La prima grande rivoluzione (4)
Il passaggio dalle società comunistiche originarie alle società di classe come immagine speculare della transizione futura

Eredità matriarcale antichissima

Ebla appare come una struttura sociale fondata su di un vero e proprio Stato, ricchissimo, in un contesto mercantile internazionale "globalizzato" che dà luogo a una forma di governo complessa, un'amministrazione perfetta, una rete diplomatica capillare ai cui nodi sono grandi magazzini (sul tipo dei fondaci veneziani) gestiti da fiduciari eblaiti. Nello stesso tempo la struttura economica e sociale di Ebla, così ben documentata, ha caratteri arcaici, di evidente derivazione da tipi di società precedenti o comunque mantenutisi nel corso del processo evolutivo urbano. Essa è distinta da quella delle civiltà contemporanee sumerica e accadica, come se si fosse conservata una cultura proto-siriana antica, di tipo gentilizio-tribale (di qui probabilmente il riferimento della figura sovrana non tanto al dio quanto ai padri o giudici); o avesse ricevuto l'impronta da queste civiltà, che però dovrebbero allora essere state diverse da come abbiamo immaginato finora. E forse è qui il punto. Infatti, e lo si legge ovunque, sui testi specializzati come su quelli divulgativi, le scoperte legate alla città sono tali che dovranno essere modificate le attuali concezioni sulla civiltà mesopotamica e in generale su tutto il periodo storico, specie quello più antico. Non ci risulta che da trent'anni a questa parte questa correzione di paradigma sia effettivamente avvenuta, perciò ditta imperterrito quello della "città-Stato" in ambiente di "dispotismo asiatico", una evidente contraddizione in termini.

La struttura urbana di Ebla è diversa da quella delle città contemporanee della Mesopotamia. Paolo Matthiae, capo missione archeologica, afferma che l'area del "palazzo" principale, insieme a quella chiamata "corte delle udienze", è una struttura urbanistica aperta che mostra la mancanza di chiusure fra la popolazione e i rappresentanti dell'autorità centrale. E ventila l'ipotesi che gli Accadi, distruttori di Ebla, abbiano copiato dalla città nemica la loro definizione universale di "Signori delle quattro regioni del mondo", da intendere non come controllo su di un pari numero di nazioni ma sui quattro punti cardinali. Sarà casuale, ma in effetti nelle tavolette trovate a Ebla non sono segnati i confini del presunto impero, mentre è registrata una miriade di minuzie topografiche. Come se la civiltà da cui sorse quella eblaita non avesse avuto il concetto di confine, di limite di nazione e tantomeno di Stato. Matthiae dà per certo che la città fosse considerata dai suoi abitanti come un microcosmo al centro dell'universo e che ciò si riflettesse nella concezione dell'autorità centrale. Concezione che, aggiungiamo noi, è più vicina a quella di un'ancestrale lega di villaggi con magazzini comuni che non a quella delle "città-Stato" mesopotamiche, almeno così come sono state finora interpretate.

Come abbiamo visto, nella Ebla del III millennio non c'era una dinastia "regnante", e l'autorità suprema era designata come "Colui che è preposto". Egli era un primus inter pares, pagava i tributi come tutti i cittadini e proveniva dalla gavetta, cioè giungeva alla massima responsabilità attraverso cariche amministrative, i cui titolari erano quattordici in tutto il territorio ("impero"), coadiuvati da un migliaio di addetti presso le sedi locali dell'amministrazione, a loro volta in collegamento con dodicimila responsabili locali (un numero esagerato, che forse sta ad indicare semplicemente l'ultimo anello del sistema redistributivo, capi famiglia o simili). Il sovrano eblaita, a differenza dei suoi colleghi egizi e sumeri o accadici, faceva tranquillamente a meno di quella caterva di attributi gloriosi che costoro utilizzavano nelle proprie "firme". I trattati internazionali erano sottoscritti semplicemente con la dicitura "Il sovrano di Ebla". Come se l'impegno riguardasse l'entità cittadina, la comunità, e il sovrano fosse solo un tramite. Nella ricerca sulla natura della regalità ci si è imbattuti in una delle tante sorprese riservate da Ebla agli archeologi, epigrafisti, storici, glottologi, filologi:

"Il problema sorge per il fatto che il termine che indica 'esercitare il potere-regalità-sovranità' non viene attribuito alla persona che governa, alla quale soltanto compete l'esercizio del potere, ma alla sua consorte… Non è forse possibile che la vera detentrice del potere a Ebla fosse in effetti la regina e non quindi il sovrano? (Pettinato, La città sepolta).

L'autore continua descrivendo l'alta considerazione in cui era tenuta la donna nella società eblaita, per niente corrispondente alla situazione che crediamo presente in altre società patriarcali, specie semitiche. Nei testi delle tavolette la sovrana è equiparata al sovrano in tutto e per tutto. Come lui pagava i tributi, possedeva terre, offriva doni agli dei e riceveva personalmente tributi dagli amministratori locali. Una tavoletta con testo contabile, intitolato Rituali della regalità, riporta: una quantità di oro e di argento è donata da Ebrium in occasione del matrimonio della regina. Non ci sarebbe niente di strano se questo Ebrium non fosse un funzionario che si ritrova sovrano successivamente al matrimonio con la sovrana. E infatti Pettinato si chiede: e se l'autorità centrale si fosse espressa con una regina e fosse lei a trasmetterla al sovrano nel momento delle nozze? Se così fosse si capirebbe l'usanza di conteggiare gli anni di "regno" a scalare, come se la sovranità fosse a termine. Tra l'altro questo termine cade sempre nello stesso periodo dell'anno, cosa che sarebbe un po' strana se si trattasse della successione dinastica, che di solito avviene alla morte dei sovrani. Anche un'alta funzione della regina madre è registrata sulle tavolette, per cui dal tutto si potrebbe supporre per la sovranità una qualche forma matriarcale. Sette anni di studi alla ricerca di prove, dice l'autore, non hanno portato maggior luce, e il punto interrogativo resta; ma è certo che le stranezze di Ebla incominciano a essere molte e richiederebbero quella revisione della storia medio-orientale cui abbiamo accennato:

"Ebla ci costringe a rivedere tutte le nostre conoscenze acquisite in merito all'origine e allo sviluppo delle civiltà antiche, essa ci rivela che noi sappiamo ben poco o addirittura nulla su di esse" (ibid.).

Addirittura. Detto da uno dei massimi studiosi viventi del mondo mesopotamico e medio-orientale fa una certa impressione. Non c'è da stupirsi se, come dice egli stesso, i suoi colleghi lo prendano un po' per matto nel dibattito a distanza. C'è naturalmente un sottofondo ideologico, almeno a giudicare da alcune sfumature interpretative e persino dalla scelta degli editori, ma a noi non interessa: tutti riconoscono che Ebla, la più auto-documentata "città-Stato" della storia dell'archeologia, ci obbliga a riprendere criticamente le interpretazioni del passato. Al di là delle convinzioni personali dei ricercatori, è chiaro che tra la gerarchia del potere della città proto-siriana e quella delle "città-stato" mesopotamiche coeve c'è un abisso (a meno che, appunto, non sia radicalmente rivista la concezione corrente). È persino probabile che visibili tracce di distruzione al tempo del passaggio dalla sovrastruttura descritta a una forma di "monarchia" siano il segno di una rivolta interna e non di una guerra. La distanza fra Ebla e gli altri "regni" si fa poi ancor più pronunciata se guardiamo all'economia della società eblaita e del suo ambiente, inteso questo come rete di relazioni "commerciali". Sembra infatti che essa sia paragonabile, nel 2500 a.C, a quella esistente nel 3000 a Uruk, capitale di un territorio descritto in documenti dell'epoca "Lega sumerica", e che quindi vada ripensata la credenza che la terra fosse di "proprietà" di re-sacerdoti. La sovrastruttura sociale ne risulterebbe più "laica" in quanto "statale" e non "templare".

E se non fossero state guerre ma rivolte?

