Troppo grandi per fallire, ma troppi

Bisognerà inventare un'altra sigla: la spregiativa PIGS (maiali), che non bastava più ed era già diventata PIIGS, adesso diventerà PIIGSF (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna e Francia). I nostri cugini d'oltralpe sono stati declassati dalle società di rating e non se la passano troppo bene. Non è detto che non si giunga, più velocemente di quanto sia prudente ammetterlo in ossequio ai "mercati", a un impronunciabile PIIGGSF, con l'aggiunta della Germania, dato che il gallo francese dovrebbe dare la sveglia agli eventi teutonici. Benvenuti nel club del debito barcollante, in pericolo di mancata onorabilità. Però a questo punto non si vede perché mai si debba evitare di iscrivere il Giappone o addirittura gli Stati Uniti.

I rappresentanti dei governi avevano appena tirato un sospiro di sollievo per l'evitato crollo dell'Euro e per il prorogato fallimento della Grecia, che spulciando nei conti della Francia ci si accorge che questo paese sta diventando il più pericoloso di tutti. Addirittura "Una bomba a orologeria nel cuore dell'Europa" come titola in copertina The Economist di fine novembre, "un problema così grosso che potrebbe far impallidire tutti gli altri". La prestigiosa rivista probabilmente esagera per quanto riguarda la Francia, ma aspettiamo di vedere cosa succederà in Germania: allora sì che ci sarà da impallidire. Non noi, naturalmente, i borghesi.

Da quando è iniziato il processo federalistico europeo, la Francia è sempre stata in prima fila nel sostenerlo e nello stesso tempo nell'utilizzarlo vantaggiosamente. Dopo l'unificazione della Germania ha intensificato il suo attivismo europeistico, specialmente con Mitterrand, per non perdere terreno di fronte al potente vicino, in pratica per cercare disperatamente di evitare l'inevitabile, cioè di lasciar cadere l'Europa sotto l'egemonia tedesca. Nel frattempo la moneta unica ha permesso ai due maggiori paesi, alla Francia in particolare, di ottenere una buona gestione del debito con tassi al minimo anche quando non si parlava tanto di spread. Paradossalmente, la relativa tranquillità non ha permesso alla Francia quella politica di correzione adottata sia dai paesi più in crisi che dalla Germania; e un evento banale come il cambio della guardia all'Eliseo ha messo in luce punti deboli precedentemente poco visibili, se non scientemente nascosti. Per non prendersi tutta la responsabilità di ciò che potrebbe accadere, il governo Hollande ha dovuto mettere le mani avanti e denunciare le falle.

I guai della Francia si chiamano dunque Germania. Infatti gli operatori economici, cioè i cosiddetti mercati, misurano la competitività francese per confronto con quella tedesca, come si fa – per tutti – con il differenziale sui tassi (appunto il famigerato spread). Questa misurazione ha rivelato un indebolimento relativo della struttura economica francese che ha prodotto, come ovunque, un aumento insostenibile della spesa pubblica. Quest'ultima è già la più alta della zona euro: dall'epoca Mitterrand a oggi il debito pubblico è passato dal 22 a oltre il 90% del PIL, mentre la spesa dello stato raggiunge uno stratosferico 57% del PIL. La centralizzazione dello stato francese si riflette anche nella struttura dell'industria, ancora troppo verticale rispetto alle reti produttive moderne controllate da holding anonime internazionali. In Francia c'è la più alta concentrazione industriale del mondo sviluppato: il numero delle piccole e medie imprese – oggi il cuore moderno dell'economia – è inferiore a quello degli altri paesi concorrenti, che in Europa sono Germania, Gran Bretagna e Italia. Ciò incide sulla produttività e l'economia va in ristagno. La bilancia commerciale, in attivo nel 1999, ha attualmente uno dei passivi maggiori d'Europa mentre la disoccupazione ha superato la soglia critica del 10% (25% dei giovani), tanto che il FMI ha addirittura ipotizzato uno scivolamento della Francia all'indietro rispetto a Spagna e Italia.

Siamo alle solite: a parole tutti sono favorevoli all'effettiva unità europea ma quando si tratta di rinunciare a un po' della sovranità nazionale, l'interesse dei singoli paesi prevale. Ciò è scontato, ma è un bel guaio per i singoli governi, perché i movimenti di capitali sono come il liquido nei vasi comunicanti: fluiscono solo nella misura in cui vi sono differenze di livello, solo che in questo caso vanno dal basso verso l'alto. La servitù nei confronti dei "mercati" stride a questo punto con gli stupidi orgogli nazionali, che ne escono coperti di ridicolo. La Francia è specialista in questo sport, ma se vorrà vanificare il pronostico del FMI dovrà fare come tutti gli altri paesi, cioè mettere in atto la solita carneficina sociale. Se si possono ingannare gli elettori, e qualche volta anche gli economisti, non si possono sfidare impunemente le leggi della fisica: i capitali vanno verso dove ce n'è già e la sovranità non è quella voluta ma quella permessa. Numeri e livelli pongono inesorabilmente a confronto la Francia con la Germania più che con l'Italia o la Spagna. Da trent'anni in Europa si cerca di evitare la collisione, ma sembra che ormai il tempo stia davvero per scadere, la Francia con le sue banlieue è davvero una polveriera.

Rivista n. 32