La classe dominante italiana a 150 anni dalla formazione del suo stato nazionale (2)

Garibaldi, Cavour, il socialismo e la reazione

Quando, negli anni successivi, Garibaldi viaggiò in lungo e in largo nell'Italia "incompiuta" per saggiare il terreno, fu accolto da folle trionfanti al grido di "duce! duce!". Parlò nelle piazze e negli opifici. I preti furono obbligati a suonare le campane, nelle scuole come nelle bettole scomparvero i ritratti dei "venerandi del cielo e della terra", sostituiti con quelli del generale. Nel 1862 a Milano egli parlò a una grande folla in piazza del Duomo e, ricordando l'insurrezione del '48 e le Cinque Giornate, lanciò la parola d'ordine dell'insurrezione definitiva. La sua irruenza produsse lo stesso clima a Monza, Parma, Cremona, Brescia, Bergamo. In quest'ultima città promise pubblicamente un attacco in Trentino contro l'Austria e incominciò ad arruolare volontari in tutta la zona. Il governo inviò truppe ad arrestare i garibaldini, la folla insorse, vi fu una sparatoria con morti e feriti. Garibaldi poco dopo salpò per Palermo con i suoi militi senza specificarne il motivo. Anche qui vi furono morti e feriti in scontri con i bersaglieri piemontesi. A Marsala, fra la folla, fu pronunciato per la prima volta il grido "O Roma o morte!", che divenne parola d'ordine garibaldina. Catania insorse, la guarnigione dell'esercito piemontese presentò le armi alle Camicie rosse, furono arruolati migliaia di volontari e sembrò che si potesse ripetere il trionfo del 1860. Ma tutto finì, come si sa, in Aspromonte. La figura contraddittoria di Garibaldi fu una cartina di tornasole per l'entusiasmo rivoluzionario urbano e quindi anche proletario. La figura chiarissima di Cavour, morto nel 1861 senza poter vedere l'unità nazionale compiuta, fu invece il simbolo di una rivoluzione dall'alto, frutto di ingegneria diplomatico-militare.

Garibaldi fu un'aquila in battaglia ma una gallina sul piano politico. Marx non lo tratta troppo bene, gli dà dell'asino quando il rude generale se ne esce con discorsi di una retorica insopportabile. Vorrebbe incontrarlo a Londra, quando intraprende il suo viaggio in quella città, ma lascia perdere e commenta amaramente lo spettacolare trionfo tributato dai britannici all'eroe del momento. Engels ne riconosce i meriti militari in termini entusiastici, ma le sue aspettative sul piano politico saranno deluse:

"Riceviamo infine qualche notizia degna di fede sui particolari della meravigliosa marcia di Garibaldi da Marsala a Palermo. È indubbiamente una delle imprese militari più straordinarie del secolo e sarebbe quasi inspiegabile se non fosse per il prestigio che precede la marcia di un trionfante generale rivoluzionario… Finora noi lo conoscevamo solo come un capo di guerriglia molto abile e molto fortunato… ma qui lo troviamo su un buon terreno strategico, ed egli esce da questa prova da maestro provetto nella sua arte… Speriamo che il Garibaldi uomo politico, che dovrà presto comparire sulla scena, possa mantenere intatta la gloria del generale" (New York Daily Tribune, 22 giugno 1860).

La curva storica dell'ascesa nazionale italiana si incrociava con quella del declino francese e soprattutto austro-ungarico. La rivoluzione italiana avrebbe prima o poi raggiunto ugualmente il suo scopo nazionale senza Garibaldi e Cavour, ma in tale situazione essi rappresentarono vettori di forza la cui risultante si irrobustiva con le debolezze altrui. Così i due personaggi si dimostrarono complementari anche se l'uno odiava a morte l'altro. La passione rivoluzionaria fu messa al servizio di un politicantismo pragmatico e spudorato, capace di incredibili acrobazie, come ad esempio l'incontro fra l'anticattolicesimo ateistico della piccola borghesia ben rappresentata da Garibaldi e le esigenze di cassa della monarchia bigotta, costretta da Cavour ad espropriare i beni ecclesiastici per pagare la guerra d'annessione.

"Il termine 'annessione' fu usato deliberatamente da Cavour, per evitare ipotesi per lui assurde come quella di riunire gli italiani in un'assemblea costituente; la nuova Italia, come l'intendeva Cavour, doveva essere il più possibile una proiezione del Piemonte. Meglio applicare leggi già sperimentate e verificate a Torino, e meglio ancora se lo si poteva fare senza perdere tempo in discussioni parlamentari" (Storia del mondo moderno, vol. X, pag. 739).

Cavour era per una versione totalmente piemontese dell'unità italiana. Lo manifestava anche in particolari insignificanti, come l'intestardirsi affinché il re piemontese continuasse a chiamarsi Vittorio Emanuele II (di Savoia) invece che I (d'Italia). Il risorgimento fu dunque una vera e propria "rivoluzione conservatrice". E non è un caso che lo stesso fenomeno si riproducesse infine entro le organizzazioni operaie, dove una base molto combattiva cozzava contro vertici riformisti che predicavano un socialismo dolciastro, moralista e massonico, fino a suscitare, come reazione di rigetto, un movimento rivoluzionario intransigente che sarà il retroterra storico della corrente cui ci rifacciamo.

L'unificazione territoriale è naturalmente un vantaggio anche per la nostra rivoluzione, poiché significa unificazione del mercato interno, aggancio con quello estero, quindi sviluppo dell'industria e del proletariato. Le pretese coloniali italiane marciarono di pari passo con la stabilizzazione interna: Nino Bixio, in previsione dell'apertura del canale di Suez, proponeva di acquistare uno sbocco sul Mar Rosso già nel 1861, indicando il porto di Assab, poi effettivamente acquistato tramite l'armatore Rubattino e diventato la testa di ponte per la penetrazione coloniale. La borghesia è una classe inconseguente: la sua rivoluzione ha sempre una componente di controrivoluzione, perché ha bisogno di masse di uomini delle altre classi per prendere il potere, consolidarlo e condurre le proprie guerre. Di queste classi, specie del proletariato, non può fidarsi. In tale contesto Garibaldi doveva per forza incrociare la pallottola che lo ferì in Aspromonte, come in tutte le altre occasioni si erano incrociate, fondendosi, le contraddittorie esigenze delle classi e delle mezze classi in campo. Le pallottole piemontesi di Bixio e Cialdini non furono dunque riservate solo a borbonici e briganti, ma anche a contadini insorti e garibaldini.

La stima internazionale verso Garibaldi non poté nulla contro il procedere monarchico dell'unificazione. A Palermo, prima che prendesse corpo la seconda spedizione garibaldina attraverso la Sicilia e la Calabria, due ufficiali della marina statunitense si erano incontrati con Garibaldi, probabilmente con un messaggio di Lincoln. Il presidente americano in persona aveva già scritto al generale invitandolo a prendere il comando di un corpo d'armata nella guerra civile americana con il grado conseguente. Garibaldi aveva subordinato la sua accettazione all'impegno da parte di Lincoln di inserire chiaramente l'abolizione totale della schiavitù nel suo programma. Ma la liberazione degli schiavi non era ancora prevista dalla borghesia industriale unionista. Dopo lo scontro in Aspromonte, ferito e imprigionato, Garibaldi rimandò a tempi migliori la partecipazione alla guerra civile americana, ma è sicuro che se avesse potuto accettare la proposta non si sarebbe trincerato a Gettysburg, avrebbe contrapposto a Lee una guerra ancora più mobile di quelle sperimentate nei "due mondi", avrebbe liberato i neri e avrebbe trovato un Aspromonte anche in America. Non troppo arditamente, quindi, Lincoln è stato paragonato da qualche storico a Cavour.

