L'Italia nell'Europa feudale (14)
Il retroterra storico del capitalismo più antico del mondo

14. Quasi-eresie, plusvalore, grandi fiere

I passaggi che portano alla rivoluzione agraria sono registrati dagli storici con dovizia di particolari. Bloch sottolinea in special modo il filo rosso che collega la villa romana all'azienda agraria condotta da contadini liberi ma sotto "contratto". In Italia e in Provenza, dove la struttura romana dell'agricoltura era troppo radicata per essere spazzata via, l'evoluzione della villa aveva prodotto le basi per la signoria terriera già sotto i Carolingi. Anzi, Bloch fa risalire l’inizio del processo a prima ancora, alle tradizioni dei popoli pre-romani, italici e celti, su cui la tradizione romana si era innestata. Popoli agricoltori e allevatori radicati in società molto diverse da quelle dei nomadi, pastori e cacciatori che sciamarono più tardi nell'Impero. Perciò il legame con la terra era ben più forte di qualsiasi invasione, massimamente nella villa diventata curtis, dove si veniva a formare nuovamente un senso di comunità di villaggio. In entrambe le strutture vi erano fattorie secondarie che rappresentavano la più piccola unità indivisibile dell'insieme pars dominica e pars massaricia, che adesso si chiamava manso. Ebbene, proprio questa unità indivisibile dell’epoca curtense si era perpetuata nel tempo mantenendo una struttura invariante. La trasformazione dei mansi in lotti a conduzione servile, anche se i lavoratori erano liberi, aveva una sua storia anche recente: tale struttura di base, che fosse voluta o meno – e noi propendiamo per le condizioni materiali invarianti che producono risultati invarianti – ricordava il tempo in cui i latifundia a conduzione schiavistica si erano espansi con rese calanti in rapporto alla superficie crescente, per cui i padroni li avevano lottizzati ripartendoli fra i loro schiavi trasformati forzatamente in fittavoli.

Nel Medioevo, fin verso il Mille, questa operazione era stata condotta sia con servi che con liberi coltivatori, e siccome il rendimento era risultato maggiore con i secondi, si erano automaticamente generate concessioni di tipo nuovo, molto diversificate da luogo a luogo, ma che rientravano in un insieme coerente chiamato manso ingenuile, cioè "dei liberi". Ma sempre più sovente i liberi, tartassati da troppi vincoli e ridotti a una condizione non troppo diversa da quella degli schiavi, scappavano altrove in cerca di condizioni meno gravose e, sempre più spesso in città. Si formava così, stabilmente, quella massa di "senza-riserve" che fu la base di partenza per la rivoluzione industriale. Parallelamente a questo processo, il disagio sociale, e soprattutto lo "scandalo" che era sotto agli occhi di tutti, cioè il lusso sfrenato dei possidenti, dei mercanti e specialmente degli alti prelati, confrontato con la condizione miserabile del popolo minuto, provocava l'esigenza di nuove comunità, aggregazioni attorno a programmi di liberazione, se non materiale, almeno spirituale. Cosa che non mancava di provocare anche occasioni di menare le mani. E ovviamente i poveri cristi erano quelli che ci rimettevano finendo in genere fatti a pezzi o bruciati vivi.

Tanto per fare un esempio, Ariberto da Intimiano, che abbiamo avuto occasione di nominare qualche pagina addietro, uno dei più potenti signori d'Italia, oltre ad entrare in conflitto con l'imperatore feudale, con i suoi stessi vassalli, e con il popolo minuto di Milano, si distinse per aver deportato e mandato al rogo l'intera popolazione "eretica" di Monforte d'Alba, colpevole di non aver abiurato, e il borgo fu raso al suolo. Gli storici si chiedono come sia mai potuto succedere un episodio del genere due secoli fuori tempo rispetto alle crociate antieretiche. Propendiamo per l'ipotesi che i monfortesi non fossero solo eretici ma soprattutto ribelli, come i patarini che a Milano lottarono per 40 anni. C'è sempre lotta di classe dietro agli episodi di guerra civile, solo che questa lotta non ci fa il piacere di presentarsi nella maniera più semplice, con i protagonisti ben incasellati al loro posto, feudali, borghesi, artigiani, proletari. Il Medioevo è zeppo di rivolte, etichettate ovviamente come "eresie", i cui capi, partiti o programmi non hanno nemmeno un nome.

