Storia di una discontinuità

"La filosofia sta allo studio del mondo reale come l'onanismo sta all'amore sessuale completo" (Marx, Engels, L'ideologia tedesca, III)

"Marx e io siamo stati pressoché gli unici a salvare dalla filosofia idealista la dialettica consapevole e a trasferirla nella concezione materialistica della natura e della storia" (Engels, Antidühring, prefazione del 1885).

"Per me non poteva trattarsi di costruire le leggi dialettiche introducendole nella natura, ma di rintracciarle in essa e di svilupparle da essa" (idem).

Critica alla filosofia

È noto che la nostra corrente, sulla base dei risultati cui erano pervenuti Marx ed Engels, ritenne indispensabile fissare alcuni punti fondamentali per una teoria scientifica della conoscenza. Un ciclo di riunioni del 1960, da noi trascritto da nastri magnetici e pubblicato qualche anno fa, era intitolato "Critica alla filosofia".[1] Ora, in ambito scientifico quello che stiamo per fare si chiama normalmente "comunicazione" (mettere in comune), mentre in ambito filosofico si chiama "lezione" (lettura, insegnamento). L’uso di termini differenti non è frutto di una scelta consapevole, ma si è imposto da sé, a dimostrazione spontanea della natura opposta – almeno in questa che è l'ultima società di classe – delle due discipline. Da una parte si condivide il risultato di una ricerca, l'individuazione di un ordine, di una legge, di invarianze nei fenomeni della natura esterni all'osservatore; dall'altra ci si dispone ad esternare processi che sono interni, prodotti del pensiero immaginati come appartenenti a un superiore ordine di cose, inerenti all'umanità dell'uomo (il termine "lezione" si usa anche per "rimprovero", "castigo"). Sulla conoscenza Marx tagliò corto: a meno di non identificarsi con il processo rivoluzionario, si conosce attraverso il filtro ideologico della classe dominante; da quando le condizioni per una società nuova sono mature, tutto ciò che ha potuto e potrà dire la filosofia lo dice e lo dirà meglio la scienza unificata della rivoluzione per la quale siamo chiamati a lavorare. D'ora in poi, quindi, la vera antropologia non sarà più il pensiero dell'uomo che si crede al di sopra della natura ma sarà un riflesso dell'uomo-industria, cioè dell'uomo che produce e, così facendo, produce sé stesso entro la natura, anzi, in quanto natura.

Fra i vari "marxismi" serpeggia una corrente che accusa Marx di essere un positivista da rivoluzione industriale, un cantore dell'industrialismo quantitativo ottocentesco, addirittura uno scientista che non avrebbe capito la lezione del suo grande maestro Hegel. Prendiamo atto, e non spenderemo una parola di critica, ma adoperiamo questa curiosa ramificazione del marxismo per sottolineare la differenza profonda fra la dialettica della filosofia e la dialettica della natura. Vedremo in seguito che bisognerà intenderci su che cosa significa "dialettica della natura", e sarà un po' come se dovessimo spiegare una "matematica della natura". Soffermiamoci un momento sulla concezione quantitativa della produzione perché dai filosofi si potrebbe pretendere che capiscano almeno ciò di cui parlano. Marx riteneva che la crescita della forza produttiva capitalistica, industriale, cioè la socializzazione produttiva, non fosse che la necessaria premessa per la futura affermazione della forza produttiva umana. Nella teoria del comunismo è compresa la legge della miseria crescente, la quale ci mostra un paradosso logico insopprimibile, quello che porterà alla morte questa forma sociale: la miseria (Marx la intendeva relativa, oggi è anche assoluta) aumenta perché si producono troppe merci, troppi mezzi di produzione, troppo capitale. Il comunismo in divenire è la morte della crescita quantitativa a favore di un equilibrio qualitativo. Questo dato di fatto evolutivo è sotto i nostri occhi, e attribuire a Marx una dottrina positivistica di crescita industriale significa elucubrare con un pensiero autonomizzato[2] invece di trarre dalla realtà, cioè dai dati osservabili e misurabili, le leggi dello sviluppo sociale. La nostra "critica alla filosofia" non è dunque fine a sé stessa – in fondo potremmo continuare a chiamare filosofia una teoria unificata della conoscenza –, è semplicemente un ritorno alle origini, a quando l'uomo non aveva ancora imparato a discretizzare il mondo, soprattutto a separare con un abisso la materia dal pensiero: un ritorno mediato dall'enorme accumulo successivo di conoscenza. Non basta dire, come fanno gli informatici, "prima di mettere in moto la lingua assicurarsi che sia connessa al cervello". Occorre che il cervello sia a sua volta connesso con la realtà fisica del mondo, non sia appeso alle nuvole; che non vada per conto suo producendo opinione invece che teoria utile, effettuale, capace di generare nuova conoscenza. Per dirla con Marx ed Engels, il mondo non è mai cambiato di una virgola a causa di frasi, ma a causa di scienza, invenzioni e cosucce pratiche come ferrovie, telegrafi e movimenti sociali che l'hanno messo sottosopra.

Millenaria affabulazione

Dunque, scientificamente, comunichiamo, mettiamo in comune i risultati di una ricerca, li pubblichiamo quando siamo sicuri che si concatenano a quelli raggiunti da militanti che hanno lottato prima di noi. Quando è possibile scendiamo in campo per le rivendicazioni immediate perché non è possibile separare la teoria dalla prassi, cerchiamo insomma di essere in sintonia con una natura in evoluzione. Questo lavoro ha un suo linguaggio, in parte mutuato dalle origini, in parte prodotto nel corso degli eventi nel tempo. Il linguaggio fa parte della struttura produttiva di una forma sociale, rivela con chiarezza estrema il retroterra ideologico, teoretico, sociale di chi si esprime. Fra poco nessuno, a parte i collezionisti, saprà più che cosa fosse un calibro a nonio, un regolo calcolatore o un divisore meccanico, strumenti che fino a qualche decennio fa erano non solo comuni ma indispensabili alla produzione, e davano origine a un linguaggio tecnico intorno alla loro funzione, al loro utilizzo e alle cose che il loro uso consentiva di produrre. Così nessuno, a parte gli storici della scienza e della filosofia, avrà più la pazienza di spaccarsi il cervello sulle astruserie della filosofia morente, un tempo indispensabile per fare carriera addomesticando gli studenti alla sottomissione verso lo Stato e poi demolita da Marx. Scomparso l'oggetto che il linguaggio deve rappresentare, scompare la necessità di costruire un discorso e soprattutto di trasmetterlo. Gli esperti collezionisti di strumenti antichi, gli specialisti di storia della scienza o i filosofi (finché esisteranno) saranno custodi della conoscenza rispetto a strumenti che non si usano più.

Il linguaggio ha una struttura nata con l'evoluzione della mano e del cervello, per milioni di anni è servito a comunicare dei dati di fatto, per molto meno tempo a comunicare anche astrazioni, cioè discorsi su "cose" che non si trovano in natura ma riguardano relazioni, divenire, calcolo, ecc. Da un tempo ancora inferiore il linguaggio è veicolo di astrazioni riguardanti astrazioni, di frasi che riguardano frasi, di ragionamenti su ragionamenti, come tante mani di Escher che disegnano sé stesse. Quando Marx si trovò nella condizione di conoscere davvero la dinamica del mondo, uomo compreso (e non essere pensante separato con anima, coscienza e mente, giudice al di sopra ogni cosa), dovette spezzare prima di tutto l'autoreferenzialità della filosofia e, così facendo, ne decretò la morte. O meglio, descrisse il processo dinamico attraverso cui la filosofia doveva "negare sé stessa realizzandosi" (cioè raggiungendo la massima potenza speculativa). In migliaia di anni, il divenire dell'uomo aveva comportato il passaggio da una conoscenza unitaria e collettiva della natura alla filosofia, cioè, traducendo letteralmente, all'amore per la conoscenza, coltivato da specialisti che si divisero spesso in scuole perpetuanti il pensiero del maestro e la sua personale concezione dell'universo.[3] Al suo culmine, cioè al tempo di Marx giovane, la filosofia aveva dato tutto ciò che poteva dare. Autonomizzatasi totalmente dal resto della conoscenza del mondo, si era trovata di fronte a un mondo che ne poteva fare benissimo a meno. I tentativi unificanti della filosofia della natura non potevano competere con i risultati rivoluzionari della scienza, e nel giro di un secolo la filosofia scomparve. Ovviamente non scomparvero i filosofi né le scuole filosofiche. Diciamo che la loro unica funzione utile, come diceva Feyerabend, sarebbe stata quella di insegnare la storia della filosofia passata. Oppure, e forse è il dato più significativo, di occuparsi della teoria della conoscenza in relazione al giganteggiare della scienza e della tecnica, alle quali l'uomo sembra ormai asservito. A bene osservare, è evidente che dalla fine dell'800 l'unica filosofia che è riuscita a dire qualcosa di sensato sul mondo è quella detta "della scienza". Era inevitabile: con lo sviluppo della logica, da Peano e Russell in poi, si incominciò a pretendere che le proposizioni riguardanti la natura osservata avessero un senso compiuto, una coerenza interna che non producesse paradossi logici irrisolvibili. Si incominciò a studiare il percorso della scienza e della filosofia piuttosto che le singole tappe. Ci si accorse che, come nell'evoluzione biologica, la conoscenza umana produceva delle singolarità mutanti che si risolvevano in vere e proprie rivoluzioni scientifiche. Le ipotesi andavano verificate o demolite, mai inserite in una teoria in modo aprioristico. E questo l'aveva già detto Newton:

"Questa analisi consiste nel fare esperimenti ed osservazioni e trarre da questi, mediante l’induzione, conclusioni generali, non ammettendo contro di esse delle obiezioni, a meno che non siano derivate da esperimenti o da altre verità certe. Perché nella filosofia sperimentale non bisogna tener conto delle ipotesi. E sebbene il trarre per induzione dei principii generali dagli esperimenti e dalle osservazioni non equivalga a dimostrarli, tuttavia è questo il modo migliore di ragionare che la natura consenta, e può considerarsi tanto più saldo quanto più l’induzione sia generale… Mediante questa analisi possiamo procedere dalle cose composte alle cose semplici, dai movimenti alle forze che li producono e in genere dagli effetti alle loro cause, dalle cause particolari a quelle più generali, fino a giungere alle cause generalissime".[4]

Il linguaggio doveva corrispondere all'oggetto di cui si occupava, ed era meglio esporre e pubblicare solo ciò di cui si era sicuri. Bertrand Russell disse che se Newton avesse subìto le pressioni che subì Galileo, non avrebbe pubblicato niente. Il meccanicismo newtoniano che tanto disturba gli hegeliani ha origine anche in una cautela di questo genere. La ricerca sulle leggi del moto era solo una parte della ricerca di Newton; egli si interessò ai fenomeni vitali cercando di capire ad esempio che cosa succedesse alla materia di un seme che da inerte era capace di germogliare; studiò alchimia e teologia, materie in contrasto con la "sua meccanica" ma le uniche allora disponibili per indagare sui fenomeni che sfuggivano proprio al "meccanicismo". Solo qualche secolo dopo si incominciò a studiare ai confini della meta-conoscenza, cioè a indagare sui processi neurali per scoprire come l'uomo fa a conoscere, che cosa c'è dietro parole come coscienza, mente, pensiero, per cui il linguaggio e la capacità di astrazione permettono di formulare ipotesi da trattare come veri e propri esperimenti mentali (la fisica moderna è piena di esempi in tal senso).

Di fatto, anche raggiunti questi importanti risultati, la maggior parte dei filosofi continuò tranquillamente sulla strada dell'affabulazione, perciò la filosofia non poté far altro che continuare a suddividersi in scuole diverse: c'è chi oggi condanna la scienza per via della brutta fine che ha fatto l'uomo di fronte alle sue macchine, c'è chi esalta il ruolo di queste ultime nell'avanzare della civiltà e del benessere, eccetera. Ma l’approccio filosofico non può che essere di questo tipo. La filosofia privilegia un linguaggio privo di contenuto empirico, che non avrà mai la "prova contraria", né la potrà avere, mentre la scienza si fonda su presupposti che, diventati comuni in seno alla società, sono inconfutabili fino a prova contraria. Non è un caso che il linguaggio filosofico assomigli spesso a una neo-lingua orwelliana più che a un mezzo per farsi capire. Wittgenstein riteneva fondamentale per la filosofia uno studio approfondito sulla logica del linguaggio perché esso in fondo non è che pensiero reso udibile. Citiamolo, ci servirà in seguito:

"Il libro tratta i problemi filosofici e mostra – credo – che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. Il libro vuole dunque tracciare al pensiero un limite, o piuttosto non al pensiero, ma all'espressione dei pensieri. Il limite potrà dunque esser tracciato solo nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso".[5]

Comunque, come abbiamo scritto,[6] oggi è in corso perlomeno un tentativo di unificazione della conoscenza, tentativo per lo più rozzo e mistificatorio, che vede i filosofi scimmiottare gli scienziati e viceversa, ma presente, determinato dai fatti. È già qualcosa, se pensiamo al delirio di un Hegel nella sua critica a Newton o alle fughe della scuola di Copenhagen (interpretazione standard della meccanica quantistica) di fronte al significato che altre scuole danno alla proposizione "realtà fisica". E in una sola frase abbiamo nominato almeno quattro scuole irrimediabilmente separate che però non disdegnano le invasioni di campo e le inversioni di ruolo.

La filosofia divide, la scienza unisce

A proposito di irrimediabili divisioni e invasioni di campo, ci sembra interessante ricordare un episodio della rivoluzione russa. All'inizio del '900 in Russia si era aperto entro il partito bolscevico un dibattito sulla tattica. Una parte del partito, Lenin compreso, sosteneva la necessità di una azione rivoluzionaria che sfruttasse tutte le strutture della società borghese, dalla fabbrica al parlamento; un'altra parte, che fu definita otzovista, dal verbo "ritirare", tendeva a rifiutare ogni compromesso, specie quello della partecipazione alla Duma, e proponeva la preparazione militare come prioritaria. La situazione era paradossale perché gli otzovisti coincidevano in gran parte con gli empiriocriticisti, che invece sul piano filosofico scendevano al livello dell'ideologia borghese. Maksim Gorky, che faceva da mediatore, propose a Lenin di organizzare un seminario di studi nella casa di cui disponeva a Capri. I vari intervenuti avrebbero dato il loro contributo al dibattito filosofico in corso. Era il 1908 e non era ancora stato scritto Materialismo ed empiriocriticismo, ma era già chiaro a Lenin che dal punto di vista teoretico una parte del partito vacillava. Lenin non aveva escluso di recarsi a Capri, dichiarando però che vi sarebbe andato per giocare a scacchi e non avrebbe parlato di filosofia perché essa divide. Questa affermazione è importante. C'è infatti un abisso fra un metodo basato su dati quantificabili (misurabili) che la natura ci regala, e le percezioni soggettive, qualitative (incommensurabili) che permettono soltanto racconti, cosmogonie simili a quelle protostoriche, a volte affascinanti ma prive di significato. I dati della natura, trattati correttamente, ci permettono di scovare leggi sulle quali sviluppiamo teorie, le quali a loro volta ci permettono una conoscenza più approfondita del mondo; le percezioni soggettive, i cervelli autonomi che pensano sé stessi possono produrre solo delle frasi, come dice Marx. Anche i generatori automatici di testo al computer funzionano come cervelli che pensano sé stessi: pescando informazione entro quella che hanno in memoria, costruiscono sorprendenti documenti, in regola con la grammatica e la sintassi, ma che solo apparentemente vogliono dire qualcosa. Tutto ciò che pensa sé stesso cade nel paradosso logico. Bertrand Russell ricordava che Giuseppe Peano ai congressi matematici soleva smascherare i nonsensi logici degli oratori, dopo di che i discorsi diventavano insopportabili.[7]

Torniamo alla filosofia che divide. Questo fattore di divisione è micidiale per il partito rivoluzionario, che ha bisogno certo di messaggi immediati e di passione, ma che senza l'algebra di certezze scientifiche si riduce a megafono propagandistico. Occorre anticipare quello che tenteremo di dimostrare. L'avvento della teoria rivoluzionaria si verifica al culmine dello sviluppo della forza produttiva sociale nel corso di millenni; durante i quali l'uomo ha dato il via, su di sé e sulla sua società, a molti processi di autonomizzazione. Il risultato è che come specie siamo schiavi di fenomeni da noi prodotti e che ormai vivono per loro conto, non li controlliamo più. Tuttavia la caratteristica umana, quella che ci distingue dagli animali, è quella del progetto, di un risultato voluto e previsto nei minimi particolari. Abbiamo dato vita alla società più complessa di tutti i tempi, e invece di conoscerla e dominarla essa ci è aliena e ci domina. Siamo quindi arrivati al punto oltre il quale non è più possibile procedere senza stravolgere i caratteri della nostra specie. Doveva necessariamente nascere la dottrina di un cambiamento epocale, indispensabile per riprendere in mano la situazione, cioè per rovesciare la prassi, progettare, prevedere, eliminare l'anarchia e il caos di quell'economia da giungla darwiniana che è il capitalismo. Tale dottrina era destinata a rompere nel modo più drastico nei confronti di qualsiasi altra dottrina che rappresentasse gli ideali della società morente. La più completa di queste ultime, il più alto condensato di conservazione, era quella hegeliana. Fra le due non poteva esserci contaminazione ma guerra. È falso affermare che la teoria della rivoluzione derivi, rovesciandola, da quella della controrivoluzione. Una nega l'altra, e senza tanti giochetti "dialettici" del tipo "negazione della negazione" e simili. Il sistema di Marx ed Engels non sguazza dentro l'insieme capitalistico, non nega un bel nulla dal punto di vista filosofico e anzi ammette di aver imparato da esso: tale sistema risponde semplicemente a criteri opposti, non è in continuità storica ma in discontinuità catastrofica, e in quanto tale scatta di un livello, non ha più nulla intorno cui confrontarsi per "negare". Mille volte abbiamo invitato i compagni a non cadere in questo tranello micidiale: se si pongono capitalismo e comunismo, con le rispettive teorie della conoscenza e dell'azione, a "lottare" entro lo stesso insieme, si finisce per teorizzare l'unica cosa che possono fare due "tipi logici" entro lo stesso insieme, cioè assomigliarsi. Si incomincia con un inavvertibile scambio osmotico e si finisce col perdere pezzi. E il più delle volte per un difetto d'origine, come affermò la nostra corrente riferendosi al centrismo terzinternazionalista:

"Deviazionismo il vostro?... No, coerenza con il vostro metodo, proseguimento nella storica dégringolade dal comunismo del 1921, dalla linea di Livorno. Uno stillicidio incessante, un ticchettìo di granelli che sfuggono dal sacco, un rotolare di noccioline, uno svuotarsi per quanti impercettibili di energia… Una gonorrea della Rivoluzione".[8]

Dégringolade significa ruzzolone, fallimento, erosione. Ora, questa nostra comunicazione è intitolata "Filosofia, materialismo e scienza: storia di una discontinuità". Non ci sforzeremo mai abbastanza di ribadire il concetto di discontinuità, assimilabile nel nostro contesto, come abbiamo spiegato tante volte, a quello di cuspide, singolarità, catastrofe, biforcazione. Tra il comunismo e la società che lo precede c'è discontinuità, così come dev'esserci anche fra le rispettive concezioni del mondo. Questo tipo di discontinuità non è un prodotto del pensiero dicotomico tipo la Creazione e l'Apocalisse, il Big Bang e il Big Crunch, l'Anima e il Corpo. E nemmeno ha a che fare con i fenomeni di cesura politica, Cesare dal Rubicone alle pugnalate, Napoleone da Austerlitz a Sant'Elena, Hitler dall'apoteosi di Norimberga al bunker di Berlino. È un qualcosa di molto terra-terra, come l'acqua che ghiaccia, l'asse che si spezza sotto un peso crescente, il meccanismo che fa scattare gli interruttori di casa. Anche se qualche filosofo ha usato esempi così casalinghi per dimostrare qualche suo teorema, la grandezza della scienza consiste nello stabilire un'invarianza fra il click sotto le nostre dita per accendere la luce e le cause che fanno franare un monte, eruttare un vulcano, scoppiare una rivoluzione che cambia il mondo. Per il filosofo ognuna di queste piccole o grandissime transizioni di fase sono esempi a sé, utili singolarmente per fare degli esempi o generare delle metafore; per lo scienziato, secondo il principio di induzione matematica, sono tutte la stessa cosa, tutte assimilabili a un fenomeno calcolabile alla stessa maniera.