Rassegna dei battilocchi, o della rivoluzione empirica

In un'area geostorica come quella italiana, che ha "imborghesito" il più potente imperatore medioevale e che ha fatto maturare fino alla putrefazione gli eredi della borghesia rivoluzionaria di mille anni fa, la classe dominante non poteva far altro che escogitare in extremis il fascismo come salvagente e insegnare il trucco al resto del mondo. Non eravamo d'accordo con quei compagni che, osservando dall'estero il fermento politico italiano con eccessivo ottimismo, lo interpretavano come segnale della risorgente lotta di classe. Tuttavia, per le ragioni che stiamo analizzando, abbiamo sempre ritenuto realistico uno scenario internazionale in cui l'Italia diventa il teatro della biforcazione conclusiva verso una diversa forma sociale. O perlomeno il detonatore per fare esplodere il resto d'Europa. La nostra critica storica, tratteggiata nelle Tesi ricordate, è semplice: una borghesia già vecchia di dieci secoli non può tornare bambina, e le borghesie degli altri paesi non possono far altro che inseguirla nella senilità.

Pisacane narra della guerra 1848-49 mettendo in rilievo il contrasto fra l'entusiasmo dei volontari e le manovre dei politicanti. Cattaneo annota come l'insurrezione di Milano sia misconosciuta all'estero dove imperano i luoghi comuni sull'arretratezza degli italiani. Entrambi sono grandi rivoluzionari e capiscono benissimo quale impiccio rappresenti casa Savoia con il suo codazzo di affaristi pragmatici. Ma non capiscono che, storicamente, è come se la borghesia italiana avesse già fatto la propria rivoluzione da secoli, e che adesso si tratta solo di unificare il territorio. Lavoro, appunto, da affaristi pragmatici e da militari di carriera. Abbiamo parlato di Cavour, di Garibaldi e altri personaggi in quanto comodi riferimenti che ci aiutano a descrivere un determinato periodo, ma non è superfluo ribadire che non sono stati i vari personaggi, con tutti gli altri attori sulla scena, a fare la rivoluzione italiana. È semmai la rivoluzione italiana che ha fatto i personaggi. Il copione era già scritto. Perché Garibaldi riesce dove è fallito Pisacane, "marxista senza aver letto Marx"? Perché il gretto accentratore Cavour, il politicante del carciofo, si dimostra migliore traduttore di programmi in fatti rispetto, poniamo, al federalista universale Cattaneo, lo scienziato sociale? Perché Carlo Alberto ondeggia fra i costituzionalisti moderati, la reazione assolutistica e poi di nuovo verso i rivoluzionari? C'è un filo logico. Se la borghesia ha già dato corso alla propria rivoluzione secoli prima, l'unificazione territoriale e la sua stabilizzazione non richiedono più lo slancio dei tempi eroici ma una oculata ingegneria politica, oltre tutto per non essere stritolati dai giganti nazionali dell'epoca. Da questo punto di vista è emblematica proprio la figura di Carlo Alberto, il quale vorrebbe fare storia ma è sballottato da questa senza troppo riguardo: si attira l'accusa di traditore da parte dei rivoluzionari e finisce per essere soprannominato "re tentenna" persino dai moderati.

Vissuto da giovane a Parigi all'epoca del primo Napoleone, Carlo Alberto ritorna a Torino con la restaurazione dei Savoia. Qui da una parte subisce l'ambiente reazionario e bigotto della corte, dall'altra ha simpatie con l'aristocrazia liberale e anti-austriaca. Coinvolto nei moti insurrezionali piemontesi del 1821, promette ai liberali il proprio interessamento per la realizzazione di una monarchia costituzionale. Con l'abdicazione di suo padre, Vittorio Emanuele I, diventa reggente al posto di Carlo Felice, successore legittimo, e concede una costituzione molto avanzata per i tempi. Ma sconfessato dal nuovo re, odiato dai liberali, nel frattempo imprigionati, esiliati o uccisi, deve allontanarsi dal regno, nel quale viene restaurato l'assolutismo. Schieratosi con la reazione, cerca il compromesso antiliberale con gli austriaci e partecipa alla spedizione militare francese contro i costituzionalisti spagnoli. Nel 1831 muore Carlo Felice e Carlo Alberto gli succede, rifiuta l'amnistia ai liberali del '21 ancora incarcerati e reprime duramente i mazziniani (Mazzini e Garibaldi sono condannati a morte in contumacia). Con il maturare della rivoluzione borghese il vecchio apparato statale piemontese, uno dei più arretrati d'Europa, si dimostra inadeguato ai tempi e viene riformato sul modello del codice napoleonico. Carlo Alberto è ossessionato dai liberali, ma di fronte al crescere della rivoluzione non può far altro che concedere uno statuto e mostrarsi dalla parte dei rivoltosi. Nello stesso mese, dichiara guerra all'Austria in appoggio ai milanesi insorti (le truppe piemontesi arrivano però a Milano dopo che i milanesi si sono già liberati da sé). Non all'altezza dei compiti militari imposti da una guerra rivoluzionaria nazionale, deve subire le sconfitte di Custoza e Novara, abdicando a favore di Vittorio Emanuele II.

Nella storia personale di Carlo Alberto, più ancora che in quella del "padre della patria" Vittorio Emanuele II, si riassume il Risorgimento, che nell'intero suo percorso rifletterà quel misto di rivoluzione e controrivoluzione che tanto ha fatto discutere gli storici. Già i moti liberali del 1820-21, che egli aveva appoggiato, erano stati episodi di stabilizzazione, non di rivoluzione radicale: né Guglielmo Pepe a Napoli, né Santorre di Santarosa in Piemonte agivano per la fine della monarchia. Eppure in entrambi i casi una modesta richiesta costituzionale aveva innescato un'insurrezione popolare repressa nel sangue (del lavoro sporco se ne incaricarono gli austriaci, sia al Nord che al Sud). Carlo Alberto, tentennando in guerra e in pace, condannando persino a morte Garibaldi, ecc., aveva anticipato Vittorio Emanuele II, non meno tentennante negli svolti cruciali della guerra per l'unificazione (aveva ad esempio fatto credere a Garibaldi di essere a favore, contro Cavour, della spedizione per la presa di Roma, salvo poi, a campagna iniziata, guardarsi bene dal bloccare l'esercito regio che per poco non uccideva il generale in Aspromonte). Nonostante tutto, malgrado le indecisioni, gli intrallazzi, le insurrezioni represse e le battaglie perdute sul campo, la rivoluzione non si fermò.

