L'Italia nell'Europa feudale (13)
Il retroterra storico del capitalismo più antico del mondo

13. La forbice feudale

Questo è il sistema curtense (figura 30). Altro che economia chiusa, non monetaria, senza mercato e senza industria. Ed è questo il tipo di economia che prepara il boom produttivo dei secoli X e XI. Ricapitolando: nel IX secolo abbiamo le seguenti classi subalterne: schiavi residui e servi nel dominicum; coloni o affittuari nel massaricium (anche detti enfiteuti, livellari o ingenuili, in ogni caso uomini giuridicamente liberi); salariati in entrambi i fondi.

Bloch è molto chiaro sul presunto legame dei lavoratori agricoli alla terra, e se lo dice un esperto del feudalesimo francese, il più aderente di tutti al modello che si vorrebbe generalizzato a tutta Europa, c'è da credergli:

"Disponiamo di un numero notevole di definizioni sulla servitù formulate dai tribunali o dai giuristi: di esse prima del Trecento nessuna nomina il legame alla terra sotto qualsiasi forma".

La specializzazione delle colture, l'aumento delle dimensioni aziendali, l'introduzione dell'aratro a versoio e la progressiva scomparsa del lavoro schiavistico portano, per la prima volta da che esiste l'agricoltura, ad un aumento significativo della resa per unità di superficie. Il risultato finale è ancora una resa incomparabilmente inferiore a quella di oggi, ma è enorme in aumento percentuale, dato che sfiora, secondo alcune fonti, il 100%. Se prima, nelle grandi tenute, da un moggio di grano seminato se ne ricavavano 2,5, con i miglioramenti se ne ricavano quasi 5 (oggi per 1 moggio seminato se ne ricavano 20).

Il raddoppio della produzione di grano fu una vera e propria rivoluzione agraria. Normalmente, per il contadino libero un'avversità della natura come siccità, alluvioni, parassiti, era una catastrofe che metteva in pericolo la propria libertà. Con una resa bassa, bisognava accantonare tanto seme, e se c'era scarsità di cibo lo si mangiava. Ci si indebitava così per acquistarne altro; e per debiti non onorati si poteva diventare servi. Lungo il X secolo si venne a creare una vera "forbice feudale", nel senso che la struttura economica procedeva a una velocità sostenuta mentre i rapporti feudali rimanevano sostanzialmente quelli dei barbari descritti dai citati Duby e Gurevich.

Il divario è ancora più strepitoso se si pensa che la rivoluzione agraria di cui stiamo parlando inizia a cavallo tra il IX e il X secolo, quando una ennesima pressione barbara investe l'Europa: i Normanni incominciano la loro avanzata in Francia; i Saraceni saccheggiano tutta la costa tirrenica, la Provenza e di qui il Piemonte; gli Ungari nell'Italia del Nordest e in centro Europa. I liberi proprietari, già sotto attacco per l'erosione dei loro fondi, non reggono alla pressione e si appoggiano alle curtes dei grandi proprietari o assegnatari, che ormai hanno milizie private e fattorie tramutate in castella fortificati. Molti di loro rinunciano alla proprietà allodiale (piena, originaria) in cambio della protezione militare e del diritto di rimanere a lavorare le ex proprietà come coloni, con tutto quel che comporta. Perdono la proprietà giuridica e mantengono un dominio utile. Il passaggio si chiama accomandigia, termine di origine germanica che stava ad indicare l'azione di mettersi a disposizione di qualcuno in cambio di protezione o altro. Valeva anche per soggetti non individuali, ad esempio un villaggio o una famiglia feudale nei confronti di una città. Quest'ultimo caso fu frequente nella fase iniziale dei Comuni. Tutto ciò favorisce ovviamente la concentrazione, e infatti le curtes diventano sempre più vaste, ma soprattutto viene stimolata la centralizzazione già in atto, per cui le proprietà non solo crescono, ma spingono le loro propaggini sempre più lontano dalla pars dominica, che a questo punto, almeno in Italia, come vedremo (altrove incomincia prima il fenomeno dell'incastellamento), può spostare il suo centro politico e amministrativo in un palazzo urbano. Mai come in questo momento la proprietà (privata o ricevuta in beneficio da un signore di rango più alto) è stata fonte di potere politico. Infatti, tutto questo movimento non significa solo "terra" e relativi prodotti, ma officine, mulini, forni, tessiture, fornaci, trasporti, ecc. La originaria tendenza a raggruppare in una curtis tutto il ciclo produttivo era già mitigata dalla straordinaria mobilità mercantile. Ora varie produzioni si staccavano dalla campagna e andavano a ingrossare il settore produttivo urbano.

