La classe dominante italiana a 150 anni dalla formazione del suo stato nazionale (1)

"La nuova forma con la quale il capitalismo amministrerà il mondo va facendo la sua apparizione con un processo che non va decifrato con i metodi scolastici del critico filisteo. Non è la classe dominante che muta, ma solo la forma del suo dominio. Il fascismo dunque può definirsi come un tentativo di autocontrollo e di autolimitazione del capitalismo tendente a frenare in una disciplina centralizzata le punte più allarmanti dei fenomeni economici che rendono insanabili le contraddizioni del sistema". (Da: Il ciclo storico del dominio politico della borghesia, 1944).

La culla del capitalismo

Questo lavoro si presenta forse meglio incominciando a specificare che cosa esso non è. Non è ovviamente una celebrazione, sia pure critica, del 150° anniversario dell'unificazione dello stato borghese italiano. Non è una panoramica storiografica "marxista" sul Risorgimento. Non è neppure uno dei tentativi, tanto di moda in questi anni, di rivisitare quella storia con metodo "revisionista", vuoi rivalutando la politica pragmatica del Piemonte e il suo annessionismo repressivo, vuoi inventando un ruolo illuministico per la monarchia del Regno di Napoli. Molto semplicemente vuole essere una prima raccolta di sparse indicazioni disseminate nel patrimonio tramandato dalla nostra corrente, indicazioni che convergono verso un assunto centrale: non è un caso che in Italia si sia sviluppata una corrente rivoluzionaria comunista con tali peculiarità da distinguersi nettamente da tutte le altre in Europa e nel mondo; e neanche è un caso che qui prima che altrove si sia sviluppata l'ultima antitesi borghese alla rivoluzione, cioè il fascismo.

Prendiamo come punto di partenza alcune considerazioni di Marx ed Engels sull'Italia, alle quali colleghiamo in modo molto diretto alcuni lavori della nostra corrente. Di essi, due sono particolarmente rilevanti per l'argomento che vogliamo trattare: La classe dominante italiana e il suo stato nazionale e Il ciclo storico del dominio politico della borghesia. Sono due capitoli della serie detta "Tesi del dopoguerra", così intitolate ma in realtà scritte nel 1944. La loro importanza risiede nel fatto che già prima della cessazione dei combattimenti si criticava la propaganda di chi affiancava i vincitori, imperniata sulla resistenza anti-tedesca (e filo-alleata) che veniva esaltata come "un nuovo Risorgimento", quando si poteva invece con sicurezza affermare che la senilità borghese scaturita dalle guerre d'indipendenza era il retroterra naturale del fascismo, in piena continuità storica.

Che la nostra corrente avesse in progetto di dimostrare la peculiarità dello sviluppo storico del capitalismo in Italia e della classe che lo rappresenta è evidentissimo. Non sono rimasti solo appunti per riunioni e ricordi di vecchi compagni: la battaglia contro la teoria che vedeva sopravvivenze di un preteso feudalesimo nell'Italia meridionale, e quindi contro la teoria gobettiana e gramsciana dell'antifascismo come completamento di un Risorgimento incompiuto, ha prodotto una disseminazione di utili frammenti in molte pubblicazioni. La peculiarità dello sviluppo storico e quello delle classi ha fatto sì che l'Italia diventasse un laboratorio politico nel quale maturavano esperimenti che poi il mondo avrebbe copiato portandoli alle massime conseguenze: il fascismo ne è la dimostrazione più eclatante.

Ma appoggiamoci al momento su Marx:

"In Italia, dove la produzione capitalistica si sviluppa prima che altrove, anche il dissolvimento dei rapporti di servitù della gleba ha luogo in anticipo sugli altri paesi. Qui il servo della gleba viene emancipato prima ancora di essersi assicurato un qualsiasi diritto di usucapione sulla terra, cosicché la sua emancipazione lo trasforma immediatamente in proletario nudo e crudo, che, per di più, trova già pronti i suoi nuovi padroni nelle città quasi tutte tramandatesi dall'epoca romana. Quando la rivoluzione del mercato mondiale dalla fine del secolo XV in poi distrusse la supremazia mercantile dell'Italia del nord, si verificò un movimento in senso inverso: gli operai urbani vennero spinti in massa nel contado, e vi dettero un impulso quale non si era mai visto alla piccola coltivazione sotto forma di orticoltura" (Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXIV).

Come vedremo anche in seguito, già a cavallo dell'anno Mille si sviluppano in Italia rapporti produttivi e mercantili che prefigurano il capitalismo. Da quest'epoca di grande fermento sociale scaturiscono tutte le categorie capitalistiche, le quali si consolidano nel corso di un paio di secoli e si diffondono nel resto d'Europa. Qui serve solo ricordare che il modello è del tutto maturo già nella prima metà del XII secolo, quando per la prima volta si diffonde il lavoro salariato non sporadico (in varie forme esisteva fin dall'antichità classica) ma sistematico, al punto di configurare una nuova classe sociale "specializzata". Ad esempio i maestri commacini (cum machinis) sono attestati in Italia nel periodo longobardo fin dall'editto di Rotari (643) e sono certamente delle squadre itineranti di artigiani mercenari. In seguito, sempre in Italia, il faber carolingio, l'operaio generico che lavorava per la corte e poteva essere vasaio, falegname e tessitore, diventa dopo il Mille solo lavoratore di metalli, cioè fabbro. Le corporazioni sussistono, ma l'esistenza di produttori non più possessori dei loro mezzi di produzione ne stravolge la natura originaria. L'operaio, con strumenti o meno, si presenta in un luogo dedicato (Ponte Vecchio a Firenze, Place de Grève a Parigi) e viene reclutato dopo aver raggiunto l'accordo per il tempo di lavoro e il salario. Tra l'XI e il XII secolo, con l'esplosione urbanistica nelle città e l'edificazione delle grandi cattedrali romaniche, il reclutamento in massa di lavoratori salariati diventa consueto. Da questo momento si generalizza l'accumulazione, tanto da mettere in imbarazzo le amministrazioni cistercensi che nelle loro grange usavano manodopera salariata e in un primo momento scambiavano il plusvalore per usura, proibita dalla loro regola. Soprattutto nasce la manifattura e, più tardi, l'industria, quindi il capitale finanziario, la cambiale, la lettera di credito, la banca; e ovviamente ne seguono scioperi e sommosse. Il modello capitalistico, introducendo l'industria, non rivoluziona soltanto i rapporti di produzione, rivoluziona anche l'uomo stesso. L'industria è il luogo in cui si realizza e manifesta il lavoro sociale, il mezzo attraverso il quale l'uomo, se solo riuscisse ad abolire la proprietà, potrebbe diventare veramente umano e distaccarsi definitivamente dalla passività animale con cui affronta il mondo della natura. Industria quindi per avvicinarsi coscientemente alla natura, con un progetto che gli permetta di entrare in simbiosi con essa senza distruggerla.

Una bella citazione di Marx ci servirà per capire meglio il lavoro compiuto dalla nostra corrente a proposito del laboratorio Italia. Dividiamola in due parti. Nella prima parte Marx affronta lo sviluppo dell'industria, che grandeggia fino a divenire quella che è sotto ai nostri occhi permettendo di scorgere anticipazioni della società futura; nella seconda è preso in esame proprio il terreno della sperimentazione sul quale si producono gli strumenti del domani.