I personaggi piemontesi fin troppo noti che si è costretti ad evocare, come del resto in ogni storia, si erano adeguati alla rivoluzione del carciofo diventandone i meticolosi impiegati. D'Azeglio, militare mancato, pittore e scrittore, fu chiamato da Vittorio Emanuele II a gestire la difficile pace con l'Austria dopo la sconfitta di Novara (in realtà introdusse il re alla politica di cui era digiuno) e, da primo ministro, contribuì a rendere presentabile lo stato piemontese. Si dichiarò contrario all'annessione del Sud, facendosi poi da parte per lasciare il posto a Cavour. Il quale era certo il geniale interprete di una unificazione nazionale che portava a compimento una rivoluzione iniziata secoli prima. Ma proprio per questo seguiva i dettami di quella rivoluzione. Ex militare, economista agrario, possidente, "liberale pratico", era il più adatto allo scopo ed era stato elevato a potente esecutore. Marx lo attacca come disonesto anche nei confronti di Vittorio Emanuele in quanto emissario di Bonaparte; e forse è vero, se è vera la storia del via libera del re a Garibaldi contro Roma, cioè contro i francesi. Ma per la rivoluzione Cavour era il meglio che la piazza potesse offrire. Del resto anche Vittorio Emanuele non scherzava in quanto a "disonestà" politica, dato che aveva la tendenza a scavalcare il governo e a prendere iniziative per proprio conto, specialmente a livello diplomatico e militare. Quintino Sella era un ingegnere minerario, matematico, agronomo. A lui era toccato compito tremendo di far quadrare il bilancio sinistrato dalle guerre di annessione dissanguando le famiglie con le tasse. Costantino Nigra, filologo, era stato artefice pragmatico della abilissima diplomazia militare con la Francia. Lamarmora, generale, due volte primo ministro, mandato a Genova per sedare la rivolta mazziniana (450 morti), prefetto a Napoli contro il brigantaggio. Rattazzi, avvocato, relatore nel 1848 sul progetto per l'annessione della Lombardia e di alcune province venete, sostenitore acceso di una nuova guerra all'Austria, non esita a pilotare l'alleanza della sinistra moderata con la destra di Cavour ("connubio") quando lo ritiene utile, per poi staccarsene ed assumere pieni poteri in vista delle ulteriori annessioni (il Veneto e Roma). Depretis, prodittatore di Sicilia dopo lo sbarco garibaldino, ministro per quarant'anni e capo dell'esecutivo per undici, capo della sinistra che portò al governo ampliando la base elettorale del parlamento, inventore della pratica degli accordi elettorali finalizzati a uno scopo ("trasformismo"). Insomma, tra eroi, amministratori patriottici e squali della politica parlamentare della destra e sinistra storiche, già al tempo dell'Unità d'Italia c'era una bella prefigurazione di ciò che sarebbe venuto dopo.

Da questo agguerrito esercito piemontese di travet che lavorava all'unificazione sotto l'ordine savoiardo, ovviamente possiamo estrarre solo qualche milite significativo, quelli che si studiano a scuola. Sta di fatto che la sua capacità empirica di condurre la guerra per la quale si era darwinianamente reso adatto gli dava una resilienza tale che l'insieme dei rivoluzionari italiani poté poco o nulla per modificarne il percorso e i metodi. Tanto che anche non-piemontesi, come Bixio, Crispi, Cialdini, Pallavicino, finirono sui libri di storia in quanto allineati esecutori nella piccola ma micidiale macchina da guerra piemontese.

Rivoluzione strombazzata e rivoluzione anonima

Bolton King scrive la sua storia del Risorgimento italiano alla fine dell'800, cioè utilizzando a botta calda solo il materiale pubblico prodotto dai suoi stessi protagonisti, giornali, proclami, ecc. Denis Mack Smith racconta come sia stato difficile ricostruire la storia sulla base di documentazione oggettiva perché l'autocelebrazione savoiarda pose fin da subito una interessata enfasi su determinati fatti e persone piuttosto che su altri, quando non introdusse addirittura una certa creatività. Il fascismo ereditò questo atteggiamento secretando l'abbondante documentazione poco gradita. Le cose non andarono meglio con l'avvento della fase democratica. Tutto ciò ha avuto delle conseguenze perverse, la prima delle quali è l'immane quanto ingiustificata presenza di pochissimi battilocchi che avrebbero "fatto la storia" quasi da soli.

È vero che nel corso del Risorgimento Mazzini, ad esempio, ebbe un notevole ruolo politico, dato che quasi tutti i protagonisti di questo arco storico passarono attraverso una qualche adesione al suo programma. Tuttavia la condizione storica dell'Italia era troppo matura per uno sviluppo del romanticismo mazziniano, certo meno efficace del pragmatismo di Cavour e dell'attivismo di Garibaldi. Dopo il '48 gli italiani non optarono per una rivoluzione repubblicano-cristiana alla Mazzini ma neanche presero in considerazione l'ipotesi neoguelfa alla Gioberti o quella meccanicistica moderata alla Balbo. Nonostante fossero insofferenti verso i Savoia, ne avevano realisticamente accettato il ruolo. Tuttavia un certo radicalismo indefinito continuò a rappresentare il carburante della rivoluzione, come attesta la quasi idolatria per Garibaldi, per cui anche gli attori più retrivi furono obbligati a procedere verso l'unità completa. In tale contesto personaggi diversissimi tra loro s'influenzarono a vicenda e furono portati al risultato da forze del tutto anonime ma determinanti.

Decine di migliaia di volontari entusiasti, radicali, non del tutto consapevoli di rischiare la vita per gli intrallazzi dei vertici, accorsero imbracciando le armi per la confusa marcia unitaria nonostante essa, dal '48 in poi, si presentasse inequivocabilmente sotto l'emblema dei Savoia. Portando comunque, pur tra mille indecisioni e compromessi, al risultato grazie anche, se non soprattutto, alla spinta di questo movimento popolare spontaneo. Si pensi che l'esercito piemontese raggiunse nei momenti di massimo reclutamento i 100.000 uomini (il 2% dell'intera popolazione) e che il numero totale dei volontari, anche tenendo conto che gli stessi combattenti si presentarono in più campagne, fu dello stesso ordine. A spiegare il fenomeno non bastano il "magnetismo" di Garibaldi, l'esuberante patriottismo giovanile e le spinte materiali alimentate da una vita grama. Evidentemente quando la rivoluzione si mette in moto nessuno può più fermarla, ed essa mette in moto anche i suoi militi, ovunque essi si trovino inquadrati a un dato momento: lungo tutte le guerre d'indipendenza italiane non si contano le ribellioni dei soldati, i cambiamenti di fronte, le diserzioni dalle file degli eserciti dinastici a favore di quelli risorgimentali.

Nel 1848, dopo la dichiarazione di guerra all'Austria da parte del Piemonte, furono migliaia i volontari accorsi da tutta la penisola e furono molti di più quando le truppe pontificie e borboniche (30.000 uomini), allora alleate a quelle piemontesi (altri 30.000 uomini), furono richiamate a guerra in corso provocando diserzioni in massa a favore dei risorgimentali (i soli disertori napoletani trasformatisi in volontari al comando di Guglielmo Pepe furono 10-12.000).

Nel 1849, alla proclamazione della Repubblica romana, 600 bersaglieri si unirono agli insorti, e dalle città del Lazio confluirono centinaia di volontari inquadrati nei Corpi Civici. L'esercito repubblicano riuscì ad assimilare senza troppe difficoltà quello pontificio, circa 20.000 uomini, di cui 10.000 dislocati in Roma. Con l'apporto dei volontari, sufficientemente addestrati, esso riuscì a rintuzzare vittoriosamente, sotto il comando di Garibaldi, il primo attacco dell'agguerrito e professionale esercito francese, costretto ad una umiliante ritirata su Civitavecchia dopo aver lasciato sul campo 500 caduti e 365 prigionieri.

Nel 1859, alla vigilia della seconda guerra d'indipendenza, fu costituito a Cuneo il Corpo dei Cacciatori delle Alpi al comando di Garibaldi. Da marzo a giugno l'esercito piemontese aveva reclutato 40.000 volontari in massima parte provenienti dal Lombardo-veneto. I giovani dai 18 ai 26 anni giudicati idonei furono arruolati nei reparti regolari, mentre tutti gli altri, soprattutto quelli riconosciuti come repubblicani, furono inviati a Cuneo. Il Corpo raggiunse le dimensioni di una brigata (circa 4.000 uomini) con cinque reggimenti e alcuni reparti speciali, carabinieri, genieri, infermieri e adolescenti; è al suo interno che si formerà il nucleo dei Mille.

Nel 1860 ai Mille si unirono, da maggio a giugno, almeno 8.000 volontari provenienti non solo dalla Sicilia ma da molte parti d'Italia, tra i quali ben 3.500 con la spedizione Medici partita da Genova. Altri 2.000, quasi tutti lombardi, arrivarono a Palermo con la spedizione Sacchi. E così via, nel corso della marcia verso Napoli, finché le file garibaldine non raggiunsero la consistenza di 30.000 uomini (Garibaldi ne schierò trionfalmente 14.000 davanti alla reggia di Caserta abbandonata dal Borbone).

