L'Italia nell'Europa feudale (11)
Il retroterra storico del capitalismo più antico del mondo

11. Una rete senza relazioni non è più una rete

Lo schema del sistema economico romano salta completamente con le invasioni barbariche. Non di colpo, naturalmente, ma le modifiche sono sostanziali e, anche se vengono utilizzate le vecchie strutture, il sistema nuovo che sostituisce quello vecchio comporta esiti economici e sociali differenti nel confronto, ancora una volta, fra Italia e altri regni. Il sistema romano è rigido. Funziona benissimo, ma rappresenta una rete con legami forti, per cui, se incominciano a saltare troppi nodi, essi non possono essere sostituiti dalla crescita, sviluppo, evoluzione dei nodi a legami deboli. Di per sé la rete sarebbe robusta. Addirittura ha sopportato bene gli spostamenti del nodo-capitale da Roma a Milano, alle capitali della Tetrarchia e a Costantinopoli con succursale a Ravenna. In una rete rigida, in una situazione di caos, con gli invasori che chiedono tributi sottomettendo gli ex padroni del mondo, è però difficile che si possa continuare a tenere sotto controllo il sistema di relazioni. Il feedback con i centri operativi viene meno e chiaramente si manifesta un effetto domino. Se una stazione di posta fondamentale come la mansio viene a mancare, tutto il sistema di comunicazioni e di traffici per lo Stato collassa, trascinando con sé nella rovina anche quel che poteva rimanere della struttura militare. I castra vengono abbandonati, le tabernae perdono la loro funzione, i villaggi si spopolano, le strade si interrano o vengono smantellate per ricavare materiale da costruzione.

Nei regni barbarici fuori d'Italia dove il fenomeno è più vistoso, dato il collasso totale delle città, la rete non sopravvive, l'infeudamento è favorito dall'isolamento. Perdura invece, e anzi diventa il fondamento del nuovo assetto sociale, il sistema di relazioni gentilizio-barbarico. L'industria, che pure era fiorente in alcune aree, decade. Secondo alcuni storici, gli unici centri che mantengono una certa vitalità sono quelli che già erano ai limiti della rete romana, che già erano terra di confine, dove vigeva, sì, la legge romana ma era forte la tradizione germanica. Città come Magonza, Ratisbona, Colonia e persino Londra non avrebbero subito tracolli ma avrebbero continuato a svilupparsi con nuove case, chiese, fortificazioni (Wells). Ciò è dato per dimostrato, ma troviamo poco convincenti le prove a sostegno; ad esempio quelle per Londra evidenziano secondo noi addirittura il contrario. In pratica, scavi abbastanza recenti hanno messo in luce uno strato di terra scura frammisto a resti di discarica, frammenti di ceramica, ossi d'animali, schegge di vetro accanto a blocchi di pietra lavorata posti alla rinfusa, certamente materiale di recupero proveniente da demolizioni. Tutti indizi, si sostiene, di una vivace attività edilizia da parte della popolazione romana, che avrebbe demolito monumenti e costruito case alla maniera tradizionale, cioè a graticciato di legno (di qui la terra scura, risultato della decomposizione del legno come nelle Terramare d'Emilia). Può darsi che sia così, ma il periodo è troppo breve per uno strato così spesso, a meno che non prendiamo in considerazione l'uso di legname non per le case a graticcio, di cui esistono esemplari vecchi di mezzo millennio ancora abitati, ma per capanne e tetti di paglia, che hanno una durata di qualche anno e possono formare uno strato su cui si edifica in continuazione. Inoltre, il crollo demografico nei secoli prima del Mille è testimoniato dalle evidenze archeologiche; può esservi stata qualche eccezione locale di controtendenza, ma appunto locale. Ovviamente il mondo barbarico non poté spegnersi del tutto se Carlo Magno sfoggiò davvero tutto quel ferro lavorato. Leggende a parte, gli eserciti di massa richiedono produzione di massa, ma se i nodi della rete si chiudono non c'è ferro al mondo che possa dare ossigeno a una forma sociale che invece di guardare al futuro pensasse di ripristinare il passato.

I sistemi sono soggetti a perturbazioni… sistemiche

Anche in Italia il collasso generale e multiplo, dell'impero prima, poi dei tre regni barbarici, comportò una regressione profonda. Ma, a differenza di altre situazioni, la forte proprietà allodiale originaria, l'affitto e l'enfiteusi più generalizzati che altrove, e il continuo movimento fra campagna e città di quegli elementi liberi della popolazione dei quali abbiamo accennato, permisero perlomeno effetti mitigati in rapporto al venir meno del potere centrale e del controllo delle reti di produzione e distribuzione. Mentre nel corso del Medioevo centrale in Francia, Germania e Inghilterra sparì del tutto la proprietà allodiale, in Italia si assistette a un lento e importantissimo processo di accumulazione di terre a formare latifondi "dal basso" (Tabacco), fenomeno dovuto alla sopravvivenza di un fiorente e generalizzato mercato della terra.