"È possibile considerare l'industria sotto un'angolazione del tutto diversa da quella dello sporco interesse mercantesco, sotto la quale essa è considerata al giorno d'oggi. La si può considerare come la grande officina dove l'uomo per la prima volta si è appropriato sé stesso, le sue proprie forze e quelle della natura, si è oggettivato, si è creato le condizioni di una vita umana. Quando la si considera in questo modo, si fa astrazione dalle circostanze all'interno delle quali l'industria è oggi attiva, all'interno delle quali essa esiste come industria, si sta non nell'epoca industriale, ma al di sopra di essa, la si considera non secondo quello che essa è oggi per l'uomo, ma secondo quello che l'uomo odierno è per la storia umana, secondo quello che egli è storicamente. Non si riconosce l'industria come tale, la sua esistenza odierna; in essa si riconosce piuttosto il potere che, presente in essa senza la sua consapevolezza e contro la sua volontà, la distrugge e forma la base di una esistenza umana" (Marx, Critica a List).

La grande officina del capitale ha mille anni. Vediamo qui all'opera la potenza scientifica del metodo di Marx, il quale non esita a spingersi nel futuro, cioè al livello del sistema più complesso e completo, sviluppato, per comprendere quello attuale, a più basso sviluppo. Noi possiamo utilizzare gli stessi criteri per l'industria odierna. Pur essendo dominata dal "dispotismo di fabbrica", soggetta alla disperata necessità di valorizzazione del capitale accumulato (che se non passa attraverso la produzione è lavoro morto, valore fittizio), impiegata come tramite usa-e-getta nei movimenti globali della finanza, essa rimane l'unico parametro per capire il grado di sviluppo della forza produttiva sociale.

Un paese è tanto più moderno quanto più libera forza lavoro, non quanto più ne occupa. Molti si stupiscono quando affermiamo che l'italietta stracciona è all'avanguardia della putrefazione capitalistica non solo dal punto di vista storico ma anche da quello della modernità/senilità industriale, tanto da essere, ad esempio, più moderna della Germania. Ma in epoca capitalistica la forza produttiva sociale si misura rapportando il plusvalore prodotto con la massa dei salari. Tale rapporto è in stretta relazione con la composizione organica del capitale e quindi con il saggio di profitto il quale, a sua volta, è l'indice principale per valutare il grado di senilità di un paese o dell'intero pianeta, ormai definitivamente conquistato al capitalismo. Vediamo dunque che il valore prodotto ogni anno in Italia per occupato ($ 71.000) è del tutto in linea con quello di paesi considerati industrialmente più attrezzati: come l'Inghilterra ($ 68.900) o la Francia ($ 73.000) o, appunto, la Germania, la cui vitalità capitalistica giovanile mostra un valore più basso ($ 67.600), dovuto anche a una migliore efficienza dello stato nel mantenere artificialmente alta l'occupazione. Tuttavia, se scorporassimo i soli salariati produttivi dalla voce "occupati", che comprende chiunque abbia un lavoro, operaio, capitalista, bottegaio, ecc., in Italia il valore prodotto per addetto risulterebbe molto più alto. Sarebbe quindi ancor meglio dimostrata la senilità della borghesia nostrana e del suo supporto produttivo (tra l'altro i salari italiani sono i più bassi tra i paesi avanzati). Tale senilità, con i suoi risvolti da basso impero, non è semplicemente un problema sociologico, è un problema strutturale, di produzione e ripartizione del plusvalore. Se in pochi ne producono tanto, tanti saranno i beneficiari che possono essere mantenuti, nel lusso o nella miseria.

Un processo globale

Ed ecco la seconda parte della citazione di Marx, importantissima, sulle determinazioni che portano alcune aree del mondo ad anticipare, per altre, elaborazioni sociali più avanzate:

"Chi ritenesse che ogni popolo esperimenti totalmente in sé stesso tale sviluppo, sarebbe altrettanto stolto di chi ritenesse che ogni popolo debba sperimentare totalmente lo sviluppo politico della Francia o quello filosofico della Germania. Ciò che le nazioni hanno fatto in quanto nazioni, lo hanno fatto per la società umana, tutto il loro valore sta solo in questo, che ciascuna nazione ha sperimentato fino in fondo per le altre più nuovi punti centrali di determinazione (punti di vista centrali), all'interno dei quali l'umanità ha totalmente compiuto il proprio sviluppo, e dunque, dal momento che sono state elaborate l'industria in Inghilterra, la politica in Francia, la filosofia in Germania, [l'arte in Italia] esse sono state elaborate per il mondo" (Ibid.).

Nella prima parte, riportata nel capitoletto precedente, è descritto chiaramente come sia possibile interpretare la futura forma sociale come un'evoluzione necessaria di quella presente, nella quale una classe vede solo i movimenti della valorizzazione del capitale e un'altra solo un sistema di sfruttamento e oppressione. In questa seconda parte si supera il concetto di nazione e ci si lancia a considerare un processo evolutivo della specie, il quale contempla il necessario passaggio attraverso fenomeni che sembrano delle singolarità ma che diventano inevitabilmente elaborazioni "per il mondo" e, aggiungiamo noi, rivoluzioni sociali. Viene in mente, a questo punto, quell'altro passo di Marx in cui egli risponde alle critiche di economisti e filosofi che l'accusano con tono di disprezzo di volere "un comunismo da fabbrica". Sappiamo che Marx non si scompone neppure un po': se i pensatori del comunismo riuscissero ad avvicinarsi con un minimo di intelligenza alle determinazioni della dinamica rivoluzionaria, forse riuscirebbero anche a vedere dove porterà questa dinamica non appena l'involucro capitalistico sarà spezzato e la forza produttiva sociale sarà liberata.

Nella seconda parte abbiamo dunque proprio ciò che ci interessa: ci sono nel mondo dei punti focali in cui si fissa l'esperimento sociale di cui l'umanità ha bisogno; da questi stessi l'esperimento sarà riverberato ad altre aree, tanto più che l'industria obbliga il mondo a realizzare una serie di legami globali grazie ai quali nessuna società può ormai svilupparsi in modo isolato come invece al tempo delle società più antiche. Nella citazione il riferimento all'arte e all'Italia è tra parentesi quadre in quanto si tratta di un collage operato dai vecchi compagni, ma che facciamo nostro: in effetti Marx ne tratta altrove. Comunque per "arte" egli non intende certo solo quella che ci porta alla mente quadri, sculture, architetture, musiche, letteratura, bensì un dato livello di elaborazione sociale attraverso ogni tipo di manifestazione produttiva umana (non per niente Marx ed Engels si riferiscono al fiorire del Rinascimento come affermazione della completezza dell'uomo e dello sviluppo dell'arte-industria). Prima che il maturare del capitalismo producesse il "mercato dell'opera d'arte", un fenomeno come quello a cui noi oggi diamo quel nome non esisteva. Ancora due o tre secoli dopo che veneziani e fiamminghi avevano realizzato "fabbriche" di opere d'arte per il trionfo dei potenti mercanti dell'epoca, l'Encyclopédie, emblema della rivoluzione borghese, portava come sottotitolo: "Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri". Arte quindi come generale capacità umana di agire sulla natura e trasformarla, fino ad assottigliare sempre più, oggi, il confine tra il "nato" e il "prodotto", processo che ad esempio Kevin Kelly descrive nel suo libro Out of Control.

Quindi Marx utilizza il termine arte nell'accezione pre-borghese, collegandosi però a un paese specifico, l'Italia, dove per la prima volta, nel Rinascimento, un prodotto sociale come poteva essere un dipinto diventa merce scambiabile sul mercato e si generalizza in quanto tale. Per Marx gli affreschi di Raffaello nelle stanze vaticane sono un prodotto della società italiana rinascimentale e specificamente romana, non però nella banale accezione materialistica volgare secondo la quale "ad ogni epoca corrisponde un determinato gusto artistico". È vero in generale che noi apprezziamo l'arte greca antica, mentre i greci antichi assai probabilmente non apprezzerebbero quella del tempo capitalistico, ma certo non è solo un problema di estetica, dato che questa è ricorrente (neoclassico, stilizzazione, astrazione, ecc.): la differenza sostanziale tra noi e un antico greco è che per quest'ultimo la produzione "artistica" non era produzione per il mercato.