Qui ci stiamo occupando della natura del feudalesimo in relazione all'aberrante utilizzo politico che ne è stato fatto nel corso di una gigantesca controrivoluzione, e quindi non possiamo dedicare troppo spazio ai movimenti sociali che hanno caratterizzato mille anni di storia medioevale. Tuttavia è indispensabile soffermarci su di una curiosa eresia recuperata da uno dei maggiori santi della Chiesa, Bernardo di Chiaravalle. Non possiamo farne a meno per la semplice ragione che si tratta di un movimento feudale (come tempo), oggettivamente antifeudale (come contenuto) senza essere borghese, un movimento entro il quale si è presentata una delle prime manifestazioni del plusvalore capitalistico moderno, pari a quelle che troviamo nelle seterie bolognesi o nei lanifici fiorentini del '200. Con la differenza che si tratta di fatti avvenuti in precedenza e non in ambiente industriale ma agrario. Stiamo parlando dei Cistercensi.

La prima volta del plusvalore

Di plusvalore occasionale se ne formava anche nell'impero romano, ad esempio tutte le volte che, utilizzando lavoro salariato e vendendo il prodotto, si ricavava più denaro di quanto se n'era investito. Ma per parlare di plusvalore in senso strettamente capitalistico occorre giungere alla rivoluzione industriale, cioè almeno a fine Settecento. Che c'entrano allora i Cistercensi? C'entrano, perché se il modo di produzione dell'anno Mille fosse stato quello descritto come sopravvivente nel 1861 e nel 1945 (teoria del risorgimento tradito da portare a compimento), i Cistercensi non sarebbero dovuti esistere per la semplice ragione che furono una delle mine per far saltare proprio il modo di produzione feudale. Li prendiamo quindi come prova a favore dell'accusa di "falso storico finalizzato a politica opportunistica controrivoluzionaria". E, si badi, non si tratta di un processo: lo scontro non si svolge nell'aula di un tribunale ma sul terreno di classe.

Nel 1075 il monaco benedettino Roberto fondò a Molesme un piccolo monastero con lo scopo di ritornare alla regola originaria, essenziale e comunistica, di San Benedetto, con il rifiuto esplicito dei fasti di Cluny, abbazia madre dei benedettini in Francia. L'esito non fu quello voluto, perché in poco tempo il monastero diventò un'abbazia come le altre:

"Aveva accumulato benefici ecclesiastici e decime, rendite di chiese, villaggi e servi, e l’abbazia stessa pullulava di servitori laici (famuli), di fratelli (conversi), di bambini (oblati) e di praebendarii, cioè di gente che offriva i propri beni all’abbazia in cambio di vitto e di alloggio per tutto il resto della sua vita" (dal sito dell'Ordine www.cistercensi.info).

E a sovrintendere, qualche decina di monaci nullafacenti che vivevano alle spalle della comunità, indifferenti alle raccomandazioni del santo fondatore dell'Ordine. Con una ventina di essi Roberto lasciò Molesme per fondare una nuova comunità monastica. Un feudatario di Citeaux gli aveva regalato allo scopo il terreno e una pieve. Nel nuovo monastero, costruito in modo piuttosto primitivo nel 1098, i monaci fecero voto di vivere secondo la Regola e in tema di proprietà, la applicarono alla lettera:

"Questo vizio [della proprietà] dev'essere assolutamente stroncato fin dalle radici, sicché nessuno si azzardi a dare o ricevere qualche cosa senza il permesso dell'abate, né pensi di avere nulla di proprio, assolutamente nulla. 'Tutto sia comune a tutti', come dice la Scrittura, e 'nessuno dica o consideri propria qualsiasi cosa'. 'Si distribuisca a ciascuno proporzionatamente al bisogno'. Chi ha meno necessità, ringrazi Dio senza amareggiarsi, mentre chi ha maggiori bisogni, si umili invece di montarsi la testa".

Con il risultato che la loro professione di semplicità, povertà, rifiuto di sfruttare il lavoro del prossimo, produsse addirittura un richiamo dell'abate di Cluny, seguito dall'ordine del papa: Roberto lasci perdere le sue fantasie eretiche e torni a Molesme. I monaci rimasti non si diedero per vinti, elessero abate Alberico al quale succedette il monaco inglese Stefano Harding che, dopo aver girato mezzo mondo, era approdato a Molesme e poi a Citeaux. Nel frattempo un altro papa aveva concesso ai monaci di seguire liberamente le loro aspirazioni. Che, riassunte con una citazione dai loro primi Capitula (§ 23) erano così espresse:

"Le chiese, i redditi d'altare, le tasse per i servizi funebri, le decime o le vettovaglie procurate dal lavoro di altri, dai villaggi, dai servi, dalle imposte sulle terre, le entrate dai forni e dai mulini e da altre cose simili, contrarie all'essenzialità monastica, sono escluse dalle norme dell'Ordine".

