri che si sviluppa attorno a una vasca gradinata, come una grande piscina. Nella stessa zona dei "servizi" sorge un vasto edificio pubblico, con muri di notevole spessore e con finiture particolarmente accurate, che è stato interpretato dai primi archeologi come residenza collegiale di "sacerdoti". Un altro edificio, con un grande ambiente (30 metri per 30) a cinque navate divise da pilastri è stato chiamato "sala delle assemblee". Un altro ancora, sviluppato su 1.400 metri quadrati, era stato in un primo tempo definito "palazzo reale", ma la sua tipologia a piccoli appartamenti come quelli di un albergo ha fatto accantonare l'ipotesi. Ci sono anche grandi opere murarie considerate dapprima "fortificazioni" ma che analisi moderne hanno declassato a semplici muri di sostegno dei terrapieni (gran parte della città è costruita su enormi basamenti di mattoni cotti). Proprio l'assenza di difese militari ha impedito di individuare il limite urbano: quello da noi indicato (un centinaio di ettari) è quello delle grandi arterie ortogonali, ma esse terminano dove terminano i sondaggi; e oltre gli archeologi non sono andati (cfr. Google maps per le parti scavate).

Al di là delle denominazioni e delle ipotesi, l'evidenza sul terreno ci mostra dunque una grande città, scavata ancor oggi in minima parte, al suo massimo splendore nel 2500 a.C., edificata secondo un piano, gravitante sul territorio agricolo circostante, con grandi edifici pubblici concentrati su un'acropoli circondata da 2 o 3.000 case a più piani, ben costruite, dotate di servizi igienici con acqua corrente, non troppo differenziate per tipologia, di cui si sono conservati muri di mattoni cotti alti fino a sei metri. Una metropoli che faceva parte di una lega o federazione di città con la stessa cultura, disposte su un'area immensa che non era né un reame né un impero. Mortimer Wheeler, celebre archeologo inglese, sovrintendente per le antichità in India tra le due guerre, dedusse dai saggi di scavo e dai reperti un'ampiezza di mezzo milione di miglia quadrate, cioè quattro volte l'Italia (un miglio quadrato = 2,59 chilometri quadrati).

Della struttura sociale vallinda non sappiamo nulla al di fuori di ciò che attestano i reperti archeologici, ma certamente essa fu in grado di mantenersi per più di mille anni. Nemmeno uno degli edifici è stato spiegato in modo convincente, comprese le case di abitazione così come sono emerse dagli scavi. È chiaro che una grande costruzione con appoggi per silos di legno e piani di carico è un granaio; che un locale con appoggi per grosse anfore è un magazzino, e se la sua tipologia monumentale lo differenzia dalle case comuni vuol dire che ha una funzione pubblica; ed è altrettanto chiaro che un complesso formato da piscina e stanze di abluzione con colonnati è un "bagno pubblico"; e così via. Ma come funzionava la distribuzione del contenuto del granaio e delle anfore o per quale motivo la piscina sia stata costruita nel punto più alto dell'acropoli (cosa che costringe a riempirla con acqua prelevata dai pozzi con le anfore) è un mistero. Rimangono del resto misteri altri resti architettonici e "arredi urbani" come i pozzi a torre, o i 38.000 oggetti ritrovati fra le rovine, in gran parte sigilli con segni di scrittura. Quale forma sociale ha potuto esprimere una civiltà urbana così "ricca", armoniosa, complessa ed estesa? Wheeler, scrivendo negli anni '50, così immagina la "classe dirigente" vallinda:

"Possiamo supporre che dalla propria acropoli ogni città fosse governata dai suoi reggitori, i quali molto probabilmente avevano attributi sacerdotali ma che, come suggeriscono le loro città ben ordinate e le abitazioni evolute, erano essenzialmente di aspetto secolare, sufficientemente benevoli o lungimiranti per stabilire un tenore di vita generale insolitamente alto, e nello stesso tempo sufficientemente autoritari per assicurare che questo tenore generale fosse mantenuto a lungo… Mohenjo-Daro fa veramente pensare, con la sua ammirevole organizzazione sanitaria e la sua chiara pianificazione a una intelligenza civica più evoluta [rispetto a quella mesopotamica]. Non abbiamo trovato in nessun luogo della Valle dell'Indo le tombe della classe governante e non possiamo immaginare che cosa ci attende quando il caso ce le farà scoprire, se mai esse esistono" (Civiltà dell'Indo e del Gange).