Sbaglierebbe dunque chi di un fenomeno sovrastrutturale come il fascismo, che riguarda l'arte del governo (arte del resto ben documentata negli scritti rinascimentali italiani), vedesse solo l'estetica dell'orbace, del manganello e della dittatura. Violenza di stato e squadrismo esistevano anche nell'antichità. Quello che nel fascismo ha rappresentato un'innovazione è stato il passaggio al vero capitalismo moderno, il passaggio dalla soggezione del capitale allo stato alla soggezione dello stato al capitale.

Peculiarità storiche della rivoluzione borghese in Italia

Nelle citate Tesi del dopoguerra il processo di unificazione nazionale viene affrontato con sarcasmo, mettendo in luce soprattutto le tare della millenaria borghesia italiana rispecchiate dagli eventi e mai più superate, come ben verifichiamo anche ai giorni nostri. Il fascismo fa parte dell'intero processo e quindi sarebbe un errore considerarlo come una forma sociale nuova che demolisce lo stato "liberale" uscito dal risorgimento. Sarebbe un errore anche fermarsi al sarcasmo suscitato dalle sue manifestazioni folcloristiche. Il fascismo va inteso come manifestazione contraddittoria al pari di quelle dell'intero percorso borghese in Italia, compreso il Risorgimento: espressioni sovrastrutturali a volte ridicole, ma gravide di soluzioni che hanno assicurato un indubitabile successo nella conservazione del potere di classe. Successo, oltre tutto, da esportazione. Uno stato liberale in Italia non è mai esistito e nemmeno in altri paesi. La borghesia, nata statalista, così rimane lungo tutta la sua esistenza, data la sua paura delle biforcazioni che si presentano nella storia. Il suo problema, quindi, è di trasformare le biforcazioni in continuità, poiché esse rappresentano sempre un'alternativa tra il cambiamento di paradigma (rivoluzione) e la conservazione di quello vecchio (controrivoluzione). Il fascismo rappresenta dunque la continuità borghese. Non un ritorno al passato ma un'evoluzione del rapporto sociale capitalistico, più consona alla "fase suprema" imperialistica. Per questo la nostra corrente poteva affermare con tutta sicurezza: chi all'interno di questa società vuol essere progressista sia coerente, sia perciò fascista. Il fascismo viene storicamente dopo la democrazia.

Questi concetti, espressi a guerra ancora in corso, furono difficili da digerire anche da parte di alcuni militanti della Sinistra Comunista stessa. Tuttavia ebbero una potente verifica sperimentale: fu subito chiaro che i fascisti avevano perso la guerra ma che il fascismo l'aveva vinta. Vent'anni di regime mussoliniano non erano riusciti a piegare il proletariato e quindi si doveva impedire che alla fine della guerra esso ponesse le proprie condizioni. Nel 1944 vennero realizzate a tavolino, fra gli Alleati e i rappresentanti politici antifascisti, le strutture della futura repubblica democratica inserita nel blocco occidentale. Non ha importanza se il progetto politico antiproletario fosse pienamente cosciente, sta di fatto che non venne per nulla smantellata la struttura corporativa dello stato, mentre venne adottata la forma esteriore democratica: la migliore per indurre il proletariato a "decidere" da sé le modalità del proprio sfruttamento.

Mentre per noi vi era una continuità fascismo-democrazia, per gli antifascisti il ventennio era una singolarità storica, una parentesi da chiudere. La Resistenza come secondo Risorgimento serviva bene alla mistificazione storica, e l'ideale continuazione col primo era realizzabile con un'operazione elementare: la chiave era la "liberazione", il Tedesco e il fascista prendevano il posto dell'Austriaco e del Borbone. L'unione frontista di tutti gli italiani era stata invocata sia per la ricostruzione nazionale che per la razionalizzazione capitalistica fascista. Ora veniva invocata per la globalizzazione neofascista del capitale. In ogni caso con la santificazione di rapporti sociali "fondati sul lavoro". Da De Amicis alla Costituzione italiana passando per Mussolini, la logica perversa del dominio capitalistico gabellava invarianze per differenze come ha ben evidenziato anche l'autore del Gattopardo. E si capisce perché: il dominio della borghesia italiana è invariante da mille anni e non può fare a meno di riflettere più o meno visibilmente l'intera sua storia, come le stratigrafie di uno scavo archeologico riflettono la storia di un antico insediamento. Ripercorriamo questa storia in sintesi.

1) L'avvento del cristianesimo non intacca la struttura dell'Impero romano, i cui istituti giuridici e amministrativi sono conservati, ovviamente perché voluti da Dio. Si conservano anche con le prime invasioni barbariche almeno fino all'arrivo dei Longobardi, che, passando da nomadi a stanziali, introducono un loro diritto al posto di quello romano. Famiglie e comunità accedono al godimento dei beni e della terra (quindi non "diritto alla proprietà" in senso romano) e in cambio hanno l'obbligo della difesa territoriale nei domini man mano sottomessi (ducati). Lo "stato" longobardo non è altro che l'unione di tutte le comunità, le quali esprimono la loro partecipazione attraverso assemblee generali di tutti gli uomini idonei alla guerra. A differenza delle precedenti unità amministrative barbariche, piuttosto indifferenti rispetto all'urbanizzazione romana, il ducato longobardo adotta la divisione amministrativa dell'impero che faceva perno sulla città. L'Impero carolingio cancella in seguito gli istituti longobardi e idealizza sé stesso come continuatore dell'Impero romano. I Franchi però non si urbanizzano come i Longobardi. Non esistendo più l'antica amministrazione centralizzata, senza capitali di provincia è loro impossibile controllare un territorio immenso. Conservano quindi l'antica responsabilità personale germanica, dalla quale scaturisce una gerarchia di dipendenze fra individui cui è affidata una parte del territorio stesso (le 400 contee). L'impero è suddiviso in tre unità, Francia, Germania e Italia. In quest'ultima, date le numerosissime antiche strutture urbane sopravvissute, il feudalesimo non si radica e in ogni caso entro il X-XI secolo viene soppiantato da organismi di tipo comunale (il termine commune all'inizio è usato come aggettivo, solo più tardi diventa sostantivo col significato che ha oggi).

2) Nel Sud e nella regione veneta i rapporti feudali non esistono del tutto, ma anche nel resto d'Italia scompare molto presto il retaggio carolingio. Paradossalmente sono le abbazie, sottomesse alla Chiesa e quindi nemiche dell'Impero, a mantenere più a lungo rapporti feudali (rotti dai Cistercensi all'inizio del XII secolo). Comunque, già alla fine del IX secolo emerge una ricca proto-borghesia urbana (i cives) che si affianca alla classe dei cavalieri armati possidenti di terre (milites), attratti, a differenza del resto d'Europa, dalla città, nella quale costruiscono palazzi turriti, mentre utilizzano i castelli come residenze di campagna, fattorie o guarnigioni militari. La produzione e il piccolo commercio sono invece prerogativa degli artigiani e dei mercanti (pedites) che fanno la spola fra la campagna e la città animando le fiere. Il connubio tra queste tre classi complementari spiega lo straordinario potenziale militare messo in campo dai liberi Comuni nei secoli successivi.