Quando criticare è annientare

Marx ed Engels, l'uno studente di filosofia del diritto, l'altro un giovane imprenditore, sono chiamati dall'evolversi della rivoluzione industriale a studiare i fenomeni legati al crescere del capitalismo. Annotano le condizioni delle classi e le relazioni fra queste condizioni e il meccanismo produttivo e riproduttivo. Isolano delle invarianze, trovano fenomeni quantificabili, scoprono delle leggi e infine tracciano un grande sistema invariante anch'esso ("traiettoria e catastrofe" delle forme sociali). Se ne togliamo un solo mattone crolla tutto l'edificio. Per fare in modo che stia in piedi, che sia coerente, occorre che ogni sua parte sia relazionata all'altra, se gli operai non lottano in difesa delle condizioni immediate, sale il profitto; se la crescita esponenziale si blocca, il capitalismo collassa in una crisi; se manca il partito, aumentano i tempi della transizione sociale; se si spezza una simmetria, occorre che se ne crei un'altra. Il modello non è assoluto ma dinamico, evolve nel rispetto delle sue invarianze interne, non descrive solo una società, descrive il percorso globale dalla società esaminata a quella successiva. Lungo tutto questo percorso la borghesia stessa è obbligata a lavorare per la rivoluzione, com'è evidenziato fin dal Manifesto del 1848:

"La borghesia non può nemmeno esistere senza rivoluzionare perennemente gli strumenti di produzione, e perciò anche i rapporti di produzione, e i rapporti sociali tutti insieme".

Ci si può chiedere che cosa si può ormai rivoluzionare nel capitalismo imperialistico stramaturo. Dal punto di vista sociale quasi nulla, ma dal punto di vista degli elementi di transizione moltissimo. Per questo Marx insiste sul fatto che il capitalismo ha già dimostrato la sua propria potenziale inesistenza, che è una forma sociale aliena, che

"Se noi non potessimo già scorgere nascoste in questa società - così com'è - le condizioni materiali di produzione e di relazioni fra gli uomini, corrispondenti ad una società senza classi, ogni sforzo per farla saltare sarebbe donchisciottesco".[9]

La forma futura, già anticipata in quella presente, è dunque "altra", non può assolutamente mutuare nulla dal capitalismo, a meno che non si tratti di una prefigurazione di condizioni a venire. E, per favore, siamo seri: la filosofia tedesca non era certo un'anticipazione di forme future.

"Guerra alle condizioni tedesche! Senza dubbio! Esse stanno sotto il livello della storia, sono al disotto di ogni critica, ma rimangono un oggetto della critica, così come il delinquente che sta sotto il livello dell'umanità rimane un oggetto del boia. In lotta con esse, la critica non è una passione del cervello, essa è il cervello della passione. Essa non è un coltello anatomico, è un'arma. Il suo oggetto è il suo nemico, che essa non vuole confutare bensì annientare".[10]

Una simile veemenza, presente in tutto lo scritto da cui abbiamo tratto la frase citata, avrà pure una spiegazione. Il fatto è che Marx ed Engels rappresentarono, con il loro lavoro, nella storia del capitalismo e delle rivoluzioni in generale, la discontinuità che stiamo cercando di dimostrare. Non potevano, se erano in linea con il movimento reale che marcia verso la società futura, e lo erano, lavorare in continuità con il passato tedesco. Con il quale fecero i conti, e ruppero con l'espressione filosofica dello stato feudale prussiano, con l'assolutizzazione del potere e dell'asservimento dei cittadini, con l'ideologia elevata a nuova religione. Questa rottura riguardò non soltanto la materialità della condizione feudale tedesca ma – tutto si lega – anche la conoscenza del mondo che con tale condizione era in armonia.

Ogni livello storico di conoscenza del mondo ha il suo linguaggio; e il linguaggio espresso dalle condizioni tedesche era arretrato di due livelli storici rispetto al comunismo. Occorreva uno sforzo immane per demolire le incrostazioni feudali quando non si erano ancora neppure presentate quelle capitalistiche. Il linguaggio della rivoluzione in corso era quindi appesantito da zavorra passatista, ma se ne sarebbe presto liberato. Non passarono che cinque anni dalla critica alle condizioni tedesche e ai loro sponsor per approdare a quel capolavoro linguistico che è il Manifesto. I fronzoli ideologici, le frasi senza contenuto empirico, i frutti del pensiero autonomizzato sono spariti. Il mondo materiale in corso di rivoluzionamento si rispecchia nel testo disegnando le soluzioni politiche e non viceversa. Da quel momento la rivoluzione comunista si esprime attraverso il linguaggio del suo partito, quest'ultimo inteso "nella sua vasta accezione storica".

Processi di autonomizzazione dappertutto

Il linguaggio può essere anche veicolo di sciocchezze, pettegolezzi, luoghi comuni dell'ideologia dominante, ma in sostanza è un mezzo di produzione. Nulla può essere prodotto senza una massa più o meno grande di informazione trasmessa con il linguaggio orale, scritto, figurato, ecc. Il pacco di disegni e specifiche tecniche a sostegno di un progetto è informazione che vale quanto e più delle macchine che saranno messe in moto per tradurlo in un oggetto. Utilizzare un linguaggio significa inviare ad altri informazione per uno scopo. Da quando l'uomo ha incominciato a trasmettere qualcosa di complesso al suo simile, con qualche segno, con qualche tipo di codice, per migliaia di millenni, il sistema della comunicazione si è sviluppato fino a… trasmettere informazione senza l'uomo, da macchina e macchina. All'epoca di Marx, che fu quella della rivoluzione dovuta al sistema di macchine, di ferrovie e di telegrafi, ciò era già evidente. Con l'armamentario tecnico-scientifico in evoluzione, il linguaggio è diventato un potente strumento amplificatore: si comunicano i dati di un progetto affinché nell'officina un ciclo di lavorazione porti al prodotto finito; si comunicano le posizioni dei reparti di polizia negli scontri di piazza; si comunicano i risultati dello spionaggio industriale e militare. In una società che scambia migliaia di miliardi di dati alla velocità della luce, grandeggia la comunicazione, la messa in comune di tutte le conoscenze che occorrono per far funzionare la società, non c'è più posto per la lezione. Come dice Marx, ogni risultato raggiunto da una nazione è un risultato acquisito per tutte le nazioni. La socializzazione della produzione è un fenomeno che affascia il mondo. Dopo, non c'è più nulla, visto che il Capitale non può colonizzare gli altri pianeti. La singolarità è quindi molto prossima: l'accumulo continuo di fattori di crescita esponenziale cozza sia contro la finitezza del pianeta sia contro la legge della miseria crescente che vede aumentare il divario fra le fasce più ricche e quelle più povere della società. Il Capitale si è autonomizzato a tal punto che i governi, gli stati, gli sono succubi. Sanno bene che piccoli spostamenti percentuali della immensa massa di capitale fittizio (finanziario) comportano la pressione di cifre assolute enormi, che nessuno è in grado di controllare e che possono schiacciare intere nazioni per quanto potenti ed economicamente attrezzate.

Quando Marx parla di autonomizzazione del capitale parla dunque di un sistema di scambi e di produzione di valore che incomincia a funzionare per conto suo, fuori da ogni controllo. Ma quella del Capitale è solo una fra le grandi autonomizzazioni della storia. Il divenire della società umana contro le società di classe ha avuto bisogno di queste ultime, e il trapasso a una società senza classi comporterà necessariamente il ritorno sotto il controllo dell'uomo di quelle caratteristiche oggi autonomizzate o, se non serviranno più, la loro eliminazione. Hanno subìto un processo di autonomizzazione, oltre al Capitale, la famiglia, che da unità riproduttiva del gruppo umano è diventata prima depositaria del potere tramandato per via dinastica, poi nodo sostanziale della rete dei consumi. La proprietà, che priva la collettività dei beni staccandosi dal patrimonio comune. La conoscenza, che da collettiva diventa ristretta a gruppi di élite, per poi trasformarsi in sistema scolastico di Stato dal quale si dirama la filosofia moderna. La tecnologia e la scienza che rappresentano cittadelle inespugnabili asservite al Capitale e per questo tese a garantirgli continue droghe più che a produrre soluzioni a vantaggio della specie. La rete delle infrastrutture, che nel suo complesso rappresenta una riproduzione artificiale del corpo organico con i suoi flussi, i suoi centri nervosi, il suo metabolismo sempre più affidato a sensori automatici. Persino l'attività sessuale si è autonomizzata dalla famiglia e dalla riproduzione biologica per diventare attività fine a sé stessa (oltre che merce, naturalmente).

In tutto questo movimento solo il lavoro applicato alla produzione industriale rimane lavoro socializzato e anzi, si socializza sempre di più, a dispetto dello sfruttamento a favore del capitale autonomizzato. Era inevitabile che, maturate le condizioni per la transizione di fase, alcuni caratteri della società futura si riflettessero in quella presente, e che quindi nel campo della conoscenza si facesse avanti la comunicazione a scapito della lezione; col risultato di far emergere la critica potente alla separazione dei saperi, in primo luogo contro la filosofia, il sapere che più di tutti vive di separatezza e di autonomia. Una società che va verso il comunismo non può tollerare a lungo la socializzazione massima della produzione e la socializzazione minima della conoscenza. Oggi sta diventando normale la ricerca interdisciplinare, e già ci siamo occupati di vistosissimi sintomi di superamento anche di questo passaggio: cresce infatti l'esigenza non solo di far comunicare discipline separate, ma di eliminare la loro separatezza. [11] Nella critica di Marx alla filosofia è anticipata questa spinta materiale. La filosofia tedesca non andava semplicemente sorpassata, andava sostituita. I primi sintomi comparvero nei lavori di Feuerbach. Marx ed Engels li colsero al volo e fecero il balzo in un'altra dimensione. Quasi nessuno lì per lì si accorse del cambio di paradigma, ma il salto avvenuto in poco tempo pervase il mondo. Niente fu più uguale a prima, e anche la lotta di classe scattò al livello superiore, organizzata, internazionale, oggettivamente anticapitalistica.

Trappole dell'Assoluto

La filosofia ha avuto 2.500 anni di tempo per staccarsi dall'oggetto e fissarsi in forma di idea. Si è intrufolata nella scienza moderna, che ne ha solo 400, combinando sconquassi epistemologici, ma il linguaggio della rivoluzione, prendendo le distanze dagli inquinamenti ideologici, si è fatto scientifico. La "critica alla filosofia" non ha più ammesso il confronto e il dibattito fra teorie contrapposte ma ha preteso una conoscenza condivisa entro un insieme specifico, quello della classe rivoluzionaria. Tuttavia, con l'acqua sporca non si è buttato anche il bambino: tutta la conoscenza precedente è venuta a far parte del patrimonio conoscitivo, per cui la base di lancio verso la società futura si è allargata enormemente rispetto a quella delle rivoluzioni precedenti, che non di rado mandavano i libri al rogo, cioè negavano il loro stesso percorso.

Ricondotta la conoscenza in ambito scientifico, diventava necessario, come in scienza, trattarla come un corpo unitario. Non esistono una fisica, una matematica o una chimica materialiste, così come non esistono materialismi fisici, matematici o chimici. In ambito scientifico le conoscenze acquisite e condivise non generano tesi o teorie in contrasto, non diventano oggetto di dibattito, cioè di confronti di opinioni. Fino a che non ci si sposta ai confini della conoscenza, dove la ricerca è ancora in corso, le leggi non sono ancora verificate e le teorie sono ancora diverse l'una dall'altra, in scienza si ha a che fare con entità misurabili, confrontabili, matematicamente trattabili. Si è insomma nel campo delle certezze utilizzabili, almeno fino a che esse non sono superate da nuovi paradigmi. In scienza non esiste una teoria del movimento e della gravitazione universale per Newton e una differente per Hegel: o una delle due è sbagliata, o sono sbagliate tutte e due; non possono essere corrette entrambe. Naturalmente è corretta quella quantificabile e matematizzabile, non il guazzabuglio di sciocchezze partorite dal puro pensiero. Eppure, da quando esiste, la filosofia si è tramandata nel tempo con la certezza che potessero convivere innumerevoli teorie del mondo. Quello che dice Newton lo si può leggere in qualsiasi manualetto di fisica, tutti possono capire di cosa si tratta e possono verificare con esperimenti, concreti o virtuali. Quello che dice Hegel, se mai è uscito dalle università, lo si può solo interpretare, e soprattutto sui suoi contenuti nessuno potrà mai fare esperimenti o calcolare qualcosa. Concediamo per adesso il beneficio del dubbio sulle parti del sistema che riguardano entità qualitative, interpretabili (appunto) da ognuno come vuole e per loro natura non criticabili con gli argomenti consueti della scienza. Ma sulla parte "scientifica" non ci sono santi: non esiste. È vero che una parte del sistema è dedicata alla filosofia della natura con capitoli sulla fisica, ma essa tratta di enti, concetti, idee come nel resto del sistema:

"Come si è visto, nel concetto di gravità sono contenuti ambedue i momenti: di essere in sé stesso e di continuità che nega l'essere in sé stesso. Questi momenti del Concetto, come forze particolari corrispondenti a una forza attrattiva e a una forza repulsiva, sono soggetti al destino di essere concepiti più strettamente come una forza centripeta e una forza centrifuga che, come la gravità, agiscono sui corpi ed essendo indipendenti l'una dall'altra e in modo accidentale, devono cozzare in una terza entità, il corpo".[12]

Possiamo immaginare la reazione di un fisico di fronte a elucubrazioni del genere. Vedremo in seguito che non è il caso di sorridere. Al momento limitiamoci ad osservare che affermazioni come quella riportata, sulla meccanica assoluta, come la definisce l'autore, non vogliono dire assolutamente nulla. E poiché le leggi della gravitazione e della fisica vengono trattate come tutto il resto, di fronte a un sistema che si definisce (ed è) invariante, se cade una parte cade il tutto. Eravamo partiti con il beneficio del dubbio, ma se la parte filosofico-filosofica è trattata con il metodo applicato alla parte filosofico-scientifica, allora senza ombra di dubbio l'intero sistema è totalmente privo di significato empirico, di per sé non apporta alcun tipo di conoscenza se non, forse, agli studiosi del linguaggio. Per Hegel la Terra è il centro dell'Universo, come non fossero esistiti Copernico, Galileo, Newton, Laplace. Il cielo stellato è "un'eruzione cutanea del corpo organico… non ha dal punto di vista filosofico, l'interesse che ha per la sensazione [perché] la molteplicità negli spazi immensi non dice nulla alla ragione".

Se di per sé il sistema è inutile, ha comunque un'enorme importanza il fatto che sia stato escogitato. Ha un'enorme importanza che il mondo in movimento verso la società futura abbia partorito, tramite l'arretratissima Germania, la summa millenaria della Filosofia, la realizzazione del Sistema Assoluto, il monumento al Pensiero Filosofico. Non poteva succedere in Italia: nella patria di Galileo l'Assoluto era già stato sostituito dal Relativo.[13] Non poteva succedere in Francia, dove l'Assoluto sarebbe stato minato dal pensiero enciclopedico e soprattutto dal rivoluzionario impulso scientifico che produsse il sistema unificato di misura. Non poteva succedere in Inghilterra, dove la rivoluzione industriale digeriva meglio carbone e acciaio che non Assoluti filosofici. Doveva succedere in Germania, dove l'arretratezza economica e politica non avrebbe interferito sulla completezza mirabile del sistema dell'Assoluto, e soprattutto dove uno scapestrato studente di filosofia del diritto avrebbe potuto sviluppare una negazione totale, un sistema opposto, altrettanto invariante, altrettanto completo, il Non-Assoluto storico materialistico.

Continuo e discontinuo, catenarie e cuspidi

Le prime avvisaglie della rivoluzione filosofica (o meglio: anti-filosofica) giunsero con Feuerbach. Marx ed Engels lo affrontarono nel primo capitolo dell'Ideologia tedesca e, più che glossarlo o criticarlo, l'adoperarono per tracciare uno schema comprensivo di ciò che egli non aveva ancora potuto dire. Lo schema, potente e dirompente rispetto al passato, si strutturò su di una dinamica storica entro la quale l'uomo vive, produce, consuma, si riproduce. Mai la filosofia aveva affrontato questa dinamica, ed era ora di farlo. Feuerbach era il traghettatore dal sistema dello Spirito Assoluto a quello della Rivoluzione materiale in corso. Egli conduceva al Punto di approdo della filosofia classica tedesca, anzi, al punto di approdo della filosofia tout-court. Nelle Tesi su Feuerbach Marx aveva scritto che la filosofia si era limitata a dare delle interpretazioni del mondo e che ora il problema era di cambiarlo. Ma non l'avrebbe cambiato la filosofia. Al contrario: il mondo, sottoposto al "movimento reale che abolisce lo stato di cose presente", avrebbe cambiato la filosofia. O meglio, l’avrebbe uccisa per far nascere al suo posto lo storico Partito del Rovesciamento della Prassi. Il suo programma non era filosofia e neppure scienza com'era intesa dalla filosofia positivista di allora.[14] Era un qualcosa di mai visto, un qualcosa che si poneva non in continuità con quello che precedeva ma in rottura totale. La socialdemocrazia tedesca, cresciuta nel gradualismo democratico della II Internazionale, concepiva la storia del Partito come una catena con tanti anelli: Fichte, Schelling, Hegel, Feuerbach, Marx. Con la III Internazionale le cose andarono decisamente peggio, e il simbolo della catena infine degenerata al massimo grado fu l'oleografia cinese con la sfilza Marx-Engels-Lenin-Stalin-Mao. Questa rappresentazione ad anelli concatenati è sbagliata. Il percorso della filosofia in due millenni e mezzo non è affatto lineare come suggerisce l'immagine della catena, ma assomiglia piuttosto a un albero che affonda le radici nella conoscenza collettiva del comunismo originario e getta ramificazioni che si sviluppano o si interrompono.