Ad oggi non si sono ancora rinvenute tombe di re nella valle dell'Indo. Lo stesso Wheeler, che scavò ad Harappa nel 1946, non trovò che dieci tombe di "cittadini comuni", uguali ad altre 47 scoperte precedentemente. Nel 1966 ne furono trovate altre dieci. Una necropoli di epoca più tarda, scoperta sempre nello stesso sito, mostrò che neanche a distanza di molti secoli le tombe avevano acquistato segni distintivi le une rispetto alle altre. E sappiamo che tutti i riti funerari in tutto il mondo e in tutte le epoche rispecchiano la vita quotidiana e le strutture sociali. Ebbene, le differenze fra i morti vallindi al momento sono quelle che possono esservi fra due ornamenti dello stesso tipo, fra due piccoli vasi, due corni, due sassi levigati, due conchiglie, ecc. Essi sono sepolti come nelle comunità comunistiche di Mehrgarh quattro millenni prima, orientati, con pochi effetti personali, parificati nei riti di trapasso come lo erano stati in vita. A Mohenjo-Daro non s'è invece trovata alcuna tomba, nemmeno di "cittadino comune"; si può ipotizzare comunque che fossero come quelle della città sorella. A grandi linee la sepoltura indifferenziata vale non solo per le due metropoli in questione: i cimiteri del mondo comunistico primitivo presentano in generale modelli analoghi, ricordiamo le tombe comuni del Minoico antico o le sepolture dell'Egitto pre-dinastico (cultura di El Badari, ecc.). E questo anche se in alcune aree geostoriche la differenziazione compare prima che in altre, mentre cioè la società ha ancora caratteri comunistici e nonostante questi.

Soffermiamoci un momento sulla descrizione del celebre archeologo: egli presuppone che vi fossero dei "reggitori" e che questi avessero bisogno di "governare" in quanto "sacerdoti", ma siccome il contesto materiale è in contraddizione con l'esistenza di uno Stato (ché di ciò si tratta quando si parla di governo in ambiente di classe), teocratico o di altro tipo, egli li immagina uguali agli altri cittadini ("di aspetto secolare"). E siccome i cittadini di Harappa e Mohenjo-Daro erano effettivamente "uguali", vivevano benissimo ed erano ben pasciuti, se dovevano avere un governo questo doveva essere "sufficientemente benevolo e lungimirante". Traduciamo questo ultimo aggettivo: le città vallinde sono sorte su terreno vergine secondo un piano urbanistico; sono grandi, e complesse, quindi sono il risultato di un grande progetto; e una civiltà in grado di rovesciare a quella scala il tradizionale accumularsi dell'urbanistica spontanea (che fa disperare gli architetti delle tronfie megalopoli attuali) è anche in grado di conservare la capacità di progetto una volta che la città è costruita. Essa è lungimirante perché sa appunto progettare il proprio futuro. Argina i fiumi, costruisce enormi piattaforme sopraelevate per tenere all'asciutto la città intera, regola le acque urbane bianche e nere, produce, ammassa e distribuisce il cibo, costruisce mirabili edifici per l'attività comune dei suoi membri, possiede un'autorità sufficiente per gestire tutto ciò e farlo "durare a lungo", come afferma Wheeler. Da dove arriva quest'autorità se non c'è una classe al potere? Qui l'illustre archeologo va in confusione: almeno in Mesopotamia le cose sono chiare, là secondo lui c'è davvero il re-sacerdote che spiega tutto, compresa l'evoluzione della proprietà, della forma classista, dello Stato. Anche in Egitto le cose gli sembrano più comprensibili, almeno nella misura in cui l'antichissima forma sociale è brutalmente piegata a riflesso di quella borghese e il faraone è immaginato come dispotico tiranno:

"Il contrasto [della civiltà vallinda] con l'Egitto faraonico è chiaro; in Egitto sotto un'amministrazione totalitaria di derivazione divina, non esisteva una vita civica intesa in qualsiasi senso liberale della parola".