3) Essendo l'Impero piuttosto instabile e lacerato da sanguinosi scontri dinastici, molti vescovi assumono una certa autonomia e nell'Italia settentrionale governano numerose città. Verso la metà dell'XI secolo matura quello che sarà il vero potenziale classista dell'epoca borghese. Entro la classe dominante si fa strada l'esigenza di rompere i vincoli con i residui delle vecchie classi. La lotta è attestata per la prima volta a Milano. Già i Milanesi avevano preso le armi contro le vessazioni del loro vescovo nel 979. Nel 1056 nasce un vero e proprio movimento urbano contro gli eccessi dei nobili e dei preti, la Pataria. Il movimento non può che essere formato da borghesi che si appoggiano ad altri nobili e preti, ma è appoggiato anche dalla massa di cittadini poveri, tra i quali i primi operai. La lotta contagia altre città e dura una ventina di anni durante i quali i cittadini sono chiamati a continue rivolte (riusciranno a far eleggere papa un loro esponente). I patarini si rifanno a un concetto di eguaglianza elementare ripreso dal cristianesimo originario e dalla regola benedettina. Fondano organismi che edificano "canoniche" comunistiche, alternative a quelle di rito ambrosiano. Più tardi, nel diritto comunale, non solo di Milano, il concetto di eguaglianza sarà fatto valere con il divieto ai potenti aristocratici di assumere cariche pubbliche, le quali vengono riservate al Popolo.

4) La superiorità economica, sociale, tecnica e militare dei Comuni sconfigge ripetutamente l'Impero anche se gli eserciti imperiali per un paio di secoli riescono a realizzare vittorie parziali e a radere al suolo alcune città nemiche. Nel Sud le invasioni degli Arabi (sec. IX) e dei Normanni (sec. XI), non portano all'affermarsi dei rispettivi modi di produzione. Anche se non si sviluppa un tessuto comunale paragonabile a quello del Centro-Nord, i rapporti feudali importati dai normanni non riescono a scalzare la struttura urbana e contadina che gravita intorno alla civitas. Lo slancio dei centri urbani come poli manifatturieri, agricoli e commerciali non si ferma, specie in Puglia e Sicilia, a quell'epoca i territori economicamente più sviluppati d'Europa (le maggiori città pugliesi si danno istituti comunali alla fine del sec. XI). Più tardi (sec. XIII), Federico II, imperatore feudale in un contesto non feudale, sarà schiacciato dall'impatto con la realtà italiana e infine sconfitto. Figlio di padre svevo e di madre normanna, perciò di pura stirpe feudale, si trova alla guida di un impero ibrido: al Sud è costretto a lottare contro le tendenze alla feudalizzazione delle signorie locali e a dare allo stato un'impostazione economico-amministrativa mutuata dalle Repubbliche marinare nemiche (solo Pisa è alleata a Federico); al Nord, deve concedere mano libera al superfeudalesimo dell'Ordine teutonico, affidato al suo luogotenente Ermanno di Salza. Al Sud stringe un'alleanza strettissima con l'Ordine antifeudale cistercense e conduce la guerra contro la Chiesa; al Nord lancia l'esercito teutonico alla crociata contro i pagani per la conquista della Prussia (Ermanno di Salza si sottometterà alla Chiesa ottenendo l'indipendenza dall'Impero e il via libera all'impianto di rapporti pienamente feudali). In un contesto come quello italiano Federico II non può tollerare il potere comunale ma non può nemmeno essere un "semplice" imperatore feudale. Perciò, secondo alcuni storici (ad es. Philip Jones), è costretto a superare i caratteri del proprio tempo e a impiantare una proto-signoria. L'ipotesi è un po' azzardata e forse limitativa: la signoria è una forma di dominio che vedrà la luce nei Comuni solo dopo l'estinzione del potere comunale, mentre quella federiciana non sarebbe relegata a una città e al suo territorio ma sarebbe universale. Queste determinazioni sono sufficienti a spiegare la leggenda di Federico in quanto stupor mundi, il mitico imperatore tedesco-normanno, feudale ma nello stesso tempo proto-rinascimentale, guerriero, architetto, poeta e legislatore. La cui corte – che si esprime in quasi tutte le lingue del tempo, dall'arabo al volgare, dal latino all'ebraico – prefigurerebbe lo stato moderno.

5) L'organizzazione del territorio italiano per centri urbani di antico impianto e tradizione, con sviluppatissimi rapporti città-campagna, è estremamente feconda per lo sviluppo del capitalismo originario repubblicano, ma comporta la difficoltà di unificare in un unico stato le unità economiche sparse. L'orgoglio per la libertà comunale conquistata non permette nemmeno una forma federativa. Per cui in Italia l'avvento del potere borghese e la formazione dello stato nazionale non solo non coincidono ma si realizzano con un divario temporale di quasi nove secoli. Tale enorme lasso di tempo spiega di per sé la decadenza di una borghesia che si impone storicamente prima che nel resto del mondo, raggiunge il suo splendore con il Rinascimento, tramonta con l'imporsi delle rotte oceaniche e deve infine barcamenarsi come un vaso di coccio tra vasi d'acciaio per unificare il proprio territorio nazionale tra mille difficoltà, compromessi, tradimenti, corruzione e tanta repressione. Per questo il Risorgimento ebbe caratteri ibridi. Non fu una rivoluzione dal basso, nonostante lo slancio nazionale di migliaia di combattenti; non fu una rivoluzione dall'alto, nonostante l'indubbia capacità del gruppo borghese dominante nel destreggiarsi fra le potenze straniere. Fu un processo di unificazione risolto in una serie di annessioni, un po' conquistate un po' regalate, sullo sfondo del tragico duello tra le varie componenti sociali, simboleggiate dalla santissima trinità Mazzini-Garibaldi-Cavour incorniciata dalle oleografie dei Martiri.

Dalle Repubbliche marinare a Berlusconi

Il contenuto delle Tesi necessita di essere ben ribadito. Come abbiamo visto, il trapasso storico dalla dominazione dello stato sul capitale alla dominazione del capitale sullo stato non era stato ben compreso anche all'interno della nostra corrente, tanto che vi fu una polemica sulla natura del capitalismo in Russia, fermo alla dominazione dello stato sul capitale. Prima dell'apertura delle rotte transoceaniche, la penisola italiana era proiettata sul mondo che allora contava. I Comuni, le Repubbliche Marinare e le Signorie urbane avevano già sperimentato la dominazione dello stato sul capitale, di conseguenza il passaggio successivo non poteva che essere il vero capitalismo di stato, in cui il capitale domina, appunto, sullo stato. I caratteri dello stato capitalista originario rappresentano l'infanzia del capitalismo di stato odierno. Era lo stato che progettava e realizzava opere pubbliche, armava flotte, organizzava campagne militari e sviluppava il credito, che era ovviamente anche sviluppo del debito pubblico. Era lo stato che controllava il capitale, e che in quanto capitalista collettivo controllava i fattori della ricchezza. C'erano margini di rischio dovuti a carestie, tempeste o guerre, ma in genere era lo strumento esecutivo della società che stabiliva l'impiego dei capitali pubblici e privati. Infatti il capitale pubblico, attraverso il governo, non era altro che una sommatoria di capitali privati dei maggiorenti, messi in moto a beneficio degli stessi.

L'assetto del capitalismo di stato giunto alla sua ultima fase è completamente diverso. Qui il capitale, raggiunta la sua massima autonomia rispetto alla società, cambia pelle, mostra la sua vera natura globale rispetto ai singoli possessori di ogni sua parte, li domina, li obbliga ad agire a favore della valorizzazione complessiva anche a scapito di quella individuale, spinge persino a modificare il significato del linguaggio economico, per il quale il "mercato" non è più il luogo fisico dove avvengono materialmente gli scambi di merci e capitali ma quello virtuale a cui bisogna tendere l'orecchio per captare gli ordini che di lì provengono. Così la "speculazione" non è più l'atto limitato di un possessore di capitali che cerca scorciatoie alla valorizzazione ma il modo di essere del capitale generale divenuto autonomo. Così il "capitale finanziario" non è più, come era fino al tempo di Hobson, Hilferding e Lenin, il capitale da prestito per investimenti produttivi ma semplice "lavoro morto" che cerca di valorizzarsi succhiando come un vampiro "lavoro vivo", uccidendo in tal modo quest'ultimo.