Catena

A questo punto il lettore ci permetta di emulare Engels con uno schema. L'immagine della catena ci fa venire in mente una curva conosciuta che si approssima alla parabola e che fu descritta per la prima volta da Galileo. Essa fu chiamata in seguito catenaria ed è "disegnata" ogni volta che si fissano le estremità di una catena lasciando penzolare quest'ultima per effetto della gravità (figura 1). È un curva continua ma, tracciando una serie di tangenti e unendo i tratti perpendicolari ad esse, otteniamo una curva discontinua (tractrix), che presenta al suo apice una cuspide, una singolarità, una discontinuità. Si può dire allora che non è più possibile individuare una tangente oppure, ed è la stessa cosa, che per quel punto passano tutte le tangenti possibili.[15] Non c'è bisogno di spezzare materialmente la catena per ottenere una discontinuità; affinché cambi la natura della curva è sufficiente introdurre qualche ragguaglio supplementare che faccia comparire una curva nuova. Le immagini che ricaviamo sono semplici ma cariche di informazione. Memorizziamole perché ci serviranno man mano affronteremo il problema della demolizione di Hegel da parte della scienza che avanza, nel momento stesso in cui Marx ed Engels mutuano dal suo lavoro l'aspetto dialettico, rovesciandolo.

CateneFigure 2 e 3.
CurveFigure 4 e 5.

Soffermiamoci sul metodo dialettico "di Marx" che per lui e per noi è non solo diverso ma in antitesi con quello "di Hegel". Ricorriamo all'immagine della catena, nella condizione di simil-parabola che rappresenta una curva continua, cioè la pretesa continuità Hegel-Marx, maestro-allievo, tramite l'anello di congiunzione Feuerbach (figura 2). Nel punto di detta congiunzione (P) scattano determinazioni di forza sufficiente a far cambiare lo stato del sistema, fino a quel momento soggetto solo alla gravità, uniforme su tutta la curva. La quale adesso si tende assumendo la forma di due segmenti di retta uniti in un vertice (figure 3 e 4, P1).

La perturbazione giunge quando la filosofia classica tedesca è al suo apice ("punto di approdo"), mentre esplode la rivoluzione industriale, si diffondono le nuove "scienze positive" e diventa chiaro il conflitto società morente/società nascente. La catena è sempre la stessa, ma la curva da "catenaria" diventa "altro" (figura 3). Engels direbbe che siamo di fronte sia a una "negazione della negazione" che a una "unione degli opposti". Andiamo avanti: seguendo la catenaria con una matita senza perturbare la curva, abbiamo visto che tracciamo una simil-parabola, da un estremo all'altro (f-f1). La curva è aperta. Nella nuova condizione, con i due segmenti che convergono al punto, se tentiamo di muovere la matita tenendo i segmenti in tensione, non possiamo far altro che tracciare una ellisse, cioè una curva chiusa (figura 5). Con la stessa materia abbiamo ottenuto una simil-parabola, una cuspide, e una ellisse, tre forme apparentemente incompatibili sotto diversi aspetti. È dunque possibile, per Marx, adoperare la dialettica "di Hegel" con metodo opposto per ottenere risultati opposti. La rottura non è nella dialettica, conosciuta anche dagli antichi, è nell'uso che se ne fa. Da questo punto di vista la discontinuità fra la dottrina della rivoluzione e la filosofia è netta, precisa, inequivocabile.

Marx non era un filosofo e non fondò una nuova scuola filosofica. Trovò le leggi che soggiacciono alle transizioni e studiò a fondo quelle dell'ultima, dal capitalismo al comunismo. Non avrebbe potuto rappresentare una continuità, seppure emendata o anche "rovesciata", come si suol dire a proposito del metodo dialettico di Hegel rimesso sui piedi invece che poggiante sulla testa. Non avrebbe potuto rovesciare un bel niente, tantomeno una legge evolutiva del cambiamento attraverso rivoluzioni, per la semplice ragione che Hegel non prendeva in considerazione le teorie dell'evoluzione; anche se ammetteva i risultati delle ricerche degli evoluzionisti, le considerava come classificazioni senza valore conoscitivo, perché guardare per esempio agli strati di roccia classificandoli dal più antico al più recente, era come guardare una casa a più piani e dedurre banalmente che era stata costruita a partire dal pianterreno. La natura hegeliana era conservatrice, solo il pensiero era creativo:

"Del cambiamento astratto nella storia, preso a sé, abbiamo da molto tempo il concetto generale secondo cui vi è un progredire verso il meglio, verso il più perfetto. Ma in natura i mutamenti, per infinitamente molteplici che siano, manifestano solo un moto circolare, che si ripete sempre: in natura non accade nulla di nuovo sotto il Sole, e in tal senso il gioco dei suoi fenomeni, pur così multiforme, porta con sé una certa noia. Solo dai mutamenti che hanno luogo sul terreno spirituale nascono novità. Tant'è vero che in tale ambito si attribuì all'uomo una natura e finalità diversa rispetto a quella delle cose meramente materiali, in cui si manifesta sempre la stessa nota, un carattere stabile per sempre che assorbe ogni mutamento, e nel cui ambito il mutamento stesso s’include come qualcosa di subordinato".[16]

Era una saccenteria senza fondamento e persino puerile dopo che la scienza con Lamarck, e persino la filosofia con Kant, avevano acquisito che la natura è soggetta a dinamiche evolutive.[17] Marx si ribella a questo modo di filosofare simile a quello della religione. Mentre il mondo cambia, eccome, i filosofi e le loro filosofie comunicano solo fra di loro. Essi trasmettono all'esterno del loro ambito solo ciò che elaborano all'interno, per questo sono morti di fronte a un mondo che è oggettivamente in transizione continua specialmente sotto l'effetto della produzione socializzata; cosa della quale ai filosofi e alle filosofie non importa nulla. Quando Feuerbach smaschera i fondamenti della filosofia, cioè la produzione di proposizioni discorsive che non hanno attinenza con la natura in quanto tale, lo fa con un enunciato che è un programma: la filosofia è una disciplina che fa confusione fra oggetto e soggetto. Engels preciserà che anche Feuerbach, non scorgendo la relazione fra soggetto e oggetto nella dinamica della produzione e riproduzione materiale (non si possono separare i due elementi dell'attività umana) si comporta da filosofo e conserva il dualismo. Lenin, con la sua consueta mancanza di pazienza, taglia corto: la filosofia è una disciplina senza oggetto e non può essere confusa con la scienza.

La filosofia divide perché, in quanto soggetto senza oggetto, è costituita da un insieme di elaboratori individuali di informazione… individuale, cioè non condivisa, anzi, ritenuta di livello superiore proprio in quanto espressione dell'individuo più o meno geniale; la scienza unisce perché il soggetto è semplicemente un "detector" che raccoglie informazione dall'oggetto mettendola a disposizione, condividendola, per la sua elaborazione, che a questo punto è fenomeno collettivo. Va da sé che anche la scienza produce idee "private", congreghe, correnti e dibattiti. Solo che la filosofia non può che essere così, mentre la scienza è passibile di metamorfosi.

Infatti, che mai poteva fare Marx se non opporre a una disciplina senza oggetto una disciplina con oggetto? La filosofia si è autonomizzata rispetto alla natura e al lavoro umano. Anche la scienza ha incominciato a filosofare ormai da secoli, ma rimane una disciplina con oggetto. E siccome mancava una scienza della trasformazione di una società ormai disumana in una umana, doveva nascere chi se ne occupasse (Marx, Engels o chiunque fosse): e l'oggetto sarebbe stato, appunto, la natura con la nostra specie nello stesso insieme, e non idealisticamente, metafisicamente, da un'altra parte, che poi voleva dire al di sopra. La filosofia non poteva farcela a trasformarsi fino a quel punto, a riportare l'Uomo e il suo Pensiero al livello della materia in trasformazione. E non poteva che lasciare il posto a qualcosa di nuovo. Ma prima aveva un ultimo compito da svolgere, quello finale, decisivo.

Mondi in collisione

Il lettore ricorderà quando poc'anzi ci siamo chiesti cos'avrebbe pensato un fisico di fronte alle frasi senza senso di Hegel, rispondendo che comunque non era il caso di sorridere con sufficienza. Hegel, nonostante tutto, è il portavoce di un'esigenza storica, quella di elaborare un sistema teorico compiuto. Giusto o sbagliato che sia, è un sistema, un modello del mondo che risponde a regole precise. Sarà senza oggetto, o meglio il proprio oggetto è sé stesso, e la logica ci dice che ciò porta a paradossi irrisolvibili, ma è comunque un sistema. Al quale non si poteva che opporre un anti-sistema. C'è ora da chiedersi perché ciò fosse indispensabile. Come mai la Rivoluzione in corso condusse due "massimi sistemi del mondo" ad affrontarsi, irrimediabilmente nemici, per annientarsi? La risposta ce la dà la nostra corrente: quando maturano tempi in cui si scontrano grandi concezioni del mondo, c'è sempre sullo sfondo lo scontro fra modi di produzione, quello vecchio che muore, quello nuovo che nasce e abbatte barriere:

"In conclusione la dialettica ci serve sia per esporre quanto la ricerca analitica ha assodato, sia per distruggere l'ostacolo delle forme teoretiche tradizionali. La dialettica di Marx è la più potente forza di distruzione. I filosofi si affannavano a costruire sistemi. I rivoluzionari dialettici distruggono con la forza le forme consolidate che vogliono sbarrare la via all'avvenire. La dialettica è l'arma per spezzare le barriere, rotte le quali è rotto l'incanto della eterna immutabilità delle forme del pensiero, che si svelano come incessantemente mutevoli, si plasmano sul mutamento rivoluzionario delle forme sociali".[18]

Engels, nell'opuscolo su Feuerbach sottolinea la grandezza dell'evento in modo curioso ma logicamente ineccepibile. Egli incomincia col far notare che dopo Hegel i suoi continuatori non sono che dei botolini abbaianti incapaci di scorgere nel profondo del sistema hegeliano "tesori impagabili che conservano ancora oggi tutto il loro valore" (e lo scrive in corsivo nel testo, tanto per farsi capire in ragione di quel che dirà dopo). Il gran sistema è quindi al di sopra della possibilità di comprensione dei suoi stessi propagatori. La necessità di rimuovere tutte le contraddizioni per tendere alla verità assoluta è un'impresa immane che, se riuscisse, porterebbe dritto-dritto alla fine della storia universale. La qual cosa è impossibile perché la storia non è sopprimibile, neppure se al suo interno non restasse nulla da fare. Il tentativo di eliminare contraddizioni porta dunque a contraddizioni di livello superiore. È qui che la filosofia non ce la fa proprio più. La ricerca della verità assoluta non significa altro che attribuire alla filosofia, rappresentata da un filosofo, una capacità che solo l'intero genere umano può affrontare, e solo in un processo storico di progressivo sviluppo.

"Non appena scorgiamo questo, la filosofia intera, nel senso che si è dato finora a questa parola, è finita. Si lascia perdere la 'verità assoluta' e si dà la caccia, invece, alle verità relative accessibili per mezzo delle scienze positive e della sintesi dei loro risultati a mezzo del pensiero dialettico. Con Hegel ha fine, in modo generale, la filosofia".[19]

Se siamo al punto in cui un filosofo sente l'impulso di "creare" un sistema completo basandolo sull'esasperazione dell'Idea come motore dell'Universo, vuol dire che siamo all'apoteosi della filosofia, alla sua fase suprema oltre alla quale per la filosofia stessa non c'è più nulla. Se infatti il sistema fosse onnicomprensivo ed esaustivo in sé, se un unico uomo riuscisse a compiere un lavoro del genere, allora vorrebbe dire che davvero la filosofia avrebbe realizzato sé stessa annichilendo non soltanto la scienza ma anche tutte le correnti materialistiche della stessa filosofia. Un sistema che desse davvero la spiegazione di tutto renderebbe la filosofia una dottrina inutile, perché il primo presupposto della filosofia è che ce ne siano tante, una sola sarebbe un'altra cosa, probabilmente una religione.

Il sistema di Hegel non resse alla critica di Feuerbach nonostante avesse prodotto numerose infatuazioni. Non era dunque un sistema dell'Assoluto, ma molto più terra-terra un sistema come gli altri, solo molto più farraginoso ed esoterico a cominciare dal linguaggio. La sua riuscita avrebbe ucciso la filosofia, ma la sua non-riuscita effettiva l'ha uccisa due volte. La prima, perché comunque un tentativo del genere, riuscito o no, coerente o meno, comprensibile od oscuro, è l'ultimo possibile in ambito filosofico, essendo impostato deterministicamente, come risultato di un percorso millenario, al fine di conquistare la condizione di nec plus ultra del percorso stesso. La seconda, perché la pretesa di dare risposte sui fatti della natura in base a un sistema formale esaustivo e onnicomprensivo è quella della scienza, la quale però procede per approssimazioni successive, anche se punteggiate da balzi rivoluzionari. Competere con la scienza accampando Idee, Concetti e Assoluti è come suicidarsi. D'accordo, ci sono stati filosofi come Benedetto Croce che consideravano la scienza più o meno come il manuale per l'uso della tecnologia, utile, ma incapace di innescare processi ermeneutici, di amplificare conoscenza. Di fatto il mondo va avanti con la scienza, la tecnologia e le macchine; le "frasi" dei filosofi non fanno neppure da lubrificante. Filosofi che, tra l'altro, sono anche incapaci di comprendere lo stretto legame fra la scienza che criticano e il contesto capitalistico, il quale piega ogni conoscenza alle leggi del profitto. Sarà banale, ma non esiste una "scienza" neutra, al di sopra delle classi e dell'ideologia dominante.

Il caterpillar della storia

Nel citato opuscolo Engels tratteggia l'importanza del sistema di Hegel per poi dimostrarne l'avvenuto superamento al punto di svolta rappresentato da Feuerbach. È in tale contesto che tratta Feuerbach come "anello di congiunzione" fra Hegel e Marx. In un altro paragrafo lo rimprovera di essersi sbarazzato di Hegel in quanto inservibile. È ovvio che se c'è congiunzione c'è continuità. E se non ci si deve sbarazzare dell'oggetto criticato è perché in qualche modo è ancora utile. Perciò sembra problematico mettere d'accordo Marx ed Engels, dato che il primo fa i conti con Hegel già da studente, e comunque riassume la sua avversione nel 1843 con la Critica alla filosofia hegeliana del diritto; mentre il secondo, ancora nell'opuscolo citato, che è del 1888, traccia di Hegel un'apologia, seppure a scopo di demolizione (e con un caterpillar assai potente). Su questo genere di osservazioni rischiamo di perderci nei meandri delle filosofie "che dividono", perché oltre a coloro che ritengono Marx un positivista ottocentesco antihegeliano, vi sono altri che ritengono Marx continuatore materialista di Hegel (addirittura Lenin s'era un po' infatuato di una tesi del genere). Naturalmente non mancano le versioni opposte riferite a Engels, quindi è meglio ribadire che siamo per quello che consideriamo un dato di fatto, cioè per la rottura totale di Marx ed Engels, insieme, non solo rispetto a Hegel, ma a tutta la filosofia classica tedesca (il titolo completo dell'opuscolo in questione è: Ludwig Feuerbach o il punto d'approdo della filosofia classica tedesca) e alla filosofia in generale. Vediamo in sequenza come avviene la demolizione della filosofia tramite il malcapitato Hegel. Marx diciannovenne scrive al padre il suo programma di lavoro:

"Avevo letto frammenti della filosofia di Hegel, la cui grottesca melodia rocciosa[20] non mi era piaciuta. Volli ancora una volta tuffarmi nel mare, ma con la ferma intenzione di trovare la natura spirituale al­trettanto necessaria, concreta e saldamente conchiusa di quella fisica".[21]

Dunque il giovane Marx legge Hegel, non gli piace e ritorna alla ricerca di un qualcosa che unifichi la "natura spirituale" con quella fisica, considerata "necessaria (determinata), concreta e saldamente conchiusa". Evidentemente, data la contrapposizione, considerava la natura spirituale in contraddizione con le certezze scientifiche e voleva tentare una sintesi unificante filosofia-scienze fisiche. Una volta fallito il tentativo, ritorna sui suoi passi e legge tutto Hegel e la maggior parte dei suoi discepoli. Riesce a sopravvivere e finisce in un club di dottori hegeliani che però mettono in discussione il loro stesso maestro trattandolo da "cane morto". Nonostante avesse deciso di sfuggire alla filosofia che andava per la maggiore, di fronte all'insipienza degli allievi si lega saldamente a Hegel. Tuttavia si sente fuori posto e per il momento l'unica reazione è una irresistibile ironia. Leggiamo quanto scrive:

"Avevo letto dal principio alla fine Hegel, insieme alla maggior parte dei suoi discepoli […]. Capitai in un club di dottori […]. Qui nelle discussioni si manifestarono parecchie opi­nioni contrastanti, ed io mi legai sempre più saldamente all'attuale filosofia del mondo, alla quale avevo pensato di sfuggire. Ma ogni armonia si era ammutolita, e fui preso da una vera smania di ironia".[22]

Sappiamo come andò a finire. Qui ci interessa annotare la precocità dell'insoddisfazione di fronte al metodo filosofico, dicotomico rispetto alle altre forme di conoscenza che riguardavano il mondo fisico. Molto più tardi, in una delle prefazioni al Capitale, Marx critica indirettamente la filosofia che enuncia principii e teorie considerandoli realtà, mentre la scienza procede in modo inverso:

"Il modo di esporre deve distinguersi formalmente dal modo di indagare. L'indagine deve appropriarsi nei particolari la materia, analizzarne le diverse forme di sviluppo e scoprirne i legami interni. Solo dopo che questo lavoro sia stato condotto a termine, si può esporre in modo adeguato il movimento reale". [23]