Non esisteva una vita civica liberale nell'Antico Egitto! L'illustre archeologo non riesce a capacitarsi del fatto che quella da lui stesso definita "intelligenza civica più evoluta" dei vallindi si possa manifestare con magnifiche forme urbane ma, a differenza dell'Egitto o della Mesopotamia, senza uno straccio di grande re, di sacerdote, di generale, di impero.

Alle soglie dello Stato

Sulle orme dell'accademico famoso siamo arrivati a una delle civiltà più conosciute — e nello stesso tempo misconosciute — che più hanno lasciato monumenti incredibili fin dalle origini, che sono durate più a lungo con caratteri pressoché invarianti, che più hanno scritto di sé stesse e soprattutto che hanno fatto scrivere e parlare di più. È quasi sicuro che le prime forme sociali sviluppate dell'Egitto, e probabilmente quelle poco conosciute del periodo pre-dinastico, abbiano subìto l'influenza dell'area mesopotamica, com'è attestato dalle analogie stilistiche di alcuni manufatti del quarto millennio a.C. (gli archeologi hanno compilato dettagliate tabelle di comparazione). Questo incontro di popolazioni già dedite da tempo all'agricoltura potrebbe aver permesso una trasmissione delle forme sociali da quella mesopotamica, più antica e strutturata, a quella egizia, ancora neolitica. Sarebbe così spiegato il richiamo di Wheeler alle due civiltà viste come forme sociali analoghe, entrambe centraliste e "dispotiche", cioè come un qualcosa di completamente diverso rispetto a quella vallinda.

Il ragionamento logico non fa una grinza, ma proprio per questo potrebbe funzionare benissimo al contrario: nel corso del quarto millennio una civiltà mesopotamica già ben strutturata ma ancora comunistica potrebbe aver esportato i propri caratteri in Egitto. Qui si sarebbe cristallizzata, là si sarebbe evoluta verso la forma Stato. In fondo lo stesso Wheeler utilizza questo criterio quando ipotizza che le città vallinde pianificate siano un lascito della Mesopotamia la quale, un millennio dopo il contatto egiziano, aveva già raggiunto avanzate capacità di progetto metropolitano. Si tratta di vedere se le ipotesi logiche rovesciate (esportazione Mesopotamia-Egitto di strutture sociali ancora comunistiche ma già urbane) abbiano un senso o se ce le stiamo inventando presi dall'entusiasmo nella ricerca del comunismo originario, che a questo punto siamo sicuri non fosse per nulla "primitivo". Intanto bisogna sottolineare che incontriamo qualche difficoltà nel maneggiare i dati, primo, perché le varie fonti ne forniscono di discordanti; secondo, perché molto spesso gli accademici han fatto carte false pur di arrivare a dimostrare le proprie teorie. Naturalmente essi non sono d'accordo tra di loro, ma il più delle volte le divergenze sorgono non nel corso di un affinamento di ipotesi diverse e probabili, derivate dal materiale di scavo, bensì sulla base di pregiudizi ideologici, come ben sottolinea Mario Liverani a proposito delle strutture sociali del Medio Oriente:

"[Isoliamo] due tipi ideali, lo stato comunitario e lo stato palatino. Nei limiti in cui uno dei due tipi, quello palatino, corrisponde a quello di 'dispotismo asiatico', l'altro vi si oppone. I due tipi ideali si presentano come sfasati in uno schema di sviluppo logico e cronologico: il tipo comunitario scaturisce da strutture socio-economiche più semplici di quello palatino e persiste a livelli di aggregazione inferiori quando questo si sviluppa e prende il sopravvento. Ma il maggior arcaismo tipologico e cronologico di un tipo rispetto all'altro poco significa in una considerazione sincronica di tipo funzionale. I singoli sistemi politici partecipano in varia misura ma contemporaneamente di entrambi i tipi… Rintracciando al di sotto o accanto alle forme tipiche del potere palatino ('dispotismo asiatico') delle forme rappresentative, di carattere collegiale, gli studiosi si sono sorpresi più del dovuto, ed alcuni hanno inconsciamente espresso il loro stupore nella caratteristica espressione 'democrazia primitiva', che con il suo anacronismo — irrimediabile nonostante la maldestra precisazione — comporta l'attribuzione di un giudizio di valore alla presenza di certe strutture invece di altre. Convinti che il 'progresso' degli ordinamenti politici debba andare dall'arbitrio del dispotismo alla razionalità della democrazia, ci si stupisce di trovare 'già' costituite in antico delle istituzioni che rappresentano il culmine dello sviluppo odierno" (L'alba della civiltà, vol. I, cap. III).