Al capitale completamente autonomizzato non serve l'intelligenza economica di un governo, gli basta un governo qualsiasi, purché obbedisca agli ordini. Più questo governo è formato da incapaci, più si dimostrerà docile di fronte agli imperativi dei "mercati". Il fascismo, in quanto esperimento pilota del capitale all'ultimo stadio, ebbe ancora qualche sprazzo dell'antica grandezza dello stato capitalista. Credette di copiare l'Impero romano ma, istituendo lo "stato sociale", fu il "realizzatore dialettico delle istanze riformiste" del vecchio socialismo. Lo stato, strumento indispensabile per limitare la libertà dei singoli capitalisti, sembrò riprodurre una versione aggiornata del corporativismo medioevale a favore del capitale moderno. Ma non era più il tempo del capitalismo nascente. Con il fascismo, il capitalismo morente cercava di tirare le cuoia il più tardi possibile. Il modello funzionava. In paesi più giovani come la Germania nazista, la Russia staliniana e gli Stati Uniti rooseveltiani, l'esperimento iniziato in Italia attecchì con vigore, rafforzando l'accumulazione o fornendole ossigeno.

Come abbiamo visto citando Marx, ciò che è dato per un paese è dato per il mondo intero, è solo una questione di tempi. Va da sé che bisogna tener conto del grado di sviluppo di una società per spiegare analogie e differenze. Essendo l'Italia il più antico paese capitalistico, la sua borghesia era già decrepita quando riuscì finalmente a contrastare le forze internazionali che impedivano l'unificazione nazionale. Quest'ultima non era ancora completata che già si manifestavano in pieno le peculiarità di questa classe dominante trafficona, corrotta, politicantesca e completamente succuba del capitale. Tenendo conto del ripetersi storico da tragedia in farsa, questo retaggio storico è ben rappresentato dal quindicennio del partito berlusconiano con i suoi presunti nemici, in realtà simbiotici rappresentanti di un governo unico del capitale. Specie fuori d'Italia, sembra che sia difficile capire la genesi di questo fenomeno sociale. I commenti sono per lo più improntati a stupore che possa accadere. Eppure non solo accade, ma si generalizza, dato che non si contano i casi di governi che, in modo più o meno sbracato o clownesco, si dimostrano stupidi strumenti del capitale. Devono essere stupidi per svolgere la loro funzione. Guardiamo ad esempio gli Stati Uniti, non solo con Bush e Reagan ma in tutta la loro storia. Gore Vidal, che è uno scrittore grande-borghese, ha ben tratteggiato il romanzo storico della ultra-corrotta borghesia americana e del suo stato nazionale. Noi non possiamo fare a meno di individuare alcune forti analogie: cacciata degli inglesi, annessione degli stati messicani, annessione degli stati confederati. Anche paesi importanti come la Germania o la Cina, dai governi apparentemente in grado di controllare lo stato, non sfuggono alle determinazioni generali: da diversi lustri attuano una politica disastrosa, l'uno nei confronti dell'Europa, l'altro nei confronti di sé stesso. Da diversi lustri non fanno che proteggere il capitale mondiale che domina il mondo attraverso il residuo di potenza degli Stati Uniti, per ora ancora in grado di rappresentare uno strumento, l'unico, per salvare il sistema proteggendolo da sé stesso.

Un'altra rappresentanza borghese particolarmente stupida e quindi modernissima è quella israeliana: priva come quelle italiana e americana di una tradizione rivoluzionaria antifeudale, essa è il prodotto di una vittoria militare sulla non-nazione araba, le cui determinazioni al separatismo sono state ben definite dalla nostra corrente. Lo stato di Israele è un frutto degli antagonismi interimperialistici, e la sua "rivoluzione nazionale" con l'impianto di capitalismo moderno nel deserto geografico e sociale è avvenuta in un contesto di facile espropriazione contro popolazioni autoctone sparse, disorganizzate e utilizzate dai paesi imperialisti. La sua borghesia, accecata da una guerra che non può trasformare in pura e semplice annessione (e genocidio, deportazione, ecc.), è completamente incapace di vedere il baratro sociale interno e internazionale in cui precipiterà, quindi si corrompe senza rimedio, tollera micidiali parassitismi interni, regredisce a forme sovrastrutturali precapitalistiche.

Il nostrano berlusconismo è un buon paradigma della fase capitalistica decadente. Passaggi così significativi si presentano al livello superiore dello sviluppo della forza produttiva sociale di una determinata forma storica solo per dar tempo alla società di auto-conservarsi un po' più a lungo, di non essere spazzata via. Non hanno tutti i torti coloro che vedono, al di là del facile moralismo, una situazione da basso impero. L'oggetto di questo articolo, cioè "la classe dominante italiana e il suo stato nazionale", come recita il titolo di una delle tesi ricordate, è arrivata al suo capolinea. Il capitale dovrà escogitare qualcosa per renderla innocua. Per l'avvento di un governo tecnico del capitale, ultima spiaggia di questo modo di produzione, era necessario passare attraverso lo sputtanamento definitivo del governo politico. Non è un buon criterio immedesimarsi in un paese giovane per capirne uno vecchio. Il processo inverso è metodologicamente più solido. A dire il vero non è nemmeno buona regola analizzare il paese vecchio ponendosi all'interno del paese vecchio. Bisognerebbe potersi innalzare a una condizione futura della società per capire qualcosa di quella presente. Nella vita quotidiana, solo avendo le idee chiare su quello che vogliamo nel futuro riusciamo ad utilizzare al meglio i materiali e gli strumenti che abbiamo a disposizione nel presente. Di fatto i pochi che sollecitano un livello superiore di governo, cioè un controllo internazionale dell'economia e dei rapporti sociali (fra i quali la Chiesa, dall'alto della sua esperienza bi-millenaria) non hanno alcuna possibilità di successo: la proprietà è privata e nazionale, non potrà subordinarsi a dettati universali.

Riprendiamo il vecchio progetto

Capire ciò che succede in Italia ponendosi sul piano dei fatti e fatterelli interni conduce a banalissime personalizzazioni, e le varie frazioni della borghesia sembrano sbattere la testa contro l'enormità di uno scenario apparentemente immodificabile, dato che a parte qualche dettaglio folcloristico, dal punto di vista della suddetta stupidità non vi è differenza di orizzonte fra governo e opposizione. Eppure dovrebbe essere possibile ricorrere a una formidabile esperienza storica, dato che proprio in Italia gli scandali della borghesia post-risorgimentale produssero la famigerata "questione morale" oggi tanto invocata. Come il trasformismo, il fascismo, l'antifascismo e altre caratteristiche da esportazione, il binomio scandalo-morale-anti-scandalo è stato inventato qui. Berlusconi non può essere il solo "cattivo" nel tramonto di una società. E non può essere paragonato a Nerone o Caligola, né a un satrapo asiatico, come ha fatto qualche giornalista, piuttosto a un impiegato mezzemaniche della corrotta segreteria del capitale. Vedremo come questa degenerazione che coinvolge tutti i poteri tradizionali, esecutivo, legislativo e giudiziario, sia non solo possibile ma perfettamente logica, necessaria ed esportabile: specie in paesi come gli Stati Uniti, la cui rivoluzione nazionale, al pari di quella italiana, non ha dovuto passare dalla lotta contro il feudalesimo, e in cui quindi troviamo

"… capitalismo a mille, rivoluzione e partito rivoluzionario a zero in tutte le epoche. Ed infatti non vi è stata rivoluzione borghese ed antifeudale che scaldasse il sangue ai lavoratori, né poteva tanto la guerra civile 1866 in cui, in fondo, due mezze borghesie si azzannavano tra loro" (Russia e rivoluzione nella teoria marxista).