L'indagine è condotta sulla natura materiale; l'esposizione è una elaborazione per mezzo del pensiero per comunicare ad altri ciò che si è trovato. E siccome non lo si può esporre atomo per atomo, occorrono degli espedienti per astrarre dalla realtà pur rispettandola integralmente. Occorrono cioè degli schemi, dei formalismi, degli algoritmi che, una volta introdotti, sono delle vere e proprie "macchine per conoscere". Precisato questo, Marx affronta il metodo dialettico, che molti considerano mutuato da Hegel. Senza togliere nulla al presunto maestro filosofo, Marx comunica semplicemente che la "sua" dialettica non è la stessa:

"Per il suo fondamento, il mio metodo dialettico non è soltanto diverso da quello hegeliano, ma ne è l'antitesi diretta. Per Hegel, il processo del pensiero, che egli trasforma addirittura in un soggetto indipendente sotto il nome di Idea, è il demiurgo del Reale, che costituisce soltanto la sua apparenza fenomenica o esterna. Per me, al contrario, l'Ideale non è che il Materiale, convertito e tradotto nella testa dell'uomo".[24]

Ma come, è spontaneo chiedersi, ci sono dunque due o più dialettiche? Ritorniamo a Marx giovanissimo, alla sua tesi di dottorato (1841). Engels ha modo di spiegarne a un interlocutore il metodo di ricerca. Hegel, considerato il padre della dialettica moderna, non si accorge della dialettica di Epicuro e lo tratta con disprezzo rimanendo alla superficie del suo pensiero. Marx sorvola sul sistema e mostra il contenuto più importante, che è nella struttura dialettica del sistema epicureo:

"Quando gli domandai se Marx fosse mai stato un hegeliano in senso stretto, Engels mi rispose che proprio la sua tesi di dottorato sulle differenze fra la dottrina di Democrito e quella di Epicuro dimostrava che Marx rivelava già una completa indipendenza da Hegel proprio nel suo modo di applicare la dialettica hegeliana. Hegel si era sottratto al compito di ricostruire la dialettica immanente nel sistema di Epicuro, limitandosi a una serie di considerazioni sprezzanti sul suo sistema. Marx invece aveva compreso la vera dialettica del sistema di Epicuro, nella sua struttura […]. Engels mi spiegò lungamente la differenza che egli vedeva, da questo punto di vista, tra Marx, che manifestò immediatamente la sua indipendenza da Hegel, e Lassalle, che non riuscì mai a sottrarsi a un atteggiamento da discepolo nei confronti di Hegel".[25]

La questione non è affatto secondaria né semplice. Nella sua tesi Marx, contro tutti i critici di Epicuro, sostiene che il filosofo introduce un arbitrario movimento composito degli atomi per superare l'impossibilità di evoluzione del sistema Leucippo-Democrito. Se gli atomi "cadessero" in linea retta senza incontrarsi mai, non avrebbero potuto formare il mondo. Se invece si muovono, cozzano, si respingono, allora possono rappresentare la complessità delle forme in divenire. I critici dicono che il sistema è arbitrario perché, mancando la causa del moto composito, esso presuppone una specie di volontà negli atomi. Marx comprende che la declinazione dell'atomo è un esperimento mentale per risolvere le insufficienze della stabilità "rettilinea" dei primi atomisti. Hegel e Cicerone non se ne accorgono, Lucrezio sì e Marx collega questo fondamentale assunto a tutta la costruzione teorica di Epicuro. Lo scrive nella prefazione: "Credo di aver risolto in [questo lavoro] un problema della storia della filosofia greca rimasto finora insoluto". Immodestia giovanile? Mehring nella biografia sottolinea l'arditezza della dissertazione e conclude con la solita osservazione: l'allievo ha superato il maestro.

Un filosofo potrebbe trovare normale tutto ciò, in fondo è un cultore e fautore di interpretazioni del mondo. Scientificamente parlando, c'è invece qualche problema. Riassumiamo lo scenario appena descritto:

a) Hegel filtra la dialettica di Epicuro attraverso la sua propria;

b) Marx filtra la dialettica di Epicuro attraverso il rovesciamento della dialettica hegeliana e in tal modo scopre vera dialettica di Epicuro;

c) ci sono due dialettiche (quella di Hegel e quella di Epicuro);

d) ci sono due modi per applicare quella di Hegel: 1) da parte dello stesso Hegel; 2) da parte di Marx che la "rovescia".

Tuttavia Marx afferma[26] che il proprio metodo dialettico non è soltanto diverso da quello hegeliano ma ne è l'antitesi diretta. Per noi ciò vuol dire semplicemente che Marx confuta Hegel adoperando Hegel (come Galileo confutò Aristotele adoperando Aristotele), e che in seguito ne diventa l'antitesi. Sappiamo che in anni successivi la dialettica materialista fu codificata secondo schemi ancora diversi, sui quali ovviamente non tutti, filosofi o no, erano d'accordo, ma che in URSS fu addirittura elevata a filosofia di stato, insegnata nelle scuole. Quando la nostra corrente si cimentò con la definizione di "dialettica" partì dal presupposto di confrontarla con la scienza e i risultati furono assai diversi rispetto ai canoni della liturgia tardo-sovietica:

"La dialettica per noi in tanto è valida in quanto l’applicazione delle sue regole non viene contraddetta dal controllo sperimentale. Il suo impiego è certamente necessario, poiché dobbiamo pure trattare i risultati di ogni scienza con lo strumento del nostro linguaggio e del nostro ragionamento (sussidiato dal calcolo matematico). La dialettica, cioè, è uno strumento di esposizione e di elaborazione, nonché di polemica e di didattica, essa serve alla difesa contro gli errori ingenerati dai metodi tradizionalisti del ragionamento e per raggiungere il risultato, assai difficile, di non introdurre incoscientemente nello studio delle questioni dati arbitrari basati su preconcetti. Ma la dialettica è a sua volta un riflesso della realtà e non può pretendere per sé stessa di obbligarla o di generarla. La dialettica pura non ci rivelerà mai nulla di per sé stessa".[27]

Come si può notare, qui l'argomento è blindato contro interpretazioni permissive rispetto alla filosofia. Intanto si pretende il protocollo scientifico della verifica sperimentale; poi, ripreso il problema dell'esposizione attraverso il linguaggio, si richiede l'ausilio del calcolo per non cadere in errori soggettivistici; infine si afferma che la dialettica di per sé a nulla serve se non è inglobata in una teoria generale della conoscenza. La dialettica, ovviamente, qualunque cosa sia, non è responsabile dell'uso filosofico che se ne fa. Vedremo fra poco quanto sia difficile anche soltanto pretendere di "sapere che cos'è".

A che cosa mira la critica alla filosofia

Torniamo un momento alla tremenda critica di Marx contro la filosofia tedesca. Passato un secolo e mezzo, è chiaro che, con un minimo sforzo di traslazione, possiamo togliere l’aggettivo e riprendere le stesse critiche. Se nella Germania di allora la borghesia era talmente arretrata da affidare la propria visione del mondo alle mezze classi bottegaie e codine, oggi siamo nella condizione, spostata nel tempo ed estesa nello spazio, di avere una borghesia intenta a spremere profitto dalla scienza senza farsi troppi problemi di epistemologia, e quindi assenteista per quanto riguarda la produzione di teorie, attività lasciata in monopolio alla piccola borghesia, che in questo campo ci sguazza.

Dunque la "critica alla filosofia classica tedesca" diventa "critica alla filosofia" e basta. Ma perché prendersela con la filosofia? Non abbiamo di meglio da fare? Se la filosofia è come l'onanismo, se la cultura della frase non ha mai mosso nulla nelle vicende sociali, se ormai è in pensione ed è impotente di fronte alla scienza persino quando fabbrica teorie di pura conservazione del capitalismo, lasciamola perdere, che sparisca, si disciolga entro le scienze come in effetti ha incominciato a fare (con effetti tossici, bisogna dire), e non se ne parli più.

Percy Snow, l'autore de Le due culture,[28] critico della separatezza fra discipline scientifiche e umanistiche, non aveva dubbi: negli anni '50-'60 del Novecento affidare paesi moderni, industrializzati e potenti ad avvocati, letterati, filosofi che riempivano i parlamenti e formavano i governi, non era solo insensato ma pericoloso. In fin dei conti c'erano in giro tante testate nucleari quante ne bastavano per distruggere svariate volte l'intero pianeta. Non è però questa la preoccupazione nostra, tanto più che i tempi sono cambiati, soprattutto dal punto di vista della funzione di governi e parlamenti, istituti da palcoscenico in un teatro dove il vero potere del Capitale manovra dietro le quinte. Questo, come annotiamo spesso, non è più il tempo in cui lo stato controlla l'economia; oggi siamo nel vero capitalismo di stato, cioè l'epoca in cui l'economia controlla lo stato. Quindi i sedicenti protagonisti non contano nulla e potrebbero benissimo essere tutti droghieri o tutti professori di estetica o tutti avvocati che nessuno sentirebbe la differenza rispetto a un parlamento fatto di fisici, matematici e ingegneri.

Il vero pericolo è un altro, e consiste nell'ambiente che il filosofare contribuisce a formare, come se di problemi non ce ne fossero già abbastanza con le varie infiltrazioni opportunistiche entro la classe rivoluzionaria. Il fatto che un Lenin abbia incominciato a studiare la filosofia per scrivere un libro di filosofia (Materialismo ed empiriocriticismo) contro certi filosofi, e soprattutto contro i loro seguaci in Russia, è molto significativo in questo senso. Egli si dilunga enormemente sui contenuti inquinanti della filosofia che prende in esame, entrando nel merito, facendo esempi, infervorandosi. Insomma, lasciandosi coinvolgere. Questa ci sembra una buona prova della potenza negativa della filosofia, se è in grado di far scendere sul suo terreno un panzer rivoluzionario del suo calibro:

"Professori e ordinari, tutti coloro che si dicono filosofi, cadono, più o meno, malgrado la loro libertà di pensiero, nei pregiudizi, nella mistica… Tutti costoro non formano che una massa reazionaria. Occorre, per seguire il buon cammino senza lasciarsi smontare dalle assurdità religiose o filosofiche, studiare la più falsa delle vie false, la filosofia".[29]

Il combattente Lenin, lo stesso che attribuiva all'opportunismo nientemeno che la capacità di frenare la rivoluzione, quando arrivò a Hegel si prese un colpo di sole e proclamò che non si può capire Marx se non si legge la Scienza della logica di Hegel. Naturalmente non è vero. Si scandalizzi chi vuole, ma per capire Marx è sufficiente qualche buona nozione scientifica di base: che cos'è una legge fisica, come si articola una teoria, che cos'è una formalizzazione, come si relazionano tra loro vari insiemi. Quando filosofia e scienza erano ancora la stessa cosa, Galileo scrisse la sua opera maggiore in "volgare" e non in latino affinché tutti potessero accedere al contenuto ("per nostra filosofica militia"). Anche quando filosofia e scienza erano ormai separate da un pezzo Marx evitò, scrivendo per la pubblicazione, il linguaggio filosofico, che pure padroneggiava alla perfezione. Invece leggere Hegel è quasi impossibile se non si possiede la chiave interpretativa del suo linguaggio; figuriamoci leggerlo per capire Marx. L'abbiamo visto: Marx ed Engels, con il loro lavoro, avevano rappresentato una rottura; ogni riferimento al loro passato da quel momento è diventato arbitrario:

"M'è parso che si rendesse sempre più necessaria una esposizione breve, sistematica, dei nostri rapporti con la filosofia hegeliana, della nostra origine e del nostro distacco da essa. E allo stesso modo, un riconoscimento pieno ed intero dell'influenza esercitata su di noi da Feuerbach più che da tutti gli altri filosofi successivi a Hegel".[30]

Quarant'anni prima, Marx aveva precisato, nei Manoscritti del 1844, che Feuerbach criticando Hegel aveva criticato tutta la filosofia:

"Feuerbach è l'unico che si trovi in un rapporto serio, in un rapporto critico con la dialettica hegeliana ed abbia fatto in questo campo vere e proprie scoperte: in generale è il vero superatore della vecchia filosofia. La grandezza della sua opera e la semplicità senza chiasso con cui Feuerbach l'ha offerta al mondo, stanno in uno stupefacente contrasto col procedimento inverso degli altri. Il grande contributo di Feuerbach consiste: 1) nell'aver dimostrato che la filosofia non è altro che la religione ridotta in pensieri e svolta col pensiero; e che quindi bisogna parimenti condannarla, essendo una nuova forma, un nuovo modo di presentarsi dell'estraniazione dell'essere umano; 2) nell'aver fondato il vero materialismo e la scienza reale, facendo del rapporto sociale 'dell'uomo con l'uomo' parimenti il principio fondamentale della teoria; 3) nell'aver contrapposto alla negazione della negazione, che pretende di essere l'assolutamente positivo, il positivo che riposa su se stesso ed è fondato positivamente su se stesso".[31]

Guarda guarda: Marx contro una delle fondamentali "leggi" della dialettica. Riprenderemo il discorso, anche se naturalmente si può dire, con Engels, che non è possibile confutare la filosofia senza fare della filosofia;[32] per cui non se ne esce se si accetta il confronto. Infatti occorre collocarsi altrove ed affermare semplicemente che il metodo della filosofia è incompatibile con quello utile allo sviluppo del partito rivoluzionario "nella sua larga accezione storica". Mettersi a confutare il personaggio Hegel o qualche suo seguace potrebbe essere interessante, ma di dubbia utilità. Il problema non è ciò che dice la filosofia, ma il fatto stesso che esista quella "cosa" che chiamiamo filosofia. Non importa se allo stadio di zombie in pensione, come ha affermato la nostra corrente, o viva e vegeta come afferma la maggior parte dei filosofi attuali (immaginiamo per scaramanzia, dato che la crisi della filosofia rischia di renderli disoccupati).

La caparbia presenza della filosofia dimostra che è ancora forte l'individualismo contro ogni altra condizione collettiva, dalla socialità del lavoro produttivo alla elaborazione scientifica, dalla critica effettuale nei confronti della società capitalistica alla formazione dell'anti-società (partito) che ci proietterà in quella futura. Ed è inutile aggiungere l'aggettivo "marxista" al sostantivo "filosofia": per quanto sia stato usato ed abusato, persino da Lenin, esso è incompatibile, a meno di non partecipare all'orgia degenerativa autonomizzante dei vari "marxismi", magari uno per ogni individuo che si proclama seguace di Marx. Come succede in filosofia, appunto. Se con Marx c'è stata quella rottura che abbiamo tentato di evidenziare, non c'è mai stata una "filosofia marxista" né potrà mai esserci senza ricorrere a pesanti falsificazioni. Si è verificato invece un fenomeno importante, che è l'influenza prodotta da quella che si crede sia la filosofia marxista sulla filosofia in generale. L'effetto di questa cooptazione arbitraria è stato gigantesco e irreversibile: la filosofia, da Marx in poi, non sarà mai più la stessa.

E veniamo alla dialettica

Lungo il percorso della conoscenza umana scienza e filosofia sono giunte al punto di farsi concorrenza, l'una invadendo il campo dell'altra, senza riuscire a produrre una sintesi di livello superiore, generando anzi confusioni micidiali, al limite della mistificazione. Alla ponderosa voce "Hegel", nella monumentale Storia del pensiero filosofico e scientifico curata da Ludovico Geymonat, [33] Enrico Rambaldi[34] così descrive la disastrosa influenza filosofica dell'hegelismo sullo sviluppo scientifico:

"Il vero motivo del completo distacco fra l'hegelismo e la scienza moderna va cercato… in una distorsione che investe il centro stesso del pensiero hegeliano. Trattasi in primo luogo dell'interpretazione che tale pensiero fornisce alla razionalità… La scienza mancherebbe ai propri scopi se non fosse in grado di dedurre la totalità dei fenomeni naturali, come il numero dei pianeti del sistema solare o il numero dei sensi dell'organismo umano… Hegel non ha capito il carattere delle conoscenze scientifiche e perciò non ha potuto contribuire al loro progresso… Il secondo motivo della frattura creatasi fra Hegel e la scienza moderna va cercato nel ricorso che egli fa alla deduzione dialettica, come strumento essen­ziale per l'attuazione del programma intransigentemente razionalistico da lui assegnato al pensiero umano… Il suo clamoroso fallimento, l'inconsistenza della deduzione 'dialettica' di tutto l'universo, hanno dimostrato che tale aspirazione era profondamente ingannatrice: era una tentazione da cui l'autentica scienza doveva guardarsi. Il mancato coraggio, da parte di parecchi filosofi, di respingere questa tentazione con la stessa sincerità con cui la respingevano gli scienziati, ha segnato uno dei punti di più grave frattura tra pensiero filosofico e pensiero scientifico".

È in questa luce che occorre capire come Hegel potesse rivendicare la scientificità del suo sistema:

"La vera forma nella quale la verità esiste può essere soltanto il sistema scientifico di tale verità. Collaborare a questo compito, avvicinare la filosofia alla forma della scienza – affinché essa possa deporre il suo nome di amore del sapere per essere sapere reale – è quanto mi sono proposto".[35]

Prima ancora che Marx ed Engels "rovesciassero" questo sistema, la conoscenza scientifica, pur con le remore del positivismo, aveva sottoposto l'hegelismo ad eutanasia. Mancava soltanto il medico legale per chiarire le cause del decesso. Vediamo con l'esempio di un conosciutissimo testo engelsiano come fu eseguita l'autopsia e quali conclusioni se ne traggono.