C'era anche altro, ma limitiamoci a questo. Che di per sé è già un buon manifesto antifeudale. Successe comunque un qualcosa di imprevisto: invece di perseverare nella santa povertà, con una regola siffatta i monaci si trovarono ad accumulare denaro senza capire perché. L'abbazia di Citeaux crebbe floridissima. Nel 1112 arrivò Bernardo di Fontaines, il futuro santo, con trenta nuovi monaci. Il flusso di arrivi non terminava, quindi i monaci, sempre rifiutando di sfruttare il lavoro altrui, fondarono un'altra abbazia nel 1113 (La Ferté). Anche questa prosperò e divenne florida, inducendo i monaci a fondarne, nel 1114, una terza e una quarta (Pontigny e Morimond). Nel 1115 Bernardo si staccò con 12 fratelli e ne fondò una quinta, a Clairvaux (Chiaravalle). Non capanne come l'eremo di Roberto, ma grandi abbazie che essi stessi costruivano con i fratelli conversi e i salariati, in pietra squadrata, chiese con mura possenti, volte a botte e chiostri da meditazione, orti, campi dissodati, vigneti, pascoli e grange. Cos'era successo? Di solito ci volevano secoli per costruire una sola cattedrale mettendo al lavoro l'intera popolazione di una città.

L'imperatore con il saio da monaco

Tutto ciò viene per lo più spiegato col fatto che i monaci lavoravano sodo, che non erano in pochi perché ammettevano tra loro fratelli conversi, cioè laici, e che beneficiavano di regalie da parte dei feudi perché dissodavano terreni, scavavano canali, terrazzavano colline, insomma, facevano aumentare la produzione totale e quindi il valore delle terre. Sarà, ma noi non crediamo ai miracoli, neppure tenendo conto della presenza di un santo come Bernardo. Un giorno, nel chiostro dell'abbazia cistercense di Casamari, alcuni di noi chiesero a un monaco se ci poteva sciogliere questo enigma. Ci disse che in effetti l'Ordine non solo aveva costruito 750 abbazie in un secolo ma anche, tra l'altro, innumerevoli castelli di Federico II di Svevia che, come tutti sanno, aveva chiesto di entrare nell'Ordine ed era stato accettato. Ai cistercensi era proibito scolpire decorazioni non essenziali per non disturbare l'armonia delle forme semplici, peggio che mai con figure umane; ma lì, scolpite nei capitelli del chiostro, c'erano tre piccole teste: il barbuto legislatore dell'imperatore Pier delle Vigne, l'abate dell'epoca col cappuccio da monaco, l'imperatore con la corona. Secondo la leggenda, s'intende. D'accordo, insistemmo, ma come conciliare tanta attività costruttiva con una regola che proibisce di sfruttare il lavoro d'altri? E le grandissime ricchezze, il grano, il commercio della lana, le fattorie modello, la filiazione continua di altre abbazie? Il monaco ci guardò sorridendo e disse: "Il fatto è che noi, per rispettare la regola, i lavoratori li dovevamo pagare; siamo comunisti, ma il capitalismo l'abbiamo inventato noi". Questa spiegazione non c'è sui testi cistercensi, compresi i libri pubblicati dagli stessi monaci. Non c'è sul web dell'Ordine, dove il capitolo sull'economia sfiora l'argomento con estrema cautela. E non c'è, se non sfumatissima, in testi originali, come l'Exordium parvus, che è la storia dei primi tempi:

"Decisero quindi di accogliere dei fratelli conversi e di assumere anche dei salariati perché, senza il loro aiuto, non comprendevano come avrebbero potuto osservare integralmente le prescrizioni della Regola… Stabilirono che, quando avessero costituito delle masserie, curtes per l'agricoltura vi avrebbero posto come capi i predetti conversi, non i monaci… "

C'erano molte curtes, laiche o abbaziali, che assoldavano salariati, e non erano state miracolate. Il modello corrotto di Molesme era la norma ed era assolutamente dissipativo, non permetteva la riproduzione allargata. Perciò i monaci decisero anche di rifiutare rendite feudali per evitare la corruzione e, tanto per essere più ligi ancora, proibirono all'aristocrazia feudale di entrare nelle abbazie. Si diedero un codice di comportamento o statuto (Charta Charitatis) per uniformare la vita e le conoscenze dei monaci, dal modello architettonico cui dovevano attenersi tutti i progetti delle abbazie, alla biblioteca che doveva essere uguale per tutti, perché "separati nei corpi, nelle abbazie disperse in varie regioni del mondo, rimanessero indissolubilmente uniti nello spirito".