Queste definizioni vanno prese per quel che valgono, ma tutta la questione cambierebbe assai se dalle tavolette millenarie si ricavasse con sicurezza che la terra non era di "proprietà" della struttura religiosa locale ma di un "proto-Stato sovranazionale". Come si vede, cerchiamo di fare quel che possiamo con parafrasi e virgolette perché, è certo, si tratta di una situazione sociale non esprimibile nella lingua d'oggi. Però ne possiamo ricavare che, se è vero che Ebla è il riflesso di Uruk con effetto posticipato di mezzo millennio, è anche vero che i reperti trovati a Ebla gettano nuova luce sul passato dell'intera civiltà mesopotamica, come riconoscono gli stessi studiosi. Per adesso è evidente che l'urbanizzazione e il commercio, pur giunti a livelli altissimi, non riescono a intaccare, durante millenni, la struttura sociale preistorica della lega di villaggi e dell'ammasso comune. Lo scambio di enormi ricchezze materiali non inficia il carattere originario della sovrastruttura. Le tavolette trovate nel citato "palazzo", l'edificio monumentale eblaita con funzioni pubbliche, sono datate al 2550 a.C. e documentano tra l'altro un fatto fondamentale per la storia della genesi dello Stato: il tentativo, da parte del citato Ebrium, di trasformare la sovrastruttura comunitaria (elettiva entro una gerarchia di merito, cioè entro una sorta di pre-aristocrazia produttiva e mercantile a uno stadio precedente rispetto a quello della prima costituzione di Atene), in una monarchia ereditaria, con la nomina del figlio a sovrano, contro le regole in uso fino ad allora, come testimoniano i reperti. Ciò avrebbe provocato violenti effetti sociali, documentati da incendi e distruzioni proprio nell'epoca del paleo-colpo-di-stato. Per alcuni (Pettinato), infatti, così andrebbero lette le tracce stratigrafiche e non con una distruzione bellica. Quindi a Ebla la gestazione dello Stato sarebbe stata interrotta, almeno fino alla conquista di Sargon, che comunque era di umili origini, un altro "salvato dalle acque" come Mosé, quindi non ancora sovrano per diritto divino. L'avanzata verso lo Stato continuerà mezzo secolo dopo con il nipote di Sargon, Naramsin, il quale si autodivinizzerà e darà corso alla celebrazione propagandistica della sua monarchia, attirandosi la rabbia popolare nonostante i successi diplomatici e militari, rabbia che sarà tramandata nella letteratura dei posteri come mito negativo.

Traccia di rivolta contro lo sconvolgimento dell'ordine originario l'abbiamo in Egitto, nel passaggio dal Regno Antico al Regno Medio, intorno al 2100 a.C.: anni di disordini e di smembramento dell'unità nazionale rovinarono la società egizia prima che le dinastie tebane riportassero all'armonia di Maat (o fossero costrette a farlo proprio a causa della rivolta). Quasi un millennio dopo, sempre in Egitto, si ripeterà la stessa dinamica storica con la rivolta popolare che condusse alla caduta del faraone riformista e monoteista Amenofi IV e alla "restaurazione" del precedente equilibrio. Non sapremo forse mai quante sconosciute rivolte ci furono in difesa dei rapporti comunitari durante il lungo corso che giunge allo Stato, ma è certo che questo strumento di dominio si impose con una violenza inaudita.

L'economia ibrida e la sovrastruttura conseguente

Affinché emerga dal substrato comunistico originario una forma antagonista che incominci ad essere basata sulla divisione tecnico-sociale del lavoro e infine su classi, è necessaria una produzione che fornisca un surplus e non soltanto i mezzi di sostentamento e riproduzione. Normalmente il surplus delle società antichissime derivava da particolari condizioni del territorio ricco di qualche materiale lavorabile e scambiabile, cioè in ultima analisi da condizioni naturali. Alcune popolazioni afghane, ad esempio, prosperarono fin dalla preistoria scambiando lapislazzuli con il Medio Oriente, la Cina e l'India. Persino gli Egizi, che abitavano un deserto assolutamente ostile, dovevano la loro ricchezza al grande fiume che portava acqua, limo, fertilità e fino a tre raccolti differenziati ogni anno. Enmerkar, re di Uruk, chiedeva metalli e pietre preziose ad un suo pari offrendo in cambio i cereali che crescevano nella sua terra "in quantità senza pari", mentre gli Etruschi organizzarono la produzione e l'esportazione del ferro toscano.

Ebla, che qui continueremo ad utilizzare come paradigma grazie alla completezza dei suoi archivi e alla particolare conformazione sociale, era sorta in tempi preistorici su di un territorio arido e inospitale, adatto alla caccia e poi alla pastorizia. Non disponeva quindi, fin dalla prima sedentarizzazione, di quel surplus naturale di cui potevano disporre altre comunità: né fiumi, né minerali, né clima temperato. Nonostante ciò e a dispetto delle teorie "idrauliche", essa divenne il centro floridissimo di una rete di produzione e di scambi dalla quale ricavava ricchezze che per l'epoca erano immense. Al suo apogeo, i magazzini del "palazzo" registrano 31.200 tonnellate (odierne) di cereali, 20 quintali di argento, 8.700 buoi, 140.000 ovini, 5.600 giare di olio, più lana, tessuti, legname, metalli. Altri registri rivelano che le razioni per il "personale" della regione centrale e di due "province" (sulle 14 che c'erano) ammontano a una quantità di cibo sufficiente a due milioni di persone per un anno. È evidente che si tratta di cifre enormi, molto superiori al fabbisogno interno di un "impero" che, pur vastissimo, aveva al massimo trecentomila abitanti in tutto. Quindi si tratta di registrazioni riguardanti l'ammasso soprattutto per il commercio. Da dove era iniziata questa ricchezza? Che cosa aveva permesso lo scambio di surplus, reiterato fino a far raggiungere un'economia floridissima?

In un certo senso il "commercio estero" antico si sviluppò prima di quello interno e prima delle classi, risultando probabilmente uno dei motori di sviluppo di entrambi. Quindi gli eblaiti dovettero produrre qualcosa da scambiare molto prima che si formassero le prime gerarchie e si verificasse infine un tentativo dinastico contro le condizioni "elettive" precedenti (che, come abbiamo visto, non sono da confondere con la democrazia, nemmeno di tipo greco). In un territorio semi-arido coperto di pascoli furono in un primo tempo il bestiame, la lana e la coltivazione di orzo e frumento a rappresentare la ricchezza. La scoperta che la falda umida non era troppo profonda fornì l'acqua tramite lo scavo di innumerevoli pozzi, che permisero un'agricoltura di sussistenza basata su appezzamenti protetti, come si usa ancora adesso (dry farming). Più tardi sono attestati l'ulivo e la vite. Fu quindi il lavoro comunitario a gettare le basi della prosperità eblaita e di conseguenza dell'amministrazione e della complessa struttura sociale.

Verso la metà del terzo millennio l'analisi della produzione e del commercio, condotta sia sui documenti originali trovati negli archivi eblaiti sia sui ritrovamenti archeologici all'interno di strutture urbane, offre un quadro impressionante per la vastità e la qualità dei beni scambiati. Derrate alimentari, bestiame, lana, stoffe, metalli, minerali, coloranti, legno intarsiato, avorio, tutto è minuziosamente registrato in numero, peso e misure, concorrendo a darci l'idea di una società avanzatissima dal punto di vista tecnico, con una tessitura imponente e una metallurgia del rame arsenicato e del bronzo ad alto tenore di stagno avanti di mezzo millennio rispetto a quanto si supponesse prima della scoperta. La produzione materiale e la sua gestione, quando ci sono i dati, ci dicono molte più cose sulle comunità antiche di quanto ci dica l'estetica della loro produzione "artistica", che spesso è l'unico parametro disponibile ma è isolato dal contesto della vita quotidiana. Questo alto livello tecnico-produttivo venne a superare il deficit naturale del territorio arido e privo di risorse minerali, il lavoro umano sostituì quello degli dei (il pantheon eblaita era piuttosto elementare rispetto a quello delle civiltà coeve) e il "mercato" si rivelò come il motore di ulteriore sviluppo. Così come Marx rimproverava a Bastiat di subire il fascino della teoria coloniale moderna della rapina, che egli sostituiva allo scambio "naturale" fra antiche popolazioni, noi possiamo criticare la teoria moderna dei sistemi "asiatici" chiusi proiettata sulle comunità antiche e non ancora sottomesse al Capitale. Non si può "rapinare" per sempre senza distruggere l'oggetto della rapina. Ovviamente la razzia fu praticata per millenni, come riconosce lo stesso Marx per le forme "asiatiche", ma persino il capitalismo, la più rapace forma sociale mai esistita, ad un certo punto ha dovuto produrre qualcosa nelle colonie per poter "rapinare" con continuità.