Nel 1862 Garibaldi sbarcò in Sicilia e, ripercorrendo i luoghi della campagna del 1860, fu accolto da entusiastiche manifestazioni di appoggio. In meno di due mesi, dall'inizio di luglio al 25 agosto, data dello sbarco in Calabria, reclutò 3.000 volontari senza che i sessanta battaglioni dell'esercito regolare piemontese interferissero seriamente (vi fu qualche incidente con morti e feriti, ma non determinante). Il successo sembrò rendere possibile una campagna su Roma e, ancora poco prima del tragico scontro fra i garibaldini e l'esercito piemontese in Aspromonte (29 agosto), il corpo di spedizione garibaldino raccolse dei disertori addirittura fra i bersaglieri (che furono tutti fucilati dopo il ferimento e l'imprigionamento del generale). A Londra almeno 100.000 persone manifestarono contro il governo italiano, sottolineando l'entusiasmo suscitato anche all'estero dai metodi del reclutamento garibaldino e dai suoi risultati.

Nel 1866, in occasione della poco gloriosa terza guerra d'indipendenza, il Corpo Volontari di Garibaldi appena costituito raccolse in un mese 40.000 uomini, tanto da costringere i capi militari a sospendere il reclutamento e a epurare i ranghi. Anche perché il successo impensierì lo stato maggiore piemontese, non solo per la mancanza di mezzi sufficienti a equipaggiare e armare tanti soldati ma, come affermò il ministro della guerra, generale Pettinengo, perché si trattava di una leva popolare in massa non regolamentare, contraria ai principii del regno (la ferma nell'esercito piemontese era di cinque anni più sei di riserva, con l'obbligo del celibato). La questione degli equipaggiamenti fu in parte risolta con alcune donazioni di privati borghesi. E furono i garbaldini a dare l'unico contributo valido durante l'intera guerra; e avrebbero continuato, se gli accordi internazionali non avessero bloccato le operazioni militari (il Veneto fu ceduto dall'Austria alla Francia la quale lo "donò" all'Italia. Fu in quell'occasione che Garibaldi rispose con il celebre "obbedisco").

Di fronte a questo elenco, di certo striminzito rispetto a una ricostruzione che fosse minuziosa, risalta l'isolamento sociale in cui si trovarono gli avversari della rivoluzione, cioè, ad esclusione dell'Austria, tutti gli interessati oggetto di annessione. Nel Regno di Napoli nessuno mosse un dito, anche se si verificarono alcuni episodi sporadici di delazione come quello contro i fratelli Bandiera o Pisacane, per difendere lo statu quo; solo ad annessione avvenuta la durezza dell'occupazione piemontese scatenò la guerra vandeana che si sovrappose al brigantaggio. Nello Stato Pontificio per l'intero periodo risorgimentale fino a Porta Pia il reclutamento da parte delle diocesi in tutta Europa non procurò che 10-15.000 volontari, in genere poco inclini alla battaglia. Tant'è che il Vaticano fece sapere che avrebbe preferito consistenti raccolte di denaro per potersi pagare dei mercenari veri. Per contro, furono numerosissimi i volontari stranieri che combatterono nelle guerre risorgimentali dalla parte rivoluzionaria. Oltre all'importante contributo dei ticinesi, anche sotto forma di finanziamenti, si trovano fra i garibaldini volontari inglesi (un migliaio, uno incontrerà Marx a Londra), ungheresi (1.200, inquadrati in una legione apposita, utilizzata, secondo le fonti neoborboniche, per il "lavoro sporco" nell'avanzata verso Napoli), polacchi, francesi, russi, ecc.

L'impossibile sintesi

Le forze del liberalismo moderato risultarono certo determinanti rispetto all'unificazione e all'indipendenza, insieme alla monarchia sabauda e all'influenza delle grandi potenze. Ma non furono le uniche, e comunque attinsero a un patrimonio storico comune anche ai radicali. Perciò non è strano che i percorsi dei vari personaggi si incrociassero più volte: Cavour frequentò i repubblicani prima di considerarli "cervelli bruciati"; Bixio frequentò Mazzini, divenne garibaldino e infine non fu insensibile al pragmatismo cavouriano; Cattaneo e Pisacane parteciparono ai moti di Milano ed entrambi ripararono in Svizzera dopo la sconfitta; Pisacane, Mazzini e Garibaldi si trovarono insieme a combattere per la Repubblica Romana; Cattaneo soggiornò presso Garibaldi a Napoli nel 1860 in occasione del plebiscito per l'annessione. Questo ribollire individuale man mano la situazione si precisava, aveva comunque le sue radici in un programma rivoluzionario che andava al di là delle singole sfaccettature, che esisteva nella prassi ma non corrispondeva a quello che i rivoluzionari di ogni sponda facevano proprio. Nessuno si limitava alle tre parole d'ordine essenziali per la rivoluzione: indipendenza, unità territoriale, repubblica. Chi toglieva la repubblica, chi aggiungeva il papa, chi non contemplava l'unità completa, chi propugnava una mistica insensata, chi voleva ammazzare tutti i preti, chi tratteggiava una filosofia della rivoluzione, chi andava addirittura oltre alla semplice triade. Certo nessuno potrà mai sapere quante elaborazioni siano andate perse o giacciano negli archivi dimenticate da tutti, schiacciate dalla ricostruzione storica ufficiale, dalla quale non possiamo fare a meno di essere ingannati.

In modo completamente diverso l'uno dall'altro, Cattaneo e Pisacane erano tra coloro che andavano oltre. Pur avendo essi punti in comune, sarebbe assai difficile tentare una sintesi tra le due concezioni della rivoluzione, ma quello che qui ci sembra essenziale mettere in risalto è che la rivoluzione italiana aveva prodotto, attraverso questi due protagonisti, un grado di elaborazione sociale sconosciuto in altre rivoluzioni borghesi. La vera impossibilità di sintesi è dunque fra la loro produzione programmatica e quella di tutte le altre correnti.

Per quanto sia arbitrario accostare le due esperienze, non si può fare a meno di accennare seppur brevemente alla loro importanza, non tanto per l'influenza diretta che ebbero sul corso degli avvenimenti (poca), ma soprattutto perché sono rappresentative del fatto che il movimento risorgimentale non era tutto trivialità politica, diplomatica e militare. In qualche modo, sullo sfondo dell'empirismo trionfante, oltre al machiavellismo della piccola Prussia piemontese, emergevano anche alcuni caratteri peculiari che facevano dell'Italia quel laboratorio del quale stiamo cercando di approfondire la natura, la struttura e le origini.

In Mazzini l'eccesso di ideologia tendeva a produrre una prassi assai poco adeguata alla rivoluzione in corso ("le rivoluzioni si vincono più con i principii che con le baionette"). In Cavour la carenza di ideologia produceva perlomeno risultati empirici sostanziosi, anche se non importa come. Garibaldi riusciva a produrre molta ideologia senza che questa interferisse troppo con la sua abilità militare. Vittorio Emanuele, come rileva Mack Smith, si trovava più a suo agio nelle scuderie e nei casini di caccia dove faceva tranquillamente a meno di ogni ideologia. Non occorre un elenco completo. Diciamo che gli eventi avevano selezionato, già prima del '48, quelli che sarebbero stati i protagonisti della prassi risorgimentale possibile. L'intero schieramento che fu infine decisivo aveva nell'insieme caratteristiche poco inclini all'idealismo. Anche Mazzini, che sembra un'eccezione, in effetti era più pragmatico di quanto volesse ammettere. Quando ad esempio fece parte del triumvirato a capo della Repubblica romana, dimostrò capacità di direzione (a parte i dissidi con Garibaldi e Pisacane sulla questione militare). Quando, da Londra, utilizzò in funzione antisocialista la rete di associazioni operaie da lui fondata e aderente alla Prima Internazionale, dimostrò di essere un "normale" politicante senza scrupoli.