Nella frase del monaco cistercense su comunismo e capitalismo c'è molto più di una battuta spiritosa. La Regola di San Benedetto è integralmente comunistica e la rete delle abbazie, con l'obbligo degli incontri annuali, senza un vertice ma con una disciplina ferrea mantenuta da abati eletti (riuniti in Capitolo generale), è un qualcosa che esula dall'anarchia feudale che finge una disciplina al centro e del centro mai esistita.

La curtis cistercense aveva una struttura semplicissima e si prefigurava già negli statuti come rigetto di un sistema sterile, cerimonioso, corrotto, usurpatore e senza legge. L'abbazia era al centro del sistema con gli orti e gli appezzamenti. Invece dei mansi possedeva le grange, gestite dai conversi coadiuvati da coloni e braccianti salariati. La grangia era una unità produttiva autosufficiente per la coltivazione e la lavorazione dei prodotti, ma la distribuzione sul mercato era compito dell'abbazia. Molte grange producevano principalmente per il mercato internazionale. La proibizione dello sfruttamento di tipo feudale costrinse i monaci a pagare la forza-lavoro e ciò li convinse di aver assolto il pio compito. Grande fu la sorpresa quando videro che i loro forzieri si riempivano più velocemente di quelli feudali. Nel giro di un secolo impararono benissimo ad arricchirsi col nuovo metodo, e nel corso di due diventarono feudali e corrotti come tutti gli altri preti contro i quali avevano dato battaglia passando da eretici. A proposito: nelle abbazie cistercensi veniva dato spesso asilo, tra i conversi, ad elementi eretici, specie catari. La Chiesa sapeva e chiudeva un occhio, forse paga del fatto che teste calde fossero tolte dalla circolazione.

La Chiesa avrebbe tolto volentieri di mezzo anche il grande imperatore feudale Federico II effigiato nel chiostro. Ci provò con due scomuniche, con la strategia dell'accerchiamento ordita alleandosi con i suoi nemici, ma lo svevo era d'altra pasta rispetto ad altri germanici calati in Italia. Perché s'era fatto monaco, accettato con tutti gli onori dal Capitolo generale senza che il papa fiatasse? Perché i monaci gli costruirono i castelli? C'è una letteratura sconfinata sullo Stupor Mundi ma forse la risposta è molto banale: consigliato da uno staff di prim'ordine, l'imperatore feudale stava adottando i metodi assai efficienti della nuova economia italiana, che per l'Italia proprio nuova non era. A differenza del padre e del nonno (Enrico VI e Federico Barbarossa) aveva capito che per tenere la Germania occorreva tenere l'Italia e che per tenere quest'ultima occorreva lasciare da parte il feudalesimo, promuovere il diritto, scrivere leggi moderne, avere uno stato e non una gerarchia di vassalli in guerra tra loro. Il feudalesimo era funzionale in Germania, dove il fedele Ermanno di Salza aveva portato la parola di Bernardo affinché ispirasse i monaci Cavalieri teutonici in crociata contro i pagani (i Templari avevano adottato la Regola cistercense in Terrasanta). Ma in Italia era diverso, qui avrebbero funzionato bene manifatture statali, confische ai feudatari, sovvenzioni all'economia, ritorno alla vera moneta aurea (per la prima volta dal collasso di Roma, copiata per qualche tempo dai barbari). In Italia l'agricoltura, specie nel Sud, era capitalistica.

Più dei castelli, fu probabilmente l'agricoltura cistercense a rappresentare il legame con Federico II. Essa fu dirompente nei confronti delle curtes tradizionali. Eccezione produttiva in un modo sociale asfittico, condotta con metodi capitalistici, faceva una concorrenza spietata agli altri coltivatori, anche con la rivoluzione agraria, di cui abbiamo parlato, ancora in corso. Grandi opere di bonifica, caldeggiate dai feudatari sui loro terreni incolti, portarono in certi casi alla distruzione di vecchi mansi, provocando persino alcune rivolte nonostante le compensazioni. Nel periodo più florido le grange si specializzarono del tutto nella produzione per il commercio: soprattutto quella della lana di cui avevano quasi il monopolio, poi lino, canapa, cereali, olio, vino, pescicoltura, ecc. Perciò l'agricoltura cistercense si collegò in via del tutto naturale con le grandi fiere d'Europa, fino a quella di Novgorod e oltre, tramite i Cavalieri teutonici che avevano il controllo delle carovaniere nordiche. Il commercio suggerì ai monaci di utilizzare la loro rete di abbazie e di grange per far giungere ai mercati la loro sovrapproduzione. Diventarono ricchissimi, e per un certo periodo il tesoro servì per le abbazie nuove, senza accumularsi in forma di denaro.