Quella che al tempo di Marx era materia di profonda riflessione teoretica sul maturare e l'avvicendarsi delle formazioni economiche e sociali, oggi non è altro che accumulo di prove riguardo alla ineluttabilità della morte di questa società e di conseguenza all'inutilità storica della classe che la rappresenta, un tempo dominante in tutti i sensi, oggi succuba del capitale e mera esecutrice del controllo sbirresco sul proletariato. In quanto primo paese capitalistico del mondo in ordine di tempo, l'Italia è appunto un campo fertile per la ricerca di queste prove.

La ricerca sulla peculiarità dello sviluppo storico italiano, gravido di "esperimenti per il mondo" fa parte del nostro piano di lavoro da molto tempo e abbiamo constatato che negli anni passati in altri contesti organizzati è stato fatto qualche raro tentativo di riprendere l'argomento. Così possiamo redigere questo studio anche sulla base di frammenti che ci sono giunti attraverso contatti avvenuti nel corso di trent'anni. La storia di questi contatti, aperti e a volte richiusi, non ha importanza al fine pratico di un articolo, basti osservare che il problema di fondo fu impostato dalla nostra corrente storica da più di mezzo secolo e mai dimenticato, non solo da noi. Insomma, a 150 anni dalla sua rivoluzione nazionale, la borghesia italiana ci serve ancora da detector installato nel cuore del capitalismo mondiale.

Un turista che visitasse Parigi o Londra portandosi a casa le fotografie scattate frettolosamente sul posto, documenterebbe più o meno 800 anni di storia. Lo stesso turista che visitasse Roma ne documenterebbe più di 2000. Pur potendo evitarsi la fatica, dato che potrebbe guardarsi un documentario, egli avrebbe comunque a disposizione un confronto storico alla scala temporale di 1:3. Ma una pietra non è semplicemente una pietra, è una storia da leggere. E per di più non sempre è alla luce del sole, a portata di scatto come a Roma, anzi, quasi mai. È facile aggiungere che questa pietra è estratta da una cava, lavorata per uno scopo e spesso sepolta da chissà quale evento storico, riportata alla luce da uno scavo archeologico o da un restauro. Così, lasciando alle sue foto il consumista in veste turistica, possiamo leggere sulle pietre interpretate una storia che ci permette di datare Parigi, Londra e Roma, risalendo a circa 3000 anni fa, cioè all'età del bronzo. Con un minimo di attenzione ci siamo conquistata la possibilità di amalgamare i singoli aspetti spazio-temporali (livelli di sviluppo analoghi anche se separati geograficamente e storicamente) e tracciare un unico grande schema. Il quale, tra l'altro, senza forzare troppo, può essere generalizzato aggiungendo New York o Pechino. È in questo schema che vanno individuate le grandi invarianze sulle quali si fonda la nostra teoria dello sviluppo sociale verso la società futura.

Fermiamoci un momento sulle "pietre interpretate" e sull'invarianza da esse rivelata rispetto a una semplice fotografia. Marx ci offre una poderosa analisi di tre passaggi storici fondamentali, tutti riferiti alla Francia ma rispondenti alla citazione che abbiamo visto: "Ciò che le nazioni hanno fatto in quanto nazioni, lo hanno fatto per la società umana, ciascuna ha sperimentato fino in fondo per le altre più nuovi punti centrali di determinazione". I tre passaggi sono: la rivoluzione borghese del 1848, il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, la Comune di Parigi. Nello schema universale essi corrispondono ai "nuovi punti centrali di determinazione". In Le lotte di classe in Francia Marx introduce alla descrizione degli avvenimenti con la nota raddrizzata di rotta sulla pretesa sconfitta della rivoluzione. Nessuno può sconfiggerla, scrive; ciò che di volta in volta risulta sconfitto è il contorno sovrastrutturale, il dibattito su ciò che essa s'è già lasciato alle spalle, la confusione ereditata dal tempo delle sue fasi preparatorie, quando la situazione sociale era immatura. Questo tipo di sconfitta è sempre indispensabile affinché la controrivoluzione apparentemente vittoriosa si incarni in un avversario contro il quale deve maturare non più il partito democratico ma il partito dell'insurrezione. Nel Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte Marx mostra il processo che porta il detto avversario a prendere le sembianze di Napoleone III; il potere esecutivo si erge ormai da solo, chiarissimo, come bersaglio della rivoluzione la quale esplode con la Comune di Parigi, pienamente rivendicata con il saggio La guerra civile in Francia.

Lo sfondo politico, economico e sociale della triade storica summenzionata è descritto nella seconda pagina delle Lotte di classe in Francia: il banchiere Laffitte, dopo aver lavorato per l'insediamento del "re cittadino" Luigi Filippo, si lascia sfuggire che da allora in avanti avrebbero governato i banchieri. In Italia era già successo quattro o cinque secoli prima: la potenza crescente dei Comuni aveva prodotto la potenza crescente di capitalisti e capitani di ventura i quali, diventati spesso banchieri, riconosciuti in tutta Europa come "lombardi" (fossero anche senesi o fiorentini), avevano scalzato le assemblee del popolo e le libertà comunali instaurando le proprie signorie. Con la differenza che i lombardi prestavano denaro ai re, mentre ora i re chiedevano prestiti al popolo tramite cambiali del debito pubblico.

Marx osserva quindi che in effetti il potere è in mano a una oligarchia finanziaria, la borghesia industriale è rappresentata dall'opposizione e la piccola borghesia non è rappresentata affatto, come del resto la classe contadina. In tale quadro l'oligarchia finanziaria ha mano libera nel legiferare a favore di un'immane speculazione ai danni dello stato tramite l'aumento del debito pubblico. La monarchia di luglio non è altro che una società per azioni dedita allo sfruttamento della ricchezza nazionale francese, di cui Luigi Filippo è l'amministratore delegato, a dispetto della rivendicazione borghese-industriale di uno stato snello e di un gouvernement bon marché. E la "ditta" mantiene il proprio potere manipolando l'opinione pubblica sia con la stampa, sia diffondendo quella che Marx definisce un'ideologia di prostituzione, secondo la quale è lecito arricchirsi facendo banda e arraffando ricchezze prodotte da altri. Per Marx il modo di governare più moderno è la proiezione del lumpenproletariato al potere, il mondo della corruzione più abietta, dei tagliagole con i guanti, della malattia sociale ("il denaro, il fango e il sangue scorrono insieme"). Dopo il governo dei banchieri, che uccide la nazione, non può esserci altro che il tentativo di far emergere un esecutivo forte che esalti la nazione; ma se il primo esecutivo imperiale fu una tragedia, il secondo non può che essere una farsa, "un impero del vino e salsiccia". Lo scenario francese, poggiante sulle fondamenta illuministiche e la Grande Rivoluzione, mostra dunque la strada per tutte le nazioni, ma solo finché essa è storicamente utile alla rivoluzione che avanza. La sanguinosa sconfitta della Comune di Parigi chiude il ciclo del cesarismo bonapartista e apre quello della cosiddetta Belle époque, durante la quale i capitalisti, passato il terrore indotto dalla rivoluzione, sviluppano al massimo l'industria e permettono al capitale di procedere verso l'autonomia, a prepararsi cioè a dettar legge sugli strumenti globali della propria autoconservazione. È un periodo di euforia capitalistica: al culmine di quest'epoca, cioè alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, gli scambi internazionali in rapporto al PIL raggiungono il loro massimo storico, mai più eguagliato.