Le comunità antiche erano apertissime, e i ritrovamenti di Ebla hanno demolito credenze consolidate sulla limitatezza dei "poveri" predecessori delle società di classe. Non solo essi erano "ricchi", ma se la spassavano mediamente abbastanza meglio dei componenti la società odierna in relazione alla ricchezza prodotta. Non solo non si rapinavano a vicenda (la razzia era ammessa episodicamente e solo verso le società non federate) ma riuscivano a stabilizzare un ottimo e razionale sistema di produzione e di scambio benché non ancora basato sul valore. Quando paragoniamo gli empori di Ebla ai fondaci di Venezia non dobbiamo dimenticare, come abbiamo visto, che l'analogia si ferma al magazzino e alle scritture contabili, ma i beni erano scambiati in quantità riferite a un equivalente astratto che non era ancora denaro. E il termine che noi traduciamo con "commerciante" in realtà nella lingua eblaita significava "messaggero". Vale a dire rappresentante del centro che spediva e riceveva i beni, cioè un efficientissimo organismo centrale di produzione e distribuzione.

Non sappiamo come avvenisse la produzione a Ebla. Una società non ancora giunta alle soglie dell'ideologia parlava di sé stessa esclusivamente in termini di prodotto, distribuzione e consumo in quantità fisiche e non in termini "politici", quindi ci ha lasciato scarse tracce sulla propria composizione sociale. Di certo sappiamo che nessuno produceva individualmente o collettivamente in modo indipendente dall'autorità centrale. Essa, non essendo di tipo dinastico, era probabilmente impersonata da un membro della comunità già esperto in amministrazione, eletto o nominato dai suoi pari. Persisteva l'ammasso comune, distribuito in magazzini collocati sia sul territorio che faceva capo direttamente alla città sia su quello delle città federate. Il controllo dei beni in entrata e uscita era minuzioso e costante, tutto era registrato in scritture contabili e ogni centro della rete distributiva aveva un responsabile che risiedeva nella "casa delle compensazioni", tradotta anche come "casa dei conti" o, assai più impropriamente, "dei prezzi". Tutto ciò basta e avanza per richiamare alla mente di archeologi e storici la forma Stato. Ma da essa siamo ancora lontani.

La forma sociale eblaita è in realtà di tipo ibrido e deriva dalla sua impostazione produttiva e distributiva. Se pure appare sulla carta di una modernità sconcertante, essa è in effetti arcaica. Il già considerato "palazzo reale" è un insieme di edifici che copre almeno un ettaro (non è ancora completamente portato alla luce). Di concezione architettonica unitaria con aggiunte utilitaristiche successive, è composto di ambienti dalle funzioni diversificate, magazzini per alimenti, depositi di materiali, laboratori artigiani, grandi e piccoli locali residenziali per gli addetti, una grande cucina collettiva con ben otto forni allineati, un quartiere amministrativo, probabilmente un tempio, un grande spiazzo colonnato per usi comunitari. È la tipica struttura dei "palazzi" della prima età del bronzo, nei quali si fondono la residenza dell'autorità centrale e quella degli addetti alle questioni religiose, la conservazione degli alimenti e la produzione di manufatti, l'immagazzinamento di questi ultimi e la contabilità del tutto. Ma non è ancora l'espressione di una civiltà "palatina" retta da un sovrano dinastico e da una casta sacerdotale. Come nelle civiltà neolitiche e poi a Cnosso, a Micene e in tutte le civiltà di transizione, vi è traccia della persistenza di forme comunistiche nonostante l'avanzare dei rapporti di proprietà. Non vi era schiavitù nel senso di classe, e nelle lingue medio-orientali dell'epoca non esisteva neppure il termine per definirla, mentre esisteva un termine generico per "servitore" o meglio "dipendente", non uno stato giuridico ma un rapporto individuale con altri individui o con istituzioni. La produzione, di tipo artigianale molto sviluppato, avveniva in laboratori dipendenti dal centro. Probabilmente vigeva un sistema di corvé come in Egitto. Non sono state trovate necropoli del III millennio, segno che non vigeva ancora l'uso di sepolture monumentali collegate a una precisa e netta differenziazione di classe (ne è stata trovata una, già "regale", ma datata al millennio successivo).

A Ebla l'ammasso fisico delle derrate e dei beni non è più semplicemente centralizzato ma è distribuito su larga scala in vari centri, mentre sono rigorosamente centralizzate la contabilità e la gestione del movimento del personale; il "tesoro" non è ancora del sovrano ma della città; al posto dell'artigianato famigliare abbiamo quello che gli archeologi hanno chiamato "artigianato di massa" (Liverani), veri e propri stabilimenti con personale pagato in natura; al posto delle tribù federate abbiamo città proto-statali legate da convenzioni e scambi; al posto di rapporti fra piccole comunità abbiamo quelli fra "imperi" di grande respiro; i confini non sono segnati sul terreno come territorio di proprietà ma si estendono fino a dove arrivano gli scambi con altre comunità urbane. Per questo, tra l'altro, vi è contrasto fra archeologi sull'effettiva estensione del cosiddetto impero di Ebla che essi intendono normalmente come Stato. Insomma, siamo di fronte a una vastissima rete di città di cui una in particolare funge da centro motore, ma, cosa più interessante ancora, è che si tratta di una rete in contatto con altre reti, quella sumerica, quella accadica, quella assira, quella egiziana, quella caldea, quella ittita. Tutte a loro modo ancora impregnate, tra il III e il II millennio a.C., di strutture comunitarie persistenti, dure a morire.

La controversa genesi dello Stato e la sua estinzione

Il fatto che il termine "Stato" possa essere utilizzato per definire sia società pre-classiste che società di classe suggerisce di andar cauti nell'adottarlo. Nell'accezione moderna il termine acquista significato con le signorie rinascimentali italiane, specie con Machiavelli. Norberto Bobbio afferma che mentre sappiamo bene che cosa sia uno Stato contemporaneo, sarebbe ozioso chiedersi se sia esistito uno Stato antico o uno feudale e che sarebbe meglio basarsi su una definizione universale del tipo: Stato = organizzatore della vita collettiva di un gruppo sociale omogeneo stanziato su di un certo territorio, in grado di perseguire gli scopi comuni mediante il monopolio del potere di coazione. È un'operazione logicamente legittima, basta non considerare il fatto che sotto tale definizione ricadono sia lo Stato moderno che la tribù paleolitica. E che quindi non ci serve, perché a noi interessa la dinamica del divenire verso una determinata forma sociale. Con la definizione "logica" non potremmo sapere dove e come si possa parlare di "genesi dello Stato", meglio quindi attenerci strettamente alla definizione di Lenin-Engels che abbiamo precedentemente citato.