Il contratto di Shylock

Dal punto di vista del signore, l'aumento della produttività comporta un aumento dei guadagni perché occorrono meno uomini sulla stessa superficie. Dal punto di vista del colono (enfiteuta, livellario, affittuario) comporta un vantaggio perché sulla stessa superficie possono vivere più persone. Ciò provoca degli aggiustamenti di tipo giuridico che non staremo ad approfondire ( ad esempio, la foris maritagium, tassa per chi si sposa fuori dalla curtis). Quel che più conta è che, di fronte al maturare dell'azienda verso l'orizzonte di un proto-capitalismo agrario, di nuovo vincoli di tipo sovrastrutturale lo impediscono. La struttura della curtis rende subito evidente al dominus che il profitto è maggiore là dove maggiore è la produttività, cioè dove ci sono i servi e per giunta anche pochi. Di conseguenza tutto viene collegato alla condizione servile. Ad esempio, se un manso della pars massaricia diventa vacante, esso viene assegnato alla pars dominica, e i coloni liberi che vanno ad occuparlo sono costretti ad accettare condizioni servili anche se servi non sono. Dopo un paio di generazioni i coloni diventano servi a tutti gli effetti. Questa è "usurpazione" bella e buona, insieme all'appropriazione indebita, ecc. ma in effetti è l'anticamera della formazione del proletariato. Il contratto è contratto, come diceva il Giudice dando ragione al banchiere usuraio Shylock per rovinarlo (Shakespeare, Il mercante di Venezia). Il colono era libero di non sottoscriverlo. Non è ancora compravendita di forza-lavoro al suo giusto prezzo, ma la strada è imboccata. I contadini, nel volgere di un secolo incominceranno a fluire sempre più spesso nelle città, e di lì in poi la storia dell'accumulazione originaria è scritta nel Capitale.

Nello sviluppo dell'economia curtense occorre tener conto del potere economico della Chiesa. Le sue immense proprietà, accumulate nei secoli attraverso lasciti, donazioni, acquisizioni e benefici, erano gestite secondo i criteri generali dell'epoca, ma la forma più diffusa era l'enfiteusi. Il motivo va forse ricercato nel fatto che la Roma papale aveva ereditato la forma colonica della tarda antichità, sancita da Costantino, ma certo non erano assenti motivi di convenienza. Con il declino dello schiavismo come forma dominante e la sostituzione delle ville con le curtis, il colonato si dimostrò in sintonia con la struttura delle proprietà: proprio i lasciti e le donazioni portavano al Papato terre di ogni qualità, dimensione e allocazione, sparse su tutto l'immenso territorio dell'ex impero, per cui diventava impossibile seguirle in modo diretto; e l'enfiteuta, con contratto lunghissimo (Dio non aveva fretta) era la soluzione migliore. Anche e soprattutto perché il contratto di enfiteusi della tradizione romana prevedeva, fra le poche clausole, anche il miglioramento del fondo, perciò con una parte almeno della corvée dedicata a questo scopo, cioè a migliorare la rendita differenziale. Ciò conveniva al proprietario del fondo stesso e al colono, e, dulcis in fundo, permetteva ai proprietari ecclesiastici (in genere vescovadi e abbazie) di dedicarsi alle loro attività, che si svolgessero nel silenzio dei chiostri o nel fermento dei palazzi romani. Ecco una citazione da Marc Bloch:

"Nel 999, il favore dell'imperatore Ottone III spinse al pontificato un uomo che, nato nel cuore dell'Aquitania, aveva acquistato, nel corso di una carriera brillante e movimentata, l'esperienza delle monarchie e dei grandi principati ecclesiastici dell'antico paese franco e dell'Italia longo­barda. Era Gerberto d'Aurillac, che assunse il nome di papa Silvestro II. Egli constatò che i suoi predecessori avevano ignorato il feudo. Certo, la Chiesa romana aveva anch'essa i suoi fedeli, cui non mancava di distri­buire terre. Ma usava ancora perciò vecchie forme romane, soprattutto l'enfiteusi. Questi contratti, adatti ai bisogni di una società di tutt'altro tipo, mal rispondevano alle necessità del [feudalesimo]” (La società feudale).