Cattaneo fu la più lucida espressione della rivoluzione borghese lungo tutto il Risorgimento. Si proponeva di coltivare una "opinione" scientifica della rivoluzione, da lui intesa come conquista dell'azione cosciente, come riflesso di un sistema teorico. Pisacane fu già un precursore della rivoluzione che sarebbe venuta in seguito. Affermava categoricamente che prima si muove il corpo e poi il pensiero. Il primo aveva una visione positivista in anticipo sulla diffusione del positivismo; il secondo stava maturando una visione socialista rivoluzionaria senza aver conosciuto i testi di Marx. Entrambi criticavano la deriva monarchica della rivoluzione sotto l'egida dei Savoia, entrambi erano critici sia del neoguelfismo di Gioberti e Rosmini, sia del liberalismo edulcorato di Balbo e Cavour. Pisacane non condivideva il progetto di Cattaneo a proposito di una illuministica unione tra filosofia, economia, diritto, psicologia e scienza. Sosteneva che "il popolo non sarà libero perché sarà istrutto, ma diverrà istrutto tostoché sarà libero"; tuttavia era certamente sensibile a un discorso sulla scienza sociale della rivoluzione, a partire dalla lotta contro lo sfruttamento.

Cattaneo sosteneva che i fattori economici sono essenziali nel determinare i caratteri della vita sociale e che, anzi, lo studio di tutto lo sviluppo della "vita materiale" nel corso della storia è essenziale per capire la civiltà di oggi. Da buon esponente della borghesia rivoluzionaria, aveva fondato il periodico Politecnico (1839) per diffondere la scienza e la tecnica, fattori dello sviluppo industriale e quindi del progresso e del cambiamento. La struttura del programma di ricerca e di diffusione era quella galileiana, "vivente", contrapposta a quella cadaverica della "ostinata tradizione delle scuole filosofiche", ostili alla conoscenza del mondo reale e quindi nemiche della liberazione, cioè della modifica della realtà attraverso il metodo teorico sperimentale, rivendicato come patriottico primato.

Sarebbe del tutto fuori posto sottolineare più del necessario l'assonanza di molti passaggi delle opere di Cattaneo con il Marx delle Tesi su Feuerbach e della Ideologia tedesca, ma è certo che le rivoluzioni, come abbiamo visto e ripetuto, non avvengono entro un quadro limitato, per questo sono esperimenti per tutto il mondo. La natura della conoscenza che ne sta alla base è la stessa che fa dire a Cattaneo come a Pisacane che idealmente si può anche interpretare il mondo, ma altra cosa è cambiarlo. Una guerra che servisse unicamente a sostituire l'Austria con il Piemonte non sarebbe una rivoluzione. D'altra parte, senza una liberazione vera, non da una filosofia della vita ma da un'oppressione vera non c'è trasformazione. Mai il mondo è stato cambiato con delle frasi. Se la scienza dà ragione dei più complessi fenomeni della natura, non c'è motivo per non far coincidere scienza e storia. E siccome l'uomo è un essere sociale, non esiste una "coscienza solitaria" che possa da sola assumersi questo compito.

Per Cattaneo la città ha avuto una funzione fondamentale nello sviluppo della borghesia italiana. Il modello urbano è in Italia il motore antifeudale che ha portato la "civiltà" a conquistare il mondo, con i suoi traffici e le sue colonie. La rete delle città con le sue connessioni rappresenta un "sistema" internazionale, per cui la dinamica sociale è indipendente sia dai confini che dall'esistenza di un potere formale piuttosto che di un altro. Quindi è assolutamente indispensabile liberarsi del Piemonte come è indispensabile liberarsi dell'Austria.

Nel marzo del 1848, quando Milano insorge, immediatamente Cattaneo costituisce un consiglio di guerra per il coordinamento centralizzato delle operazioni militari, della propaganda e delle informazioni. Come critico severo di tutte le correnti politiche del Risorgimento, diventa un punto di riferimento non solo per la borghesia democratica radicale ma anche per molti combattenti popolari. A Milano arriva Pisacane e gli si presenta. Entrambi sono convinti che la rivoluzione vada pianificata, e arriveranno alla conclusione che il fallimento della guerra 1848-49 è dovuto all'egoismo di una borghesia inconseguente che ha preferito conservare i propri privilegi alleandosi con i Savoia e con i francesi piuttosto che organizzare un'effettiva liberazione nazionale.

Qualche anno dopo la grande esperienza della Repubblica romana, Pisacane, che ne era stato il Capo di stato maggiore, ricontatta Mazzini (1855). Per scongiurare una soluzione monarco-piemontese dell'unità italiana nel Mezzogiorno, mazziniani e "socialisti" decidono di organizzare una spedizione al Sud collegandosi all'attività cospirativa del comitato repubblicano di Napoli. Sappiamo come andò a finire: circostanze sfortunatissime nella fase iniziale e la mancanza di qualsiasi sollevazione popolare nella zona di sbarco portarono al massacro dei rivoluzionari.

La spedizione "mazziniana" a Sapri è razionalmente incomprensibile se non ci si immedesima nel fermento rivoluzionario che spingeva migliaia di volontari ad affrontare la battaglia. Ma in Pisacane c'era un determinismo di fondo che gli dava in più la certezza scientifica: l'Italia non sarebbe stata quella che i vari partiti volevano che fosse ma il culmine di un processo regolato da leggi di natura. Da una parte dunque la spedizione è in linea sia con la concezione cospirativa di Mazzini sia con quella libertaria; dall'altra non siamo soltanto di fronte a un atto dimostrativo, al solito "stimolo" all'azione tramite la volontà, ma a un'azione ponderata secondo principii molto vicini al socialismo. Nell'opera di Pisacane si ravvisano addirittura temi che furono cavallo di battaglia della nostra corrente; e forse non è un caso, se teniamo sempre presente il tema del "laboratorio". Nella sua concezione del mondo non solo non c'è posto per una qualsiasi forma di religiosità, neppure laica, ma si delinea già una demarcazione di tipo materialistico rispetto all'ideologia dominante. Dal rapporto dialettico fra ragione e istinto egli deriva addirittura i processi di sviluppo dell'umanità, per cui la questione militare diventa una razionalizzazione delle spinte primordiali: non è più soltanto un semplice fatto d'armi ma lo scioglimento della questione sociale. E questa ha sempre, dunque, la preminenza sulla politica. Se teniamo presente ciò che disse Marx a proposito della meschina, proudhoniana politica, in confronto all'universalità della spinta economica materiale, possiamo anche negare che vi sia una discendenza diretta Proudhon-Bakunin-Pisacane, come invece qualcuno afferma. Pisacane è un precursore, non un seguace, è più potente dei suoi presunti ascendenti. Rifiuta la concezione gradualistica, evolutiva, e auspica un cambiamento per via rivoluzionaria violenta, l'abolizione della proprietà privata, la realizzazione di una società comunistica che dissolva lo stato. Il suo obiettivo è la nazione armata, non una società di cellule indipendenti.

