La socializzazione fascista e il comunismo (5)

5. La cinghia di trasmissione

Repressione, tolleranza, cooptazione

Riprendiamo una conosciutissima osservazione di Marx sulla dinamica della produzione di tipo capitalistico: la classe borghese non può esistere senza rivoluzionare in continuazione il suo modo di produrre e quindi tutti i rapporti sociali (Manifesto). Se ne deduce che non è necessario attendere la caduta del capitalismo per vedere rivoluzionati, almeno in parte, i suddetti rapporti sociali. Ciò significa che un importante cambiamento nel modo di produrre (siamo necessariamente sul piano tecnico, altrimenti dovremmo parlare di processo rivoluzionario politico) deve comportare un cambiamento nei rapporti sociali.

Se prendiamo in esame il rapporto di tipo sindacale (in senso lato) fra borghesia e proletariato, vediamo che in effetti, a ogni svolta nella crescita continua della forza produttiva sociale si è accompagnato un cambiamento di carattere discontinuo nei rapporti fra sindacato e "controparte" borghese. La nostra corrente ha individuato tre passaggi chiave nella storia di questi rapporti: una fase di repressione, una di tolleranza e una di cooptazione. Dovremmo riuscire a vedere una relazione fra atteggiamento giuridico e realtà di fatto man mano che il modo di produzione matura.

Si ha la prima fase all'inizio della manifattura, quando gli opifici erano poco più che assembramenti di artigiani sotto il tetto di uno stesso proprietario, ed era ancora vivo il ricordo delle corporazioni. Forse anche per questo l'associazionismo operaio era proibito, come se fosse un ritorno al feudalesimo nonostante la Rivoluzione. Comunque gli operai non erano organizzati a sufficienza per negare, rendere nullo il divieto.

Si ha la seconda fase quando, con l'introduzione delle vere e proprie lavorazioni industriali, l'operaio parziale sostituisce l'operaio completo e compaiono le prime macchine seriali. Lo stato incomincia a disciplinare la materia inerente al lavoro e il movimento sindacale non è più proibito ma tollerato in quanto contribuisce all'ordine industriale generale. Ciò non significa affatto che viene meno lo scontro di classe, anzi, è proprio in questo periodo che vengono fissate alcune "conquiste" attraverso grandi lotte.

Si ha infine la fase nella quale la produzione si fa così complessa da richiedere necessariamente progettazione e controllo, per cui, se non si stabilisce un canale diretto fra capitalisti e lavoratori, il sistema rischia di andare in blocco. È anche la fase in cui non è più lo stato a controllare il capitale ma, al contrario, è il capitale che controlla lo stato. È la fase più delicata, perché nel frattempo le macchine sono diventate sistemi di macchine, si sono automatizzate fino a diventare robot in grado di sostituire molte delle capacità umane. Ora lo stato ha bisogno di un interlocutore che sia in grado di far dialogare operai e capitalisti, così come le macchine dialogano con gli uomini (tramite appositi linguaggi e strumenti). La cooptazione è un modo per far parlare tra loro mondi diversi fornendoli di uno stesso linguaggio. Possiamo dire che in questa terza fase si impone l'adozione di un lessico comune che impedisca l'incomprensione fra le parti. Il linguaggio della produzione è semplice, non soffre di ideologismi, è uguale per il padrone e per l'operaio (la vite è una vite, il verbo tornire vuol dire una cosa sola, un processo produttivo è descrivibile con un vocabolario condiviso, ecc.), accomuna invece di dividere, è democratico perché tutti sono uguali davanti a una linea di montaggio che sforna merci tutte uguali, davanti al prezzo che non stabilisce Tizio, o Caio o Sempronio ma il mercato, anonimo e potente, globale e omologante.

Il fascismo è moderno: il suo carattere saliente è l'adattamento darwiniano delle ideologie, non importa quali, alla difesa degli interessi materiali della classe dominante. ("Che cosa è il fascismo", Il Comunista del 3 febbraio 1921 ). Come diceva lo stesso Mussolini, il fascismo non è questo o quello, è tutto insieme, basta che sia utile agli scopi per cui è nato. È una macchina per risolvere problemi. E siccome i problemi del capitalismo sono gravi, il fascismo non scherza in quanto a provvedimenti per salvarlo.