È normale che un papa originario della feudalissima Aquitania, regno visigoto e poi franco, trovi preferibile l'infeudazione classica, l'omaggio e il beneficio vigenti nel resto d'Europa piuttosto che l'affitto con miglioramento del fondo vigente in Italia sui territori della Chiesa. Egli prova a far passare la riforma e il risultato ce lo riferisce ancora Bloch:

"[I contratti in enfiteusi] igno­ravano l'obbligo feudale del ritorno al donatore, di generazione in gene­razione. Silvestro volle sostituirli con vere e proprie infeudazioni… Se questo primo sforzo non sembra abbia avuto buon esito, nondimeno feudo e omaggio penetrarono poi, a poco a poco, nella prassi del governo papale" (Ibid.).

La spiegazione è debole. La Chiesa non aveva bisogno di un ritorno della terra ogni 29 anni: pensava di avere l'eternità davanti a sé. Ci sembra invece molto sensato che distribuisse fondi a buoni pater familias, come si diceva in Roma antica, con l'obbligo di miglioramento in modo da perpetuare un flusso continuo di rendite. La feudalizzazione del Papato, che dal Mille in poi avrebbe alimentato rivolte eretiche contro il lusso e la simonia, da sedare a volte con le armi, non fu certo un buon investimento.

Lotta fra classi, lotta fra modi di produzione

Marc Bloch ci illumina con grande efficacia sulle vicende della "proprietà feudale" – un ossimoro, come s'è visto – narrando un episodio che andrebbe incorniciato e consultato tutte le volte che a qualcuno venisse un dubbio sul feudalesimo in Italia:

"Il conflitto delle forze sociali, soggiacente all'evoluzione del feudo, in nessun luogo appare con tanto risalto come nell'Italia settentrionale".

È vera e propria lotta di classe, il feudalesimo è solo una inutile cornice. La data è il 1035, un'epoca di travaglio per Milano e le sue classi in formazione. Le cronache del tempo la riportano come Magna confusio. Il re di Germania, Corrado II il Salico, è contemporaneamente re d'Italia. Dopo il 951 questa è la consuetudine e anzi, se il papa benedice, come in questo caso, il duplice re è anche imperatore. Nella gerarchia piramidale il re-imperatore è naturalmente al vertice, e sotto di lui stanno gli alti ranghi militari ed ecclesiastici, vassalli maggiori, suoi rappresentanti. Al terzo livello ci sono i vassalli minori, i valvassori. Alla data suddetta, una feroce disputa sulla proprietà sorse fra i vassalli maggiori e quelli minori: i primi sostenevano ciò che era del tutto normale nel resto d'Europa, cioè che i feudi dovessero venir concessi dal rango superiore a quello inferiore come vitalizi, revocabili, recuperabili dal signore al momento della morte del beneficiario e concessi agli eredi se tutto seguiva il suo corso normale. I feudali valvassori erano in totale disaccordo con la concezione feudale della proprietà terriera, e ancor più con la minacciosa espansione territoriale dei feudatari maggiori. Da una parte sostenevano che i feudi erano ormai beni di famiglia e quindi ereditabili come qualsiasi proprietà. Dall'altra chiedevano che i vescovi, schierati con i vassalli maggiori, si limitassero agli affari di chiesa. Questa disputa metteva tra l’altro in discussione l'espansione di Milano a spese dei comuni circostanti e anche di città più lontane. Si finì col metter mano alle spade. Valvassori e vassalli maggiori, radunato rispettivamente un proprio esercito, si affrontarono, nel 1036 a Campo Malo, vicino Lodi. I valvassori riportarono una netta vittoria e inviarono una petizione all’imperatore, il quale si schierò con i rivoltosi; e "poiché l'Italia era il paese delle leggi ed egli aveva fame di leggi" ne emanò una a favore dei valvassori (Constitutio de feudis, 28 maggio 1037), in cui si stabiliva che da quel momento erano considerati ereditari i benefici ottenuti dai feudatari del livello superiore. Qui Bloch sembra schierarsi con un Corrado "progressista", come se il feudalissimo imperatore fosse davvero convinto delle ragioni accampate dagli aspiranti proprietari. Ma non è verosimile che avesse scritto la Constitutio per questo. E neppure che, allo stesso modo, avesse modificato il diritto germanico perché non poteva sopportare "che i figli non avessero ciò che avevano avuto i padri", come aveva detto il suo cappellano. La realtà era più prosaica: l'imperatore temeva giustamente che Milano (a quel tempo una potenza mondiale) minacciasse l'Impero e si schierò con chi minava la compattezza del Comune. D'altra parte la proprietà privata avanzava e l'unico modo per frenarla era sancire per legge ciò che era già successo.