Né le prime società operaie di mutuo soccorso, né i socialisti romantici della prima metà dell'800, suoi contemporanei, erano arrivati a una tale lucidità di classe. Sulla questione della terra e dei contadini, ad esempio, Pisacane abbandona l'utopia distributiva proprietaria e abbraccia risolutamente la tesi del coinvolgimento rivoluzionario dei salariati agricoli attraverso le loro rivendicazioni economiche (tesi sostenuta anche da Giuseppe Budini nel 1843). Morto nella spedizione meridionale, Pisacane viene dimenticato per qualche anno, per ricomparire nelle linee programmatiche del circolo napoletano Libertà e giustizia e dell'omonimo periodico (1867). È qui che Bakunin, a Napoli nello stesso periodo, conosce i suoi scritti rimanendone influenzato. Ed è ormai accertato che tali scritti influenzeranno la futura Federazione italiana della Prima Internazionale (1872). Non è un caso che i maggiori esponenti dell'anarchismo italiano come Malatesta, Cafiero, Costa, si distacchino nettamente dalla rozzezza ideologica del pur influente anarchico russo, avvicinandosi a una concezione comunistica della rivoluzione.

Se per "Risorgimento" si intende quello che è diventato ufficialmente quel periodo storico, Cattaneo, Pisacane e tutti gli anonimi rivoluzionari che certamente rappresentavano l'ambiente in cui maturarono i programmi che ci sono pervenuti attraverso questi due protagonisti, non sono da considerare risorgimentali ma precursori della fase superiore.

Dalla "questione morale" al fascismo e all'antifascismo

Con la compiuta unità territoriale e politica l'industria del Nord trovò uno sbocco enorme rispetto alle condizioni di partenza, e ciò fu negativo per le pur floride isole industriali del Sud, che sarebbero sopravvissute, sviluppandosi ulteriormente, se la borghesia italiana, nordica o meridionale, fosse stata veramente rivoluzionaria e nazionale. Ovviamente invece si dimostrò coerente con la sua senescenza storica e si diede subito da fare arraffando quello che poteva, politicamente erede degenere di Machiavelli, economicamente erede o complice dei regnanti piemontesi, storici mercenari e quindi affini al capitalismo di rapina. Il preambolo storico risorgimentale è un sistema che contiene già in sé tutta l'informazione delle fasi successive, come il programma genetico di un essere vivente.

Già da quel preambolo si può dedurre che ci sarebbe stato bisogno di fascismo in quanto regolatore del corso economico e sociale. In economia e in politica si sviluppano già dal 1861 il monopolismo, l'affarismo, il politicantismo, la corruzione, il parassitismo. Mussolini non farà che impadronirsi di uno stato già potenzialmente fascista e lo perfezionerà con un tocco di cesarismo, comunque anche questo un fenomeno ben conosciuto, se un fustigatore della malapolitica come il Cavallotti si era autodefinito fin dal 1867 "poeta anticesareo". L'ambiente si dimostra particolarmente adatto alla penetrazione della massoneria. Tale penetrazione è determinante nello sviluppo dell'opportunismo liberal-sociale, anticlericale di maniera, veicolo di corruzione ideologica e materiale che coinvolgerà anche il Partito Socialista fin dalla sua costituzione. Nelle industrie e nelle campagne lo sfruttamento bestiale dei salariati provoca continue rivolte, alle quali si aggregano i contadini parcellari, ancora più miserabili. Come si afferma nelle Tesi più volte citate, "Il proletario-contadino italiano fu tradizionalmente il più ricco di libertà retoriche e il più straccione del mondo". In questo scenario, come sempre succede, al dato di fatto si contrappone un'antitesi. Di fronte allo sfrontato affarismo e alle acrobazie politiche del trasformismo, non poteva che sorgere un anti-affarismo, un anti-trasformismo borghese. Esattamente come più tardi di fronte al fascismo dovrà nascere l'antifascismo.

L'antitesi entro il mondo borghese si chiama Felice Cavallotti. Esuberante, coraggioso, generosamente impegnato nella sua battaglia persa contro una borghesia millenaria ormai rotta a tutte le porcherie, egli è l'antesignano di tutti coloro che da centocinquant'anni strillano contro la mala politica indignandosi e reiterando la fatidica mossa di gettare drammaticamente sul tappeto la "questione morale". Non serve a niente, ma se agli albori dell'Italia unita poteva avere un senso, dopo un secolo e mezzo non fa che provocare una noia mortale, un senso di nausea da overdose.

Nel 1860 Cavallotti, non ancora diciottenne, scappa di casa e si arruola nella spedizione Medici che raggiungerà Garibaldi in Sicilia. Ha il suo battesimo del fuoco alla battaglia di Milazzo. Segue le vicende garibaldine fino a Napoli, dove collabora alla redazione dell'Indipendente, il cui direttore è Alessandro Dumas padre, sostenitore di Garibaldi anche con laute donazioni. Torna a Milano. Allo scoppio della terza guerra d'indipendenza raggiunge Garibaldi in Trentino. Diventa giornalista regolare e, nel 1867, fonda il Gazzettino Rosa, giornale della Scapigliatura milanese. Nel 1875 fonda La Ragione. Con Depretis e Crispi trova pane per i suoi denti e si propone di diventare la cattiva coscienza dei corrotti, "l'arcangelo fiammeggiante dell'ideale", come lo chiameranno colleghi giornalisti e letterati. La nostra corrente lo tratta malissimo:

"Un torneo vaniloquente della democrazia carducciana una sfilata di onesti Don Chisciotte in ritardo tuonanti in nome della Libertà, dell'Onestà, della Umanità e di simili gloriose ombre. [Ondata che coinvolge anche i socialisti], mentre molto più seriamente, nel sottosuolo della vita politica, la borghesia lavora all'imprigionamento ideologico e materiale delle gerarchie proletarie con la sua organizzazione più reazionaria e più adatta a fronteggiare lo spettro della lotta di classe, la Massoneria" (La classe dominante italiana e il suo stato nazionale).

Cavallotti muore nel trentatreesimo duello provocato dalla sua irruenza. Crispi, ex garibaldino, il suo principale bersaglio, non aveva battuto ciglio di fronte alle accuse pesantissime. Tanta indignazione, capace di infiammare i lettori di elzeviri, non era servita a niente. Il proletariato dal canto suo era stato poco propenso a lasciarsi trascinare sul terreno dell'indignazione per le vicende parlamentari. Questione morale o no, esso doveva lottare su più fronti. Alla fine è quasi naturale che, nella ricerca di una soluzione ai propri problemi, desse vita, all'interno del proprio partito, a una corrente socialista radicale, che tendeva a superare i vincoli della società esistente. Tale corrente impiegherà molto tempo a prendere forma, ma già alla fine dell'800 era rintracciabile il suo embrione. La borghesia non stette con le mani in mano. L'affarismo continuò a prosperare e furono affinate le difese di classe. Il primo governo Giolitti cadde a causa di uno scandalo di portata nazionale (quello della Banca romana). Il lupo perdeva il pelo ma non il vizio. Subentrò Crispi. Il proletariato dimostrò una combattività pericolosa. La repressione fu tremenda. Si formò il secondo governo Giolitti. Il coriaceo e longevo primo ministro

"…senza certo ammainare il bandierone della democrazia, cominciò a preparare le trincee della lotta armata [contro il proletariato]. Senza nessun timore, l'oculato e furfante maestro della politica italiana lasciò entrare gli operai nelle fabbriche tenendo bene in pugno le questure. La sua formula era stata sempre che l'Italia si governava dal Ministero dell'Interno; il potere del liberalismo italiano è stato sempre affare di polizia" (ibid.).

Giolitti cadde e si rialzò, formando ben cinque governi dal 1891 al 1920. Evidentemente era lo strumento adeguato alla controrivoluzione e accompagnò quest'ultima fino alle soglie del fascismo.

"Col fascismo la borghesia, pur sapendo che lo Stato ufficiale con tutte le sue impalcature è il suo comitato di difesa, cerca di adattare il classico suo individualismo a una coscienza e a un'inquadratura di classe. Essa ruba così al proletariato il suo segreto storico, e in tale bisogna i suoi migliori pretoriani sono i transfughi dalle file rivoluzionarie" (ibid.).