Al vertice della cooptazione sindacale, quando compare la corporazione sotto veste nuova, il fascismo-sindacato è il rappresentante perfetto degli interessi materiali della borghesia: è garante di fronte allo stato del welfare togliendo al salariato l'onere del risparmio per il medico, per la pensione, per crescere il figlio. Con l'IRI garantisce la distribuzione privata dei profitti e la socializzazione delle perdite; sposando la religione del lavoro garantisce uno stakanovismo medio permanente, utile a sostenere la patria. Il sindacato operaio, "che era nemico e il sabotatore dell'investimento bor ghese" diventa ora il garante di questo investimento, si fa carico dell'economia nazionale in quanto bene comune di tutte le classi ("Far investire gli ignudi", Filo del tempo del 1950).

Abbiamo visto che il retroterra del fascismo è costituito in gran parte dal movimento sindacalista rivoluzionario che vede nel "mondo del lavoro" l'ossatura produttiva della società e quindi la struttura attorno alla quale si deve formare la "politica". Il capolavoro politico fascista non è la dittatura in orbace ma l'inedito dialogo instaurato fra le forze produttive, individuate non nelle classi ma nella nazione. Nel 1914-15 la corrente interventista dell'Unione Sindacale Italiana (USI), che raccoglieva gli esponenti del sindacalismo rivoluzionario patriottico, fu espulsa. La guerra aveva impedito la riorganizzazione dei dissidenti, ma nel 1918 questi si riunirono e fondarono la Unione Italiana del Lavoro (UIL), il cui congresso costitutivo fu convocato da Edmondo Rossoni, futuro esponente del corporativismo fascista. Dal 1919 la UIL fu diretta da Alceste De Ambris, l'autore della Carta del Carnaro, e più tardi antifascista. Come abbiamo sottolineato, non si trattava solo di ambiguità politica, ma di un movimento che riteneva conciliabili gli estremi di classe del rapporto di lavoro. Era una tendenza storica, che i casi individuali di defezione alla De Ambris non modificarono. Del resto furono pochi coloro che voltarono le spalle alla tendenza che contribuirono a determinare. La UIL, nonostante sostenesse la necessità di un potere legislativo basato sulle corporazioni, rimase un sindacato con un proprio programma rivendicativo, cosa che produsse l'uscita della componente fascista (Rossoni, Bianchi, Panunzio), la quale fece proprio il programma politico esposto nella carta del Lavoro (1927) e posto poi alla base del corporativismo come essenza del fascismo.

Questo ritenere conciliabili gli estremi del rapporto di lavoro passò indenne attraverso la guerra e il ritorno del parlamentarismo democratico. In effetti dall'esperienza fascista non si tornò mai più indietro. Ciò non significa che quei dirigenti sindacali propensi a mantenere i Consigli di Gestione e a sottoscrivere il patto del lavoro per la ricostruzione fossero fascisti. Ma con il loro atteggiamento collaborativo a sostegno della crescita economica, preteso patrimonio di tutti, contribuivano a perpetuare i caratteri del sindacalismo ereditato dall'epoca precedente. Il fatto è che dato un sistema invariante ogni attività all'interno di esso senza lo scopo di demolirne le radici è svolta a favore del sistema stesso.

Il sindacalismo rivoluzionario

La costituzione della UIL nel 1918 è solo una tessera del mosaico sindacalista di tendenza fascista. Anzi, come già accennato, sarebbe meglio dire "scenario fascista di tendenza sindacalista", data la preminenza tra i quadri fascisti di uomini provenienti dal sindacalismo rivoluzionario.