Quella della scoperta del plusvalore è una leggenda cui possiamo trovare facilmente un aggancio alla realtà: Stefano Harding, che abbiamo già incontrato come uno dei fondatori dell'Ordine, era inglese. Al tempo dell'invasione normanna del 1066, che fu terribile per i Sassoni come per gli autoctoni, aveva sette anni. Entrato in una abbazia benedettina pochi anni dopo, doveva ricordare le condizioni in cui versavano tutte le abbazie inglesi dopo la guerra: le curtes erano spopolate e il lavoro agricolo veniva svolto quasi completamente da salariati. Quando si incontrò con Roberto a Molesme e seppe dei suoi propositi per un ritorno alla regola di Benedetto con la proibizione dello sfruttamento, forse collegò questi propositi con la sua conoscenza della situazione inglese: per un monaco del XII secolo pagare il giusto salario a un uomo per il lavoro svolto significava equo scambio senza usura, non c'era sfruttamento. Fu lui che scrisse la Charta Charitatis che abbiamo citato, e fu sempre lui che risollevò i monaci dalla delusione di non avere seguaci a causa di una regola troppo severa. La loro sorpresa nel trovarsi un tesoro dopo aver pagato il giusto invece di trovarsi a zero profitto fu forse grande, ma non buttarono via il surplus, lo "investirono" nella rete di abbazie. Guarda caso, quelle fondate in Inghilterra, dove il ricorso al lavoro salariato era maggiore, diventarono le più grandi e ricche, tanto che furono le prime a disobbedire alla regola, eccedendo nel numero di grange e, data la vastità del territorio, contravvenendo al principio secondo cui esse dovevano essere raggiungibili in una giornata di cammino.

Fiere internazionali, mercati cittadini e sovrapprofitto

Per molti secoli, cioè da quando si disgregò la rete logistica romana alla vigilia del Mille, i mercanti ebbero vita difficile, contribuendo non tanto alla chiusura dei mondi medioevali quanto al lievitare dei "costi di spedizione" (anche nel senso di missione, esplorazione). Questo era normale anche durante l'Impero di Roma, tant'è vero che molte ville a produzione specializzata furono impiantate sul luogo di distribuzione. Nella computer grafica di Orbis, il programma che abbiamo utilizzato a sostegno dello schema logistico romano, c'è la possibilità di deformare la rete fisica, basata sulla rete stradale e sulle distanze reali, e visionarla in giorni invece che in chilometri. Il costo dei trasporti fu una maledizione per la storia passata, e non tanto per la mercede che spettava ai trasportatori quanto per il tempo, i dazi, i pedaggi, le perdite per avarìa o per rapina, ecc. Di conseguenza i mercanti si organizzarono in corporazioni di trasporto in grado di offrire una protezione condivisa. Ben presto re e imperatori, constatata l'entità delle perdite e compresa l'importanza della circolazione delle merci, offrirono la loro protezione sui vari tragitti.

Sugli snodi particolarmente frequentati dalle spedizioni dei mercanti sorsero le fiere, centri d'incontro e di smistamento verso i mercati minori. La fiera medioevale si tramutò subito in istituzione protetta dal governo locale. Entro il suo perimetro vigeva una legge internazionale consuetudinaria, non scritta ma condivisa da tutti (lex mercatoria). Una disciplina interna alle corporazioni impediva che fossero venduti troppi prodotti di un certo tipo onde evitarne il crollo dei prezzi. Poiché non era salutare mettersi in viaggio con monete d'oro e argento, le fiere funzionarono da stimolo alla nascita, sviluppo e regolamentazione dei mezzi di pagamento. Fin dall'Alto medioevo una tale funzione fu svolta dai "cambiatori" italiani, che già in quell’epoca si specializzarono diventando monopolisti della cambiale (o lettera di credito, o "pagherò"), gestendo ciò che stava a monte e a valle delle transizioni in fiera, cioè le compensazioni in oro presso le varie sedi (che diventarono banche). Siccome all'inizio i cambiatori erano per la maggior parte lombardi, questo nome rimase alla funzione, anche se chi la svolgeva era magari veneziano, fiorentino o senese. Nella City di Londra la via dei banchieri si chiama ancora oggi "Lombard street".