Si compie per la prima volta un capolavoro nella storia della dominazione borghese: nell'estremo tentativo di salvare sé stessa dalla rivoluzione, la borghesia pone a capo della sua frazione massimalista controrivoluzionaria uno dei capi della frazione massimalista rivoluzionaria, Benito Mussolini. La borghesia usa fino in fondo contro il proletariato le stesse armi di quest'ultimo. E si comporterà allo stesso modo con i sindacati, che da organismi per la difesa degli interessi di una classe diventano intermediari per l'attenuazione, tendenzialmente l'eliminazione, dei contrasti di classe. Venuta meno la sua spinta storica, la borghesia può sopravvivere esclusivamente in quanto detentrice del potere poliziesco dello stato. Secondo i criteri della frazione borghese antifascista, il fascismo segna una nuova era rispetto al ciclo precedente della classe dominante italiana; secondo i criteri della frazione proletaria rivoluzionaria c'è una logica e coerente continuità storica nell'opera e nella funzione della classe dominante italiana prima e dopo il 1922. Questa continuità si ripropone in seguito anche per la borghesia a livello planetario, prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Non è un caso che l'esperimento italiano sia diventato subito un esempio da imitare nel mondo intero, con le sue varianti americana, tedesca, russa, giapponese e infine cinese.

Verso la biforcazione

I caratteri del moderno fascismo si presentano dunque nell'ultimo tratto del millenario percorso del dominio politico della borghesia. Ma da quando i Comuni italiani fondarono il modello, l'invarianza sostanziale non ne è stata intaccata. Sia nella forma di repubblica che di signoria, la società si fondava, così come oggi, su alcuni pilastri fondamentali: 1) un apparato industriale coerente con il migliore sviluppo della forza produttiva sociale dell'epoca; 2) un sistema bancario privato in grado di realizzare una massiccia raccolta di capitali e di reindirizzarli alla produzione mediante l'estensione del credito (dai lombardi agli anseatici la lettera di credito fu il motore dell'imperialismo); 3) il controllo dello stato attraverso la compenetrazione del potere economico con quello politico (grandi scandali); 4) l'armamento di flotte e/o grandi lavori pubblici per la comunità con il passaggio dai prestiti bancari privati al prestito di stato, cioè al debito pubblico.

Il connubio fra queste condizioni e il rafforzamento dello stato e del suo apparato amministrativo e di controllo conduce inevitabilmente allo stato capitalista, antesignano dell'attuale, che è ormai compiuto capitalismo di stato. L'esempio più chiaro di questa estensione massima del controllo dello stato sul capitale in epoca mercantilista è la Francia del XVII secolo, mentre l'esempio più chiaro del controllo del capitale sullo stato è il fascismo del XX secolo. In Francia si sviluppò una reazione alle sovrastrutture feudali che soffocavano lo sviluppo mercantilistico e che anzi stavano provocando una grave crisi economica. Prese quindi il sopravvento una politica di difesa centralizzata il cui migliore interprete, Jean-Baptiste Colbert, diventò "controllore generale delle finanze" di Luigi XIV. Era un'epoca in cui, appunto, era ancora possibile un controllo dello stato sul capitale e non viceversa, in cui aveva ancora un senso l'intelligenza dei governanti rispetto ai fatti economici. Il colbertismo fu in questo caso il più alto grado di perfezionamento della fase mercantile del capitalismo. Non che Olanda e Inghilterra fossero da meno, ma in Francia il compimento della fase mercantilistica avvenne in un tempo brevissimo, fu elevato a sistema centrale e in quanto tale formalizzato e ideologizzato.

La teoria secondo cui il capitalismo marcia dalla sua forma primitiva alla forma universale fascista non è ovviamente accettata da coloro che basano ancora la propria azione su quasi tutte le categorie borghesi. Nella polemica storica della nostra corrente contro i vari "marxismi" il dato centrale è la forma invariante del fascismo, per cui quando l'antifascismo si orienta solo contro la forma dell'Asse e non contro la forma Alleata esso entra in un paradosso logico. È quindi naturale che esso non possa proprio capire la forma ibrida staliniana, la quale, lungi dall'essere anche solo vagamente socialista, è ancora nella fase colbertista (con qualche venatura "asiatica"). Essendo però la forma russa immersa in un mondo completamente fascista, solo con quest'ultimo è paragonabile.

Il nocciolo del controllo colbertista dell'economia si basava su pochi elementi fondamentali: la quantità di moneta metallica è pressoché data e quindi la concorrenza fra stati si risolve non nella emanazione di moneta ma nella spartizione di quella che c'è. La potenza militare va interpretata di conseguenza: anche il numero delle navi nel mondo è pressoché dato, e siccome il mercantilismo fonda la sua grandezza sulle flotte, la prima flotta da potenziare è quella militare, la seconda è quella delle Compagnie di Commercio (delle Indie occidentali e orientali, del Nord e del Levante). L'industria deve alimentarle entrambe e il protezionismo deve garantire l'industria contro la concorrenza, a favore delle esportazioni. E siccome l'industria ha bisogno di braccia, serve il sostegno alle giovani coppie ed esenzioni fiscali alle famiglie numerose. Come corollario, orari fino a 16 ore e salari bassi, il cui riferimento è stabilito da centinaia di manifatture di stato e dai cantieri per navi, canali, strade, edifici pubblici, fortezze, ecc.

La borghesia, com'è scritto nel Manifesto, non può fare a meno di rivoluzionare continuamente il proprio rapporto con il capitale. Quindi il cambiamento della propria prassi economica da liberistica (ed è già un'interpretazione ideologica) a dirigista e statalista è una via obbligata. Parallelamente, come classe dominante, adegua la propria ideologia di governo, abbandona la tolleranza ideologica e impone una omologazione totalizzante, non importa se con la forza o con l'imbonimento democratico. La propaganda statale per la santificazione del lavoro, introdotta da Colbert, è un cancro che divora ancora oggi i proletari. Nel Medioevo e nel Rinascimento, le idee erano combattute quasi esclusivamente sul piano teologico. Alcuni eretici venivano bruciati, ma in molti casi illustri personaggi potevano proclamarsi atei, scrivere libelli e, con o senza tonaca, fornicare a piacimento. Dopo il secolo dei lumi cambia completamente la musica, e prende il sopravvento lo stato ideologico. Non è strano che gli atei di oggi, anche e specialmente quelli "scientifici", siano tutti seguaci della democrazia come nuova religione e che sul piano sociale non riescano ad andare oltre ai dettami dell'ideologia dominante. Il modo di vita sociale cambia significativamente con il cambiare delle epoche, ma una volta raggiunta la produzione generalizzata di plusvalore relativo (sussunzione reale del lavoro e dello stato al capitale) il modello borghese rimane invariante. Sottomettendo lo stato, il capitale pretende una società totalizzante, che si regga o meno sul presupposto democratico e mistificante, del "governo di popolo". I fascismi comunque passano sempre per acclamazione.

"Dal punto di vista sociale [il fascismo] può definirsi il tentativo da parte della borghesia, nata con la filosofia e la psicologia dell'assoluto autonomismo ed individualismo, di darsi una coscienza collettiva di classe, e di contrapporre propri schieramenti ed inquadrature politiche e militari alle forze di classe minacciosamente determinatesi nella classe proletaria" (Il ciclo storico del dominio politico della borghesia).