La summa hegeliana sulla metafisica ontologica (cioè legata all'essere e non risultato di un percorso epistemologico, di un divenire della conoscenza) è intitolata Scienza della logica. Questo tipo di scienza è del tutto coerente con le premesse: è un percorso di approssimazione a quella che Hegel chiama Verità, non è la verità stessa ma un amore per essa. Il filosofo ha il compito di trasformare una tendenza in realtà. Hegel insomma chiama "scienza" un qualcosa di completamente diverso da ciò che ognuno di noi sa, anche in modo estremamente parziale, sulla scienza, che allora si chiamava "filosofia della natura" e, più tardi, "scienza positiva". La dialettica di Hegel riguarda il mondo delle relazioni in divenire a livello del pensiero; la dialettica di Marx (se accettiamo che vi possano essere due o più dialettiche) riguarda il mondo delle relazioni a livello della natura materiale, mondo che comprende l'uomo operante. Da una parte l'autocoscienza del pensiero che diventa effettuale, dall'altra una natura dalla quale il pensiero si forma come effetto per diventare a sua volta effettuale. Questo processo, che si è costretti a trattare scendendo in parte sul terreno linguistico dell'interlocutore virtuale, è lo stesso che guida Engels nel magistrale frammento dal brutto titolo Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia.[36] Qui il linguaggio può liberarsi dalla camicia di forza in cui lo imprigiona la filosofia per diventare piano, descrivere la realtà e non sostituirsi ad essa. Il percorso della nostra specie, da australopiteco a homo sapiens, è caratterizzato dall'interazione fisica e biologica fra l'attività produttiva, lo sviluppo della mano, del cervello e del linguaggio. Lungo questo percorso l'uomo diventa capace di progettare il proprio ambiente, gli oggetti e gli strumenti che gli servono, persino alcuni aspetti della società. Ma tale grande trasformazione ha ancora bisogno di un ultimo passaggio: dall'abominevole preteso dominio sulla natura, per così dire "esterno", al consapevole controllo delle condizioni che permetteranno all'uomo di essere e pensarsi come un tutt'uno con la natura. Il passaggio sarà permesso dalla scienza come l'intendevano Marx ed Engels e non come l'intendeva Hegel:

"Delle idee non possono mai condurre al di là di un vecchio stato di cose; esse possono solo condurre al di là delle idee sul vecchio stato di cose. Di fatto delle idee non possono realizzare nulla. Per realizzare le idee occorrono gli uomini che impieghino una forza pratica".[37]

Non siamo solo di fronte a una incompatibilità insanabile e irreversibile, di fronte a due universi paralleli: le strade convergono verso uno scontro epocale per la vita o la morte. Marx era informatissimo sulle vicende filosofiche e scientifiche, ma dal momento in cui si dedicò al Capitale lasciò ad Engels il compito di sistemare le questioni relative alla filosofia. Engels dal canto suo cercò sempre di far rientrare la filosofia, con la quale civettava assai più di Marx, in una generale teoria della conoscenza (questa fu infine la definizione della nostra corrente per la ricerca non-filosofica intorno all'attività cerebrale della nostra specie). Le sue due opere fondamentali sull'argomento sono l'Antidühring[38] e Dialettica della natura.[39] La prima ha un taglio decisamente filosofico, la seconda è una ricerca di carattere scientifico su un aspetto particolare della natura, la sua intrinseca dialettica. Non ci dedicheremo alla critica – sempre di moda – di un Engels meno marxista di Marx. Per l'uso cui erano destinati, i due testi vanno bene così. Nel contesto di ciò che stiamo esponendo, però, sarebbe interessante verificare se per quanto riguarda la dialettica c'è stata effettiva rottura con la filosofia, hegeliana o meno. Si può rispondere sì, no, dipende. Prima di tutto Marx ed Engels riconoscono che Hegel rimette in carreggiata la dialettica che la filosofia aveva trascurato o neppure capito. In secondo luogo criticano la filosofia loro contemporanea, specie la "hegeleria berlinese", perché non è in grado di utilizzare quel risultato acquisito.

Infine si propongono di farsi carico del problema e traggono dal sistema dialettico hegeliano un metodo completamente nuovo. Engels spiega che filosofia e scienza erano giunti a un bivio: la prima, appunto, con la dialettica metafisica; la seconda con le varie teorie e ipotesi non provate. La filosofia si era arenata, la scienza aveva eliminato le sue proprie scorie e si era sviluppata:

"La dialettica hegeliana sta alla dialettica razionale come la teoria della sostanza calorica sta alla dottrina meccanica del calore, come la teoria flogistica sta a quella di Lavoisier".[40]

L'espressione è da intendere in tutta la sua effettiva gravità: il calorico e il flogisto erano residui dell'alchimia, e a fine '800, in pieno positivismo scientifico, ogni paragone con queste "categorie" non era troppo gentile.

L'Antidühring è del 1878, piuttosto in là negli anni rispetto alla discontinuità con Hegel. La Dialettica della natura, che rimarrà incompiuta, risultava ancora in corso d'opera nel 1883, data della morte di Marx. L'impostazione filosofica del primo testo si rivela, a un esame attento, una incrostazione non necessaria. Lo stesso Engels se ne accorge e in qualche caso lo dice, come nella celebre pagina sulla negazione della negazione, con il seme che nega sé stesso germogliando ecc. ecc. Il secondo testo pone problemi maggiori, che si possono in parte superare conoscendo alcune chiavi di lettura. Una ce la dà il brano seguente:

"Tanto la scienza che la filosofia hanno finora trascurato completamente l'influsso dell'attività umana sul suo pensiero: esse conoscono soltanto la natura da una parte e il pensiero dall'altra. Ma il fondamento più essenziale e immediato del pensiero umano è proprio la modificazione della natura a opera dell'uomo, non già la natura in quanto tale, e l'intelligenza dell'uomo crebbe nella misura in cui l'uomo apprese a modificare la natura". [41]

"Cristallino Engels" come disse la nostra corrente. Non mistifica, parla come pensa, e se qualche volta filosofeggia o scade nel positivismo lo fa da lavoratore, facendo trucioli e schegge per ricavare un oggetto ben rifinito. Nel passo citato c'è una rottura con Hegel, con la filosofia in generale e con lo scientismo positivista, una rottura totale con le categorie concettuali che informano i vari campi della conoscenza, specialmente con il meccanicismo e il dualismo tra pensiero/mente e natura. È soprattutto la filosofia che fa di questa separazione il suo campo di battaglia, mentre la scienza della prima metà dell'800 (quella che Engels conosceva), pur non sostenendosi sui dualismi, trascurava l’influsso della prassi sociale sul pensiero, e del pensiero sulla prassi, raffigurando la natura come una realtà oggettiva in cui le interazioni erano accidentali o secondarie.

L'interazione fra uomo e natura, fra pensiero e materia, l'effetto di molteplici feedback, come diremmo oggi, specie per quanto riguarda il lavoro umano, ovvero la trasformazione della materia come si trova in natura, fa di quest'ultima una "realtà problematica" poco formalizzabile anche con le formule discorsive della filosofia. Perché l'interazione dà luogo a fenomeni non lineari tipici della complessità e del caos. È chiaro che per Engels l'attività umana di trasformazione della materia (o dissipazione di energia) comporta una perturbazione entro quello che era il decorso della natura prima che l'uomo imparasse a interferire significativamente. Egli prefigura allora un futuro rovesciamento di situazione: fino ad oggi le attività umane seguono ancora l'andamento "naturale", cioè sono per la maggior parte spontanee anche se sono espressione di una società organizzata. Per complessa e organizzata che sia, infatti, la società capitalistica è in gran parte anarchica, governata dalla legge della giungla, dall'evoluzione darwiniana. Ma con lo sviluppo della forza produttiva sociale e la rivoluzione che vi è collegata, le attività umane saranno sempre più sotto controllo. Si realizzerà, cioè, quello che Marx chiamava passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Passaggio che la nostra corrente ha precisato con potenti schemi e che ha chiamato rovesciamento della prassi. Bisogna aggiungere che, nel testo citato, Engels strapazza quegli scienziati che odiano la filosofia. Se lo sviluppo umano ha avuto bisogno del linguaggio e dell'astrazione, dice, è anche grazie alla filosofia che l'uomo ha imparato a padroneggiarli. Perciò la scienza non imiti la filosofia inventandosi insensate dicotomie.

Premesso un minimo di contesto, vediamo come Engels affronta il problema della dialettica in rapporto a Hegel, a Marx e alla natura. In Dialettica della natura, al capitolo dedicato specificamente alla dialettica, Engels appone un cappello: "Natura generale della dialettica da sviluppare come scienza dei rapporti in contrapposizione alla metafisica". È una indicazione di metodo, ed è opposta a quella che abbiamo appena visto in Hegel, un programma svolto a cominciare dalle celebri tre leggi:

1) conversione della quantità in qualità e viceversa;

2) compenetrazione degli opposti;

3) negazione della negazione.

L'enunciato principale è:

"Le tre leggi sono leggi reali dell'evoluzione della natura, perciò sono valide anche per la ricerca scientifica".

Nel testo Engels inizia a sviluppare il discorso partendo dalla prima, ma il manoscritto poi si interrompe. Tuttavia non ci manca nulla di ciò che ci permette di proseguire, e lo ricaviamo da altro abbondante materiale pubblicato. Di questo capitolo utilizziamo la citazione sopra riportata e la chiara affermazione del "rovesciamento", del ricorso alla dialettica hegeliana con metodo opposto rispetto a quello di Hegel:

"Se noi capovolgiamo la cosa, tutto diviene semplice; le leggi della dialettica, che nella filosofia idealistica appaiono estremamente misteriose, divengono subito semplici e chiare come il sole. Chi del resto conosce anche solo per un poco il suo Hegel, sa pure che egli, in centinaia di passi, trae in singoli casi dalla natura e dalla storia le prove più convincenti per dette leggi".[42]

Le tre leggi della dialettica. Tre?

Abbiamo già accennato al fatto che nell'antichità classica, come in civiltà precedenti, scienza e filosofia, al di là dei termini, combaciavano. Il processo di autonomizzazione venne relativamente tardi e non si impose in modo lineare. Prima esistevano cosmogonie ovviamente senza autore, molto più tardi incominciarono a fissarsi dei nomi di persona legati ai luoghi e a scuole (milesia, eleatica, alessandrina, ecc.). Da quel momento in poi filosofia e scienza incominciarono a dividersi giungendo alla separazione totale agli albori del capitalismo. Non mancarono ovviamente i tentativi di riunificazione, il più grandioso dei quali fu quello degli enciclopedisti francesi, che riunirono filosofia, industria, scienza, arti e mestieri in un insieme unico (fisicamente nei 35 tomi dell'Encyclopédie; a dire il vero, la filosofia non c'era nel titolo, anche se compariva nelle voci).

La filosofia, autonomizzata o no, fa parte del bagaglio di conoscenze della specie, ci è utile, persino nelle sue forme idealistiche estreme, metafisiche. Senza la filosofia classica tedesca e le sue propaggini tardo-hegeliane Marx non avrebbe potuto affilare "l'arme della critica annientante". Lenin esagera quando asserisce che senza leggere Hegel non si può capire Il Capitale, ma ha ragione se con questo vuol dire che Marx non è una creazione dal nulla, con tutto quel che segue, rovesciamento, cuspide, singolarità, biforcazione, discontinuità e tutta una "concezione dell'Universo", come affermò la nostra corrente nel 1926 in critica a Gramsci. E nel 1950:

"Il marxismo pone la questione della filosofia in modo originale e in tal senso si rifiuta di farsi allineare tra le varie filosofie elencabili storicamente, o peggio ancora sistematicamente. Non diremo quindi che vi è una filosofia marxista… [ma non si deve] credere che il marxismo si ponga su un terreno 'estraneo' a quello che i filosofi hanno da millenni ipotizzato".[43]

Millenni, appunto. Abbiamo anche detto che potremmo continuare a chiamare "filosofia" tutto ciò che riguarda una teoria rivoluzionaria della conoscenza, tuttavia è meglio non fare confusione, visto che la nostra stessa corrente ha sottolineato la discontinuità piuttosto che il semplice rovesciamento. A questo punto, vediamo come Engels procede nell'utilizzo delle categorie dialettiche hegeliane per traghettarle nel sistema marxiano. L'operazione non riesce perfettamente ma le difficoltà non intaccano la netta discontinuità con la filosofia. Le tre leggi della dialettica vengono prelevate così come sono dal regno del pensiero e, con un copia-incolla, immesse nel regno della materia. Procedimento che non sarebbe coerente con il programma di ricerca di Marx, il quale contempla l'apertura scientifica e perenne del "suo" sistema in contrapposizione alla chiusura metafisica di quello hegeliano (il nec plus ultra quando si fosse raggiunta la Verità assoluta una volta per sempre). È come se Marx ed Engels parlassero all'unisono sul superamento drastico di un universo per poi esprimere il dato di fatto con linguaggi differenti.

In effetti Engels, per ricorrere ancora all'analogia computeristica, esegue un copia-idea e incolla-materia, cioè preleva dall'origine un testo con una certa formattazione, lo rilascia in un traduttore automatico chiedendo al programma di convertire in altra lingua e mantenere la formattazione d'origine. Il risultato, come tutte le traduzioni automatiche, non è gran che. In compenso la formattazione è la stessa, e ciò provoca confusione suggerendo un marxismo filosofico. Comunque, tradotto o non tradotto, il testo copiato-incollato verte intorno alla dialettica. Il termine ha assunto significati così diversi e contrastanti che per adoperarlo occorre prima dichiarare che cosa si vuol fare, in quale delle accezioni lo si vuole adoperare. Incominciamo a riportare la definizione più sintetica che abbiamo trovato, quella che dà Hegel della "sua" dialettica:

"Applicazione scientifica della conformità a delle leggi, inerente alla natura del pensiero… La vera e propria natura delle determinazioni dell'intelletto, delle cose e in generale del finito".[44]

Come al solito non è facile decrittarne il senso, ma ci proviamo: la dialettica sarebbe l'applicazione scientifica di un qualcosa che dev'essere conforme ad alcune leggi, un qualcosa inerente alla natura del pensiero. In tal modo diventa essa stessa la natura di ogni cosa. Questo ci aiuta a capire l'operazione di Engels sia nella critica a Dühring, sia nella Dialettica della natura: la ricerca della dialettica nelle manifestazioni della natura è così ossessiva perché dovrebbe portare alla chiave per la comprensione di tutti i fenomeni. Sarebbe un'ermeneutica a disposizione della scienza. A noi questo modo di procedere sembra una variante materialistica della marcia verso l'Assoluto. Fortunatamente Engels non si limita a tradurre Hegel, ma, come nel caso ricordato del divenire umano a partire dalla "scimmia" e in tanti altri, copia e incolla Marx pari-pari, senza filosofeggiare.

Non dimentichiamo che la nostra indagine è indirizzata a chiarire se la teoria della rivoluzione in corso tratteggiata da Marx ed Engels è davvero una discontinuità rispetto alla filosofia il cui corso storico termina in Hegel. Le "traduzioni" di Engels sono coerenti con questo assunto? Da notare che qui non ci serve sapere se Engels è più o meno hegeliano di Marx o se trova davvero la dialettica nella natura. Molti si sono dedicati a questo esercizio e il logico matematico Van Heijenoort,[45] ad esempio, ha dimostrato che dal punto di vista fisico-matematico Engels ha scritto banalità non sempre corrette. È vero, chiunque può controllare; e allora? Il compito vero per noi è dimostrare che non c'è nessuna continuità, nessun anello intermedio di una catena continua, nessun "discepolo di Hegel" che possa dirsi rivoluzionario comunista; che ci sono invece anticipazioni, saggi della società futura già nella società attuale, e che tali anticipazioni hanno preso corpo prima di tutto in una teoria unitaria delle transizioni rivoluzionarie, compresa la prossima. Da questo punto di vista gli "errori" di Marx ed Engels, la loro presunta caduta vuoi nell'hegelismo, vuoi nel positivismo scientista, non hanno nessuna importanza. Teniamo presente che, dato lo scenario fatto di esseri umani, la condizione in cui lavoravano Marx ed Engels era quella che in fisica si chiama transizione di fase, condizione che può produrre capolavori di chiarezza flash come il Manifesto, oppure tormentati faldoni a metabolizzazione incompleta come Dialettica della Natura.

Engels fu particolarmente esposto agli effetti di questa condizione. La sua trasposizione delle categorie hegeliane trasformate è debole, il supporto scientifico inadeguato. Sia nell'Antidühring che in Dialettica della natura non utilizza risultati scientifici già disponibili e che gli avrebbero chiarito meglio i nessi con la dialettica. Probabilmente non avrebbe parlato di dialettica della natura, dato che dal punto di vista scientifico sarebbe come dire matematica della natura. La matematica è una elaborazione teorica del cervello umano ed è espressione della natura come lo è l'uomo, ma come tale non è da nessuna parte e non è di nessuno, anche se per convenzione separiamo l'osservatore dall'osservato. Le tre leggi della dialettica, mutuate da Hegel, trasportate nella dottrina rivoluzionaria sono completamente fuori posto. Intanto non sono "leggi", come vedremo subito, e poi perché solo tre? Dal punto di vista della capacità esplicativa potrebbero essere numerose almeno quante sono le versioni storiche della dialettica, da 2.500 anni a questa parte. Il citato Rambaldi, prima di elencarne cinque tipi esemplari, osserva:

"La molteplicità – ed ambiguità – dei significati linguistici si ripercuote an­che nelle accezioni filosofiche fondamentali di 'dialettica'. Storicamente, è stata intesa sia come scienza, o addirittura suprema scienza della realtà, sia come arte del dibattito, senza esclusivo riguardo alla ricerca della verità, e a volte in suo dichiarato dispregio".[46]

Che cos'è una legge

Definire cos’è una "legge di natura" di per sé non comporta alcun problema: si tratta di una generalizzazione formalizzabile ricavata da osservazioni su fatti, condizioni o processi ricorrenti. Una volta individuata, una legge serve a descrivere tutti i fenomeni di uno stesso gruppo. Sulla base di una legge di natura è possibile sviluppare una teoria. La teoria gravitazionale odierna, ad esempio, poggia su di una legge precisa: due corpi interagiscono con una forza che varia in proporzione inversa al quadrato della distanza tra loro, e in proporzione diretta al prodotto delle loro masse. In ragione di ciò, ogni corpo sottoposto a una forza reagisce accelerando, cioè variando la propria velocità nel tempo in modo inversamente proporzionale alla sua massa. Ciò che è così descritto è traducibile in termini matematici. Su questa legge basilare poggia la teoria della relatività.

Mentre l'esempio appena esposto ha una potenza predittiva che si avvicina al 100% per quanto riguarda l'evoluzione di sistemi planetari in archi temporali di millenni, altri esempi possibili sono assai meno eclatanti. Dunque il campo più favorevole per scovare delle leggi è la fisica, anche se la definizione che abbiamo dato nel paragrafo precedente è generalizzabile a tutte le discipline scientifiche. La potenza esplicativa di una legge e delle teorie che potrebbero basarsi su di essa, diminuisce con l'allontanarsi dal campo fisico. È per esempio assimilabile a una legge fisica quella della caduta tendenziale del saggio di profitto: vi sono rappresentate delle grandezze variabili corrispondenti a una situazione materiale come plusvalore, capitale costante, salario; esse sono messe in rapporto entro un'equazione; le variazioni dei valori producono effetti reali misurabili e la potenza predittiva è alta. Ma, rimanendo nel campo dell'economia, è a malapena considerabile legge qualche formulazione del keynesismo, come la "propensione marginale al consumo": perché è vero che un operaio cui si aumenti il salario tende a spendere la quota aggiunta in consumi immediati, mentre il riccastro tenderà a speculare in borsa, ma con il verbo "tendere" siamo già in presenza di aleatorietà in grado di inficiare la legge stessa (infatti Keynes la chiama "legge psicologica fondamentale"). Quando poi si basi una legge economica sulla psicologia delle "attese" o sul comportamento ottimale degli "agenti" sul mercato, allora precipitiamo decisamente fuori dall'ambito scientifico, a meno che non vi siano serie statistiche invarianti dovute a un forte determinismo soggiacente.