Vediamo dunque che il passaggio dallo schema romano a quello altomedioevale comportò modificazioni profonde e, in Italia, modificazioni anche rispetto agli schemi che si imposero nel resto d'Europa. Bisogna anche tener conto che in fase di "capitalismo" antico non si sarà potuto sviluppare il Capitale propriamente detto, ma certamente si sviluppò una borghesia affaristica, facilitata nella sopravvivenza dalla separatezza venutasi a creare fra mondo romano e mondo longobardo. Nello schema di figura 11 l'unico elemento che rimane comune al paesaggio economico e sociale pre e post fase longobarda è la città. Ma è un elemento dirompente che altrove non ha la stessa funzione. Il fatto che molti castra si fossero trasformati in città ancor prima di Augusto fece sì che non solo sopravvivesse la città in quanto tale, ma la rete di città, che a questo punto divenne complementare al sistema delle curtes, eredi delle grandi ville rustiche, rendendole permeabili al mercato. Come le ville erano evolute in curtes, così molte mansiones in posizione strategica erano evolute in vici rurali, per cui i nuovi rapporti di produzione, che si stavano precisando precocemente, si rafforzarono plasmandosi sul precedente schema romano. Oltre che in Italia, solo in Provenza l'archeologia ha trovato tracce consistenti di una simile evoluzione (Leveau), evidentemente interrotta dall'avanzare del feudalesimo. Vedremo in seguito che una potenzialità analoga stava maturando in Nordafrica con le grandi fattorie fortificate, che fungevano da mansiones in un nuovo sistema di città di fondazione molto razionale perché nato in genere su progetto. Purtroppo prima dello sviluppo arrivarono i Vandali.

Le mansiones, dunque, o scompaiono o, più spesso, diventano villaggi (vici) nei quali si svolge sia attività agricola che artigianale (spesso metallurgica). Idem per i castra, che quando non scompaiono diventano città. L'unità amministrativa agraria romana del pagus, che riuniva più vici, si estingue. Non bisogna dimenticare che il tremendo calo demografico e la scarsa attenzione dei Longobardi alle questioni di proprietà riguardanti i romani, produsse la liberazione di una gran quantità di terre inglobate nelle proprietà private con la forza, l'inganno e la frode dai latifondisti romani ancora al tempo della repubblica. Ciò significa che i villaggi poterono contare, oltre che sulla terra in proprietà o in qualche forma di concessione, sul ritorno dell'ager publicus, una delle forze economiche principali, che "produce" legname, ghiande, castagne, selvaggina.

La trasformazione schematizzata nelle immagini fin qui utilizzate si completa sotto il segno dell'Impero carolingio, che durò dall'incoronazione di Carlo Magno al Trattato di Verdun, cioè quarantatré anni. In effetti l'impero (figura 26) incominciò a disgregarsi molto prima, e a rigor di logica dovremmo porre la sua fine alla morte dell'imperatore avvenuta nell'814, visto che lo stesso Carlo aveva pensato alla spartizione tra i figli. Comunque non è una questione di date o di personaggi più o meno influenti: di fatto in questo periodo si precisa e si impone un sistema di governo ultra-centralizzato, ma su basi così fragili da non poter opporre resistenza alle pressioni centrifughe non solo della periferia ma del suo stesso centro.