La società che emerge dagli scavi di Ebla e che si riverbera su ciò che è stato scritto e pensato a proposito di millenni di storia mesopotamica, sembra essere al culmine del processo verso lo Stato ma ancora al di qua del confine con le società classiste e proprietarie. E come hanno notato gli archeologi, la necessaria riscrittura di questi millenni di storia dovrà tener conto che le comunità stanziate dal Golfo Persico al Mediterraneo non potevano essere troppo diverse tra loro, a incominciare dalla prima in ordine cronologico, cioè l'antichissima Uruk da cui Ebla fu generata. La proprietà privata probabilmente esisteva, ma solo nella forma della concessione da parte di un centro regolatore, come in Egitto o in Cina, cosa che ci rafforza nella convinzione che la città proto-siriana fosse una società centralizzata "comunitaria" a tutti gli effetti e non "palatina". Come s'è visto, fu il centro direzionale di un processo produttivo e distributivo ibrido, per ciò stesso interessantissimo dal punto di vista delle transizioni. Nei processi evolutivi è il mutante che rappresenta il passaggio a nuove specie, e quindi furono centri di tal fatta a rappresentare il mezzo attraverso il quale emersero classi vere e proprie, una delle quali, a sua volta, trasformò infine lo Stato in strumento di oppressione e di schiavizzazione antica e moderna.

Il problema, come in tutte le cose sociali, è che non esiste un confine preciso tra le società pre-classiste e quelle di classe. La lotta della società per la conservazione del comunismo primitivo, paradossalmente, ha successo solo quando riesca a darsi un proprietario collettivo che amministri la società in modo centralizzato, producendo e distribuendo alla maniera antica ma organizzata secondo nuovi modelli quantitativi (surplus agrario). I rappresentanti fisici di questo potente modello comunitario, però, prefigurano nello stesso tempo la prima forma di classe dominante. Il proprietario collettivo ha infine il compito di monopolizzare l'elemento dissolutore dell’antica forma sociale: l'equivalente generale, l'oro e l'argento che diventeranno denaro. Il commercio su lunghe distanze, condotto come evoluzione dell'economia ancora comunistica del dono e del baratto, sarà uno dei più importanti elementi propulsori della nuova forma sociale.

Lo Stato si trova dunque, per un lungo periodo, al confine tra la servitù nei confronti della società e la signoria su di essa. È grazie alle forme proto-statali che la comunità di villaggio opera a vantaggio della maggior parte della popolazione e che tale comunità persiste, anche se con caratteri assai amplificati e trasformati, nel tessuto urbano e in società ormai lontanissime dalle origini. Nel contempo è a causa dello stesso proto-Stato che le comunità originarie vengono distrutte, perché esse, per sopravvivere, devono ora consegnare il loro surplus al centro distributore e regolatore, il quale, a sua volta, si occupa di scambiare una parte dello stesso surplus con beni assenti sul suo territorio, come cibo, metalli, sale, pelli, legname, ecc. Il centro, proprietario collettivo, si presenta dunque come "personalità giuridica" e luogo (in genere urbano) atti ad accumulare i prodotti della società, la quale ad un certo punto può continuare ad esistere in quanto aggregato di vita collettiva solo grazie alla monopolizzazione — da parte del centro suddetto — del commercio, del denaro e dell'industria, cioè di quelle attività che alla lunga mineranno alle sue basi proprio il comunismo primitivo. Così la potenza dello Stato, quando questo sarà ormai completamente al servizio delle famiglie possidenti e quindi privilegiate, diverrà una forza di accelerazione formidabile. Ma solo in quel momento, non prima.

In una successione sfumata, stabilire anche astrattamente il punto di svolta è importantissimo. Ovviamente ci possiamo basare solo su un modello coadiuvato da pochi esempi paradigmatici, ma l'essenziale è capire che la dinamica dei sistemi fisici primitivi in transizione sono osservabili anche invertendo il tempo o i processi. Ci spieghiamo: nella prima transizione la dinamica sociale che porta dal comunismo primitivo alla proprietà, alle classi e allo Stato contempla un passaggio in cui la società è ibrida, è cioè una commistione di comunismo che non c'è più e di proprietà classista che non c'è ancora. Nella seconda transizione avremo un effetto evolutivo analogo nel passaggio dalla società proprietaria di classe al comunismo sviluppato. Avremo cioè un comunismo che c'è già in lotta aperta contro un capitalismo che c'è ancora. Dimostrando che è possibile la persistenza di una struttura comunistica primitiva in ambiente sociale assai avanzato, alle soglie della forma statale, è anche dimostrato che sarà possibile l'anticipazione di una struttura comunistica avanzata in ambiente sociale ancora arretrato, cioè con retaggi capitalistici. Ciò è molto importante perché imprime alla storica discussione sulla dittatura del proletariato, cioè sull'esito della transizione che stiamo vivendo, un carattere scientifico, una visione della rivoluzione come un evento della natura, che accumula forze in evoluzione graduale verso esiti catastrofici repentini. Cioè, detto con altro linguaggio, verso la tradizionale presa del potere al culmine di un processo rivoluzionario. Spazzato via lo Stato borghese, il partito proletario adopererà lo Stato così come fu adoperata la primitiva forma centrale di produzione e distribuzione. E tale processo è già in moto, perché lo Stato borghese non può fare altro, per salvare sé stesso e tutta la società attuale, che socializzare sempre di più la produzione e la distribuzione, non può fare a meno di assecondare a tutti i livelli gli effetti del cervello sociale, globalizzare produzione e distribuzione, collegare il pianeta con nessi di tutti i tipi, spersonalizzare capitali e decisioni esecutive, persino trasformare, con l'esasperazione delle holding centralizzate, ogni singola fabbrica in un elemento integrato della fabbrica complessiva, indifferente rispetto alla propria "delocalizzazione".

Scrive Engels nell’Antidühring:

"Non appena non ci saranno più classi sociali da mantenere nell'oppressione, non appena con l'eliminazione del dominio di classe e della lotta per l'esistenza individuale fondata sull'anarchia della produzione sinora esistente, saranno eliminati anche le collisioni e gli eccessi che sorgono da tutto ciò, non ci sarà da reprimere più niente di ciò che rendeva necessaria una forza repressiva particolare, uno Stato. Il primo atto con cui lo Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società, è ad un tempo l'ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L'intervento di una forza statale nei rapporti sociali diventa superfluo successivamente in ogni campo e poi viene meno da sé stesso. Al posto del governo sulle persone appare l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo stato non viene 'abolito': esso si estingue".

I comunisti sono anti-Stato. Lo Stato "proletario", grazie allo sviluppo ulteriore del capitalismo rispetto ai tempi di Marx ed Engels, sarà molto presto un non-Stato, un ibrido, tipico di quella seconda, grande, fase di transizione. Avrà una struttura e compiti ben lontani da quelli della ridicola caricatura moralistica, stakanovista, sbirresca e assassina che ne ha fatto lo stalinismo. Sarà uno degli elementi organici della società, teso a recuperare, finché esisterà, gli elementi costitutivi del gemeinwesen originario, ovviamente non più sulla base delle piccole o grandi comunità separate di un tempo ma della comunità mondiale della specie, già oggi accomunata in negativo dalla socializzazione universale della produzione e della distribuzione (Lenin). Sarà quello e non altro, ma sarà necessario come fu necessario, nella forma comunitaria centralizzata, per difendere il comunismo primitivo. Il super-Stato odierno, utile alla borghesia per difendere sé stessa e la propria forma sociale, sarà spazzato via e al suo posto sorgerà un non-Stato, utile a eliminare il potere borghese e con esso tutte le classi. Il timore degli anarchici sulla persistenza dello Stato come odioso strumento di oppressione è infondato: materialisticamente parlando, ogni strumento ha ragion d'essere solo fino a che esiste lo scopo per cui è stato costruito. Dopo di che va posto in un museo, con l'amigdala e l'arcolaio.