Non siamo sicuri che Liverani usi le parole nella nostra stessa accezione, e d'altra parte potrebbe essere volutamente ambiguo l'uso del termine "stato" (modo di essere o struttura della società?). Comunque il passo è di potente supporto alla nostra esposizione. Egli critica la concezione secondo cui una forma sociale sarebbe primitiva solo perché basata su processi creduti democratici ma imperfetti e si appoggia proprio su quell'orrendo ossimoro, "democrazia primitiva", che non è solo un equivoco scientifico ma "espressione di una precisa ideologia". Il mondo antichissimo della transizione neolitica e proto-urbana non conosce il concetto di eguaglianza; prende atto delle differenze e non se ne fa un problema, così come non si pone il problema del tempo storico. Prende atto e riesce a funzionare in modo "collegiale" lo stesso. È ovvio che la forma comunitaria si adatta meglio alla tribù fino all'organizzazione in leghe di villaggi, ma abbiamo visto che ciò non ostacola il suo protendersi anche a un tipo di organizzazione già urbana, anzi, pienamente metropolitana. Ciò vale anche per la forma sociale mesopotamica, almeno quella più antica, molto meno "dispotico-asiatica" di quanto comunemente si creda, anche leggendo volumi specialistici.

Se la prima città-paradigma è la palestinese Gerico, la prima metropoli organizzata in forma proto-statale è la mesopotamica Uruk. Quando avviene presumibilmente il contatto fra la civiltà mesopotamica e quella egizia, nel quarto millennio, Uruk è già una metropoli di 70 ettari con 30.000 abitanti (raggiungerà il suo apice sette od otto secoli dopo con 5 chilometri quadrati, circondata da 9 chilometri di mura). Secondo gli archeologi che scavarono per primi nell'immenso sito, la forma sociale dei livelli più antichi era di tipo già molto stratificato con al vertice una casta sacerdotale e un re-sacerdote. Tale versione è ormai abbandonata, e una conoscenza più approfondita delle evidenze archeologiche, dei simboli sui sigilli e più tardi della scrittura, porta a descrivere la più antica società di Uruk (e delle città di sua fondazione che la circondarono) come una forma di transizione fra quelle già viste nel corso di questo articolo e la città-stato, con ciò che ne consegue in termini di proprietà, divisione sociale del lavoro, gerarchia politica, commercio e ideologia. Alcune grandi costruzioni con braciere al loro interno, che si credevano "templi", sono state ridefinite come complessi abitativi con focolare, mentre altre costruzioni complesse che si credevano "palazzi" sono diventate più semplicemente edifici pubblici. E dopo il ritrovamento degli archivi di Ebla è divenuto chiaro che l'appellativo con cui era designato il solito, presunto re-sacerdote significava invece "capo dell'amministrazione", che solo in epoca molto più tarda si sarebbe potuto chiamare "capo dello Stato".

Giovanni Pettinato nel suo libro sui Sumeri espone una convincente analisi linguistica sull'origine e il significato dei termini utilizzati per designare le funzioni sociali nell'orizzonte mesopotamico, a partire da Uruk (nell'attuale Iraq), per giungere a Ebla (nell'attuale Siria). Siccome la seconda fu fondata dalla prima, la lingua eblaitica fu influenzata da quella di Uruk; tra l'altro sono stati trovati vocabolari per la traduzione dall'una all'altra. A Ebla, che nel 2500 a.C. era già una città molto evoluta come forma sociale, e che quindi immaginiamo già retta da una forma-Stato, il cosiddetto re era in realtà definito da un termine che significa "colui che è preposto", e vi erano almeno altri 14 personaggi individuati con parole simili. Inoltre, nella lista di questi "re" non vi è traccia di parentela fra loro, tranne che in un caso, e per giunta rimane vivo e vegeto il "re" precedente quando ascende al "trono" quello nuovo, quindi è esclusa la forma dinastica. D'altra parte il "re" stesso paga i tributi alla società invece che il contrario, e fa "carriera" nell'amministrazione guadagnandosi la fiducia dei cittadini. L'autore ne conclude che la sovranità fosse elettiva e che il sovrano, cioè "colui che è preposto", non fosse altro che un primus inter pares, coadiuvato da amministratori revocabili, in un sistema in cui l'autorità era distribuita secondo le funzioni e dipendeva più dal concetto di comunità che da vincoli di carattere personale o di classe. Va da sé che, dopo aver messo in guardia sull'inadeguatezza del termine, l'autore utilizza sempre la parola Stato, non essendovene uno diverso per tradurre la forma antica, a meno di non ricorrere a lunghe perifrasi. Di estremo interesse è il collegamento della forma eblaita a quella di Uruk, anteriore di mille anni:

"Sintetizzando, possiamo dire senza tema di essere smentiti che a Ebla sopra al lugal [amministratore] vi era un capo, coordinatore, soprattutto in politica estera, che era qualificato come en [colui che è preposto]. Dato che gli eblaiti non possono essersi inventati tutto, è naturale che io pensi che lo stesso significato riscontrato a Ebla vada attribuito ai termini en e lugal nei testi sumerici… Non sono incline a cancellare l'evidenza [archeologica e linguistica] solo perché contrasta con i modelli che ci siamo creati [in precedenza]" (p. 251).

E ancora, pur senza darci la soddisfazione di spiegare il significato profondo della sua drastica affermazione:

"Per quanto riguarda il dato archeologico, non c'è elemento alcuno che qualifichi gli edifici di Uruk come templi. Viene quindi a mancare il sostegno di base alla teoria che vede il potere, agli inizi, in mano alla classe sacerdotale. Il fatto che il termine en non abbia, in tutti i periodi sumerici, una connotazione religiosa, ma anzi profana, ci costringe a rivedere totalmente le nostre posizioni" (p. 255).

Da tutto ciò ricaviamo che se Ebla del terzo millennio presentava ancora caratteri comunistici, la città-madre Uruk del quarto millennio, nello stesso contesto geostorico, non poteva essere da meno. E se l'incontro con la nascente civiltà egizia è avvenuto su queste basi, oltre che all'estetica dei primi manufatti, la forma sociale mesopotamica deve aver trasmesso anche i propri caratteri. Sui motivi del divergere evolutivo, verso la stabilizzazione millenaria rispetto alle origini in Egitto e verso le città-Stato con monarchie e rigide gerarchie in Mesopotamia, non ci possiamo soffermare. Sta di fatto che per più di tremila anni l'Egitto, nonostante i cambiamenti avvenuti nelle molteplici fasi della sua storia (pre-dinastico; antico, medio e nuovo regno; dominazione persiana, greca e romana), mantiene una forma sociale che ricorda fino alla fine quella originaria, comunistica nel senso che Marx dà a questo termine quando studia le forme che precedono l'economia capitalistica, feudale e antico-classica.

Il persistere di caratteri comunistici in società che nel loro complesso non si possono più definire comuniste non è strano: se la struttura tribale fino alle leghe di villaggi e alle forme proto-urbane come Gerico era lo sfondo ideale per una "collegialità di eguali" con diverse funzioni, secondo un'espressione di Liverani, la città non nega l'esigenza di collegialità ma in un primo tempo la esalta. La natura della produzione urbana, integrata da quella agricola (in un primo tempo non esiste la "contraddizione fra città e campagna") è tale per cui nessuno è autosufficiente, né il singolo né il gruppo familiare, ognuno lavora in funzione degli altri e il risultato dei lavori è un classico "tutto" che è "maggiore della somma delle sue parti". Le decisioni non possono più essere lasciate ai singoli gruppi e tantomeno agli individui, sono prese collettivamente e sono vincolanti per tutti. Non è questione di uguaglianza e di unanimità, è questione materiale di funzionamento: superata nei fatti l'autorità naturale dei capi tribù e dei consigli di anziani, la nuova autorità non si incarna più in una persona ma in un tramite della collettività. E qui Marx anticipa in modo sorprendente le ricerche successive sulla nascita del potere e della religione "nazionale":

"Una parte del lavoro eccedente [della comunità di individui] appartiene alla comunità superiore, che alla fine esiste come persona, e questo lavoro eccedente si manifesta come tributo o come lavoro collettivo a glorificazione dell'unità, cioè in parte al despota reale, in parte al sistema tribale idealizzato, ossia al dio (Grundrisse, quad. IV, Formen).