Se in economia il fascismo è stato il culmine del riformismo, nella sua ideologia politica ha sostituito le parole d'ordine illuministe come Libertà, Eguaglianza, Fraternità con quelle drammaticamente attuali come Nazione, Patria, Razza, Stato, Mercato. Quasi tutti i cosiddetti marxisti sono seguaci della religione democratica, perciò di un antifascismo che agogna al ritorno di una mai esistita fase liberaldemocratica della borghesia. Ritorno che finora è stato possibile solo teorizzare, alleandosi a una frazione della borghesia stessa, offrendo in cambio la castrazione completa del proletariato. In realtà solo nella fase rampante della ricostruzione postbellica che ha dato trent'anni di ossigeno al capitalismo è stato possibile gabellare per liberismo l'economia dell'IRI, dei monopoli di stato e dei piani poliennali. Ma nell'ultimo quarto del XX secolo e in questo primo decennio del XXI, il capitalismo è giunto ovunque a statalizzare più della metà dell'economia con un prelievo fiscale mai visto nella storia, ha ipotecato le generazioni future, portando il debito pubblico ad eguagliare o superare in molti casi l'intero prodotto di un anno. Nello stesso tempo ha adottato una feroce politica economica di classe, abbandonando così ogni finzione, ritornando a mostrare il suo vero volto anche a livello sovrastrutturale, lasciando libero corso a spaventose "disparità sociali", giustificandole, anzi esaltandole con lo sbattere in faccia a proletari sempre più miserabili redditi, prebende, accumulazioni di ricchezza che impensieriscono persino una frazione della borghesia. Tutto ciò era prevedibile, purché si utilizzassero gli strumenti teorici adatti, e oggi possiamo tranquillamente continuare a ridere di chi pensava che con un accordo militare fra rapaci imperialisti e presunti socialisti si potesse ritornare al capitalismo di Adamo Smith. Scrivevamo nel 1944:

"La guerra in corso è stata perduta dai fascisti, ma vinta dal fascismo. Malgrado l'impiego su vastissima scala dell'imbonitura democratica, il mondo capitalistico avendo salvato, anche in questa tremenda crisi, la integrità e la continuità storica delle sue più possenti unità statali, realizzerà un ulteriore grandioso sforzo per dominare le forze che lo minacciano, ed attuerà un sistema sempre più serrato di controllo dei processi economici e di immobilizzazione dell'autonomia di qualunque movimento sociale e politico minacciante di turbare l'ordine costituito. Come i vincitori legittimisti di Napoleone dovettero ereditare l'impalcatura sociale e giuridica del nuovo regime francese, i vincitori dei fascisti e dei nazisti, in un processo più o meno breve e più o meno chiaro, riconosceranno con i loro atti, pur negandola con le vuote proclamazioni ideologiche, la necessità di amministrare il mondo, tremendamente sconvolto dalla seconda guerra imperialistica, con i metodi autoritari e totalitari che ebbero il primo esperimento negli Stati vinti. Questa verità fondamentale, più che essere il risultato di difficili ed apparentemente paradossali analisi critiche, ogni giorno di più si manifesta nel lavoro di organizzazione per il controllo economico, sociale, politico del mondo" (ibid.).

Letture consigliate

  • AA VV, un documentatissimo archivio digitale su Internet: La Repubblica Romana, www.repubblicaromana-1849.it/index.php?1/home.
  • Abba Giuseppe Cesare, Da Quarto al Volturno, Garzanti 1995, disponibile gratuitamente anche sul sito Liber Liber, www.liberliber.it/libri/a/abba/index.htm con altre opere.
  • Armani Giuseppe, Carlo Cattaneo. Il padre del federalismo italiano, Garzanti 1997.
  • Balbo Cesare, Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, disponibile gratuitamente sul sito Liber Liber www.liberliber.it/libri/b/balbo/index.htm.
  • Cattaneo Carlo, Il 1848 in Italia. Scritti 1848-1851, Einaudi 1972.
  • Cattaneo Carlo, Notizie naturali e civili su la Lombardia e La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, Garzanti 1979.
  • Cattaneo Carlo, su Liber Liber, www.liberliber.it/libri/c/cattaneo/index.htm sono disponibili gratuitamente diverse opere, comprese quelle cartacee sopra citate.
  • Cavallotti Felice, Lettera agli onesti, www.liberliber.it/libri/c/cavallotti/index.htm
  • Del Carria Renzo, Proletari senza rivoluzione, Edizioni Oriente 1970.
  • Firrao Francesco P., Rossi Gaetana, Cambi Franco, Discontinuità storiche. Dal Medioevo al Novecento. Armando editore, 2004.
  • Garibaldi Giuseppe, I Mille, un racconto con pretese letterarie poco riuscite. Sul sito Liber Liber www.liberliber.it/libri/g/garibaldi/index.htm con altre opere.
  • Gobbi Romolo, Risorgimento e popolo, Editrice Balma-Ronchietti 2011.
  • Gramsci Antonio, Sul Risorgimento, disponibile gratuitamente sul sito Liber Liber, www.liberliber.it/libri/g/gramsci/index.htm con altre opere.
  • Hawgood J. A., "Liberalismo e sviluppi costituzionali" in Storia del mondo moderno, Cambridge University Press, vol. X, Garzanti 1970
  • Jones Philip, "Economia e società nell'Italia medioevale: la leggenda della borghesia", Storia d'Italia Einaudi, Annali I, Dal feudalesimo al capitalismo, 1978.
  • King Bolton, Storia dell'Unità d'Italia, 4 voll., Editori Riuniti 1960.
  • Kevin Kelly, Out of control, Apogeo 1999.
  • Mack Smith Denis, "L'Italia", in Storia del mondo moderno, Cambridge University Press, vol. X, Garzanti 1970.
  • Mack Smith Denis, Il Risorgimento italiano. Storia e testi, Laterza 2010.
  • Mack Smith Denis, Vittorio Emanuele II, Laterza 1972.
  • Mack Smith Denis, Mazzini, Rizzoli 2000.
  • Mack Smith Denis, Garibaldi, Mondadori 1999.
  • Mack Smith Denis, Cavour, il grande tessitore dell'Unità d'Italia, Bompiani 2010.
  • Marx Karl, A proposito del libro di F. List, Il sistema nazionale dell'economia politica, 1844, Opere complete, vol. IV, 1972.
  • Marx Karl, Engels Friedrich, Sul Risorgimento italiano, Editori Riuniti 1959.
  • Mazzini Giuseppe, su Liber Liber, www.liberliber.it/libri/m/mazzini/index.htm, una dozzina di opere gratuite.
  • PCInt., "La classe dominante italiana ed il suo stato nazionale", in Prometeo prima serie n. 2 del 1946 (tutti i testi del PCInt. che seguono, tranne Russia e rivoluzione, sono disponibili gratuitamente sul nostro sito www.quinterna.org).
  • PCInt., "Il ciclo storico del dominio politico della borghesia", in Prometeo prima serie n. 5 del 1947.
  • PCInt. "La 'mancata rivoluzione borghese' in Italia alla luce dei rapporti tra industria e agricoltura, in Prometeo prima serie n. 1 del 1946.
  • PCInt., "I rapporti delle forze sociali e politiche in Italia", in Battaglia comunista n. 47 del 1949.
  • PCInt., "Il rancido problema del Sud italiano", in Prometeo seconda serie n. 1, novembre 1950.
  • PCInt., "Meridionalismo e moralismo". Antiche e nuove paralisi del moto proletario in Italia, in Il programma comunista nn. 20 e 21 del 1954.
  • PCInt., Russia e rivoluzione nella teoria marxista, Edizioni "Il programma comunista" 1990.
  • Pisacane Carlo, La rivoluzione in Italia, Editori Riuniti 1968. Disponibile gratuitamente anche sul sito Liber Liber www.liberliber.it/libri/p/pisacane/index.htm
  • Russi Luciano, Carlo Pisacane. Vita e pensiero di un rivoluzionario, con un monumentale apparato di note bio-bibliografiche, Il Saggiatore 1982.
  • Schivelbusch Wolfgang, Tre New Deal. Parallelismi tra gli Stati Uniti di Roosevelt, l'Italia di Mussolini e la Germania di Hitler, Tropea 2008.

FINE

Rivista n. 30