Verifica: genesi della città-stato in Marx

Quello che abbiamo reiteratamente chiamato "organismo centrale di produzione e distribuzione" e che caratterizza alcuni millenni di storia civile organizzata ma senza Stato, lo deduciamo da Marx, anche se aggiungiamo il supporto storico-archeologico oggi disponibile. Nella scaletta delle forme sociali proposta in Per la critica dell'economia politica egli pone tra il comunismo primitivo e la società antica classica una forma "asiatica", a volte chiamata "dispotica". Quindi all'uscita dalla fase tribale sono tre le forme che conservano rapporti comunistici e legami entro la gens: 1) quella appunto cosiddetta asiatica; 2) quella antica classica; 3) quella germanica. La forma feudale che segue, pur conservando alcuni tratti antichi, come l'ager publicus, i legami entro la comunità di villaggio e la non completa separazione dell'individuo dagli strumenti e dalla produzione, viene posta come forma superiore (nel senso di successiva).

È ovvio che Marx, a partire dalle Formen, non può far altro che esprimere una teoria in gran parte speculativa soprattutto sui dati storici ricavati dai classici greci, latini e medioevali, con l'assenza quasi totale di verifiche archeologiche su altre realtà antiche. Con Morgan gli giunge una verifica che condurrà a uno studio ulteriore e alla pubblicazione dell'Origine della famiglia di Engels. Questo piccolo aggancio ci serve per un confronto con le teorie borghesi dello sviluppo e della genesi dello Stato basate, invece, oltre che sui classici conosciuti anche da Marx, su una massa incomparabile di dati archeologici e documentari, dovuta tra l'altro alla decifrazione o all'affinamento della comprensione di antiche scritture. Il risultato è che, tolto il linguaggio obsoleto e alcuni accenti mutuati dai classici, alla luce dei fatti risulta migliore il lavoro "speculativo" dei nostri predecessori che non quello basato sull'enorme massa di dati a disposizione degli "studiosi" di oggi. Tanto che ci si accorge della necessità di riscrivere la storia della Mesopotamia e del mondo pre-classico solo perché è stata trovata una biblioteca per mezzo della quale genti antichissime ci hanno fatto il piacere di scriverci dal passato come vivevano e com'erano organizzati i loro rapporti. E non basta ancora, perché gli archeologi, gelosi delle loro scoperte, si danno un sacco da fare per contrapporsi l'un l'altro occultando prove, enunciando teorie, traducendo testi dai quali ricavano opposti significati e affabulando a seconda della corrente ideologica borghese cui aderiscono. Rispetto ai tempi dell'archeologia eroica degli Schliemann, dei Petrie e dei Carter oggi c'è più controllo reciproco, ma l'ideologia spadroneggia come sempre.

Quello di Marx è un modello astratto e come tale non corrisponde a nessuna "molteplicità del reale". Tuttavia l'armonia con la dinamica storica è sorprendente soprattutto alla luce dei nuovi dati. Non è un'apologia del battilocchio, è una constatazione di potenza del metodo scientifico. Nel modello i passaggi dal comunismo tribale alle forme successive in cui sono rintracciabili sopravvivenze comunistiche, la genesi della produzione di surplus e la relativa necessità di un'amministrazione centrale e di organismi appositi che poi si fanno Stato sono chiarissimi anche se giunti a noi sotto forma di appunti personali. Sono descritte le prime distinzioni di ruolo e mansione sociale che, sotto la spinta di esigenze funzionali e di difesa dell'organismo collettivo si fanno caste e poi classi. Ma in un processo naturale, finché non si presenta la possibilità materiale di "approfittarne". Ciò è importante, perché lo Stato non nasce per la volontà di qualcuno ma per l'evolversi delle esigenze della società comunistica centralizzata, dove ognuno esprime la propria natura partecipando a un segmento della catena complessiva del lavoro sociale. Come adesso, ma senza la mediazione bestiale dei rapporti di classe e di valore.

Marx si avvale della cosiddetta forma asiatica per fare esempi, per capire la ragione materiale della sua millenaria invariabilità, il perché della sua omeostatizzazione, che definisce self-sustaining, con magnifico termine cibernetico. E indaga sull'assenza della proprietà privata in società che non sono per niente arretrate, come la Cina, dove tutto sembra convergere verso il funzionamento automatico e stabile del sistema senza che vi sia bisogno di intervento particolare del "governo", tanto che solo un intervento esterno infine sembra riuscire a scuoterne il corso millenario.

La società antica pre-classica, come il modello "asiatico", ha dunque grande capacità di auto-stabilizzarsi per millenni, e infatti a volte ciò succede, quando è isolata; a volte invece, quando è una realtà plurima fatta di città, federazioni o nazioni vicine e con aree di attrito in comune, scatta la guerra e il sopravvento di nuove forme, più evolute verso lo Stato e quindi più aggressive, organizzate, potenti. Questo ciclo lo si può vedere proprio nella Mezzaluna fertile che va dalla Mesopotamia all'Egitto attraverso Siria e Palestina, e qualche verifica la si può fare attraverso il contesto dal quale abbiamo tratto l'esempio di Ebla e delle reiterate rivolte contro il processo di statizzazione e di rottura degli antichi equilibri.

Sulla sola base delle conoscenze classiche dell'epoca, Marx ed Engels individuano nella genesi della città-Stato greca la forma pura della storia umana dal comunismo primitivo alla società divisa in classi e dominata dallo Stato in mano a una di esse. Dopo la preistoria comunistica, passando da Omero e dagli storici greci all'archeologia minoica e micenea con relativa decifrazione della lingua di Atreo, è verificata la sequenza marxiana: 1) Organismo centrale di produzione e distribuzione, forma sociale senza classi proprietarie, sepolture comuni (Grecia arcaica, civiltà minoica); 2) organizzazione proto-statale, forma sociale con marcata divisione del lavoro ma senza classi proprietarie, terra in concessione, grandi opere urbane con infrastrutture, sepolture differenziate e monumentali per il sovrano e la sua famiglia (mondo miceneo); 3) nascita della città-Stato classica, aristocrazia possidente di terre e di schiavi (mondo greco); 4) nascita dello Stato-nazione, unificazione delle città e dei loro territori, esercito permanente (mondo ellenistico).

C'è invarianza, quindi si può fare scienza. Cadono le credenze e le nomenclature collegate. "Modo di produzione asiatico" è una frase che ha senso solo se inserita in un contesto d'invarianza, che sia la Uruk del 3000 a.C. o la Cuzco del 1500 d.C. o la Cina degli ultimi imperatori. Idem per "mercato", "re", "impero", o "Stato". Il processo di rottura degli antichi vincoli sociali comunistici è stato a volte lento e spontaneo, a volte più veloce e indotto da eventi esterni, ma sempre la dinamica storica ha presentato queste invarianze nella marcia verso lo Stato e le classi. Le stesse invarianze che si presenteranno nella prossima transizione ribaltate o, per dirla alla Marx, negate (da C → O → S a S → O → C, dove C è comunismo, O è Organismo centrale di produzione e distribuzione e S è Stato). È forse utile ricordare che alcuni identificano l'evoluzione verso lo Stato-nazione e la formazione dei grandi imperi, da Alessandro alla Roma tardo-imperiale, come un ritorno al dispotismo asiatico, ed estendono l'analogia addirittura alla forma sociale dell'URSS (Wittfogel). Si tratta di proiezioni basate su premesse del tutto ideologiche e distanti dalla teoria marxista, ma in un certo senso è vero che i grandi organismi sociali complessi tendono all'omeostasi a causa dei meccanismi di regolazione che sono costretti a darsi. Paradossalmente anche la società comunista futura "utilizzerà", rovesciando la prassi, cioè impostando un progetto di vita, i meccanismi di autoregolazione mutuati dallo sviluppo enorme della forza produttiva sociale. Solo che lo farà a vantaggio della vita di specie, non contro di essa.