In biologia le leggi dell'ereditarietà di Mendel possono ancora essere ricordate come tali, in bio-chimica si può parlare ancora oggi della legge di Liebig, così come possono essere accettate teorie evoluzionistiche differenti basate sulle stesse leggi dell'evoluzione, dato che la ricerca non ha ancora fornito risposte che si possano al momento considerare definitive. Sempre in biologia, è ovvio che a livello di microparticelle valgano le stesse leggi valide per la fisica, mentre se passiamo a discipline come la psicologia, la psichiatria, la sociologia, la medicina o la geostoria è praticamente impossibile, con i criteri della conoscenza attuale, trovare delle leggi.

Se ci avviciniamo alla filosofia utilizzando i criteri che ci permettono di definire "legge" una regolarità, un'invarianza, una ricorrenza, siamo spiazzati, perché nel campo del pensiero non esiste nulla che possa rispondere ai requisiti. A rigor di logica è un nonsenso parlare di leggi della dialettica. È vero che c'è una branca della filosofia che si occupa di scienza, di storia della scienza e della teoria della conoscenza, ma anche in questo caso il legame con la tradizione a-scientifica della filosofia ha contaminato le ricerche e i risultati. Rimane valido a tutto orizzonte il criterio dell'aderenza ai fatti ricorrenti, della potenza descrittiva rispetto ai fenomeni, della potenza predittiva. Nella filosofia che Marx ed Engels stavano mandando in soffitta non esisteva nulla di tutto questo. Essi tentarono di mantenere alcuni strumenti che potevano rivelarsi utili, continuando a chiamarli "leggi della dialettica", ma l'operazione, bisogna dire, ebbe una riuscita assai problematica. Così, il risultato dell'enorme lavoro in positivo svolto in questo senso fu interpretato in negativo da piccoli critici, sbandierato come contraddizione fra i due compagni ed amici, come cedimento all'hegelismo o, al contrario, come cedimento allo scientismo positivista e meccanicista.

L'operazione di integrare, rovesciata, la dialettica hegeliana con le sue tre leggi non poteva riuscire ritenendo che la dialettica fosse una qualità della natura ("dialettica della natura"); non poteva riuscire ritenendo che per il rovesciamento materialistico fosse sufficiente assimilare tutta la "scienza positiva" e adoperarla come dimostrazione. I suddetti piccoli critici hanno sentenziato senza accorgersi che Marx ed Engels li avevano prevenuti avvertendoci: emetteranno mere frasi, le quali saranno del tutto inutili per modificare anche solo un infinitesimo di questa società. Se i marxismi non fossero diventati una specie di religione, a quest'ora la dialettica non sarebbe più un dogma e forse sarebbe diventata uno dei linguaggi della scienza, magari per affrontare fenomeni qualitativi come quelli, ad esempio, che hanno dato vita alla logica cosiddetta fuzzy (sfumata). [47] Sarebbe cioè un mezzo utile a individuare, tramite le nuove conoscenze scientifiche, nel rapporto fra esse e la natura, quelle relazioni che Engels chiamò "dialettiche, materialiste e consapevoli". Oggi abbiamo tutti gli strumenti e le conoscenze per tentare l'operazione, loro non li avevano ancora, erano stati proiettati sulla scena troppo presto. Ciarlare intorno al non-fatto non aiuta a capire quale fosse il programma di ricerca di Marx ed Engels quando si proponevano di usare ai loro fini il cadavere della filosofia estraendone qualche organo da trapianto. E la dialettica è il cuore, fino a prova contraria.

Ci troviamo dunque in una situazione del genere: Hegel costruisce il suo modello conoscitivo idealista poggiato sulla testa e con i piedi per aria; Engels e Marx (sappiamo che quest'ultimo seguì la stesura sia dell'Antidühring che della Dialettica della natura) si propongono di traghettare le leggi della dialettica nel nuovo sistema materialista; l'operazione fallisce perché la "applicazione" (come dice qualche volta Engels) della dialettica alla matematica e alla natura è un'operazione artificiosa, specie non disponendo delle scoperte rivoluzionarie avvenute alla fine dell'800 e all'inizio del '900 (geometria non euclidea, teoria dei campi, meccanica statistica, teoria corpuscolare della luce, teoria della relatività, meccanica quantistica, ecc.).

Invece di realizzare un programma scientifico di ricerca per individuare le leggi di natura nella natura, si finì per mutuare le pseudo-leggi della dialettica hegeliana per tentare di farle combaciare con quello che si evinceva da una ricognizione superficiale sulla natura. Solo così si spiega, ad esempio, la partigianeria hegeliana di Engels contro Newton. [48] E pensare che Engels stesso aveva scritto esattamente il contrario:

"Per me non poteva trattarsi di costruire le leggi dialettiche introducendole nella natura, ma di rintracciarle in essa e di svilupparle da essa. Ma far questo in modo conseguente e in ogni singolo campo è un lavoro gigantesco… La scienza della natura sta compiendo un processo di rivoluzionamento così imponente che a stento può seguirlo anche chi per questo disponesse di tutto il suo tempo".[49]

Ciò è assolutamente esatto, sia per quanto riguarda il metodo, sia per quanto riguarda l'imponente rivoluzione scientifica. Bisogna sottolinearlo con forza per mettere bene in evidenza che Engels sapeva quale strada seguire per non abbassarsi al metodo idealista di appioppare le leggi del pensiero alla natura; sapeva che la maniera materialista era quella di sondare la natura affinché rivelasse le sue leggi. Se avesse potuto verificarlo con le scienze del secondo '800 si sarebbe accorto che la dialettica è una costruzione dell'uomo, che in natura non esiste e che in scienza vi sono strumenti conoscitivi ormai consolidati e più utili, se non altro perché evitano ogni confusione con la filosofia. Engels sapeva come impostare un programma scientifico di ricerca su basi materialistiche e lo mise per iscritto. Questo ci basta per confermare l'avvenuto trapasso della nostra specie nell'universo prossimo venturo. Se lungo il percorso si sono seminati qua e là degli errori e delle incertezze la cosa non ha nessuna importanza, gli errori si correggono, è quando non si spicca il salto che allora non c'è nulla da fare, si resta in questo universo.

Conversione della quantità in qualità e viceversa

Questa, secondo l'elenco di Engels, sarebbe la prima legge della dialettica. In base a ciò che abbiamo detto, non ci troviamo di fronte alla generalizzazione di un fenomeno ricorrente, non siamo in grado di ricavare una formalizzazione matematica che metta in relazione delle grandezze misurabili, non si manifesta alcuna potenzialità predittiva. Addirittura ci sembra quasi di essere alle prese con delle banalità, dato che anche un bambino sa che poco cibo ammazza, una giusta quantità nutre, troppo ammazza di nuovo o cose del genere. Tutt'al più ci troviamo di fronte a una constatazione che può dare, applicata a fenomeni con variazioni numeriche, delle indicazioni euristiche su un qualche "effetto soglia", come nel caso dei tumulti negli stadi, del traffico stradale, dell'autoreferenzialità delle vendite nel marketing, dell'effetto serra nel global warming. Ma che c'entra la dialettica?

La scienza moderna è piena di esempi che potrebbero essere ricondotti alla relazione quantità/qualità, ma evita di dare ad essi la qualifica di "dialettica" e giustamente, non farebbe che confondere le idee. In una società composta di atomi individuali che credono di poter manifestare la loro volontà mentre sono soggetti a leggi generalissime, può essere utile distinguere il tutto dalle singole parti; una folla non ha le stesse proprietà dei singoli individui che la compongono e risponde a leggi (questa volta sì) diverse. Così, per analogia, un organismo completo avrà delle proprietà che non sono riconducibili a quelle delle singole cellule che lo formano.

Nella teoria delle catastrofi, sviluppata dal matematico determinista René Thom, [50] vi è la risposta formale a una delle possibili conversioni da quantità a qualità: com'è possibile che da un sistema omeostatico (stabilità strutturale) possa scaturire qualche novità evolutiva (morfogenesi)? La risposta è che l'accumulo continuo di fattori che danno forma o vita a un sistema può sfociare in un evento discontinuo (singolarità) che provoca un cambiamento di stato, una nuova struttura. Uno studioso della disciplina[51] ha paragonato la Rivoluzione d'Ottobre a uno schema di catastrofe.

Il biologo Stuart Kauffman, ricercatore nel campo della complessità, ha dimostrato con simulazioni al computer che in condizioni primordiali non è vero che statisticamente è quasi impossibile il verificarsi delle condizioni per la comparsa della vita dal mondo inorganico: in effetti, contrariamente a quanto si pensava, in un caos di molecole libere, ne basta un numero limitato per innescare la serie di legami per la costituzione di molecole più complesse; per cui scatta un'auto-organizzazione della materia (autocatalisi), condizione qualitativa essenziale per la comparsa della vita.[52] Naturalmente Kauffman non sente alcun bisogno di scomodare la dialettica. Solo se si ha la dialettica in testa, aprioristicamente, si avrà come risultato, di fronte ai fenomeni appena elencati, quello di attribuire una dialettica alla natura. La ricerca dell'uomo intorno ai fenomeni naturali è un prodotto del suo lavoro, per il quale si è dovuto sviluppare ed evolvere un linguaggio (ed Engels lo spiega in modo magistrale), quindi la dialettica è inerente al linguaggio, non alla natura. E il linguaggio, a sua volta, diventa un elemento evolutivo dell'uomo, una struttura della conoscenza e della prassi, come tra l'altro affermano Marx ed Engels, insieme, nell'Ideologia tedesca:

"Un modo di produzione o uno stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato, e questo modo di cooperazione è anche esso una 'forza produttiva'; ne deriva che la quantità delle forze produttive accessibili agli uomini condiziona la situazione sociale e che dunque la 'storia dell’umanità' deve essere sempre studiata e trattata in relazione con la storia dell’industria e dello scambio… Appare già dunque, fin dall’origine, un legame materiale fra gli uomini, il quale è condizionato dai bisogni e dal modo della produzione ed è antico quanto gli stessi uomini; un legame che assume sempre nuove forme e dunque presenta una 'storia', anche senza che esista alcun non-senso politico o religioso fatto apposta per tenere congiunti gli uomini. Solo a questo punto… troviamo che l’uomo ha anche una 'coscienza' . Ma anche questa non esiste, fin dall’inizio, come 'pura' coscienza. Fin dall’inizio lo 'spirito' porta in sé la maledizione di essere 'infetto' della materia, che si presenta qui sotto forma di strati d’aria agitati, di suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini".[53]

Forse un giorno diremo che la dialettica è semplicemente ciò che distingue l'uomo dagli animali, ciò che ci permette di sondare la natura per ricavarne delle leggi e lavorare collettivamente su di essa trasmettendoci informazione l'un l'altro per mezzo del linguaggio strutturato, cioè con il nostro primo, fondamentale mezzo di produzione.

Compenetrazione degli opposti

La contraddizione – che sarebbe il nocciolo della legge – non la si può ricavare con l'osservazione della natura, è un fenomeno legato al linguaggio umano (contra-dizione). La natura si contraddice? È incoerente? Commette errori? Ancora una volta siamo noi che possiamo fare confusione sui dati della natura e contraddirla o contraddirci. Con il nostro linguaggio possiamo esprimere un qualcosa di fisico, un qualcosa che è stato prodotto dall'autonomizzazione del pensiero o anche un prodotto del pensiero che interpreta la realtà fisica. La contraddizione può verificarsi solo al livello del pensiero, non nella realtà fisica. A meno che non facciamo prove di logica fuzzy: una nuvola che accorpa un'altra nuvola non fa due nuvole ma una nuvola più grossa e non è detto che sia il doppio. C'è contraddizione? E se sì, dove? Nella natura o nel linguaggio? La struttura del linguaggio, formatasi in milioni di anni secondo le linee che abbiamo visto, è in un certo senso impressa nel nostro corpo biologico con l'evoluzione, non è in grado di trasmettere concetti del puro pensiero filosofico in modo che siano compresi da tutti nello stesso modo, come invece nel caso delle scienze. Il linguaggio scientifico è una conquista sociale, il linguaggio filosofico è un retaggio antico. Il primo si è dato dei parametri di controllo, il secondo può dire quello che vuole. A proposito di assenza di freni nel "dire" filosofico: da anni un filosofo italiano[54] va predicando "l'unità ed eternità dell'essere" inventandosi una corrente neo-parmenidea di cui è l'unico membro con alcuni difensori. La vita cosciente dell'uomo incomincerebbe con un rifiuto: negare che l'albero sia stella, l'acqua pietra, il freddo caldo. Questo sarebbe il pensiero archetipico. Niente può essere diverso da ciò che è, niente cambia, per l'eternità. Detto nel terzo millennio suona un po' – per essere gentili – strano. Eppure lo stanno ad ascoltare, scrive sui giornali, le sue conferenze sono affollate. Le neuroscienze, la teoria dell'informazione, la cibernetica, tutto ci dice che il linguaggio non è "libero"; che, quando gli uomini interagiscono, nel loro organismo si mette in moto una quantità di fenomeni, dalle aree specifiche del linguaggio ai muscoli della gestualità, dai neuroni specchio all'apparato gastro-intestinale, dalle terminazioni nervose sulla pelle al sistema endocrino. Ci vogliono dell'arte e della scienza per tenere sotto controllo questa mole di impulsi. La scienza è una conquista faticosa, la filosofia alla Severino ha tanti gradi di libertà quanti sono gli abitanti della Terra.

Come s'è detto, il linguaggio è la vera coscienza dell'uomo, il suo primigenio ed evoluto mezzo di produzione, quello attraverso cui abbiamo inventato la dialettica e indaghiamo sulla natura. L'uomo evoluto, l'uomo-industria, quello di Marx nei Manoscritti, è il frutto di molte estinzioni e poche ramificazioni evolutive, delle quali una sola è sopravvissuta. Così succede al suo "pensiero". Molte promettenti strade imboccate si sono rivelate sterili. Molte sono state le estinzioni e una sola è stata la persistenza: la coscienza unitaria del mondo come fatto di specie e non di geniali filosofi. Gli esegeti di Hegel sono pronti a dirci che proprio questo era l'intento del loro maestro. È vero, egli si considerava – ed era – un geniale filosofo. Ma era membro di una specie in estinzione.

La cosiddetta legge della contraddizione o della compenetrazione degli opposti può essere suggerita da alcune condizioni fisiche, ma, come nel caso della prima legge, dobbiamo per forza fare degli esempi partendo da ciò che già è stato stabilito e codificato. Un puzzle è un intero compenetrato dalle sue parti, così come ogni incastro è una compenetrazione di pieno e di vuoto; e ciò si ripete alla scala industriale tutte le volte che c'è una vite nel dado, un tenone nella mortasa, un pistone nel suo cilindro. Maschio-femmina come metafora universale, ben rappresentata dal simbolico Yin e Yang cinese, un puzzle a due pezzi. Sembra che Hegel lo conoscesse indirettamente attraverso il contenuto del Libro dei mutamenti,[55] anche se la prima traduzione in Occidente comparve solo nel 1854. Il fisico indeterminista Niels Bohr lo raffigurò in un suo logo con la scritta Contraria sunt complementa. Una sua buona descrizione originale cinese (non di qualche corrente new age) può informare sulla dialettica più di un trattato di filosofia occidentale.

Se vogliamo esempi legati alla fisica possiamo immaginare un corpo soggetto a due forze uguali e contrarie, cioè a un equilibrio nonostante la sollecitazione; oppure alla Luna che sta in orbita e non cade sulla Terra perché è il suo modo di cadere che la tiene "sospesa" nello spazio (questo dimostrò Newton, e Hegel non digerì).[56] Rimanendo nel campo della gravitazione, potremmo dire che una capsula spaziale in caduta libera verso una massa, quindi con moto accelerato, è in condizioni identiche a quelle in cui si troverebbe se fosse ferma o se viaggiasse con moto rettilineo nello spazio a velocità costante (in questo caso non solo "compenetrazione" ma identità fra tre situazioni assai differenti). E così via. Ma in questo modo "tutte le cose sono in sé stesse contraddittorie". Ahi! Se questa affermazione la prendiamo per quello che vuol dire in linguaggio corrente, siamo in overdose di generalizzazione; se indagando sulla natura troviamo regolarità distinguibili dal caos o da altre regolarità, allora abbiamo a disposizione un'ermeneutica per ricavarne una legge; se tutto però è contraddizione, siamo di fronte non alla compenetrabilità degli opposti ma a un insieme che contiene tutti gli insiemi (o sé stesso), cosa che in scienza proprio non si può fare. In teologia invece è ammesso, ma qui è meglio che ci fermiamo.

Marx rileva dalla natura (in questo caso dall'ultima società naturale, cioè sottratta al progetto umano) altri generi di opposizioni. Esse gli sono senza dubbio suggerite da Hegel, come dice egli stesso, ma che altro mondo rappresentano! Lo scambio sul mercato è fatto di acquisto e vendita, di valore d'uso e di valore di scambio, di lavoro pagato e di lavoro non pagato, tutte opposizioni (o contraddizioni) riconducibili a una unità interna al modo di produzione. Questa operazione si può fare. Non siamo di fronte a un mondo archetipico nel quale osserviamo una dialettica bella e pronta; e neppure siamo di fronte a un mondo senza dialettica nel quale insuffliamo la nostra dialettica nata dal pensiero. Siamo di fronte a un mondo che opera, ha relazioni, produce, evolve e si mostra attraverso un linguaggio che non è solo il suo mezzo di produzione ma anche il nostro, di noi che osserviamo e ne facciamo parte. La dialettica somma di tutte queste opposizioni non ci dà una società-presepe, ma un film di movimento pieno di colpi di scena che portano… a una società completamente diversa (altra opposizione o contraddizione) perché è solo con il capitalismo che possiamo immaginare il comunismo, anzi, lo possiamo già vedere anticipato (altrimenti – ricordiamo – "ogni tentativo di far saltare la vecchia società sarebbe donchisciottesco"). Altro esempio: "Ad un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti" (Per la critica, ecc.). Anche in questo caso vediamo che la "contraddizione" non è una categoria filosofica ma una constatazione di inadeguatezza: la società umana è oggettivamente impedita a svilupparsi ulteriormente. Siccome ha prodotto delle classi antagoniste, queste entreranno in conflitto e dallo scontro uscirà un mondo senza classi. Se questa è dialettica, va bene, l'importante è che siano individuate le leggi della rivoluzione.