Indubbiamente c'è del progetto nella concezione carolingia dell'Impero, ma di fatto prevale, come dice Duby, la forma spontanea, quella parentale barbarica, che permea la società e l'intero periodo feudale. Al vertice sta l'imperatore, in teoria onnipotente, sommo legislatore e coordinatore dell'umanità cristiana su mandato divino. Alla base, ai diversi livelli gerarchici di obblighi e concessioni, il resto della società. Un progetto antitetico rispetto ai risultati già raggiunti dalla forma sociale, riflesso ad esempio nel complesso palatino di Aquisgrana, la capitale, una sintesi architettonica di strutture e decorazioni romane, bizantine, barbariche e simboliche (soprattutto numerologiche). La sala delle udienze ad Aquisgrana non era soltanto un parlamento imperiale ma un simbolo dell'esercizio diretto del potere, dove l'imperatore in persona amministrava la giustizia di fronte agli interessati. Al lato opposto rispetto alla sala, la cappella palatina, a pianta ottagonale evocante la Gerusalemme Celeste dell'Apocalisse. In mezzo, le strutture di servizio e gli appartamenti imperiali come ad unire il Cielo con la Terra (figura 27). Siamo completamente in un'altra dimensione rispetto alle strutture fondamentalmente laiche del mondo greco-romano, pur fitte di templi, altari, edicole per uno stuolo di dei. Non è un problema di volumetrie o di ricchezza, ma è evidente che il complesso palatino di Carlo Magno, che è un edificio pubblico, ha la struttura di una villa, mentre ad esempio quello di Diocleziano, che è un'abitazione privata, ha la struttura di una città (figura 28). Infatti, non ancora in rovina quando fu occupata dagli abitanti della zona, fu trasformata nell'attuale Spalato, di cui rappresenta l'intero nucleo storico. Volendo, nel palazzo dell'imperatore barbarico potremmo vedere una mansio: un ingresso trionfale conduce a un peristilio attorno a un grande spazio centrale, alla casa del dominus, a un complesso termale. Sono scomparsi, ma c'erano, i magazzini, le stalle, i locali per la servitù. La somiglianza però è del tutto superficiale. Questo non è il nodo di una rete, sia pure il principale, bensì il vertice di una piramide. Quando l'Impero romano incominciò ad avere problemi di centralità, s'inventò una tetrarchia: quattro imperatori e quattro capitali. Ogni capitale divenne mobile, di fatto era quella scelta dagli imperatori per risiedervi. E questi posero la propria sede nella città che permetteva loro di controllare la situazione militare nel rispettivo quarto d’Impero: Costanzo Cloro a Treviri, Massimiano a Milano, Galerio a Sirmio Pannonica, Diocleziano a Nicomedia (quando abdicò si ritirò a Spalato dopo aver festeggiato a Roma vent'anni di governo, la prima e l'unica volta che vide la città). Ciò non servì ad evitare il collasso del V secolo, ma è evidente che la rete della struttura imperiale romana si rifletteva dal basso verso l'alto. Non possiamo sapere se Carlo avesse in mente, con la spartizione ereditaria dell'impero, di emulare la poliarchia di Diocleziano, ma certo egli stava tentando di sostituire una rete materiale di relazioni con una piramide sociale poggiante sul vertice. L'Impero romano del III-IV secolo aveva dimostrato che un grande sistema può funzionare senza vertice ma non senza organizzazione centrale (lo schema del cursus publicus con le strade, gli acquedotti, le mansiones, le ville, ecc.). Il Sacro Romano Impero di Carlo Magno pretendeva invece di funzionare solo con il vertice, senza la rete materiale, sostituita da una gerarchia di obblighi fra persone. La sostituzione del paganesimo con il cristianesimo perfezionò il passaggio dalla rete alla piramide: si può immaginare l'Impero romano senza imperatore e senza templi con il loro stuolo di dei e sacerdoti, ma non si può assolutamente immaginare un feudalesimo senza l'accoppiata imperatore-papa e senza la rete di chiese e abbazie benedette dal dio unico e dai suoi preti.

L'impero che si pretendeva di restaurare non nasceva dall'espressione naturale dello sviluppo economico ma dall'incontro fra le esigenze di tribù barbariche riunite in potente esercito e la Chiesa, che, nell'800, come osserva Machiavelli, aveva assoluto bisogno di una spada. In contrasto con la mistica alto-medioevale del potere, il funzionamento reale dei rapporti fra uomini, eredi della rete di cui abbiamo appena parlato, si basava ovviamente su ciò che di materiale era sopravvissuto del vecchio impero. E in fin dei conti anche l'imperatore, agente per conto di Dio, non poteva far marciare indietro la storia. Se teniamo presente il nostro testo Lezioni delle controrivoluzioni, vediamo che è sempre in gioco la dialettica dello scontro fra ciò che avanza e ciò che frena. Siccome il concetto stesso di controrivoluzione comporta la presenza della rivoluzione, diventa perfettamente inutile stabilire se l'avanzata irresistibile di Carlo è un reazionario affermarsi del feudalesimo o se è invece una rivoluzione del ferro in grado di mettere ordine nei territori sconvolti dall'avanzata barbarica.

Comunque è sotto l'Impero carolingio che si precisa l'economia curtense ed è a fianco di essa che si stabilizza la sovrastruttura vassallatica. Insistiamo nel chiamarla "sovrastruttura" perché lo sviluppo delle condizioni materiali di produzione e riproduzione procede con i suoi ritmi indipendenti rispetto al retaggio politico che continua a influenzare le popolazioni ex barbariche. Probabilmente non ci sarebbe alcuna difficoltà nel definire il feudalesimo se non ci fosse stato questo problema di linguaggio, di sovrapposizione (e quindi confusione) fra struttura e sovrastruttura, fra modo di produzione reale e riflesso di parentele gentilizie, come notavamo all'inizio. Il feudalesimo può essere immaginato come una generalizzazione del regno di Alboino: da una parte il potere, con i suoi cavalli, le sue spade e le sue leggi non scritte; dall'altra il mondo ex romano che andava verso le fabbriche, i libri di conti sempre più spessi e intricati, i denari sempre meno considerati "sterco del demonio" e sempre più benedetti dai ministri di Dio.

Rivista n. 35