L'Italia nell'Europa feudale (5)
Il retroterra storico del capitalismo più antico del mondo

5. La rivoluzione barbarica

Il processo di formazione di un proto-capitalismo nell'alto medioevo, presto evolutosi in capitalismo nel corso di pochi secoli, fu certamente "disturbato" dai movimenti di masse barbariche ai confini dell'Impero romano, risoltisi in ultimo in un’invasione, dalla quale sopravvisse con fatica soltanto la parte greco-orientale. Certamente il sistema romano sarebbe collassato anche senza la spinta dei barbari. Come abbiamo visto, la civiltà antico-classica era arrivata a quel culmine che Marx individua nella trasformazione del sistema da stimolo allo sviluppo della forza produttiva sociale a sua catena. Quindi è corretto dire che i barbari rappresentano soltanto un epifenomeno, che essi hanno potuto passare alla storia come i distruttori del potente impero solo perché l'impero s'era già distrutto da sé. In effetti i barbari erano già filtrati molte volte, giungendo fino a Roma, ma erano stati sempre respinti. Il modello difensivo posto ai confini dell'Impero si era evoluto con l'evolversi della stessa pressione barbarica, e gli storici militari dimostrano facilmente che orde di guerrieri, per quanto feroci e determinate, avevano dovuto limitarsi a scorrerie e saccheggi finché la struttura militare romana aveva conservato la sua efficienza. Lo dimostra la mirabile strategia bizantina che per secoli, nonostante la decadenza dell'Impero d'Oriente e a prezzo di enormi sacrifici in termini di vite umane, era riuscita a rintuzzare i barbari e anzi, a riconquistare immensi territori. Ma anche quella società, appunto, era in decadenza e, nonostante si fosse "asiatizzata" fino al punto di perpetuarsi sempre uguale a sé stessa, non poteva fare a meno di lasciare il posto a forze che tendevano non tanto a conquistare per sottomettere quanto a sostituirsi.

Per liberare il Capitale ci voleva una forza immensa

Questa è una delle chiavi per comprendere le rivoluzioni. Esse non tendono a riformare la vecchia società, non scendono a compromessi, non debbono conquistare terreno per dettare la loro legge a popoli che dovrebbero adeguarsi al loro programma. Esse si sostituiscono semplicemente a ciò che esiste, o trasformandolo a mezzo di una metamorfosi totale, o distruggendolo. A leggere le cronache sulle devastazioni, sui feroci massacri e sulla "regressione della civiltà", è difficile accettare il fatto che le invasioni barbariche abbiano costituito un progresso per l'Europa. Ma è così: i barbari si sostituirono completamente alla civiltà che contribuirono ad affossare. Per quanto si sforzassero in alcuni casi di farsi continuatori di Roma, non ci riuscirono mai. La sostituzione fu completa, tranne che per un particolare: la forza produttiva sociale. Frettolosi lettori di Marx scambiano quasi sempre il crollo quantitativo della produzione che si registra nelle critiche fasi di passaggio da un'epoca all'altra con un calo della forza produttiva sociale. È sbagliato. Secondo alcuni storici (cfr. Pierre Léon) la popolazione dell'Impero romano al suo culmine ammontava a 60 milioni di abitanti; per crollare, in seguito alla Guerra gotica, alle pestilenze e alle carestie, a 12-20 milioni nella stessa area, alla vigilia dell'espansione franca guidata da Carlo Magno.

Un simile salasso di popolazione in tre secoli comporta ovviamente un calo più che conseguente di prodotto, sia totale che per abitante, soprattutto a causa della rovina delle infrastrutture romane (strade, acquedotti, città, centri di produzione agraria, cave, miniere, ecc.). Tuttavia non sarebbe spiegabile il boom produttivo, costruttivo e demografico che investì le città e le campagne altri tre secoli dopo, intorno al Mille, senza ricorrere al concetto di forza produttiva sociale. Nel XIII secolo, su di un'area paragonabile a quella dell'ex impero, gli abitanti erano risaliti a circa 80 milioni, 20 milioni in più rispetto alla tarda antichità classica (Léon). Può sembrare strano, ma il primo fattore della "rivoluzione barbarica" fu quello tecnologico, sul quale sarebbe interessante soffermarsi, ma che vedremo necessariamente di sfuggita.