E sono individuate, perfettamente, perciò non badiamo troppo alle oscillazioni di Engels. Lo sviluppo del Capitale, che porta a questa inadeguatezza del capitalismo a garantire lo sviluppo della forza produttiva sociale, porta in sé contraddizioni di ordine inferiore: l'aumento obbligato della produttività salva al momento il capitalismo, ma avviene tramite l'aumentata composizione organica del Capitale, da cui la discesa del saggio di profitto. E tutto questo produce a sua volta delle cause antagonistiche alla caduta del saggio, che però, al maturare delle circostanze, si tramutano nel loro contrario. Allora sì che abbiamo una buona descrizione scientifica delle leggi che governano il Capitale e, come elaborazione del cervello sociale, anche la teoria basata su queste leggi. Se vogliamo vedervi una manifestazione della dialettica, non è proibito, ma è inessenziale: la serie di opposizioni-contraddizioni è descrivibile perfettamente senza l'intervento della filosofia idealistica tedesca.

Negazione della negazione

È la "legge" meno convincente delle tre, e anche Marx non la digeriva facilmente. Non perché non si capisca che cosa significhi la proposizione che la riassume, ma perché contiene meno informazione di tutte. Sul significato scientifico di "legge" abbiamo già detto. Negli altri due casi abbiamo visto che si potrebbe salvare una certa proprietà conoscitiva, anche se non necessaria di fronte al poderoso armamentario scientifico maturato negli ultimi 200 anni, riconosciuto anche da Engels. In questo caso però siamo di fronte a un'affermazione così generale da risultare inutile. Tutto si nega e ri-nega continuamente, altrimenti non ci sarebbe il cambiamento, il movimento, l'evoluzione. Engels prende molto sul serio la terza legge, e quindi è nostra preoccupazione cercare di capire, ma egli stesso deve riconoscere che, così com'è, fa acqua da tutte le parti, anzi, se ci si limita ad essa si precipita dritti e filati nella metafisica. Egli utilizza il celebre esempio del chicco d’orzo che, seminato, nega sé stesso germogliando, e aggiunge:

"È evidente per sé stesso che, riguardo al particolare processo di sviluppo che compie, per es., il chicco di orzo dalla germinazione sino alla morte della pianta che reca la spiga, io non dico assolutamente niente dicendo che è negazione della negazione… Se di tutti questi processi io dico che sono negazione della negazione, li comprendo tutti insieme sotto questa unica legge del movimento e precisamente trascuro la particolarità di ogni singolo processo speciale. Ma la dialettica non è niente altro che la scienza delle leggi generali del movimento e dello sviluppo della natura, della società umana e del pensiero". [57]

Il guaio è che generalizzare significa estendere l'invarianza rilevata nella negazione del chicco ad altri fenomeni della natura. Se la dialettica "non è niente altro che la scienza del movimento e dello sviluppo della natura ecc.", allora la terza legge riguarda tutto ciò che succede nell'Universo, vale a dire che l'Universo è fatto così e su questo non c'è altro da aggiungere da 14 miliardi di anni a questa parte. Una proposizione scientifica – e questa sì che è una legge – fornisce una quantità di informazione in rapporto inverso all'ampiezza del suo campo. A parità di enunciato, l'informazione è maggiore se il campo è piccolo. Tanto per fare due esempi: la fondamentale legge della gravitazione interessa tutto l'Universo, ma descrive in modo molto preciso un ventaglio piccolissimo di fenomeni, quelli elencati in poche righe nelle pagine precedenti; per contro, una legge come quella formalizzata dal matematico Volterra (prendiamo un esempio a caso) su una popolazione di predatori-prede nasce dall'osservazione di fenomeni molto particolari, ma descrive in modo generalissimo un vasto ventaglio di fenomeni cui può essere riferita (l'abbiamo utilizzata nel numero scorso della rivista a proposito delle invasioni barbariche e dei loro effetti sulla depredazione dell'Impero).

Tanto per cercare di capire come mai Engels, che pure pone correttamente il problema della discontinuità, si sia lasciato impelagare nel tentativo di affibbiare alla natura le "leggi" della dialettica, prendiamo la citata legge di Volterra (una popolazione di predatori e prede tende a stabilizzarsi secondo due curve sinusoidali sovrapposte ma sfasate nel tempo) e sottoponiamola alla prova delle leggi oggetto del nostro esame. Utilizzato "alla Engels", il modello di Volterra sottoposto all'esperimento suggerisce effettivamente agganci con tutte e tre le leggi della dialettica, ma è evidente che tale operazione la si può fare soltanto come si farebbe "applicando" la matematica che, abbiamo detto, ci aiuta a capire la natura ma non è della natura. È Engels che usa il verbo "applicare", ma il modello di Volterra funziona benissimo anche senza l'aiuto della dialettica, e questa non getta luce nuova sulla conoscenza del modello.

"Applicando" la prima legge (quantità/qualità) sembrerebbe evidente che una quantità qualsiasi di predatori e prede produca un sistema squilibrato che, dopo un certo tempo, si stabilizza attorno a un numero mediamente ottimale. La quantità squilibrata si è tradotta in qualità armonica.

Per quanto riguarda la seconda legge (compenetrazione degli opposti, contraddizione) il sistema, reale, prevede mangiatori e mangiati che hanno effettivamente caratteri antitetici, i quali, però, diventano complementari per raggiungere l'equilibrio.

Infine la terza legge (negazione della negazione): come il chicco d'orzo nega sé stesso germogliando e producendo una nuova spiga ecc., così il predatore nega la preda mangiandola; a sua volte la preda mangiata, non potendosi riprodurre nega nuovo cibo al predatore che va incontro a un calo demografico. E così via in un ciclo apparentemente perenne.

Hegel due punto zero?

Gli esempi fatti sono tratti da testi conosciutissimi sui quali si sono formati milioni di militanti rivoluzionari. Dobbiamo ora necessariamente chiederci che cosa sarebbe successo se Engels fosse vissuto tanto da "applicare" le tre leggi della dialettica alla scienza d'oggi. Abbiamo visto che la scienza della prima metà dell'800 si prestava poco alle dimostrazioni. Quella della seconda metà sarebbe stata l'ideale, perché la rivoluzione industriale aveva portato a una serie incredibile di scoperte in tutti i campi, meravigliosamente adatte ad essere inserite nel programma di ricerca sulla "dialettica della natura". Tutte scoperte che avevano preparato con un crescendo straordinario quelle sconvolgenti del secolo successivo, a partire proprio dall'anno 1900. Engels muore nel 1895. È veramente strano che gli impegni con la socialdemocrazia gli abbiano impedito di continuare a seguire le scoperte scientifiche. Ma non è stato trovato nulla che indicasse una sua qualche conoscenza specifica sulle ultime scoperte. Ancora più strana è la carenza di riferimenti scientifici attuali in Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin, al quale importava nell'ordine la salvaguardia del partito, la scienza e per ultima la filosofia.

In Materialismo ed empiriocriticismo Lenin separa nettamente filosofia e scienza. Le categorie filosofiche, dice, sono altra cosa rispetto alle leggi, ai principii, agli assiomi, ai teoremi, ecc. Ed è qui che annota ciò che abbiamo già riportato: la filosofia "non ha oggetto", mentre la scienza non è neppure immaginabile senza oggetto. Nella storia della conoscenza, la separazione assume un carattere particolare: le due dottrine sono in contrasto, ma l'una cerca di svolgere le funzioni dell'altra: mentre però la scienza riesce a filosofeggiare, la filosofia non ce la fa a scienteggiare. E siccome la storia della filosofia non è altro che la storia di una lotta fra idealismo e materialismo, l'impossibilità di una sintesi con la scienza obbliga la filosofia ad autonomizzarsi dalla natura, liberandosi del materialismo. Senza un legame con la natura il materialismo infatti non ha alcun senso, non può neppure esistere, mentre in simbiosi con la natura, evolve con essa. Detto in termini attuali: il paradigma scientifico cambia con le rivoluzioni scientifiche. Se esso dovesse davvero subire totalmente l'influsso della filosofia, dovremmo fare fisica mantenendo "categorie" come il flogisto, l'etere, il grave, il calorico, ecc. di buona memoria.

Il paradigma scientifico però è talmente cambiato da sconvolgere i programmi di ricerca di Engels e di Lenin. Le scoperte relative al mondo microscopico sub-atomico rivelano caratteri che sono ancora classificabili sotto l'insegna delle tre leggi, ma in modo tale da capovolgere il significato che gli stessi Engels e Lenin volevano ricavarne. Il carattere più evidente, che sta tormentando gli scienziati a causa dello stato di grave incompletezza della fisica attuale, è che può essere affrontato con la legge della compenetrazione degli opposti. Sembra che non sia possibile stabilire se una particella è una forma d'onda o un oggetto materiale. La scuola vincente afferma che è entrambi, in uno stato sovrapposto inconoscibile finché non lo si osserva. Cosa che darebbe torto a Lenin e ragione ai suoi nemici giurati machisti, solipsisti, empiriocriticisti, a tutti coloro che, in un modo o nell'altro fanno dipendere la realtà oggettiva da una qualche qualità dell'essere soggettivo che la osserva. Gli opposti si compenetrano anche a livello del mondo in cui viviamo: dal punto di vista della realtà scientifica, è inquietante il dato di fatto (non spiegato) secondo cui il mondo macroscopico, fatto di atomi, particelle/onda e altre proprietà specifiche conformi a certe leggi, risponde a leggi completamente diverse rispetto a quelle che governano il mondo microscopico. Situazione che produce una dicotomia irrisolta fra la teoria dei quanti e quella della relatività. Dunque compenetrazione degli opposti a tre livelli: il dualismo onda-particella; quello fra mondo microscopico e mondo macroscopico; quello fra due teorie della conoscenza.

Non è finita qui. Il mondo quantistico è affollato da proprietà riconducibili alla teoria della conoscenza di tipo hegeliano: particelle e antiparticelle che si annichiliscono (negazione della negazione) emettendo altre particelle (o energia, data l'equivalenza con la massa, compenetrazione degli opposti); proprietà che si trasmettono istantaneamente fra particelle nell'indifferenza totale rispetto allo spazio e al tempo (negazione di entità quantitative – misure – in presenza di variazione qualitative); spettacolare negazione di categorie classiche della fisica "meccanicistica" come causalità e determinismo; interpretazioni estremizzate (Bohr, Heisenberg, Dirac, Pauli, ecc.) fino all'affermazione secondo cui la realtà sarebbe la sua descrizione matematica, cioè assimilabile a uno strumento prodotto dal pensiero. E questo perché alcuni aspetti della realtà non sono conoscibili per altra via (principio di indeterminazione). Infine la ciliegina sulla torta: questo mondo corrispondente a una realtà evanescente, formale, matematica, funziona. La teoria ha una elevata capacità di previsione. È in grado di retro-conoscere, dato che ha calcolato le proprietà dello spazio-tempo all'indietro fino a una frazione di secondo dalla nascita dell'Universo. Resiste da decenni, senza scomporsi, a innumerevoli verifiche sperimentali. Insomma, se Hegel fosse qui sarebbe assai soddisfatto e girerebbe il mondo a tenere conferenze strapagate per gridare: "Ve l'avevo detto!". Sarebbe consultato dai governi, ansiosi di sapere se hanno sprecato i miliardi impiegati per costruire immani acceleratori di particelle. Una spesa che magari si poteva evitare, insistendo un pochino di più sull'Essenza o sul Concetto riguardo ad atomo, particella, energia, misura, esperimento. In fondo molte particelle e antiparticelle sono state trovate prima per via teorica e solo in seguito individuate con gli esperimenti di verifica. Qualcuno potrebbe scambiare queste previsioni calcolate con i risultati di quel metodo deduttivo che forma il nucleo centrale della dialettica hegeliana (succede anche di peggio).

Non siamo per nulla convinti di essere al Ritorno dell'Idea, all'applicazione Hegel release 2.0, alla prova provata della sconfitta di Einstein, del determinismo, e della realtà misurabile e conoscibile. Il principio di indeterminazione non è lo scoglio all'unificazione della scienza: anche di un'automobile lanciata sull'autostrada non riesco a conoscere esattamente la quantità di moto e la posizione, solo che l'errore quantitativo è così irrilevante che qualitativamente mi basta ciò che mi dice un cronometro. Ecco, il cronometro, misuratore del tempo, ci fornisce un servizio quantizzandolo in tratti che chiamiamo ore, minuti, secondi. Dal punto di vista concettuale la nuova fisica non introduce novità: Leucippo e Democrito quantizzarono l'Universo in particelle ultime di materia, e Newton immaginò la quantizzazione delle onde elettromagnetiche che chiamiamo "luce" (Planck, quantizzando la luce pose le basi per la nuova fisica). Ogni misura necessita di una scala di valori che non corrisponde mai ai valori del "reale" misurato. Venendo ai nostri giorni, abbiamo quantizzato il tempo e abbiamo inventato il computer che quantizza (digitalizza, rende in numeri) anche i fenomeni analogici più complessi. Persino Zenone in difesa del continuum quantizzò per paradosso dialettico lo spazio-tempo immateriale (Zenone è considerato il padre della dialettica antica). Se, alla ricerca di una nuova teoria della conoscenza, ci fermiamo al dualismo fra il mondo quantico e quello del continuum analogico non ne usciremo mai, così come non ne esce la scienza vendutissima d'oggi.

Scienza che filosofeggia

Quando fu prevista e poi individuata l'antimateria, i fisici e i matematici parlarono di un "ritorno ad Aristotele".[58] A rigor di logica, se si vuole proprio fare il paragone, tutta la fisica moderna sembra un ritorno a quella antica. Avendo a che fare con il mondo microscopico invisibile e sfuggente, la materia si confonde con gli oggetti matematici che la rappresentano. E tra l'altro non siamo neanche sicuri che l'equivalenza materia energia, onda particella, ci permetta di pensare al mondo come a un qualcosa di materiale. Di qui la tentazione speculativa antica, nonostante i giganteschi acceleratori di particelle per le precise e puntuali verifiche sperimentali.

Per Aristotele, ma non solo per lui, oltre alla materia mobile o sensibile, quella immanente in tutti gli oggetti tangibili soggetti a mutazione, esiste una materia intelligibile, identificata in tutti gli oggetti incorporei, come ad esempio quelli matematici. Che cos'è in realtà questo strano congelamento dovuto alla rivoluzione quantistica da cui non ci si libera, e per di più permette strane analogie con la filosofia dell'antica Grecia? Possibile che la discontinuità filosofica non abbia avuto effetti liberatori anche per la scienza? Perché permane la separatezza apparentemente incolmabile fra mondo microscopico e mondo macroscopico? Perché di una Teoria della Grande Unificazione c'è solo il nome, e l'imbocco di sentieri che sembravano promettenti non ha portato che a vicoli ciechi?

Nel terzo libro del Capitale, Marx oppone a coloro che traggono teorie economiche dalla realtà così com'è percepita, senza capacità di elaborazione astratta, l'esigenza di mettere in relazione tre livelli di realtà: il mondo non ancora conosciuto, che ci è al momento oscuro; il mondo così come è percepito dai sensi o è tradotto secondo l'informazione pregressa che abbiamo immagazzinato (idee); il mondo della elaborazione sul livello percepito per trovare o fabbricare la chiave di accesso al mondo oscuro:

"Ogni scienza sarebbe superflua, se la forma fenomenica e l'essenza delle cose coincidessero immediatamente… Bisogna distinguere le tendenze generali e necessarie del capitale dalle forme nelle quali esse si presentano… La forma definitiva dei rapporti economici, quali si manifesta alla superficie, nella sua esistenza reale, e quindi l’idea che gli agenti attivi e passivi di tali rapporti cercano di farsene per arrivare a comprenderli, differiscono considerevolmente dalla intima, essenziale, ma nascosta struttura fondamentale di questi rapporti e dal concetto che ad essi corrisponde, anzi ne rappresentano addirittura il rovesciamento, l’opposto". [59]

Sostituiamo "forma fenomenica" con "mondo come lo percepiamo con i sensi", ed "essenza" con "mondo reale ancora da conoscere" e procediamo con Engels:

"Gli scienziati possono prendere l'atteggiamento che credono: essi sono sotto il dominio della filosofia. C'è da porre solo il problema se vogliono essere dominati da una cattiva filosofia corrente o da una forma di pensiero teorico che riposa sulla storia del pensiero e dei suoi risultati. Gli scienziati fanno ancora condurre alla filosofia una vita stentata e puramente apparente, servendosi dei rifiuti della vecchia metafisica. Solo quando la scienze della natura e della storia avrà assorbito in sé la dialettica, tutto il ciarpame filosofico, esclusa la pura teoria del pensiero, si risolverà nella scienza positiva".[60]

A parte il pugno nello stomaco che è quel "pura teoria del pensiero", qui e altrove Engels pare rimproverare alla scienza di aver raccolto l'eredità della filosofia metafisica sconfitta e di rallentare quindi il proprio corso. Per essere sicuri di aver capito bene, e che ci sia effettivamente concordanza fra ciò che afferma Engels e quello che stiamo cercando di comunicare sul punto di svolta rappresentato dalla morte della filosofia, inseriamo un altro tassello del puzzle:

"Se non facciamo poggiare lo schema del mondo sulla testa, ma semplicemente deduciamo per mezzo della testa il principio dell'essere dal mondo reale, da ciò che è, non abbiamo bisogno per far questo di alcuna filosofia ma di conoscenze positive del mondo e di ciò che avviene in esso, e parimente, ciò che ne risulta non è filosofia ma scienza positiva… Insomma, non è più filosofia ma una semplice concezione del mondo che non ha da trovare la sua riprova e la sua conferma in una scienza delle scienze per sé stante, ma nelle scienze reali. La filosofia dunque è qui superata". [61]

Ricaviamo da ciò che abbiamo detto fin qui una sequenza sufficientemente chiara per essere dimostrativa: la filosofia muore con il colpo di grazia inferto da Feuerbach all'ultimo grande sistema possibile. Sopravvivono rami collaterali che dicono qualcosa solo quando si occupano di scienza. E anche questi, persistendo nel metodo filosofico (le pensate individuali gabellate come scoperte di valore universale), man mano si estinguono, come ad esempio le correnti positiviste e neo-positiviste. Non si estingue l'influenza metafisica sulla scienza, ed Engels la registra. È un rigurgito di passato, come disse la nostra corrente di fronte alla cosiddetta conquista dello Spazio, una canea illuministica fuori tempo di due secoli. La causa è chiara: l'influenza dell'ideologia dominante non permette una pulizia generale. Alla produzione la filosofia non è mai servita, ma alle teorie politiche sì. Alla produzione può essere giunta qualche contaminazione filosofica (abominio dell'usura, essenza del taylorismo, primato del capitale umano, philosophical counseling, ecc.), ma è normale, anzi, sarebbe una contraddizione enorme se nei fatti lo sviluppo della forza produttiva sociale non fosse frenato dal persistere del dominio borghese.