Nell'antico Egitto le due parti si unificano nella persona del faraone. Secondo gli accademici, quella civiltà non ha più misteri da svelare, su di essa si sa tutto; secondo gli esoterici un po' matti che si divertono con le stranezze, su di essa invece non si sa niente e un complotto universale tenderebbe a nascondere la Verità con la maiuscola. Se si supera la prima reazione di fastidio verso la supponenza borghese dei primi e il ridicolo dei secondi, non si può fare a meno di notare che la violenza dello scontro, quasi da fondamentalismo religioso, deve avere un'origine in un qualche aspetto della realtà che manda in cortocircuito i cervelli.

Tendiamo ad attribuire il fenomeno prima di tutto all'interessata ottusità borghese che, come già diceva Marx, proietta i caratteri del capitalismo su altre forme sociali che con esso non hanno nulla a che fare. Solo secondariamente si innesta la reazione di chi non accetta il dogma accademico ma non sa contrapporgli altro che una fuga nell'irrazionale. Si tratta del medesimo fenomeno che ha prodotto la moda degli atteggiamenti e delle credenze new age, fino a farli diventare un mercato pari a quello della General Motors. Siamo dunque di fronte a due facce della stessa medaglia. Possiamo sfuggire a questa duplice trappola solo basandoci sui dati che ci offrono gli scavi e i testi antichi, gli uni e gli altri ovviamente condotti e tradotti dai borghesi. In entrambi i casi c'è un problema di lettura: si legge una stratigrafia con i reperti che contiene, si legge un geroglifico con le parole che contiene; ma reperti e parole vanno riportati al linguaggio che abbiamo noi per comunicare ed è certo che una piramide non è semplicemente una tomba, come Faraone non vuol dire re, Netjer non vuol dire dio, Ba non vuol dire anima e Maat non vuol dire ordine, giustizia o verità come viene variamente tradotto. In realtà dobbiamo arrenderci di fronte al fatto che nessuna lingua moderna è in grado di tradurre una lingua dell'epoca pre-classista. La lingua di classe si è evoluta operando distinzioni, la lingua a-classista si è evoluta operando unioni. Nell'Egitto antico tutto va bene quando gli uomini sono in armonia con i pricipii primordiali di Maat, le cose vanno male quando si spezza tale continuità. C'è un impedimento intrinseco alla traduzione del linguaggio analogico di una società organica e omeostatica nel linguaggio digitale di una società in lotta entro sé stessa e impostata esclusivamente sulla crescita.

Cerchiamo quindi di utilizzare la mole di dati messa a disposizione dal sistema attuale delle conoscenze, certo accademico, perché non abbiamo altro. Senza inventare nulla, leggiamo però attraverso il nostro sistema di conoscenza e quindi stiamo attenti, per quanto possibile, a non chiamare governatore un nomarca (ed è già una traduzione greca), ministro un visir (ed è già una traduzione turco-persiana) o moneta un deben (che è un'unità di conto ideale per il baratto).

Ma che schiavi d'Egitto!