La confusio era davvero grande. Vassalli maggiori e minori erano impegnati in un guerra campale per il potere; i cittadini di basso ceto erano impegnati in una guerra civile sia contro i feudali che contro i ricchi borghesi. Il capo dei feudatari maggiori era l'arcivescovo di Milano Ariberto, potentissimo in quanto proprietario di terre e ricchezze urbane. Talmente potente che aveva incoronato egli stesso Corrado per conto del papa. Mettendosi ora contro la Constitutio si metteva contro l'imperatore e questi calò con l'esercito su Milano cingendola d'assedio. Ariberto venne imprigionato, riuscì a fuggire e aizzò il Comune contro l'impero. Vassalli maggiori o minori erano prima di tutto milanesi, e anche il "popolo minuto" accantonò per il momento la lotta interna.

Classi feudali a Milano nell'anno 1037? Cerchiamo di tenere bene a mente questo episodio per quando fra poco parleremo di altri due imperatori tedeschi costretti a intervenire in Italia per sedare ribellioni. Dunque: un imperatore feudale tedesco avrebbe fatto cessare una guerra antifeudale italiana promulgando in Italia leggi antifeudali, che riesce poi a introdurre nella feudalissima Germania aggirando il diritto tedesco. Visto che i maggiorenti feudali milanesi rifiutano le sue leggi, dichiara loro guerra… assediando Milano. La cosa sembra coerente: infatti la grande città lombarda sta diventando il comune antifeudale per eccellenza, quello che sconfiggerà di lì a un secolo un altro imperatore tedesco, il Barbarossa. È nemica degli imperatori feudali perché feudale non è. Pochi anni dopo, nel 1042, una rivolta popolare espellerà da Milano l'arcivescovo Ariberto con tutta la "feudalità" che risiede nei palazzi. Nel 1045 esploderà una rivolta degli strati bassi del clero cui si assoceranno gli strati poveri della popolazione (patarini) e parte della borghesia. La simonia della Chiesa, l'ostentata ricchezza, la corruzione sono ormai insopportabili. La lotta è confusa, senza programma politico e la disfatta è inevitabile, ma i rivoltosi non si arrendono mai, si estinguono per debolezza dopo 40 anni di scontri. Molti protagonisti avranno pure avuto titoli e terre, ma feudale era più Corrado il Salico che non il suo nemico Ariberto, dominus della curtis di Intimiano di Brianza, feudatario dell'Abbazia di Nonantola, ricchissimo, scomunicato, riconciliato, battuto una volta dai suoi valvassori e un'altra da una rivolta popolare, inventore del Carroccio e, naturalmente, simoniaco. Ma potentissimo primate di Milano, all'epoca la più grande città d'Europa, dove non si poteva diventare potenti se non si era parte integrante della sua forma sociale.

Riflessi borghesi sul Diritto

In Italia le lotte sulla natura della proprietà finivano per essere composte sulla base del diritto romano, seppure interpretato dalle varie scuole. Ciò lasciava ben poco margine alla dialettica medioevale. Una delle diatribe scoppiò a livello internazionale intorno al caso dell'eredità da parte di soggetti in età minorile. Mentre un po' dovunque si era propensi, in base alla natura del rapporto vassallatico, a sostituire l'erede troppo giovane con un esponente della gerarchia di pari rango, "la sola Italia, poco proclive a moltiplicare i regimi di eccezione a favore degli interessi feu­dali, preferì la semplice tutela", commenta Marc Bloch. La sostituzione consegna il minore all'arbitrio di una persona, la tutela è regolamentata dalla legge.

Oltremodo significativo il risultato "italiano" della discussione, considerata molto delicata, sulla sorte della proprietà di vassalli o valvassori accusati di "fellonia" (tradimento degli obblighi/benefici feudali, contratti con giuramento tra persone di diverso rango). Mentre nel mondo feudale classico la soluzione viene cercata nel gioco delle gerarchie dell'obbligo e del beneficio, in Italia si è più pratici, e il feudo viene trasformato in proprietà privata che verosimilmente finisce sul mercato:

"Nessuna difficoltà, quando la colpa era del vassallo: il bene ritornava al signore leso. Tale procedimento veniva chiamato commise. Il diseredamento del duca Enrico il Leone da par­te di Federico Barbarossa, di Giovanni Senzaterra da parte di Filippo Augusto, ne costituiscono i più insigni esempi" (Bloch).