Engels e la genesi dello Stato ateniese come modello puro

Nell'Origine della famiglia Engels utilizza la storia dello Stato ateniese come esempio di processo puro, esente da interferenze esterne. Si tratta anche qui di un modello astratto, dato che i Greci stessi sono un'interferenza esterna nella storia della Grecia. Infatti essi erano giunti dall'area balcanica verso la fine del III millennio a.C. e quasi sicuramente non parlavano greco. Del resto non parlavano greco neppure gli abitanti autoctoni, e non lo parlavano i Minoici di Creta che all'epoca controllavano il mare e avevano un'influenza sul continente. Secondo alcuni (cfr. Chadwick) la lingua greca nacque proprio in occasione della mescolanza linguistica prodotta dagli invasori del Nord (lo stereotipo corrente cita gli Ioni, i Dori e gli Achei) in contatto con gli autoctoni e i Cretesi. Questa breve premessa è necessaria perché ci permette di stabilire un collegamento fra le popolazioni egee del III millennio che, un tempo separate da livelli diversificati di sviluppo, raggiunsero in qualche secolo una notevole uniformità linguistica e sociale sotto l'egida del mondo miceneo.

Anche qui troviamo la verifica archeologica rispetto alle considerazioni di Engels, verifica che si presta benissimo a far da supporto alla citata storia dello Stato ateniese come modello puro. Con lo stesso metodo, quindi, tenteremo di completare l'engelsiana genesi del modello ateniese.

Molto prima che si formi il mondo greco, le comunità tribali residenti in quella che è oggi la Grecia si organizzano e sviluppano l'ormai noto organismo centrale di produzione e distribuzione, con i suoi magazzini comuni ecc., dando vita anche qui all'agglomerato urbano con le necessità amministrative e contabili che ne conseguono (tavolette, cretule, scrittura, centri contabili). La società si stratifica finché non scaturisce una forma proto-statale, evidenziata anche dalle tombe che, al solito, rispecchiano la società che le edifica: dalle tombe collettive del ghenos con sepolture indifferenziate (ben testimoniate a Creta) si passa alle tombe di sovrani e aristocrazie, monumentali e con tesori annessi (come a Micene). Il mondo miceneo prenderà il sopravvento espandendosi sul continente e sulle isole, sovrapponendosi alle "culture" precedenti.

L'organizzazione micenea è definita "palatina", anche se v'è chi non accetta la definizione e lascia in sospeso il giudizio su cosa siano veramente i grandi complessi come quelli di Cnosso, di Festo o di Pilo, con i loro magazzini, bagni, laboratori, teatri, archivi. Troppo piccoli per essere città e troppo grandi per essere "palazzi", erano affiancati da città vere e proprie come Micene, Tirinto, Gurnià, Pilo, ecc. Anche in questo caso ci vengono in parziale soccorso le scritture contabili su tavoletta d'argilla. Da esse sappiamo che la società greco-micenea era probabilmente più stratificata di quella che abbiamo visto a Ebla. Non si sa se il sovrano (wanax) fosse tale per diritto divino, dinastico o se fosse eletto dall'aristocrazia. Nelle tavolette non è mai chiamato per nome e non si hanno informazioni sulla sua figura e funzione tranne che in una sola tavoletta trovata a Pilo. Di certo poteva contare su di una serie di fiduciari con ruoli diversificati e di emissari chiamati "compagni" (followers in inglese, comes in latino, Chadwick).

Neanche rispetto all'istituto della proprietà della terra vi sono certezze. Il sovrano ne assegnava in concessione, ma su alcune tavolette risulta che è il damos (il demos greco, cioè il popolo rappresentato) ad assegnare la terra comune o a lavorarla. La produzione agraria era assicurata da contadini che non vivevano più in capanne e case famigliari in campagna ma in città o in case addossate a ville e palazzi. La case degli artigiani, con laboratorio, erano a volte raggruppate in città che sembrano specializzate proprio nell'industria, come Gurnià. L'elenco dei mestieri riportato dalle tavolette dimostra che esisteva una notevole divisione tecnica del lavoro. Ogni centro amministrativo era anche un centro per l'ammasso del prodotto e le tavolette sono piene di dettagli sulla minuziosa distribuzione centralizzata. Esisteva una forma di schiavitù domestica e palaziale ma era ininfluente sul modo di produzione che non si fondava su di essa. Chadwick dubita persino che fosse vera schiavitù, dato che mancano del tutto accenni a schiavi maschi, e d'altra parte è sicuro che un gran numero di persone libere erano addette a funzioni religiose e civili registrate nelle tavolette con il termine tradotto con "schiavi" ma nel senso di "dipendenti" della divinità o altro.

Il mondo miceneo in quanto tale parlava ormai greco. Scaturito da invasioni di popolazioni che i Greci più tardi avrebbero definito barbare, era ancora legato alla costituzione gentilizia, come è attestato anche dalla storia mitizzata in Omero. Probabilmente attingendo all'evoluzione locale in continente e soprattutto al mondo minoico a Creta, gli insediamenti micenei prefigurano la città-Stato, al massimo federata con altre in situazioni contingenti. Tale configurazione, anche se assai trasformata, verrà mantenuta fino alla dissoluzione della Grecia nel mondo ellenistico, dovuta ancora a un barbaro, cioè Alessandro. E non a caso il grande condottiero, pur essendo in grado di saldare in pochissimi anni il sistema delle polis greche con l'impero asiatico persiano, non riesce a stabilizzare al nuovo livello un sistema troppo vasto e universale per funzionare alla maniera greca, per cui è inevitabile, con i diadochi, il ritorno alle città-Stato e alle satrapie orientali.

Prima di Alessandro il mondo miceneo, poi greco, sembra espandersi per forza sua propria, gettando colonie come certe piante gettano stoloni in grado di radicare autonomamente sul terreno circostante. Gli elementi in comune con il mondo "asiatico" presenti in quello minoico-miceneo vengono gradualmente abbandonati, e i Greci si stabiliscono ovunque su un percorso che va dall'Asia Minore a Marsiglia. Ma ciò non avviene in modo lineare. Verso la fine del XIII secolo a.C. crollano uno dopo l'altro gli insediamenti micenei, in modo improvviso. L'archeologia ci rivela distruzioni, saccheggi e incendi, dopo i quali la civiltà micenea scompare. Micene, Pilo, Tirinto, Atene mostrano i segni di mura rinforzate, pozzi scavati in fretta, strutture di legno poco usuali e tirate su alla meglio. Tutto il Medio Oriente è attraversato da un'ondata distruttiva. Anche l'Egitto e la Mesopotamia precipitano nella crisi. Viene annientato il potentissimo impero degli Ittiti, cadono Ugarit in Siria e Troia in Asia Minore, crolla l'economia legata al rame proveniente da Cipro. È come se l'intero periodo che va sotto il nome di Età del bronzo fosse giunto al collasso. La Grecia si spopola e rimane in crisi per quattro secoli. Solo l'Atene micenea non cade, mentre sopravvivono piccoli, isolati insediamenti dai quali probabilmente nascerà verso l'VIII secolo a.C. la splendida civiltà che conosciamo.

Non si sa ancora nulla intorno alle cause del disastro. La data oscilla di un centinaio di anni. Alcuni sostengono che il collasso dell'economia micenea sia conseguito a variazioni climatiche (Carpenter). Altri che in quel periodo vi siano state invasioni da parte di popolazioni come i Dori o i Popoli del Mare, di cui c'è traccia in documenti egizi (Glotz, Palmer). Altri ancora ritengono affrettata l'ipotesi "dorica" chiamandola "moda" non provata (Chadwick). Infine alcuni propendono per una serie di lotte intestine sopravvenute al culmine di un declino (Martin) o alla "disgregazione delle vecchie forme sociali" (Rocchetti). Tutti sono molto convincenti nel criticare le teorie degli altri, ma è certo che, qualunque sia stata la causa dell'ondata di violenze, il venir meno dei delicati equilibri dell'economia di ammasso e redistribuzione contribuì a far precipitare vaste aree nel caos. Del resto le rivoluzioni non avvengono perché si "vuole" una società nuova:

"Gli uomini non rinunciano a ciò che hanno conquistato. Ciò non significa che essi non rinuncino alla forma sociale in cui hanno acquisito date forze produttive. Al contrario. Per non perdere i frutti della civiltà, gli uomini sono forzati a modificare tutte le forme sociali tradizionali, non appena i loro rapporti non corrispondono più alle forze produttive acquisite" (Marx ad Annenkov, 28 dic. 1846).