Quindi, per affrontare la storia del sindacalismo plasmato dall'epoca imperialista bisogna partire quantomeno da quella del "sindacalismo rivoluzionario", una corrente che nasce in ambiente internazionale, ha successo all'inizio in Francia, patria di Proudhon, Bergson e Sorel, mette radici in Italia e trova spazio all'interno del Partito Socialista. In Italia attecchisce non solo per una sorta di predisposizione storica dovuta a un ambiente anarchico particolare distante dal bakuninismo (Malatesta, Cafiero, Costa), ma anche dall'atteggiamento del Partito Socialista, partito che sostiene per principio l'indipendenza e l'autonomia del sindacato e si pone come obiettivo lo sciopero generale espropriatore. Sono diverse le riviste che accolgono le posizioni del sindacalismo rivoluzionario: Pagine libere, rivista teorica apparsa nel 1906 e diretta da Angelo Oliviero Olivetti, uno dei fondatori del PSI; Avanguardia socialista di Arturo Labriola e Il Divenire sociale di Enrico Leone.

Ricordiamo che nella voce "Dottrina del fascismo" redatta per l' Enciclopedia Italiana, Mussolini nel 1932 rivendica non soltanto la corrente che si pone in continuità storica fra Sorel e il fascismo, ma anche quella che rimane ancorata al socialismo e che fa capo a Enrico Leone.

Quando la pubblicazione di Pagine Libere inizia, i sindacalisti rivoluzionari sono già in rotta di collisione con il Partito Socialista. Nel luglio del 1907 essi si riuniscono infine a congresso a Ferrara e decidono di uscire dal partito. La situazione rimane comunque contraddittoria, dato che alcuni gruppi erano contrari alla scissione nonostante ne avessero votato le motivazioni teoriche. Il caso più significativo fu quello della federazione di Roma, il cui animatore era il futuro segretario del partito Costantino Lazzari (1912-1919). Troviamo fra gli scissionisti Michele Bianchi (Bologna), poi diventato fascista, e Alceste De Ambris (Parma). Usciti dal PSI, i sindacalisti rivoluzionari continuano il loro lavoro all'interno della CGL per conquistarne la direzione, cosa che non riuscirà vista la prevalenza di elementi moderati alla sua guida. Molto combattivi, specie fra i braccianti, in seguito al rifiuto della CGL di organizzare uno sciopero generale, ne escono e si costituiscono in Comitato di resistenza, dando vita, nel 1912, all'Unione Sindacale Italiana, tra i cui fondatori ci sono Alceste De Ambris e Filippo Corridoni. I militanti dell'USI saranno molto attivi durante la Settimana Rossa (1914) e in molte delle lotte dei metallurgici e dei braccianti che si sviluppano nella Penisola.

L'uccisione dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo produce uno scossone all'interno dell'organizzazione portando alcuni dirigenti sindacali a spostarsi su posizioni interventiste; verranno tutti espulsi, e con lo scoppio della guerra alcuni di loro abbandoneranno l'attività sindacale per mettersi "al servizio della Patria", armi alla mano. Il nuovo segretario dell'USI è Armando Borghi.

Nel dicembre del 1914, i sindacalisti espulsi dall'USI (tra cui lo stesso De Ambris), e alcuni personaggi come Benito Mussolini, danno vita ai "Fasci d'azione rivoluzionaria internazionalista". Nello stesso periodo in cui si verifica la rottura tra neutralisti e interventisti nelle file dell'USI, incomincia le pubblicazioni Il Popolo d'Italia diretto da Mussolini, giornale socialista interventista che nella testata riporta due citazioni: "La rivoluzione è un'idea che ha trovato delle baionette" (Napoleone); "Chi ha del ferro, ha del pane" (Blanqui). Alla fine del conflitto alcuni sindacalisti interventisti che hanno partecipato attivamente alla guerra si riorganizzano e fondano L'Italia nostra (Sottotitolo: "La patria non si nega, si conquista"), settimanale diretto da Edmondo Rossoni, ex militante del PSI passato al nazionalismo.