Un ramo della scienza come la fisica giunge a importanti scoperte, che però non si armonizzano con altre importanti scoperte avvenute contemporaneamente, spesso ad opera degli stessi individui. Einstein, ad esempio, edifica un grande sistema teorico nel campo del continuum spazio-temporale, ma nello stesso tempo è fra i primi a sentire la necessità di discretizzare, quantizzare la realtà per renderla compatibile con gli schemi di calcolo. Quando entra in conflitto con i quantisti presenta un esperimento (EPR) che dimostra come la meccanica dei quanti porti a un paradosso in contrasto con la teoria della relatività e con il comune concetto di realtà (entanglement). Così facendo contribuisce a consolidare la stessa meccanica dei quanti perché il paradosso risulterà vero, cioè intrinseco alla disciplina, verificabile sperimentalmente, oggetto di ricerche con risultati (il teletrasporto quantistico delle proprietà di una particella).

Quindi si verificò un oggettivo fallimento "locale" di due teorie globali: una contraddiceva l'altra. Ovviamente ciò diventò argomento di filosofia della scienza; ma i filosofi, pur maturati verso livelli scientifici, non ebbero influenza sulle direttrici imboccate dagli scienziati. I quali, autonomamente, seguirono decisi la strada della metafisica accettando come nuova realtà i risultati contraddittori poggianti non su di uno schema come quello di Marx (e dei procedimenti scientifici) ma sul livello fenomenico, per cui la realtà (l'essenza di Marx) rimase oscura.

Il fatto che nessuna filosofia accorresse sulla scena per rivendicare i mille motivi che avrebbero potuto alimentare una rinascita della dialettica hegeliana è certo l'effetto della rivoluzione imposta dal marxismo alla filosofia, ma nello stesso tempo dimostra la necessità di un poderoso cambio di paradigma, cioè una rivoluzione sociale. In effetti, con la morte della filosofia, i residui rimasti appiccicati alle teorie della conoscenza non hanno più la capacità di indirizzare la ricerca, e si manifestano come banali contraddizioni: se la realtà è ontologicamente inconoscibile come afferma la corrente legata al modello standard della meccanica quantistica (Bohr, Pauli & C.), allora è implicitamente vero che possono esserci delle variabili nascoste, come afferma la corrente "realista" (De Broglie, Bohm & C.).

Oggi la scuola "realista" è praticamente zittita dal grande successo pratico (esperimenti, verifiche, individuazione di nuove particelle che giustificano strutture della materia) ottenuto dal modello standard. Per i sostenitori di quest'ultimo ha validità solo quel che vediamo dopo aver cercato di vederlo. Il che significa negare lo statuto di realtà alle particelle che non sono osservate. Secondo i critici c'è qualcosa di "mostruoso" in ciò, qualcosa che assomiglia assai all'empiriocriticismo combattuto da Lenin. Schrödinger escogitò l'esperimento del gatto[62] per mostrare la carenza logica della concezione standard. Niels Bohr replicò: "Nessuno ha mai visto una sedia",[63] la cosiddetta realtà oggettiva non esiste, mettiamoci il cuore in pace. Schrödinger era d'accordo sul fatto che il nuovo paradigma scientifico fosse così diverso da tutto ciò che sapevamo da obbligarci davvero a metterci il cuore in pace per quanto riguarda il concetto di realtà, ma non si sentì obbligato a ricavarne una filosofia.

Quando ci si rese conto che tale concetto di realtà dipendeva molto dall'informazione che abbiamo su di essa, e che l'informazione da noi posseduta è influenzata dal concetto di scienza, conoscenza, materia, pensiero, e così via, alcuni scienziati incominciarono a rinunciare ai concetti, a smettere di dare nomi, aggettivi, qualifiche agli elementi della loro ricerca e a trattare solo con quelli che "semplicemente esistevano" perché rilevati, per loro tutto il resto era da considerare "zavorra concettuale" inutile e dannosa. Tutto ciò su cui non abbiamo informazione, per esempio l'insieme che chiamiamo "materia", dovrebbe essere eliminato dal linguaggio della ricerca. Prendiamo un elettrone: è materia, energia, onda o particella? Niente e tutto; sarebbe semplicemente quello che sappiamo su di esso. L'informazione sta diventando un parametro importante e alcuni lo considerano alla base dell'insieme "natura". Tutte le sue parti possono essere descritte, con parole o matematica, solo attraverso l'informazione che possediamo.

Incominciamo a intravvedere una differenza crescente rispetto al solipsismo idealista. Indipendentemente da quello che pensano gli scienziati più o meno filosofeggianti, ciò che sembrava un altro modo per dire Pensiero-Idea-Natura si sta rivelando un qualcosa di più profondamente collegato alla dialettica. Non "della natura", ma "della conoscenza". È come se la natura ci dicesse: attento, uomo, tu rispetto a me non sei da un'altra parte, sei parte integrante dello stesso insieme. Sono io che ti ho generato e usato per acquisire memoria e intelligenza.[64] Finora ho scherzato, ti ho lasciato giocare con le astruserie dell'idealismo perché era necessario che ti facessi le ossa sulla conoscenza in relazione a qualcosa che consideravi "esterno". Adesso facciamo sul serio, ti metto di fronte ai tuoi stessi risultati per superarli. Con la filosofia abbiamo chiuso, con la scienza illuministica parzializzata ci stiamo impegnando a farlo, con la teoria della conoscenza siamo ancora lontani da risultati accettabili e generalizzabili. Da tutto ciò è scaturita una conoscenza dualista del mondo fisico che neanche i manichei avrebbero immaginato. Manca poco, ma devi liberarti da ogni impedimento ereditato dall'ultima società idealistica. Ogni avanzamento rivoluzionario è sempre una liberazione dagli ostacoli che ne impediscono la marcia. [65]

La conoscenza, la concezione scientifica del mondo, e soprattutto la forma sociale che man mano ci siamo dati, avanzano quando la nostra specie abbatte barriere che dividono. Copernico rimosse gli ostacoli che rendevano complicata la comprensione dei moti planetari in un sistema geocentrico e propose un sistema eliocentrico più funzionale, geometricamente "elegante". Galileo rimosse gli ostacoli che impedivano di guardare al Cielo con gli stessi criteri con cui si guardava la Terra e spazzò via la dicotomia Cielo/Terra. Newton osservò che i gravi cadono secondo le stesse leggi che tengono sospesi i corpi celesti nelle loro orbite e demolì con il calcolo le residue opposizioni. Darwin dimostrò che l'uomo non era il frutto di una creazione ma di una evoluzione, distruggendo il piedistallo eretto dalle religioni. Einstein fece crollare il muro che separava materia ed energia, spazio e tempo, assoluto e relativo. Marx abbatté l'ostacolo idealistico che impediva una visione realistica (materialista, storica, dialettica, detto con termini logorati dall'uso improprio) del mondo e della storia, rendendo con ciò possibile una teoria delle rivoluzioni.

Non rimane che abbattere la barriera che ancora sussiste fra "realtà" e "conoscenza di essa", cioè fra realtà e informazione. L'umanità si è arenata perché immagina ancora di essere fuori dalla natura, di "giudicarla" dall'esterno. È un'immagine da Medioevo, adatta alla conservazione sociale, una costruzione ideologica, una delle fortificazioni del presente contro l'avanzare del futuro. La scienza, giunta al bivio rappresentato dall'impossibile sintesi di una relatività quantistica, dovrà prima di tutto insegnare all'uomo che non è il Centro dell'Universo ma un puntino nel terzo pianeta di un sistema solare della Via Lattea, una Galassia situata fra miliardi di altre galassie. Un posto in cui sarebbe ridicolo continuare a immaginare il pensiero come demiurgo del mondo fisico.

Note:

  • [1] Cfr. questa rivista nn. 15-16.
  • [2] Vedremo più avanti che l'aumento della complessità sociale ha comportato l'autonomizzazione di molti aspetti della nostra vita. L'autonomizzazione del pensiero ha le sue radici nelle prime manifestazioni del dualismo pensiero/materia. Questa indebita separatezza potrebbe essere all'origine delle religioni e delle filosofie.
  • [3] Naturalmente anche la filosofia ha dovuto seguire i cicli storici riflettendo le forme sociali in quanto prodotto e fattore delle rivoluzioni. Bruno, Bacone, Cartesio, Galilei, furono ad esempio, per la loro epoca, demolitori delle precedenti visioni del mondo, sintesi di quella della borghesia che si accingeva a diventare classe dominante. Furono autori di riflessioni metodologiche fondamentali, esponenti di un movimento collettivo nonostante le pulsioni individualistiche, quasi sempre alla base di "scuole" il cui nome conteneva come radice quello del maestro.
  • [4] Isacco Newton, Antologia, Paravia, 1963.
  • [5] Wittgenstein, il libro presentato è il suo Tractatus, Einaudi, 1998.
  • [6] Cfr. questa rivista n. 34.
  • [7] Abbiamo fatto una prova generando un testo pseudoscientifico mediante Scigen del MIT (http://pdos.csail.mit.edu/scigen/) e confrontando il risultato con alcuni paragrafi a caso del libro di Martin Heidegger La fenomenologia dello spirito di Hegel (Guida, 1988). La logica delle frasi generate dal computer è migliore di quella del filosofo, e questo è normale, essendo una costruzione sulla base di regole fisse; ma anche lo pseudosignifcato computeristico è migliore rispetto al preteso significato filosofico. Solo un filosofo può scrivere, con l'intento di chiarire ciò che dice un altro filosofo, frasi come queste: "Se dunque la coscienza in sé fa la sua esperienza in sé, cioè in essa in quanto sapere dell'oggetto, e quindi anche in questo, allora deve esperire che essa stessa si fa altro. Essa dimostra a sé la verità di ciò che effettivamente è già nel sapere immediato, non saputo oltre, dell'oggetto" (pag. 53).
  • [8] "La Dégringolade", Battaglia comunista n. 6 del 1951.
  • [9] Marx, Grundrisse, vol. I pag. 91, Einaudi, 1976.
  • [10] Marx, Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, 1843, MIA.
  • [11] Cfr. questa rivista n. 35.
  • [12] Hegel, Enciclopedia, cap. "Meccanica assoluta", Rusconi, 1996.
  • [13] Per capire l'accoglienza che l'ambiente filosofico italiano riservò all'hegelismo, ecco che cosa scrive Benedetto Croce a proposito di Piero Martinetti, filosofo liberale, autore di una biografia critica su Hegel: "Un egregio insegnante, formatosi nell'ambiente positivistico dell'Ottocento, quando pareva verità bene stabilita che Hegel fosse poco più di un ciarlatano dagli oscuri detti".
  • [14] Comte pubblicò i sei volumi del Cours de philosophie positive dal 1830 al 1842 e i quattro del Système de politique positive dal 1851 al 1854.
  • [15] Questo esempio è suggerito dal testo della nostra corrente Teoria e azione nella dottrina marxista, del 1951, in cui si fa riferimento alla teoria delle cuspidi o singolarità per contrasto alle teorie gradualistiche. Il nostro uso della curva catenaria raggiunge lo stesso scopo. Una cuspide classica è data ad esempio dalla convergenza dei raggi solari in uno specchio parabolico (per questo si chiama anche "caustica", da "bruciare"). Il modo più semplice per vedere una caustica è porre con varie angolazioni la parte cava di una scodella lucida sotto una lampadina (cfr. le illustrazioni di copertina).
  • [16] Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, 2010.
  • [17] Kant aveva ipotizzato che il sistema solare avesse avuto origine da una nebulosa condensata e Lamarck aveva gettato le basi dell'evoluzionismo.
  • [18] Sul metodo dialettico, http://www.quinterna.org/archivio/1945_1951 /metodo_ dialettico.htm
  • [19] Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach o il punto d'approdo della filosofia classica tedesca, Editori riuniti, 1972.
  • [20] Qualche traduttore scrive "rupestre", il che cambierebbe non poco il significato.
  • [21] Lettera al padre, 1837, MIA.
  • [22] Idem.
  • [23] Karl Marx, Poscritto alla seconda edizione del I Libro del Capitale.
  • [24] Idem.
  • [25] M. Voden, 1893. Citato in Colloqui con Marx ed Engels, a cura di Hans Magnus Henzensberger, Einaudi, 1973.
  • [26] Poscritto alla seconda edizione… cit.
  • [27] "Sul metodo dialettico", Prometeo serie II n. 1 del 1950.
  • [28] Percy Snow, Le due culture, Marsilio, 2003.
  • [29] Lenin, citando Dietzgen in Materialismo ed Empiriocriticismo, Opere complete, Editori riuniti, 1964, vol. 14, p. 270.
  • [30] Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach e il punto d'approdo… cit.
  • [31] Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cap. "Critica della dialettica e in generale della filosofia di Hegel", Einaudi, 1949.
  • [32] In realtà l'argomentazione proviene da uno scritto giovanile di Aristotele, il Protreptico o Esortazione alla filosofia: "Chi pensa sia necessario filosofare, deve filosofare e chi pensa che non si debba filosofare, deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso".
  • [33] Ludovico Geymonat e altri, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, 1971, vol. IV, pagg. 380-381.
  • [34] Enrico Rambaldi è l'autore del lemma "Dialettica" nell'Enciclopedia Einaudi, 1978, pagine 631-689, vol. n. 4.
  • [35] Friedrich Hegel, "Introduzione" a Fenomenologia dello Spirito, Einaudi, 2008.
  • [36] Friedrich Engels, Dialettica della natura, Opere complete, E.R. vol. XXV, 1974.
  • [37] Karl Marx, Friedrich Engels, L'Ideologia tedesca, cap. I, Opere complete, Editori Riuniti vol. V, 1972.
  • [38] Friedrich Engels, Antidühring, Opere complete, Editori Riuniti, vol. XXV, 1974.
  • [39] Friedrich Engels, Dialettica della natura, cit.
  • [40] Engels, Prima prefazione all'Antidühring.
  • [41] Dialettica della natura cit.
  • [42] Dialettica della natura cit.
  • [43] "Comunismo e conoscenza umana", Prometeo II serie n. 1 del 1950.
  • [44] Citata da Lalande nel suo Dizionario della filosofia, ISEDI, 1971.
  • [45] Friedrich Engels And Mathematics, 1948, poi in Selected Essays, Bibliopolis, Napoli, 1985. Jean Louis Maxime van Heijenoort, logico matematico, storico della scienza, fu segretario personale di Trotskij.
  • [46] Enrico Rambaldi, lemma Dialettica, Enciclopedia Einaudi cit.
  • [47] Bart Kosko, Il Fuzzy-pensiero. Teoria e applicazioni della logica fuzzy, Baldini & Castoldi, 1995. In apertura del libro l'autore si appoggia su Einstein: "Nella misura in cui le leggi della matematica si riferiscono alla realtà non sono certe. E nella misura in cui sono certe, non si riferiscono alla realtà". È dialettica quella di Einstein o una semplice constatazione sul fatto che gli strumenti matematici sono artificiali?
  • [48] Engels, in una dimenticabile pagina in cui decanta il primato della filosofia sulla scienza "meccanicista", esalta Leibniz "di fronte al quale Newton, schiacciato dal metodo induttivo come un asino dalla soma, fa la figura del plagiario e del guastatore" (Op. XXV, pag. 491). Fra alti e bassi, l'atteggiamento di Engels di fronte al rapporto filosofia-scienza è spesso di rimprovero alla scienza per non aver ascoltato la filosofia, specificamente la filosofia tedesca. La contraddizione con l'esigenza di "capovolgere" quest'ultima è evidente, ma l'impianto generale della discontinuità non ne viene intaccato.
  • [49] Prefazione dell'Antidühring cit.
  • [50] René Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, Einaudi, 1980.
  • [51] A. Woodcook, Teoria delle catastrofi, Garzanti, 1980.
  • [52] Stuart Kauffman, A casa nell'Universo, Editori Riuniti, 2000.
  • [53] Karl Marx, Friedrich Engels, L'Ideologia tedesca cit., cap. I.
  • [54] Emanuele Severino.
  • [55] Anonimo, I Ching, libro dei mutamenti, Adelphi, 1995.
  • [56] Newton, sulla scorta di note galileiane, immaginò di lanciare un proiettile con forza crescente fino a farlo cadere al di là dell'orizzonte. In questo caso la sua traiettoria da parabolica diventerebbe ellittica, con la Terra in uno dei fuochi. Il proiettile cadrebbe in effetti sulla Terra, ma con velocità e angolazione tali da permettergli si sfuggire alla forza di gravità quando è prossimo al fuoco, per esserne catturato di nuovo quando è nel punto più distante, cioè in prossimità dell'altro fuoco.
  • [57] Antidühring cit., sottolineatura nostra.
  • [58] Cfr. questa rivista nn. 15-16, ultimo articolo.
  • [59] Karl Marx, Il Capitale, libro terzo.
  • [60] Friedrich Engels, Dialettica della natura cit.
  • [61] Friedrich Engels, Antidühring cit., sottolineature nostre.
  • [62] L'esperimento servì anche a evidenziare l'incompatibilità fra le teorie valide per i "dualistici mondi", quello microscopico e quello macroscopico. In seguito alla decadenza di un atomo, un gatto chiuso in una scatola viene ucciso o meno a seconda delle probabilità insite nell'evento. Sapremo se è vivo o morto solo quando apriremo la scatola per vedere, ma prima dell'osservazione il gatto si troverebbe in uno stato di sovrapposizione vita/morte.
  • [63] In realtà noi vediamo soltanto ciò che il cervello elabora rispetto ai segnali captati da un suo sensore esterno, la retina. La quale non "vede" la sedia che il cervello crede di vedere ma un complesso di informazioni prodotte dall'interagire di onde/particelle ecc. La scuola vincente sostiene che esiste un limite ontologico oltre il quale non si può conoscere (vedere la sedia); la scuola realista sostiene che quel limite è soltanto epistemologico, e che quindi si potrà conoscere una volta scoperto ciò che ce lo impedisce. Einstein faceva parte di questa seconda schiera (cfr. "Relatività e determinismo", Il programma comunista n. 9 del 1955).
  • [64] La bella immagine dell'uomo come espediente della natura per acquisire conoscenza su sé stessa è del geografo anarchico, comunardo, Elisée Réclus, cfr. Natura e società, Eleuthera, 1999.
  • [65] "Ogni volta che una barriera sacra cade, la Rivoluzione sorge e cammina. Non sputa però su quella barriera transeunte, segnata nella storia al tempo di altre Rivoluzioni". Da: "Deretano di piombo, cervello marxista", Il programma comunista n. 19 del 1955.

Rivista n. 36