Siccome siamo anche noi persuasi che le grandi fasi storiche siano contrassegnate non tanto da scontri fra sovrani o popoli ma fra modi di produzione, avanziamo l'ipotesi che non si sia trattato semplicemente della disgregazione della vecchia forma bensì, come nei casi già citati, della contemporanea sollevazione di alcune popolazioni "barbare" o degli abitanti stessi del mondo miceneo in un'estrema difesa dell'organismo centrale di produzione e distribuzione, ancora presente in continuità con la precedente fase minoica. Contro l'avanzante società classista e proprietaria può essere esplosa non diciamo una volontà di ritorno al precedente equilibrio, ma almeno una violenta reazione sociale dovuta all'insofferenza verso la statizzazione di tipo monarchico. Non abbiamo alcuna prova di ciò, ma è sicuro che anche per le altre ipotesi le prove scarseggiano.

Se è così, l'esempio engelsiano di processo puro verso la forma statale ateniese verrebbe perfettamente integrato con tutta la fase pre-classica (sconosciuta a fine '800) che va dall'età preistorica del Minoico antico, sfociato nell'età eroica degli Achei, fino alla società greca propriamente detta, che viene subito dopo la parentesi del cosiddetto Evo Oscuro (XI-VIII secolo a.C.). Omero sarebbe dunque il poeta emergente dal detto periodo oscuro, il cantore che attinge alla leggenda sul passato glorioso degli Achei e anticipa con la sua arte l'avvento della Grecia classica, allora appena in gestazione. Atene, salvatasi dal disastro seppure coinvolta, soffre di secoli d'isolamento, poco per volta abbandona il nuovo istituto monarchico e, forse per reazione, riscopre l'antica forma comunitaria anche se ormai trasformata in democrazia classista e mercantile. Altre civiltà più antiche, superato il periodo comunitario, si erano bloccate a una qualche forma di monarchia ereditaria mentre Sparta, fondata dai Dori nell'XI secolo a.C., si sviluppa con caratteri peculiari, cioè adottando una monarchia (diarchia dopo le leggi di Licurgo) sovrapposta a schemi comunitari "forti". In base a quanto detto finora, vediamo come potrebbe essere integrato lo schema engelsiano.

1) Preistoria: dal VI al III millennio a.C. Il villaggio incorpora la terra coltivata e scambia prodotti con gli abitanti della costa, non è presente l'industria ceramica né sulla terraferma né a Creta. In seguito, con la produzione di surplus, la struttura del villaggio diventa più complessa, e compare, oltre alla ceramica, il magazzino comune. Si costruiscono case a tetto spiovente con tegole, probabilmente per famiglie allargate. Compare il megaron dell'autorità centrale. I rapporti sociali sono di tipo comunistico, le tombe sono di famiglia. Migrazioni verso le isole.

2) A Creta antico minoico: dal 2600 al 2100 a.C. Compaiono forme proto-urbane. Accanto ai villaggi, il "palazzo" riassume in sé l'intera società, essendo magazzino, laboratorio, amministrazione, archivio, tempio e residenza dell'autorità centrale. La tomba è ancora quella collettiva del ghenos. I rapporti sociali sono ancora di tipo comunistico. Spicca la figura del sovrano e dei suoi aiutanti con forte connotazione religiosa. Compare una scrittura geroglifica per la contabilità, fino ad oggi non decifrata.

3) Medio minoico: dal 2100 al 1600 a.C. Cosiddetta rivoluzione urbana di Creta, probabilmente derivata dai contatti con l'Asia Minore e la Mesopotamia, che si riverbera sul continente. Nascono città, e i "palazzi" sono spianati e ricostruiti o comunque ampliati con le stesse caratteristiche. Si sviluppano agricoltura, industria e scambi marittimi. Inizialmente persistono le tombe collettive, poi compaiono tombe familiari a cupola di tipo miceneo. I rapporti perdurano in forma comunistica nonostante l'aumento della complessità sociale. Si afferma la scrittura. Sopravvive il geroglifico ma compare il "lineare A", entrambi non ancora decifrati.

4) Nuovo Minoico: dal 1600 al 1100 a.C. Ricostruzione dei "palazzi" dopo un terremoto, sempre con le caratteristiche di riproduzione universale della società. Sovrapposizione di nuovi rappresentanti dell'autorità centrale, micenei, alla vecchia struttura sociale, che comunque viene mantenuta quasi identica, probabilmente con una più netta separazione dei compiti religiosi da quelli regali. Osmosi fra le due civiltà (già iniziata però nel continente). Da questo punto in poi la civiltà micenea di Creta e del continente vanno considerate in modo unitario. Rapporti sociali di tipo comunitario più che comunistico, ma non "palatini" nel senso mesopotamico. Analogie con Ebla, compreso il commercio, in questo caso garantito dalla talassocrazia ereditata dai minoici. I nuovi rappresentanti della sovranità parlano un greco arcaico. La scrittura ("lineare B") è fonetica ed è decifrata, cosa che permette di acquisire una grande massa di informazioni sulla società micenea.

5) Collasso del mondo miceneo per cause al momento sconosciute: circa XII secolo a.C. Distruzione dei palazzi e delle città a Creta e sul continente. Movimenti migratori della popolazione e nascita di nuovi villaggi arroccati sulle alture come per difesa. Atene micenea si salva ma si spopola a causa di una migrazione verso l'Asia Minore, dove nasceranno colonie ioniche. Secondo la tradizione, solo in parte confermata, già nel secolo XI Atene cambia la struttura micenea dell'autorità centrale (sovrano e aiutanti) per assumere una forma rappresentativa caratterizzata dall'assemblea dei capi delle famiglie più importanti (nove arconti al posto del basileus e sei "custodi della legge"). All'incirca nello stesso periodo si conferma l'unificazione politica dell'Attica sotto la guida di Atene (mito dell'ultimo re, Teseo), processo che termina nell'VIII secolo. A questa data l'aristocrazia terriera possiede già la terra, impoverisce i contadini fino all'esproprio e incomincia a produrre tramite lavoro schiavistico.

Di qui in poi prosegue Engels con i dati storici e con le considerazioni sull'avvento dello Stato nel mondo antico classico. La transizione è avvenuta. L'antico mondo comunistico, e poi comunitario, basato su strutture che fin qui abbiamo chiamato "organismi centrali di produzione e distribuzione" è scomparso, almeno in Europa. Sopravvivenze persistenti saranno ancora visibili nel Medioevo e oltre, fino ai giorni nostri, ma dal momento della rottura totale con la "costituzione gentilizia" — avvenuto in epoche diverse per le varie aree — l'umanità ha dovuto fare i conti con lo Stato.

L'estinzione dello Stato è già incominciata

Con lo stato ateniese l'antica comunità scompare e il lavoro collettivo su cui la sua vita era basata diviene sempre più orientato acquistando potenza. L'indagine scientifica degli strati e delle scritture ci permette di superare quelle che sono state chiamate "grandi narrazioni" dell'archeologia eroica, ammirevoli per aver tratto una così grande quantità di informazione da così poco materiale leggibile, ma troppo piegate al "pensiero" di chi le esponeva e all'ambiente circostante. D'altra parte oggi prevalgono i tecnicismi che spesso ottengono l'effetto inverso e, dalla padella dell'affabulazione positivista si cade nella brace dello schematismo fine a sé stesso. È incredibile come non si sappia che fine abbia fatto il mondo miceneo, tra la "narrazione" dell'ondata dorica, rivelatasi dubbia, e la precisione maniacale con cui è stato possibile documentare le distruzioni (la direzione del vento, l'intensità del fuoco, la qualità dei pollini che conferma la registrazione su tavolette del raccolto appena avvenuto, i drammatici preparativi contro un pericolo imminente, ecc.). Sappiamo solo che c'è stato il passaggio violento da una società tardo-comunistica di produzione, ammasso e redistribuzione a una società di proprietà privata, di schiavi e di Stato. Sulla base di pochi e quasi sussurrati accenni degli studiosi e sulla reiterazione del fenomeno in diverse epoche, ma soprattutto sul manifestarsi a grande scala in quella precisa epoca, abbiamo ventilato l'ipotesi che si sia trattato di rivoluzione per impedire l'avvento, appunto, della monarchia e dello Stato.