La definizione di patria come oggetto non di negazione ma di conquista è particolarmente adatta a rendere evidente il passaggio storico dall'internazionalismo socialista al nazionalismo prima interventista, poi sindacalista, infine fascista: secondo il sindacalismo rivoluzionario anche il proletario avrà il compito di superare il negazionismo nel suo rapporto con il capitalista conquistando l'accesso alle strutture produttive delle quali sarà corresponsabile curatore e difensore. L'allarme lanciato per tempo dalla Sinistra Comunista "italiana" non aveva sortito effetti: il sindacalismo rivoluzionario era un falso amico del proletariato in quanto non solo non contemplava la funzione rivoluzionaria del partito, ma affidava la rivoluzione alla mistica dell'unione fra "produttori". Fin da prima della guerra la nostra corrente dovette criticare e combattere sia il riformismo-revisionismo tipo Seconda Internazionale sia l'inevitabile reazione immediatista del proletariato. Dovette quindi dar battaglia per demolire la concezione evoluzionista gradualista che tendeva al "ragionevole" superamento della dottrina catastrofista (compresa la parte integrante sulla funzione del partito), ma anche per demolire l'altrettanto "ragionevole" concezione dell'azione diretta, dell'organizzazione autonoma che, sola, avrebbe permesso di evitare gli effetti del tradimento dei partiti.

La nostra corrente ha sempre rifiutato le mistificazioni ideologiche sul "santo proletariato". Se quest'ultimo non si "erge a partito", la classe dei senza riserve non è in grado di muoversi come classe e resta un elemento interno alla società capitalista. È il partito che dirige la classe, che in esso si riconosce. Per il sindacalismo rivoluzionario, invece, la classe operaia ha tutto l'interesse a conquistare autonomamente, auto-organizzandosi, posizioni di forza entro questa società. Scrive ad esempio Angelo Oliviero Olivetti, ex socialista passato all'interventismo:

"Di mano in mano che l'operaio, il contadino conquisteranno migliori condizioni di esistenza, diventeranno più italiani, più cittadini, più uomini. E viceversa, o meglio reciprocamente, l'aumento di capacità politica culturale e morale delle classi lavoratrici, le renderanno più degne e più atte ad assumere il posto che loro compete di classe dirigente della nazione". ("Ripresa", L'Italia Nostra, 1 maggio 1918).

Questo diffuso senso di "socializzazione", bandiera della socialdemocrazia tedesca a cavallo tra il XIX e il XX secolo (cfr. E. Ströbel), era presente nel mondo socialista-sindacalista rivoluzionario vent'anni prima che Gramsci compilasse la sua versione. La classe operaia deve vivere per la nazione e farsi essa stessa nazione. Dalla rivendicazione socialista si passa a quella nazional-socialista, in una sorta di patriottismo operaio, che assume e generalizza un lessico ibrido sfacciato. Enrico Corradini, uno degli esponenti del nazionalismo italiano, propugna ad esempio la liberazione delle nazioni proletarie dal controllo di quelle plutocratiche: "Il socialismo è nostro maestro ma nostro avversario", diceva. Maestro perché insegna a utilizzare la lotta di classe in una dimensione internazionale, avversario perché pacifista. Mussolini parla di Italia proletaria e fascista, e Pascoli declama "La Grande Proletaria si è mossa" in un incredibile discorso dannunziano pronunciato in occasione dell'attacco alla Libia; mentre più vicino a noi nel tempo, dedica un fremito alla nazione proletaria anche Pasolini.

Produttivismo

Si è già detto che, nel giugno 1918, un nucleo di militanti sindacali nazionalisti dà vita all'Unione Italiana del Lavoro. Durante il congresso di fondazione del nuovo sindacato si delineano due posizioni, quella di Edmondo Rossoni che propugna l'apoliticità dell'organizzazione, l'autonomia e l'unità proletaria per giungere alla costituzione di uno stato di tipo sindacale; e quella di Alceste De Ambris, repubblicana e federalista, che vede il sindacato convivere con gli altri istituti statali senza sostituirsi ad essi. La posizione di Rossoni, che possiamo definire operaista, è quella che prevale: il primo articolo dello Statuto della UIL prevede infatti la possibilità di

"Avocare direttamente alla classe lavoratrice organizzata la gestione della produzione, della distribuzione e dello scambio della ricchezza" , e sostiene che il sindacato deve elevare il proletariato "alla dignità ed alla capacità di risolvere tutti i problemi della produzione, della cultura e della giustizia sociale."

I punti cardine dello Statuto della UIL sono molto simili a quelli enunciati nel Manifesto dei fasci italiani di combattimento (1919) e discussi nella riunione fascista di San Sepolcro a Milano, anche se Mussolini è più vicino alla posizione di De Ambris che a quella del "sindacalista puro" Rossoni.