In Francia, la prima fiera documentata risale all'anno 427 e si riferisce a una zona nella Champagne. Si ha notizia di una fiera a Parigi nel 629. Nel XII secolo le grandi fiere si tenevano in tutta Europa con le caratteristiche ricordate. Esse erano decisamente internazionali, si erano evolute soprattutto nel campo delle materie prime e dei semilavorati, come pellami, spezie, seta, feltri, tele, pietre preziose, arazzi, ecc. Operavano su quelle piazze mercanti di ogni paese, compresi gli italiani. In Italia non c'erano fiere internazionali come quelle francesi e tedesche, forse perché le Repubbliche marinare avevano già il monopolio del traffico marittimo. Si era piuttosto sviluppata una rete meno visibile ma più fitta e capillare di mercati locali, con alcune città cardine dove si formavano i prezzi, e soprattutto si scambiavano materie prime con prodotti finiti, prima artigianali, poi industriali. Nel Medioevo i mercanti italiani erano presenti alle grandi fiere internazionali soprattutto come compratori di materie prime e semilavorati. La vendita dei prodotti finiti era più mirata e avveniva nei più importanti fra i mercati locali. Per i grandi numeri di prodotti vi erano canali specifici, ad esempio Verona era il punto di raccolta per le merci italiane dirette verso la Champagne; un po' come sarebbe successo per i tessuti delle Fiandre nel XIII secolo, per i quali i tessitori si fornivano di lana a Londra e distribuivano il prodotto finito in tutta Europa. Una caratteristica specifica della città medioevale italiana era quella di avere vasti spazi dedicati a un mercato perenne, quotidiano, in genere diviso fra prodotti agricoli (piazze delle erbe) e altri prodotti, dove lo scambio, dall'ingrosso al minuto, produceva una notevole circolazione monetaria di primo livello. È tale circolazione che distingue l'economia di un'epoca e che rende possibile, in quella che stiamo studiando, la generalizzazione del lavoro salariato. Anche Bloch, che è più attento alla storia che non all'economia, registra a modo suo il legame tra velocità di circolazione monetaria e mercificazione della forza-lavoro:

"L'osservazione [sul ritorno delle monete auree] vale sia per la funzione della distanza che per il regime degli scambi. Tuttavia, che al­lora i re, gli alti baroni, i signori abbiano potuto riprendere ad ammas­sare, con le imposte, ingenti tesori, ha fatto sì che il salariato, talvolta sotto forme giuridiche goffamente ispirate ad usanze antiche, abbia ripreso un posto a poco a poco preponderante fra le forme di rimunerazione dei servizi; questi indizi di un'economia in corso di rinnovamento agirono a loro volta, sin dal secolo XII, su tutto il contesto delle relazioni umane" (La società feudale).

I cistercensi, all'inizio della loro pia attività produttiva e mercantile, si trovarono un po' in controtendenza rispetto agli altri ordini in quanto partecipavano alle grandi fiere alla pari dei mercanti internazionali invece di dedicarsi ad una agricoltura locale. E lì videro moltiplicarsi gli effetti della "creazione" di valore. Dato che già in partenza producevano con un differenziale di profitto, portando le merci ad una grande fiera organizzata in modo da impedire il calo dei prezzi, si trovarono forzatamente ad incassare un sovrapprofitto. E tutto sommato si può dedurre una spiegazione abbastanza razionale per il miracolo delle 750 abbazie in un solo secolo. En passant: abbiamo cercato notizie sulle citate rivolte di contadini contro l'insediamento di abbazie o grange cistercensi. Non siamo riusciti ad approfondire le cause, ma le possiamo immaginare: pagando forza-lavoro che produce valore, i santi monaci facevano una concorrenza sleale ai contadini dei mansi, già tartassati dai signori feudali. Vedremo che nel secolo successivo a quello della fondazione, mentre per l'Ordine incominciava il declino, l'imperatore Federico II prenderà a modello la curtis cistercense a grange per una drastica modifica del territorio meridionale.

Strano feudalesimo con economia non feudale

Il fenomeno cistercense non ha dunque nulla di misterioso, anzi, rappresenta una ottima prova della spinta capitalistica entro il quadro anacronistico feudale. La resa agraria nelle grange era ottenuta a prezzo di notevoli miglioramenti del fondo mediante forza-lavoro; in pratica si realizzava artificialmente una rendita differenziale. Quando Marx divide in tre figura del contadino (proprietario, industriale e salariato) la rendita che va al proprietario è sovrapprofitto ripartito, cioè proveniente dall'industriale agrario (ma potrebbe essere tessile, metallurgico, edile). Quando si può affermare che c'è rendita in quanto ripartizione del profitto, allora c'è capitalismo. Questo, dice Marx, è il pons asini che non riescono a superare coloro che immaginano la rendita moderna come immanente alla terra. La regola imponeva ai monaci di non lucrare sulla ricchezza in denaro, e quindi, reinvestendolo nell'attività agricola, si trovarono in regime di "riproduzione semplice". Partecipando al mercato internazionale, incominciarono a partecipare al profitto generale (per esempio fornendo all'industria tessile materia prima che producevano direttamente), quindi la loro rendita in quanto proprietari era senza ombra di dubbio rendita capitalistica. E si ritrovarono in una condizione simile tutti coloro che partecipavano in un modo o nell'altro ai cicli di riproduzione che, iniziando dalla terra, finivano nell'industria.