Quando invece era il signore a tradire il giuramento, ovviamente nascevano delle complicazioni, anche perché gli abusi erano all'ordine del giorno, specie in casi come questo. Togliere concessioni e benefici a un vassallo di alto rango significava toglierli a tutti coloro che seguivano nella gerarchia verso il basso, e tutte queste persone non erano responsabili del delitto. La scappatoia era nella stessa scala gerarchica: anche in questo caso si procedeva verso il gradino immediatamente più in alto, al quale andavano i privilegi tolti al condannato. Naturalmente una regola del genere non si poteva applicare al re o all'imperatore, che non avevano gradini superiori, ma ci si basava sul principio che nessuno a quel livello potesse essere fellone consapevole e che quindi, ben consigliato dagli organismi custodi del diritto, potesse riparare.

"Soltanto l'Italia fece parte a sé. Qui, il vassallo che fosse vittima di una fellonia da parte del signore vedeva semplicemente il proprio feudo mutarsi in allodio: indice signifi­cativo, tra molti altri, del poco vigore che vi avevano le concezioni più strettamente feudali" (Bloch).

Questo passo è molto importante. Come abbiamo visto, allodio vuol dire proprietà privata. Quindi in Italia il diritto feudale (se può chiamarsi così una serie di testi giuridici disorganici e sparsi), in deroga all'essenza dei suoi rapporti sociali, stabilisce che in certi casi il beneficio si possa trasformare in proprietà piena. Che cosa chiedevano del resto i valvassori lombardi ai vassalli maggiori inviando la relativa petizione all'imperatore Corrado il Salico? E come mai un moto popolare, solo cinque anni dopo, espellerà da Milano, vassalli maggiori e minori? L'unica spiegazione possibile è che fosse in corso un assestamento della proprietà nel passaggio dai criteri feudali a quelli borghesi. Di fatto, mentre in Francia, Germania e Inghilterra l'allodio praticamente scompare tra l'XI e il XII secolo, in Italia non solo sopravvive ma anzi si rafforza, ad esempio dove incominciano a farsi valere le leggi comunali. Basti pensare ai lasciti e alle donazioni ricevuti dalla Chiesa in proprietà, mentre quelli concessi dai signori a loro ritornavano.

Tra il IX e il X secolo, con il progressivo dissodamento "abusivo" dei terreni collettivi dei villaggi (incolto, boschivo) da parte dei proprietari confinanti, la proprietà allodiale era cresciuta di superficie, e poi anche di numero con il frazionamento dovuto successioni e doti. Questa modalità di appropriazione (adprisio) era abbastanza comune se ne rimane così ampia documentazione, specie nelle abbazie, i cui terreni erano a volte gestiti da lontano, e inglobati nei poderi confinanti finché non scattava l'usufrutto e quindi la proprietà. In seguito, nei territori d'oltralpe dove la forma feudale era marcata, l'allodio tese ad estinguersi a causa dei gravami che comportava: numerose immunità feudali venivano concesse a signori e prelati, mentre i proprietari allodiali non ne beneficiavano. Ad esempio i feudali che vivevano nella protezione dei loro signori erano assistiti in giudizio da chi aveva diritto di banno, oppure erano esenti dall'obbligo di partecipare al placito (giudizio del signore nei processi), che a volte si teneva a giornate di cammino; o potevano riscattare, pagando, l'obbligo di servire militarmente il signore. Ciò facilitava la pressione, e spesso le vessazioni, sui proprietari, i quali spesso rinunciavano ai propri diritti per entrare nella cerchia delle protezioni. In Francia e in quasi tutta l'Europa valeva il concetto: nessuna terra sia senza signore. Al contrario, in Italia e Provenza, chi accampava diritti di signoria sulle terre doveva provarlo, e il concetto diventava: nessuno sia signore senza terra. Tra le due frasi c'era di mezzo una rivoluzione (en passant: Marx critica la Filosofia del diritto di Hegel proprio per la concezione "feudale" della proprietà). Nell'epoca comunale, in Italia, scomparve addirittura il termine "allodio", ormai riservato a documenti che utilizzavano ancora il linguaggio arcaico di notai e giuristi. Sopravvisse nel Sud l'equivalente e assai significativo proprietà burgensatica, cioè cittadina. Il Codice Napoleonico cancellò entrambi anche dal linguaggio.

Rivista n. 35