È il periodo in cui Mussolini sviluppa le sue teorie produttiviste (il sottotitolo del Popolo d'Italia da "quotidiano socialista" diventa "quotidiano dei produttori") prese a prestito dalla CGT francese e dall'americana AFL, le quali da tempo lavorano per la realizzazione di una democrazia produttiva, un moderno corporativismo. Per queste forze sindacali, datori di lavoro e lavoratori devono collaborare per accrescere la ricchezza nazionale incrementando la produttività del lavoro. Il fatto che il produttivismo abbia attecchito in più paesi contemporaneamente dimostra che il processo di fascistizzazione della società era un'esigenza che emergeva dal profondo della struttura capitalistica, sempre più in crisi e sempre più bisognosa di interventi dall'alto. L'argomento della nazionalizzazione, cioè dell'intervento dello stato sulla proprietà in funzione di una utilità collettiva è sempre stato assai controverso. Nella maggior parte dei casi, la nazionalizzazione non intacca minimamente la struttura della proprietà, ma la trasferisce. Dal punto di vista del funzionamento capitalistico, che le fabbriche siano in mano ai privati o siano in mano allo stato non cambia assolutamente nulla. Non c'è alcun rapporto diretto fra la nazionalizzazione e il socialismo. Immaginiamo pure nazionalizzata tutta la struttura produttiva di un paese; ma se non è messa in discussione la struttura di un sistema basato sul mercato, sulle aziende e sulla produzione di merci il rapporto capitalistico non viene meno. Immettere denaro nel ciclo produttivo per ricavare più denaro è capitalismo a pieno titolo, anche se non ci sono capitalisti individuali. Il sindacalismo rivoluzionario afferma che l'espropriazione degli espropriatori è un atto politico più che una riforma economica. Diciamo che è una condizione necessaria ma non sufficiente. Chi si pone in posizione mediatrice fra il lavoro e il capitale può concepire la nazionalizzazione come un fattore decisivo, ma chi si pone in decisa antitesi vede invece benissimo che la chiave del problema economico non è la nazionalizzazione ma l'eliminazione del sistema di azienda. Vale a dire che i nuovi parametri per valutare la produzione sociale devono essere ricavati dal beneficio che ne deriva alla società nel suo insieme e non dal bilancio aziendale. Il controllo dello stato sull'economia può essere indipendente dalla proprietà fisica diretta. Detto controllo, che è "il portato naturale di tutto il suo sviluppo storico",

"può spingersi fino all'eliminazione della forma giuridica della proprietà privata individuale dei mezzi di produzione non solo senza eliminare, ma al contrario potenziando, quello che è il dato fondamentale del sistema di produzione capitalistico: lo sfruttamento del lavoro umano attraverso l'appropriazione del plusvalore." ("Le nazionalizzazioni arma del capitalismo", Prometeo, 1946).

Questo assunto è di importanza straordinaria: in tutto il mondo, fra le due guerre, si è imposta l'esigenza per gli stati di controllare il fatto economico: dal Portogallo all'Argentina, dall'Italia al Giappone, dalla Germania agli Stati Uniti, dalla Russia alla Spagna. Un effetto collaterale di queste politiche di controllo economico è il controllo sociale, che di solito, invece, è inteso come fattore determinante, come "attacco della borghesia alla classe operaia", come "offensiva padronale" ecc. La statizzazione dell'economia e delle strutture sindacali è una conseguenza della crisi storica del capitale giunto alla sua fase suprema, della combattiva risposta proletaria e della necessità di contrastare la caduta del saggio di profitto. Non c'è una relazione meccanica fra le tappe di questa sequenza, ma è chiaro che la caduta del saggio è dovuta al maturare della struttura capitalistica, e per contrastarla non c'è altra via che quella di controllare le cause materiali del fenomeno e favorire l'accumulazione.