La Chiesa, con San Tommaso d'Aquino, impiegherà ancora un secolo e mezzo per stabilire che il plusvalore è lecito e non è usura; i cistercensi l'avevano preceduta. Il santo filosofo la prese alla larga e incominciò col dire che per spostare merci dal luogo di abbondanza a quello di scarsità i mercanti erano necessari. Siccome per far questo occorreva valutare bisogni di uomini e disponibilità di beni, il criterio di utilità valeva anche per il fabbricante. Permaneva quindi la condanna assoluta della negotiatio a fini di lucro (usura), mentre si salvava lo scambio di beni trasformati attraverso l'applicazione di lavoro e resi adatti a soddisfare un bisogno. Tale scambio quindi non era legittimo di per sé, lo diventava solo quando compariva il lavoro, quando cioè il plusvalore non era altro che la sua ricompensa.

Lo sviluppo in questo senso fu esplosivo nonostante il freno posto dalle condizioni politiche entro cui avveniva la prima vera riproduzione allargata del Capitale. A parte il caso dei cistercensi, presso i quali il fenomeno pur vasto rimase un fatto isolato, nel XII secolo il resto dell'agricoltura non trovò più uno slancio come quello dei due secoli precedenti. Ulteriori miglioramenti sarebbero venuti solo con la generalizzazione delle invenzioni già descritte, e non modificando le condizioni dei terreni con l'apporto di lavoro e capitale. Si verificò invece un graduale aumento della popolazione che, come prevedono le leggi della demografia, era in ritardo di qualche generazione rispetto ai miglioramenti tecnici in agricoltura. È difficile districarsi fra le varie stime consultate, ma se accettiamo che in due secoli la resa agraria fosse raddoppiata, e che la quantità di terra lavorata non fosse aumentata in proporzione (in effetti c'erano stati solo gli ampliamenti dovuti alla privatizzazione illecita di ager publicus), è abbastanza plausibile che in tre secoli la popolazione dell'Italia fosse passata da 5 a 8 milioni, quella della Francia da 5 a 9, quella della Germania da 3 a 9, quella dell'Inghilterra da 2 a 6. L'inurbamento fu ancora più eclatante, anche perché molte lavorazioni che prima erano connesse ai lavori di manutenzione e di attrezzatura delle curtes adesso migravano in città, portate da contadini che, superando il numero chiuso delle corporazioni, diventarono garzoni e poi mastri di bottega. Per la prima volta da secoli, le città si ingrandirono decisamente. Le corporazioni si aprirono a nuovi membri, salì la produzione industriale e, fatto principale, si verificò una forbice dei prezzi fra quelli agricoli e quelli industriali. L'agricoltura ha un limite intrinseco nelle stagioni, nella quantità di terra disponibile, nella fertilità, mentre la produzione industriale in teoria non ha limiti. I prezzi dei manufatti scesero, quelli del cibo aumentarono. Era capitalismo, non ci sono dubbi. Fu l'inizio di quel processo di mineralizzazione della società che si concluderà negli anni '50 del secolo scorso e che la nostra corrente analizzerà con precisione: negli stessi anni la produzione inorganica del mondo supererà, per la prima volta nella storia della nostra specie, quella organica. Tra il XII e il XIII secolo il processo fu pienamente visibile solo in Italia, nelle Fiandre, a Parigi e in pochi altri luoghi, ma è in Italia che si manifestarono vistosamente i sintomi sociali.

Con la diminuzione dei prezzi manifatturieri i beni autoprodotti o prodotti da artigiani vennero poco per volta sostituiti da merci e una parte della popolazione incominciò a consumare beni che un tempo erano considerarti di lusso, mentre un'altra parte si abbandonava allo sfarzo, tanto da costringere alcuni comuni ad emanare leggi contro il lusso ostentato. Milano raggiunse i 200.000 abitanti, Firenze 100.000. I libri celebrativi della potenza dei comuni non descrivevano più storie di persone ma elencavano cifre. La statistica sostituì la retorica. L'alimentazione del cittadino vide invertite le proporzioni fra carboidrati e proteine rispetto al villico: a Milano e Firenze ogni abitante consumava ogni anno in media mezzo quintale di animali da macello e un quintale di pane, bruciando un carro di legna, ecc. La pressione economica della città sulla campagna si fece enorme e il conflitto fra le classi finì per manifestarsi nell'assetto politico.