In Francia il passaggio dalla lotta antifeudale nazionale all'internazionalizzazione dei suoi risultati tramite il Codice Napoleonico, dal sussulto liberal-costituzionale del 1830-48 al colpo di stato bonapartista e infine alla Comune, rappresenta il ciclo storico del dominio dello Stato sul capitale. La Francia porta a compimento per tutto il mondo un processo iniziato in Italia otto secoli prima con le Repubbliche marinare e con l'armamento delle loro flotte. La Belle époque, come coronamento della rivoluzione produttiva, prepara un rovesciamento epocale: il dominio del capitale sullo Stato. Questo rovesciamento non poteva che avvenire in Europa, naturalmente, ma nell'unico paese dove tutto era incominciato, nell'unico paese in cui la rivoluzione non aveva avuto carattere borghese antifeudale semplicemente perché il feudalesimo non era mai esistito in quanto modo di produzione generalizzato. In ultima analisi nel paese che, pur nella sua insignificanza geopolitica alla Metternich, rappresentava sul piano dello sviluppo sociale il "+1" rispetto alla serie "n", la nostra classica visione secondo cui solo la totalità può darci informazioni complete sulle singole parti. Il citato "esperimento per tutto il mondo" fu il fascismo. Non più soltanto un esecutivo di banchieri parassiti che trasformavano lo Stato in una loro società per azioni in grado di pilotare il capitale a riprodursi nelle loro tasche, non più soltanto una triviale "società del vino e salsicce" fondata sull'appoggio del contadiname, ma anche e soprattutto un moderno strumento con cui anzi il capitale realizzava un controllo economico al di sopra della rovinosa anarchia dei singoli capitalisti. Un esecutivo che, dimostrandosi come abbiamo visto il "vero realizzatore dialettico delle istanze riformiste" tipiche della socialdemocrazia a cavallo dei due secoli, tentava di eliminare il contrasto di classe. Trivialità, ma soprattutto riassetto del capitale. Quest'ultimo stadio ingloba i precedenti. Per fare una lettura scientifica del cosiddetto risorgimento occorre spingersi ai suoi risultati, cioè tener presente il suo sbocco fascista. Il quale, a sua volta, non può essere separato da un movimento di classe che era tanto forte e organizzato da spaventare a morte la borghesia.

Sequenze continue e singolarità

Una volta che ci siamo posti come osservatori in un punto qualsiasi della storia con la consapevolezza del livello superiore raggiunto (l'attuale sbocco demo-fascista) avremo una visione sintetica e dinamica delle determinazioni, delle invarianze e delle rotture storiche (singolarità, catastrofi). Poniamoci ad esempio nella Roma imperiale che dall'Italia controlla tutto il Mediterraneo e gran parte delle regioni continentali che lo circondano. Ci troveremo nel punto focale di un campo di forza su cui convergono sia le determinazioni geostoriche del passato che quelle alla base di un suo futuro da noi già conosciuto. Da questa posizione e con queste premesse, possiamo analizzare con cognizione di causa la complessità delle singole interazioni nello spazio e nel tempo. Nello spazio, per quanto riguarda l'interazione del nucleo con la periferia e viceversa; nel tempo, per quanto riguarda la dinamica storica di cui queste interazioni sono fattore e prodotto.

Siamo ovviamente influenzati da una determinazione eurocentrica. Prima del XV secolo, pur non mancando interazioni fra società distanti fra loro sia nel senso dello sviluppo che nel senso dello spazio che le separava, i campi di forza erano molteplici e separati. Niente impedirebbe di focalizzare l'attenzione, ad esempio sulla Cina dei primi Ch'ing, nel XVII secolo, quando la produzione cinese da sola equivaleva a quella del resto del mondo. Ma se rimaniamo in Europa, e soprattutto se teniamo conto che da questo continente è partita la tremenda ondata imperialistica coloniale che ne farà il centro propulsore del capitalismo moderno, allora vediamo che c'è una relazione stretta fra i vari campi di forza europei che si succedono nella storia. In questa successione abbiamo scelto Roma per l'importanza dell'Italia nella storia del capitalismo e del suo divenire, ma osservazioni analoghe si possono fare, come abbiamo fatto, per la Francia (o per l'Inghilterra, per il Portogallo, per l'Olanda ecc.). Roma riveste un'importanza particolare nell'area europea in quanto eredita la forma antico-classica greca, schiavistica, la porta alle estreme conseguenze e anticipa, al culmine del suo percorso, le forme successive, compreso un proto-capitalismo agrario e finanziario. In effetti il campo di forza che essa rappresenta attrae caratteri specifici delle società che ingloba, e la sintesi che ne deriva produce a sua volta la base per una forma nuova, di livello superiore.

Il mondo greco viene assimilato rimanendo sé stesso, tanto da lasciare una traccia profonda anche quando è relegato a semplice provincia. L'insieme del mondo greco-romano conoscerà invece una tragica estinzione. Tuttavia la potenza della sua storia sarà ereditata in buona parte dalle forme successive, nel Medioevo, nel Rinascimento e persino nella società borghese che, dopo la sua rivoluzione in Francia, si riscopre "neoclassica". E, dal punto di vista delle determinazioni storiche, è meno ridicolo di quanto possa sembrare a prima vista il recupero "imperiale" nell'immaginario fascista. Anche un paese giovane come la Germania, sviluppando al massimo l'esperimento fascista, ha dovuto adombrare il richiamo alla povera mitologia barbarica delle saghe nordiche con un grande sfoggio di "squadrate legioni", di aquile, di labari, di trionfi romani in arene di folle deliranti, paghe di avere panem et circenses (o burro e cannoni).

La quantità d'informazione racchiusa nel raggiunto livello della forza produttiva sociale del mondo greco-romano si conserva e, se anche nell'alto medioevo vi è un decadimento produttivo, demografico, delle costruzioni, delle comunicazioni, ecc., l'insieme della conoscenza viene assimilato dalla nuova forma sociale in formazione e non va perso. I "secoli bui" ereditano la forza produttiva sociale del mondo antico-classico dopo sua "caduta". Si verifica quindi una tragica discontinuità per quanto riguarda la forma del dominio di classe ma non per quanto riguarda l'ascesa continua della forza produttiva sociale. È perciò possibile analizzare nel tempo lo sviluppo di ogni modo di produzione secondo criteri di continuità e discontinuità, criteri che si possono applicare sia alla struttura economica che alle sue manifestazioni sovrastrutturali, sia all'interno di un modo di produzione, sia nel confronto fra modi di produzione. È di conseguenza anche possibile, con criteri di invarianza, analizzare lo sviluppo delle forme in cui si manifesta il potere politico della classe borghese specie nella sua fase imperialistica.

Pur analizzando la sola società romana, notiamo passaggi interni che ci mostrano, dai villaggi dell'età del bronzo alla fase tardo-imperiale attraverso la monarchia e la repubblica, l'accrescersi del bisogno di controllo man mano che la società diventa più vasta e complessa. Questo binomio complessità-controllo diventa un elemento storico irreversibile globale con il capitalismo. Non appena il mondo si globalizza, già nella fase mercantile proto-coloniale, ogni singolo paese emergente nel campo della potenza economica, finanziaria e militare, assume in successione la funzione di punta, di controllo. Venezia, Portogallo, Spagna, Francia, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti si succedono alla rappresentanza del capitale internazionale. Non essendo possibile un ritorno all'unità imperiale antica, dato che i singoli paesi sono fieramente nazionalisti, si giunge all'estremo tentativo, mai riuscito, di dar vita a un controllo mondiale. La Società delle Nazioni, voluta dai vincitori della guerra 1914-18, fu il primo tentativo; il secondo fu l'ONU, voluta dai vincitori della guerra 1939-45. In entrambi i casi una mera proiezione dei parlamenti nazionali al di sopra degli ambiti dei singoli stati. Il fallimento di questi tentativi dimostra che il fascismo non può essere un fenomeno sovranazionale, esso trova un limite insuperabile in ogni singola rappresentanza borghese nazionale.