Il Popolo d'Italia dedica molte pagine alle questioni dibattute nei primi due congressi della UIL. Mussolini ha tutto l'interesse ad avere una sponda sindacale che faccia da cassa di risonanza alle sue posizioni politiche, in quel periodo orientate a "sinistra". Egli ritiene fondamentale l'unità sindacale, da ottenersi con la fusione dei vari sindacati: l'intenzione del fascismo, che per adesso è un fenomeno perlopiù milanese, è quella di contendere al PSI l'egemonia del movimento sindacale. Ed è in questa prospettiva che il giornale citato dà un enorme spazio ai temi sindacali, specie se significativi per il fascismo, come lo sciopero dei fonditori milanesi (gennaio 1919) durante il quale i sindacalisti di "destra" con le loro rivendicazioni superano a "sinistra" CGL e FIOM sul tema dei minimi di salario e delle paghe orarie.

Gli scioperanti che occupano la fabbrica di Dalmine issando il tricolore sul pennone dello stabilimento non fanno che mettere in pratica alcuni punti delle teorie produttivistiche: essi vogliono dimostrare che anche riducendo l'orario di lavoro si può produrre di più e meglio. E infatti per tutta la durata dello "sciopero" la produzione continua sotto controllo operaio. Quando di lì a poco l'Ordine Nuovo di Gramsci darà forma teorica alla deleteria illusione di poter risolvere il problema sociale con una formula organizzativa dei produttori, si generalizzerà l'occupazione delle fabbriche (1920) in continuità con l'esperienza di Dalmine, al confine fra la socializzazione fascista e quella socialista.

I Sindacati Economici

Per le giornate del 20 e 21 luglio del 1919 viene organizzato uno sciopero internazionale in solidarietà con la Russia bolscevica e contro la presenza di truppe dell'Intesa in Russia e in Ungheria. La mobilitazione non produce gli effetti voluti: i sindacati francesi all'ultimo momento si ritirano e in Inghilterra le adesioni allo sciopero sono modeste; lo stesso vale per l'Italia. Si tratta di una sconfitta che spinge la borghesia italiana a riprendere coraggio per lanciare una controffensiva contro il movimento operaio.

"Sotto questo profilo — scrive De Felice — si può anzi dire che con lo 'scioperissimo' del luglio 1919 incominciò in Italia il declino dell'ondata rossa, quel declino che, attraverso il fallimento dello sciopero torinese dell'aprile del '20, sarà irrimediabilmente consacrato di lì a poco più di un anno dal fallimento dell'occupazione delle fabbriche". (Mussolini il rivoluzionario 1883-1920).

Durante lo "scioperissimo" (come verrà chiamato) alcuni gruppi di lavoratori (in prima fila i postelegrafonici) boicottano la chiamata alla lotta e non interrompono il lavoro. Si tratta di un primo smottamento del "fronte del lavoro": questi gruppi daranno vita di lì a poco al fascio postelegrafonico e si organizzeranno nei Sindacati cosiddetti economici, che si dichiarano apolitici, autonomi anche dalla UIL, considerata troppo politicizzata. Durante lo sciopero di luglio la UIL assume una posizione ambigua: all'inizio si oppone all'agitazione in quanto contraria a manifestare solidarietà ai bolscevichi, ma, facendo parte del comitato internazionale dei sindacati interventisti che aderisce alla mobilitazione, decide infine la propria partecipazione pur mantenendo una posizione autonoma.

Dopo il II Congresso dei Fasci svoltosi a Milano nel maggio 1920, il movimento fascista abbandona il programma del fronte di unità proletaria, non sostiene più la UIL, considerata troppo a sinistra, e simpatizza per i nuovi organismi. Nel novembre viene fondata la Confederazione italiana dei Sindacati Economici, che, nonostante la sua pretesa apoliticità, sarà presto improntata a un sindacalismo dichiaratamente anti-socialista. In parallelo allo "spostamento a destra" del fascismo, si fanno più frequenti gli scioperi in solidarietà alla Terza Internazionale, e i lavoratori aderenti al Sindacato Ferrovieri (SFI) appoggiano tutte le azioni organizzate contro l'invio di armi in Russia destinate alle forze controrivoluzionarie. Ma gli scioperi vengono puntualmente ostacolati dal Sindacato Economico Ferrovieri sostenuto dai fascisti che, dimentichi delle simpatie filo-bolsceviche della prima ora, non hanno più alcuna finalità "socializzante" e perciò alcuna motivazione politica per assecondare l'ondata storica che era passata da Mosca.

Rivista n. 42