Come abbiamo visto ci sono le prove di rivolte. In un mondo senza le comunicazioni di oggi è ovvio che una rivoluzione, diluita forse in un secolo, non poteva essere tramandata ai posteri o anche solo avvertita come tale. Ma, utilizzando in negativo la proposizione di Marx che abbiamo posto all'inizio, quando la proprietà non è più un rapporto cosciente dell'uomo con le condizioni della propria riproduzione, quando la sua esistenza non è più un tutt'uno con la produzione, ma diventa improvvisamente un rapporto di produzione per altri, allora diventa quasi naturale la ribellione a questo stato di cose. Non ha più nessuna importanza se si siano effettivamente mossi i Dori dall'interno della Grecia, se siano arrivati i Popoli del Mare dall'esterno o se si siano ribellate le popolazioni autoctone in tutta l'area: sta di fatto che una situazione insostenibile ha avuto infine il suo epilogo. Non è un caso che non siano ripartite la ricostruzione e la vita normale per almeno quattro secoli. Quale che sia stato l'agente del cataclisma, è certo che la rivolta contro lo Stato in divenire non fece altro che eliminare i residui ostacoli che si frapponevano all'affermarsi dello Stato come strumento del dominio di classe. La società vecchia partoriva quella nuova e le popolazioni in rivolta furono le levatrici dell'evento. Oggi ammiriamo la splendida civiltà che scaturì da quello scontro. Ma non certo mettendoci nei panni degli schiavi che prima non c'erano.

Invertiamo la marcia storica. Oggi lo Stato è un residuo della società vecchia. Sopravvive nonostante il già raggiunto potenziale nuovo di produzione, ammasso e redistribuzione. Ci sono schiavi salariati moderni che premono contro il vecchio regime borghese. Abbatteranno questo Stato e se ne troveranno un altro fra le mani. Lo strumento di schiavitù si trasformerà in strumento per eliminare la schiavitù. Fine della preistoria, inizio della storia umana. La formuletta è nei nostri classici e con essa andiamo per le spicce, ma l'immagine è di quelle potenti per la loro semplicità: prima lo Stato si evolve; si afferma con la proprietà e le classi; infine si estingue. Il cerchio comunismo → comunismo si chiude.

Rifiutiamo di descrivere la storia umana attraverso i lamenti emessi dalle classi dominanti moribonde e da quelle sfruttate ribelli. Nel primo comunismo non c'è "produzione" che non sia riproduzione in un feedback armonioso con la natura, in equilibrio con l'energia che, ricordiamolo, arriva esclusivamente dal Sole. Nel secondo comunismo il ciclo non si ripete tale e quale ma esplode in tutta la sua potenza tramite lo sviluppo intermedio. Cose già sentite mille volte, ma nella milleunesima l'affrontiamo con una struttura frattale che ci parla di auto-somiglianza, di invarianza e di trasformazioni da cui deriviamo che la produzione attuale, per quanto beceramente legata al consumismo e al valore, è già un'anticipazione di quella futura, per cui la società potrà tagliarla di dieci o venti volte conservando ciò che è utile, leggero, anti-dissipativo, smaterializzato, senza il pericolo di trasformare in merce e denaro persino la vita.

Sovrapposizioni e transizioni: le variazioni sono continue e le soluzioni discontinue. Se oggi il tempo di lavoro eliminato è disperazione e incertezza che costringono l'operaio al macabro rituale della supplica per una cosa che non c'è più, domani l'operaio stesso parteciperà all'eliminazione di una cosa che c'è ancora, vale a dire del tempo di lavoro che non è ancora trasformato in tempo di vita. Nella forma capitalistica per l'operaio vendere forza-lavoro non è solo un modo per vivere, ma il modo; se gradualmente risulta impossibile perpetuarlo, se finisce l'era delle rivendicazioni, è inevitabile l'esplosione dello scontro di classe al livello più alto.

Atene ha aperto il nostro corso storico tremila anni fa imprimendo il suo marchio alla dinamica occidentale, e i suoi eredi sono chiamati a chiudere il corso. Il futuro organismo centrale di produzione e distribuzione è già ben visibile, basta liberarlo dalle macerie dello Stato.

Letture consigliate

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  • Moscati Sabatino (a cura di), Autori vari (Fales, Fronzaroli, Garbini, Liverani, Matthiae, Pintore, Zaccagnini), L'alba della civiltà. Società, economia e pensiero nel Vicino Oriente antico, 3 volumi, Utet 1976.
  • n+1, "Operaio parziale e piano di produzione", numero 1 del 2000; Dottrina dei modi di produzione, Quaderni di n+1, 1995; Genesi dell'uomo industria, n. 19 del 2006; Il cervello sociale, n. 0 del 2000; Struttura frattale delle rivoluzioni, n. 26, 2009; Una società urbana ancora comunistica, n. 9 del 2002.
  • Palmer Leonard, Minoici e Micenei. L'antica civiltà egea dopo la decifrazione della lineare B, Einaudi 1969.
  • PCInt., In difesa del programma comunista,; Partito e classe, Edizioni Programma comunista 1970 e 1972.
  • Pettinato Giovanni, I Sumeri, Rusconi 1994; La città sepolta. I misteri di Ebla, Mondadori 1999.
  • Polanyi Karl, La grande trasformazione, Einaudi 1974.
  • Polanyi Karl e altri, Traffici e mercati negli antichi imperi. Le economie nella storia e nella teoria, Einaudi 1978.
  • Sahlins Marshall, L'economia dell'età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Bompiani 1980.
  • Weheler Mortimer, Civiltà dell'Indo e del Gange, Il Saggiatore 1963.
RedistributiveFigura 12. Alcune planimetrie di complessi con magazzini per l'ammasso (scale non confrontabili). In alto: magazzini per derrate alimentari del sito neolitico di Umm Dabaghiyah (VII millennio a.C.); "palazzo" di Cnosso (II millennio a.C., le aree dei magazzini sono tre: all'estrema sinistra, a destra del grande spiazzo e a destra in alto). Sotto: "palazzo" di Mari (II millennio a.C., i magazzini sono nell'area sporgente in basso a sinistra); tempio di Hattusas, capitale degli Ittiti (II millennio a.C., i magazzini sono tutto intorno al tempio rettangolare).
RedistributiveFigura 13. Pianta del tempio di Ramsete II (circa 1250 a.C.) a Tebe. Completamente circondato da magazzini come in ogni società redistributiva, era integrato da locali di servizio, scuole di "amministrazione" e tempietti secondari. In basso a sinistra affiora quel che resta del "palazzo reale". Analisi chimiche sui cocci ritrovati nei locali dei magazzini rivelano che l’ammasso riguardava soprattutto derrate alimentari, compresi birra e vino.
SangalloFigura 14. Pianta dell'abbazia di San Gallo in Svizzera (epoca carolingia, sec. VIII d.C.). Per molti secoli questa configurazione fu considerata un modello ideale. Il complesso mostra tutte le caratteristiche dei siti comunistici proto-urbani ma, essendo l'espressione di un gruppo chiuso e sterile, cioè che non si riproduce per via biologica e vive alle spalle di altre comunità, non ha magazzini redistributivi. Essi sono sostituiti da una modesta dispensa modellata sulle esigenze di una comunità autoreferente (19). Le aree funzionali sono ricorrenti: abitazioni e dormitori (7, 9, 12 e 21), laboratori e stalle del feudo (14, 18), tempio (1-6 e 23), spazi collettivi (11, 12 e 15), amministrazione e biblioteca (8), cucine (16), scuola (20, 24), necropoli (25), ecc.

FINE

Rivista n. 27