Sono costretti a lavorare per noi

Possono esservi delle oscillazioni intorno a un asse storico portante, ma, se il capitale non può percorrere a ritroso le strade imboccate, allo stesso modo la politica della borghesia non può ritornare alle sue fasi precedenti. Non ci saranno più repubbliche marinare che armano flotte con il capitale di stato. Non ci saranno più "lombardi" banchieri d'Europa. Nessun Marat scriverà più i mille numeri de L'ami du peuple. Nessun Diderot organizzerà più un'Encyclopédie. È come se ci fosse una freccia del tempo che rende irreversibili i processi. Per questo la rivoluzione lavora a dispetto delle forze che vorrebbero esorcizzarla: alle biforcazioni della storia passa sempre la rivoluzione. Una volta preso il potere, la paura della borghesia per le biforcazioni si riflette anche su quelle prodotte dallo sviluppo all'interno del suo stesso modo di produzione. Perciò svolge normalmente, spontaneamente, attività controrivoluzionaria. Tuttavia le controrivoluzioni hanno ragione di esistere solo in quanto suscitate dalla rivoluzione in marcia, sempre. Nel 1789, di fronte al comunismo ingenuo dei Babeuf e dei Buonarroti ebbero la meglio i Robespierre, i termidoriani e il primo Bonaparte; nel 1848, la rivolta democratica fu sconfitta dalla reazione; nel 1852 il parlamento fu sciolto dalla dittatura del secondo Bonaparte; nel 1924 alla morte di Lenin emerse Stalin; nello stesso anno alla sconfitta dei comunisti seguì la vittoria di Mussolini, indifferente di fronte all'impotenza degli aventiniani. Si indigni chi vuole (oggi è di moda), ma in tutti questi casi fu sempre comunque rivoluzione. Marx ricorse alla metafora della vecchia talpa (18 brumaio); Engels di fronte a Bismark disse: "Lavora per noi come se fosse pagato per questo" (lettera a La Plebe, 22 gennaio 1878); la nostra corrente, profondamente antistalinista, scrisse un plaidoyer pour Staline (1956). Non per celebrare una difesa di quello che era diventato il "mostro" per avversari e seguaci del giorno prima, ma per svergognare coloro che, come avevano immaginato una persona sola alla "costruzione del socialismo in un solo paese", così la immaginavano in quanto fonte del Terrore e del Male.

La rivoluzione borghese italiana fu, nel momento stesso in cui si svolgevano le campagne militari per l'unità territoriale, controrivoluzione politica. Paradossalmente ma non troppo, come abbiamo visto parlando di controrivoluzione, lo stato unitario fu possibile proprio grazie alle manovre più spericolate e ai compromessi a catena nonostante il piccolo Piemonte dovesse combattere contro le potenze maggiori del continente europeo. Ricordiamo che nel 1848 il Regno di Sardegna aveva 4,5 milioni di abitanti, l'Austria-Ungheria e la Francia circa 35 ognuna. Gli inglesi, avversari di queste ultime, erano favorevoli alla rivoluzione italiana ma non le fornivano aiuto concreto. Di fronte a simili difficoltà, è quasi incredibile che i risorgimentali di ogni regione abbiano potuto raggiungere l'obiettivo. Proprio gli inglesi ci offrono un accenno di spiegazione, che è la medesima che dà, in termini molto più duri, la nostra corrente:

"Alieni dalla concezione per così dire mistica dei problemi riguardanti la creazione di uno stato che complicò la vita politica dei tedeschi, gli italiani, degni compatrioti di Machiavelli, si valsero di tutti quegli strumenti politici e di tutte quelle formule costituzionali che ai loro occhi erano più adatti ad assicurare nel modo più rapido possibile l'indipendenza e l'unità del paese. Il fatto che l'Italia dovesse emergere nel 1870 sotto forma di stato unificato con una costituzione monarchica alquanto arcaica e inadeguata, non sembrò preoccupare eccessivamente gli italiani. Durante i difficili anni di rivoluzioni e controrivoluzioni che iniziarono il 1° gennaio 1848 a Milano e terminarono con la spedizione di Garibaldi nel 1860, i liberali e i patrioti italiani furono forse i più caparbi di tutta l'Europa. La causa dei rivoluzionari italiani resistette così alle tempeste del 1848 meglio di quella dei rivoluzionari di Francia, Germania e Austria-Ungheria. E questo perché non era occorso il canto del gallo francese per destare gli insonni patrioti liberali italiani" (Storia del mondo moderno, Cambridge University Press, vol. X, p. 251).

In realtà il fermento rivoluzionario, che aveva avuto un'anima giacobina, sull'onda della proclamazione della Repubblica Italiana (1802), anche se poi diluita con l'esperienza della monarchia napoleonica muratiana a Napoli (soppressa tragicamente nel 1815), finì col far di necessità virtù e divenne monarchico-costituzionale sotto l'egida della famigerata casa Savoia e della famelica borghesia agro-industriale ben rappresentata da Cavour. Repressi i moti liberali del 1820-21, soffocata la Repubblica Romana, fallita la spedizione di Pisacane, contenuta la spinta politico-militare di Garibaldi, ecc. ecc., al 1870 l'unità finalmente raggiunta non aveva più niente di rivendicabile dal punto di vista di un proletariato numericamente debole che aveva sì partecipato alla rivoluzione in un difficile contesto internazionale ma si era trovato ad assistere sbigottito alla contemporanea controrivoluzione interna. Da questo punto di vista l'unità nazionale italiana non è stata, di fatto, una lotta comune delle attuali classi antagoniste contro quelle feudali. Con la conseguenza, tra l'altro, che la propaganda sul Risorgimento come patrimonio interclassista condiviso non è che triviale invenzione. I libri di storia recenti, quelli che mettono in evidenza vuoi il trionfalismo savoiardo vuoi i massacri conseguenti alle annessioni, registrano che vi furono più caduti a causa della repressione che sui campi di battaglia delle tre guerre d'indipendenza. Ma in genere si soffermano sul vasto fenomeno del "banditismo" vandeano nelle regioni centro-meridionali, mentre lungo tutto il periodo della rivoluzione furono in fermento soprattutto masse urbane molto spesso prese a fucilate a causa delle loro reazioni ai tentennamenti, alle incertezze, ai compromessi e ai veri e propri tradimenti della borghesia legata ai Savoia, compresa quella meridionale. Garibaldi, che Engels riconosce come abile stratega e non solo come estroverso guerrigliero, non era certo il rappresentante del contadiname. Durante l'estremo tentativo di difesa della Repubblica romana scrisse a Mazzini nel 1849: "Mi chiedete ciò che io voglio, ve lo dirò. Qui io non posso esistere, per il bene della Repubblica, che in due modi: o dittatore illimitatissimo o milite semplice". Questo fu il programma di Garibaldi lungo tutte le guerre d'indipendenza. E fu sempre sostenuto con migliaia di volontari provenienti dalle città. Tra i Mille non c'era neppure un contadino. Monarchia e borghesia cercarono di contenere l'esuberanza del condottiero relegandolo nella parte di milite semplice e, all'occorrenza, bersaglio, prigioniero.

Rivista n. 30