È un processo inesorabile. Nel giro di poco tempo, diciamo entro il XII secolo al più tardi, la borghesia cittadina impedisce ai feudatari e agli alti prelati di avere cariche pubbliche. I Comuni sono retti direttamente dalla borghesia che si costituisce in "classe per sé" attraverso un'assemblea di fabbricanti, artigiani e mercanti, elegge una propria magistratura di consoli e si dà un governo. Questi nuovi organismi sono molto aggressivi, com'è aggressiva la classe che li esprime. Tendono subito ad annettere territorio, e in questo sono drasticamente antifeudali. Lo fanno con la guerra ad altri comuni, con l'impiego di denaro per assicurarsi la fedeltà dei feudali, o con il sistema del "feudo oblato". Quest'ultimo è un capolavoro politico: tra due comuni un signore feudale è ormai obbligato a scegliersi l'alleato, a meno di non essere così potente da allearsi direttamente con l'imperatore (e di conseguenza con il comune che lo sostiene contro un altro che lo combatte). In queste condizioni, dona al Comune tutti i suoi diritti di proprietà. Il Comune li accetta in allodio (proprietà completa) e concede al signore il beneficio feudale, lasciandogli il titolo. Il signore diventa vassallo, ha la protezione del Comune "feudatario", continua ad esercitare la sua signoria sulle terre, ma in compenso deve giurare fedeltà militare al Comune, che gli è superiore di rango. È esattamente ciò che succede in tutte le transizioni rivoluzionarie: la società nuova utilizza le categorie della società vecchia per distruggerla. Sembra che molti storici siano concordi nel dire che vi fu un "feudalesimo comunale" (Albertoni e Provero citano un atto notarile con Piacenza; abbiamo trovato sul Web un identico atto con Asti). Naturalmente il feudalesimo non muore con questo, ma è evidente che, in tempi e luoghi diversi, sopravvive a sé stesso senza più alcuna influenza sulla società, come i nobili-zombi che Luigi XVI aveva rinchiuso nella sontuosa gabbia di Versailles, compresi i propri figli. Ad esempio, sempre nel XII secolo a Milano esistono due giurisprudenze, una per le diatribe feudali e l'altra per gli affari milanesi: il Liber feudorum e il Liber consuetudinum mediolani. I legislatori avevano evidentemente notato che i giudici, oberati da litigi e faide prodotti dal complicato sistema di proprietà/concessione feudale, con i signori usavano il metodo arbitrario feudale e con fabbricanti e mercanti si basavan0 sulla consuetudine ambrosiana echeggiante il diritto romano. Così avevano redatto due codici separati.

Il doppio diritto si era evidenziato anche in altri casi, ad esempio quello della cosiddetta "Pace di Dio", che prendeva il nome dal tentativo, promosso da alti esponenti della Chiesa, di mettere un freno alla violenza endemica insita nell'anarchia feudale – faide, duelli, scontri armati fra bande di nobili rampolli – e da molte parti venivano proposte misure drastiche per limitarla. Dice Bloch:

"Alcuni prelati del regno di Arles e l'abate di Cluny se ne fecero, nel 1040 e 1041, i propagandisti presso dei ve­scovi d'Italia: ma, sembra, senza grande successo. La Lorena e la Ger­mania non ne furono seriamente toccate che verso la fine del secolo; l'Italia mai. Le differenze della struttura politica spiegano agevolmente le particolarità di tale sviluppo".

Le differenze di struttura politica, dice l'esperto. Non che l'Italia fosse esente dalla macelleria tra famiglie per il potere e la ricchezza, ma qui un diritto esisteva già prima del feudalesimo ed era certo più efficace delle raccomandazioni dei vescovi. Sul piano del diritto consolidato che genera adattamenti per le variazioni storiche, entro il secolo XIII i comuni italiani eliminarono del tutto il rapporto vassallatico e liberarono i servi, operazione che in contesto di diritto feudale sarebbe stata problematica, mentre in Italia ebbe immediata applicazione, a ulteriore prova che la base economica che contava era mercantile-borghese e non feudale. In molte città era già consuetudine che il contadino venuto a stabilirsi entro le mura fosse automaticamente libero dopo un certo tempo.

Rivista n. 35