Rivoluzione del fuoco

La metallurgia, soprattutto quella del ferro, conobbe una svolta decisiva con l'introduzione di quello che si può considerare l'antenato dell'altoforno attuale. Nella forma sociale precedente al feudalesimo, dagli Ittiti ai Romani, per circa due millenni, non era ancora conosciuto un metodo per fondere il ferro. Siccome con i forni a legna non si poteva raggiungere la temperatura necessaria per la sua fusione lo si scaldava fino a renderlo pastoso (blumo) e lo si purificava a suon di martellate per far saltare le incrostazioni di scorie. Sembra che già gli Egizi, sprovvisti di alberi, importassero carbone di legna per fondere il bronzo. I barbari portarono in occidente la tecnica indiana per produrre ferro con carbone di legna. Con il carbone si riuscì a superare la barriera della temperatura e a fondere quindi il minerale. Ciò rese disponibile una quantità di ferro per attrezzi, armature, spade, chiodi, cerchi per ruote e botti, ecc., prima impensabile. La barriera della temperatura di fusione del ferro era l'ultima da superare per accedere alla rivoluzione industriale iniziata con l'era del vapore. La "scala del fuoco" segna l'avanzare della tecnologia: prima la cottura del cibo (max 200°), poi la terracotta (960°), il rame (1083°), il bronzo (1180°) e infine il ferro (1560°). Tutti i popoli barbari producevano gioielleria e, oltre alle pietre preziose, usavano il vetro (1000°) che richiede particolari conoscenze tecniche, specie per abbassare il punto di fusione della sabbia silicea da cui è ricavato (1710°). La spatha longobarda era costruita con una tecnologia molto più avanzata di quella romana: un'anima centrale era ottenuta battendo a caldo alcune lamine di ferro, tenero ma resistente; ad essa veniva ribattuto a caldo, con effetto damaschinato, il doppio taglio in acciaio, fragile ma duro. Quasi un anacronistico gioiello tecnologico rispetto al resto dell'abbigliamento longobardo in battaglia che, a parte l'elmo di ferro, era fatto di tela pesante e cuoio, una delle tante contraddizioni dell'Alto Medioevo.

Per fermarci al Medioevo prima del Mille, lo stesso effetto propulsivo si ebbe con l'introduzione della staffa per i cavalieri, delle bardature per i cavalli da tiro, dell'aratro con coltello e versoio, del timone delle navi, del maglio a camme, della filatura con arcolaio e mulinello al posto di quella con rocca e fuso, della trafila a freddo per il fil di ferro (chiodi in serie, cotte di maglia metallica per i soldati, ami da pesca, catene), della navigazione di bolina (controvento), della bussola, della carta, del mulino a vento, della matematica con numeri arabi e con lo zero, ecc. ecc. Ma la storia materiale della rivoluzione barbarica è scritta nel ferro. È il ferro che permette la vera esplosione dell'industria. La sua curiosa apoteosi che citiamo qui di seguito non può essere solo frutto dell'immaginazione di un monaco. Anzi, il cronista doveva avere ben chiara l'idea di forza che ispirava non tanto il metallo quanto la capacità di produrlo. Far baluginare ferro in quantità per intimorire il nemico era usanza, anche se il peso delle armature le rendeva poco pratiche. Siamo nel 774, all'assedio di Pavia, dov'è asserragliato Desiderio, re dei Longobardi, e sta arrivando l'esercito di Carlo Magno:

"Videro da prima tante macchine da guerra quante bastate sarebbero al bisogno degli eserciti di Dario e Giulio Cesare. Poi videro venire una schiera infinita di soldati raccolti da tutti i luoghi del nostro impero. Ed ecco apparire la schiera dei paladini, la quale non sa che sia riposo. Poi vennero i vescovi, gli abati, i chierici della regia cappella ed i conti. Quando videro le messi agitarsi per terrore nei campi e il Po torbido e il Ticino inondar coi loro flutti tinti di ferro le mura della città, allora seppero che Carlo veniva. Incominciassi a vedere da Occidente come una scura nube sollevata da Borea, la quale mutò il chiarissimo giorno in paurosa oscurità. Se non che, all'accostarsi dell'imperatore, lo splendor delle armi faceva sulle genti chiuse in città rilucere un giorno più tetro di qualunque tetra notte. In quella apparve Carlo in persona, uomo tutto di ferro, coperto il capo di un elmo di ferro, le mani armate di guanti di ferro, il petto di ferro e le marmoree spalle difese da una corazza di ferro, e la mano sinistra armata d'una lancia di ferro ch'ei reggeva ritta in aria, poiché la destra ei la teneva sempre sull'elsa dell'invitta sua spada. Le cosce pure, che gli altri, per esser più spediti a montare a cavallo, sguarnivano anche de' cuoi, egli aveva tutte cinte di lamine di ferro. Non vedevasi che ferro. I suoi sandali erano pure di ferro, di tali usandone altresì tutto l'esercito. Ferro era lo scudo e del colore come altresì della forza era il cavallo. Tutti coloro che lo precedevano o lo fiancheggiavano o lo seguivano, insieme con tutto il grosso dell'esercito, avevano, per quanto ciascun poteva, di somiglianti armature, sì che il ferro correva le strade maestre e le campagne, e al riflesso del sole toglieva la vista, e spargeva lo spavento per le vie della città, però che quel durissimo ferro era portato da gente di cuore ancor più duro. Quanto ferro, o Dio, quanto ferro! Gridavano atterriti; e al vedere tanto ferro cedè per terrore la saldezza delle mura e della gioventù, e il ferro crollò la prudenza dei vecchi, di che io povero balbuziente e sdentato scrittore m'ingegnai di far una viva descrizione".

Il fantasioso cronista del IX secolo è Notkerus Balbulus (Notchero il Balbuziente). In realtà l'esercito longobardo e gli abitanti di Pavia, terrorizzati o meno dalla gran parata di ferro, resistettero 9 mesi e non si arresero, ma accolsero una proposta di negoziato avanzata dai Franchi.

Medioevo che descrive sé stesso (e gli storici lo ascoltano)

Di fronte a tutto questo fiorire di invenzioni e scoperte che furono alla base della nascita dell'industria moderna, appare oltre modo stridente una sovrastruttura sociale che vive di un cerimoniale barbarico fatto di obblighi concatenati e di vassallaggi validi più che altro per la classe dominante, dato che i borghesi e in genere i cittadini ne erano fuori. I contadini (servi, schiavi o liberi che fossero) erano l'ultima ruota del carro: la loro unica funzione era lavorare, riprodursi e versare il tributo, fossero o no così legati alla terra per obbligo come in genere si crede. Allora è stridente anche l'approccio della storiografia basata sulle relazioni "politiche" tramandate dalla documentazione e dai prolifici cronisti medioevali. Leggiamo a questo proposito nella prefazione di un testo peraltro adoperato per questo articolo:

"Dedicando due terzi della trattazione alle 'strutture del potere' abbiamo operato una scelta consapevole. Siamo convinti che la centralità della politica garantisca la maggior quantità pos­sibile di chiavi interpretative del passato: non a caso è la stessa scelta – talora criticata, ma insostituibile – che compie la grande informazione sulla contemporaneità. Senza politica (sia chiaro, non solo la 'grande' politica) ci si può rapportare al passato con atteggiamento di mera curiosità: perché è vero che ogni argomento è legittimo oggetto di ricerca storica, ma una cultura non specialistica può anche prescindere da molti di quegli argomenti, mentre non può prescindere dalla co­noscenza dei modi di organizzarsi delle comunità umane. Il me­dioevo tra l'altro – con la presenza di culture tribali e di organismi statali, di identità etniche provvisorie e di esperienze religiose uni­ficanti – si presta in modo speciale a osservazioni che valorizzino le sperimentazioni politico-sociali" (Bordone-Sergi).