Alla fine dell'800 fu scavata la prima città operaia egizia e agli inizi del secolo scorso ne erano già state scavate e studiate almeno altre due, mentre una quarta giace quasi sicuramente sotto l'abitato moderno di Giza, la zona delle piramidi più famose. Ciò non è bastato a scalzare dall'immaginario collettivo il fumetto che ancora oggi presenta i poveri schiavi che, sferzati dai carnefici, trascinano penosamente i massi per costruire templi e tombe. Eppure neanche nella Bibbia, alla faccia delle ricostruzioni hollywoodiane, ci sono gli schiavi ebrei. Sembra che il termine compaia solo nelle traduzioni dal greco e nelle intestazioni, aggiunte dai curatori per segnalare gli argomenti nelle pagine. Da non specialisti siamo andati a controllare su cinque bibbie: tre (Gesuiti-CEI, Gerusalemme e Nuovo Mondo) riportano schiavitù, schiavo; la quarta, quella del Diodati tradotta dall'ebraico e pubblicata per la prima volta nel 1607, riporta sempre il termine generico di servitù, servitori, servo; la quinta è la riscrittura settecentesca in linguaggio meno arcaico di quella del Diodati ma non tocca l'originale per servitù, servitori, servo. Nella Bibbia il faraone vuole sbarazzarsi di una popolazione estranea che sta diventando troppo numerosa. (Sembra che gli Ebrei di Mosé fossero i nomadi Hapiru, storicamente attestati, immigrati durante la dinastia usurpatrice degli Hyksos e scacciati sotto il regno di Merneptah). Non riuscendovi con l'uccisione dei suoi neonati, escogita vessazioni del tipo "aumento del carico di lavoro", da cui le vicende che portano all'Esodo. La schiavitù, se vogliamo chiamarla così, è introdotta per un'esigenza temporanea, non fa parte del modo di produzione vigente. La schiavitù presuppone una classe di schiavi e quindi un modo di produzione schiavistico. La forma sociale egizia antica non era di quel tipo. È importante stabilire allora di che tipo realmente fosse, e incominciamo con Marx che descrive così la genesi delle forme che si succedono fino ad arrivare al capitalismo:

"Le condizioni originarie della produzione (o, che è lo stesso, la riproduzione degli uomini…) non possono essere originariamente prodotte esse stesse, essere cioè risultati della produzione. Non è l'unità degli uomini viventi e attivi con le condizioni naturali inorganiche del loro ricambio materiale con la natura, e per conseguenza la loro appropriazione della natura, che ha bisogno di una spiegazione o che è il risultato di un processo storico, ma la separazione di queste condizioni inorganiche dell'esistenza umana da questa esistenza attiva, una separazione che si attua pienamente soltanto nel rapporto tra lavoro salariato e capitale. Nel rapporto di schiavitù e di servitù della gleba questa separazione non avviene ancora".

La società egizia antica, quindi, richiede una spiegazione non dal punto di vista dell'apparente stratificazione sociale in cui riconosciamo categorie indebite, frutto dei riflessi della società attuale nel nostro cervello, ma dal punto di vista del grado di separazione fra il soggetto della produzione e il suo oggetto, inteso quest'ultimo sia come mezzo di produzione che prodotto. Solo così si possono evitare le stupidaggini sullo Stato egizio, retto da un monarca assolutista e da una teocrazia pretesca, che schiaccia una popolazione schiava e dedita alla zoolatria, bastonata se non paga le tasse e costretta a passare la vita ad erigere templi e tombe.

Villaggi operaiFigura 9. A sinistra pianta del quartiere operaio della città di Aketaton (1350 a.C.). A destra in alto il villaggio operaio di Deir el Medinah, 1500 a.C.. In basso ricostruzione della città di Kahun con il quartiere operaio (angolo a destra di fianco al tempio, 1900 a.C.).

Diversi anni fa, ai piedi delle celeberrime piramidi e mastabe della IV dinastia (2600 a.C. circa) erano stati trovati i resti di tombe dei loro costruttori materiali. Recentemente, nuove scoperte hanno permesso di stabilire che non si trattava di sepolture episodiche ma di una vera e propria necropoli. Ora, una necropoli "operaia" entro il recinto sacro della necropoli costruita per le tombe "regali" è un qualcosa che non corrisponde ai canoni classisti fasulli con i quali la società attuale ragiona su quelle antiche (cfr. Hawass, Le montagne dei faraoni). I costruttori delle piramidi (e di tutto ciò che fu costruito in Egitto, comprese molte case private) erano liberi lavoratori, stipendiati dalla comunità attraverso l'autorità centrale, ovviamente in natura, dato che non esisteva il denaro. Ad essi era assegnata una casa e siccome facevano un lavoro faticoso, seguivano una dieta più ricca della media egiziana, in particolar modo per quanto riguarda la carne. Essendo anche abili artigiani, operavano non solo per la comunità nel senso di "lavori pubblici" ma anche per i privati cittadini.

Tutta la società egizia era molto stratificata, ma come negli esempi che abbiamo già visto, gli strati non erano rigidamente delimitati e anzi la mobilità fra l'uno e l'altro era normale. La divisione del lavoro aveva già connotati sociali e non solo tecnico-funzionali, tuttavia la suddetta mobilità impediva la formazione di vere e proprie classi. Non esisteva la proprietà privata, anche se alcuni elementi della società erano più "ricchi" di altri, avendo in concessione dall'autorità centrale terre, bestiame e probabilmente contadini e artigiani. Ma soprattutto, in nessun caso, per migliaia di anni, s'è verificata in Egitto la separazione fra l'uomo, il suo prodotto e i suoi mezzi di produzione, per quanto i rapporti fossero mediati dall'autorità centrale.

Occorre comunque precisare come mai la presenza di "schiavi" in Egitto non desse luogo a una società schiavistica. Prima di tutto ricordiamo che non vi è nella monumentale quantità di testi pervenuti, geroglifici, ieratici o demotici, un solo accenno allo status di questa figura sociale (L'uomo egiziano, p. 167). Inoltre non può essere un caso che dal punto di vista linguistico vi siano almeno otto modi per definire i rapporti di dipendenza egiziani, e la lingua è un prodotto del lavoro sociale convertitosi in mezzo di produzione. Nel periodo pre-dinastico e durante le prime dinastie le guerre non fornivano prigionieri perché i nemici venivano presumibilmente tutti uccisi (cosa che del resto succedeva ovunque, come attestano anche alcuni ordini di Yahveh nella Bibbia). Più tardi nei testi compaiono racconti di gesta epiche guerresche con esagerati numeri di prigionieri (non c'erano tanti "Asiatici che abitano la sabbia") ridotti in "schiavitù". Nelle traduzioni dei testi "letterari" (cioè quelli che noi consideriamo tali) compaiono parole tradotte con "servi" e "schiavi", ma data l'incertezza linguistica non è mai chiara la distinzione fra le due condizioni, in quanto vengono usate parole diverse per gli stessi rapporti di dipendenza o parole uguali per rapporti diversi. L'unica certezza è il rapporto di dipendenza, ma con lo stesso termine si indica anche quella del faraone rispetto a Maat, il principio di ordine e armonia universale. Non è solo un problema terminologico: è ovvio che descrivere una società con i termini elaborati da un'altra distante millenni è problematico, ma qui ci troviamo di fronte a qualcosa di più che non a un semplice problema di vocabolario.

È facile tradurre termini come "città", "casa" o "nave". Nei primi due casi sono state trovate ampie testimonianze archeologiche, nel terzo caso disponiamo non solo di modellini e rappresentazioni grafiche ma anche degli originali trovati ai piedi delle piramidi. Più difficile, se non impossibile, tradurre vocaboli che sottintendono un rapporto sociale. Ad esempio ciò che traduciamo con "tempio", evocando modelli classici, in realtà funzionava anche da scuola e da magazzino per le derrate all'ammasso comune e nei testi è chiamato "casa della vita". Se vediamo un affresco che rappresenta degli uomini intenti a bastonarne altri nel contesto di una raccolta di derrate pesate con bilance pensiamo subito a "tasse" e "polizia", mentre l'insieme serve a ricordare che l'utilizzo collettivo del surplus fa parte dell'ordine universale Maat e che è particolarmente grave romperne l'armonia.

Dunque esistevano figure sociali che possiamo distinguere con le nostre parole schiavo, servo, dipendente, operaio, ecc., e ad esse sono complementari quelle di faraone, visir, nomarca, sacerdote o soldato, e nel mezzo la massa urbana e contadina; ma su di esse non è possibile costruire un modo di produzione, che resta quello di passaggio tra la forma comunistica originaria e quella antico-classica, con notevoli persistenze di comunismo dovute soprattutto all'unità sociale non ancora intaccata dalla proprietà privata e dalle classi. La riprova è che nei tremila anni di storia dell'Egitto antico non vi è stata una sola rivoluzione sociale per rovesciare il potere. Semmai, al contrario, vi sono state rivolte per restaurare la tradizione dell'equilibrio, dell'armonia e della stabilità. Tutto ciò agli occhi di un democratico moderno è senz'altro "reazionario" e "dispotico", mentre a noi sembra evidente che in una società di natura l'unica reazione possibile sia quella che tende a neutralizzare chi va contro natura.

Rivista n. 27