Sarebbe davvero interessante mettersi nei panni di un guerriero longobardo che arriva spargendo il terrore, si insedia sotto le mura di una città espugnata, pensa a come sfamare la sua tribù requisendo a largo raggio tutto ciò che è commestibile, e nel frattempo si gode una bella sperimentazione politico-sociale in vista dell'Editto di Ròtari, un documento che più politico non si può. A parte gli scherzi, gli autori citati non dedicano davvero due terzi del loro lavoro alla "politica", producono anche degli schemi che parlano più degli storici.

Un assetto giuridico delle relazioni al quale non serve neppure una forma scritta è assolutamente inutile ai nuovi arrivati per sancire con regole precise il loro dominio sui vinti. D'altra parte i vinti non hanno dimenticato il diritto romano. Perciò i rapporti sono semplificati al massimo. Non insisteremo, come invece fanno gli storici, non solo del Medioevo, su questi aspetti sovrastrutturali; né sulla serie infinita di ammazzamenti più o meno efferati, più o meno sensati dal punto di vista dell'utilità per gli esecutori o per i committenti, che sono però una manna per quei ricercatori intenti a costruire i loro resoconti sugli eventi e non su ciò che li produce. A parte lo stretto indispensabile, sorvoleremo anche sulle "grandi" guerre, che erano feroci ma che, rispetto ad altre epoche, tutto sommato coinvolgevano piccoli eserciti e di per sé non erano quasi mai risolutive. Idem per quanto riguarda gli intrecci dinastici, sempre escogitati per evitare scontri fra famiglie di potentati e sempre sfociati proprio in guerre fra le stesse famiglie. Su questo terreno, persino la scuola francese delle Annales scivola nella "politica" nonostante si sia battuta contro l'histoire-bataille, historisante, événementielle, cioè contro la storia modellata sui grandi individui e sulle loro azioni, e abbia indirizzato la ricerca verso la vita materiale delle varie epoche. Il risultato finale non è stato troppo fedele alle premesse, dato che sovente ci troviamo di fronte a una esposizione più soggettiva che mai, a seconda dell'autore. Braudel, in un saggio sull'Italia del '400, escogita addirittura una immedesimazione nel personaggio narrante e una descrizione degli eventi "in soggettiva", come nell'omonima tecnica cinematografica. Bello, e lo potremmo fare, perché no, con il nostro ipotetico longobardo, ma solo dopo aver fatto una analisi paleobotanica dei reperti alimentari, dei pollini, dei pali trovati nella sua capanna.

Per quanto possibile ci baseremo proprio su dati oggettivi, come ad esempio la prospezione archeologica, che oggi è in grado di offrire moltissima informazione sulla vita materiale di antiche popolazioni, anche a partire da reperti minimi. Questi dati oggettivi devono essere collocati in un modello evolutivo che ce li mostri concatenati tra loro nel tempo e nello spazio; un modello che, soprattutto, non sia il frutto di storiografia sociologica delle accademie con i loro baroni, le cui fonti sono quasi esclusivamente i documenti prodotti (e sopravvissuti piuttosto abbondanti rispetto ai reali pericoli di distruzione corsi nel tempo) da una classe dominante che descriveva più che altro sé stessa. I siti archeologici sono più abbondanti ancora, specie in Italia (sotto la TAV Roma-Napoli è stato rinvenuto in media un sito ogni 500 metri. Dato RFI).

Rivista n. 35