A che punto è la "crisi"

Era il 2008, l'anno ufficiale della crisi cosiddetta "dei subprime", ma le avvisaglie c'erano già state nell'anno precedente. Le banche erano in crisi di liquidità, segno che i capitali si muovevano sempre meno. Nessuno sembrava farvi caso, la situazione era considerata normale, anche se ad esempio la francese BNP Paribas aveva segnalato ufficialmente grosse difficoltà, l'inglese Northern Rock era andata sull'orlo del fallimento e l'americana Bear Sterns era stata acquisita in extremis da JP Morgan con denaro pubblico. Si incominciò a parlare di mutui subprime all'inizio del 2008, ma non era ancora di dominio pubblico il fatto che su tali mutui erano stati creati dei titoli i quali erano stati "cartolarizzati" in altri titoli derivati complessi, ecc. Il ministro del Tesoro americano, Hank Paulson, era intervenuto per dire che "il peggio era alle spalle". Difficile credere che non mentisse, ma era anche plausibile che non riuscisse a capire quel che stava succedendo: la situazione, lasciata in mano a un mercato fuori controllo aveva effettivamente prodotto un'autonomizzazione dei processi finanziari. Inoltre, il ricorso a computer che elaboravano dati sulla base di algoritmi complessi aveva portato i mercati al di là della facoltà di comprensione umana.

A luglio il governo americano aveva congelato due società finanziarie specializzate in mutui per le famiglie. Erano già semi-statali, lo stato ne prese il controllo totale. La Federal National Mortgage Association (Fannie Mae) e la Federal Home Loan Mortgage Corporation (Freddie Mac) vennero in seguito salvate con denaro pubblico, praticamente nazionalizzate. Era iniziata la crisi più colossale mai vista, peggiore anche di quella del 1929. Col verificarsi dell'impensabile: le case, che rappresentano l'ultima spiaggia per la salvaguardia del valore monetario del capitale da "investimento" (leggi: speculazione) specie durante le crisi, invece di assorbire le oscillazioni di valore nel mercato mobiliare (azioni e titoli vari) aumentando di prezzo, avevano contribuito ad aggravare la crisi scendendo di prezzo.

Il meccanismo perverso che aveva provocato la discesa dei prezzi immobiliari invece di farli salire fu dovuto al particolare bisogno delle banche di fare cassa, cioè di concedere prestiti in denaro virtuale (garantito da una percentuale sui depositi) in cambio di denaro reale che sarebbe entrato man mano i mutui fossero stati pagati. Si erano concessi mutui anche a coloro che non erano solvibili, per cui venne il momento della scoperta del bluff: a partire dalla seconda metà del 2006, le case pignorate dei clienti morosi erano state immesse sul mercato deflazionandolo. I capitali speculativi, non più coperti dall'aumento di "valore" delle case, si erano congelati in attesa di momenti migliori, e si era così innescata una crisi storica di liquidità senza precedenti. Crisi alla quale i governi avevano risposto con l'immissione sul mercato di quantità enormi di moneta. Per tutto il 2007 pignoramenti e vendite si erano susseguite mettendo a rischio molte banche d'affari. All'inizio di settembre del 2008 due di queste, Goldman Sachs e Morgan Stanley erano state declassate a banche normali. Il 17 settembre una delle più potenti banche d'investimento del mondo, l'americana Lehman Brothers, fra le più attive nei mercati ad alto rischio, aveva dichiarato bancarotta. Tutti pensavano che fosse troppo grande perché la si lasciasse fallire, ma il governo americano la considerava troppo grande anche per sopravvivere, e non si doveva fornire un precedente ad altre banche. Fu lasciata al suo destino e fallì. Le borse erano crollate sotto il peso della tardiva comprensione di quanto stava succedendo, la crisi si era allargata a macchia d'olio. La consapevolezza di quanto fossero "tossici" non tanto i mutui quanto i metodi per venderli ad alto prezzo nonostante fossero spazzatura, non aveva modificato l'atteggiamento generale delle banche, dei governi e dei privati. Ma non erano crollate solo le borse, era soprattutto crollata la produzione industriale in quasi tutti i paesi del mondo (e in alcuni casi, dopo un decennio, non è ancora ritornata al livello di partenza). L'indice Dow Jones aveva bruciato un record dopo l'altro sulla scala dei rialzi. Nella storia del capitalismo non si era mai vista una separazione così netta fra la realtà produttiva e il sogno del capitale fittizio, quello di valorizzarsi nella mera circolazione di denaro.

Indice produzione industriale 2008Figura 1. Produzione industriale. Dall'alto: Germania, area Euro, Francia, Italia, Spagna. Solo la Germania ha sfiorato l'indice del 2008.

A quattro anni dall'inizio della crisi, nel 2012, negli Stati Uniti erano stati cancellati 8,8 milioni di posti di lavoro, mentre il patrimonio delle famiglie era stato decurtato di una cifra superiore al Prodotto Interno Lordo americano, cosa che si era riflessa sulla povertà, nella quale erano precipitati 46 milioni di americani. Il fatto è che, dati i meccanismi delle crisi, ci vuole un niente per scatenare una reazione a catena ma ripartire come se niente fosse non è possibile: l'ascesa storica del capitale fittizio è garantita dal capitale produttivo (quello che unito alla forza lavoro produce plusvalore), mentre la sua ascesa contingente non ha alcun riferimento con il mondo della produzione di plusvalore. Nel primo caso esistono agganci con il mondo reale, fabbriche, società di servizi, rendita agraria o urbana, ecc. Nel secondo caso tutto si svolge nell'ambito di un capitale che vuole valorizzarsi attraverso sé stesso, ogni riferimento alla realtà fisica è scomparso.

Il capitale non si moltiplica per scissione come l'ameba: ha bisogno di un padre e di una madre, lavoro e merce. Il ciclo è infinito, ma lo possiamo spezzare e far iniziare dalla produzione di una merce. La quale, venduta, si trasforma in denaro, che possiamo collocare all'inizio di un ciclo di valorizzazione. Produzione, merce, denaro, non c'è nessun segreto nella riproduzione del capitale: per capirne il meccanismo è sufficiente non essere arruolati fra i credenti della strana religione del capitalismo, che contempla una partenogenesi del denaro. Vediamo una dimostrazione elementare del rapporto uomo-macchina:

Prodotto per lavoratore - numero di operai per unità di mezzi di produzioneFigura 2. La linea ascendente è il prodotto per lavoratore (produttività); la linea discendete è il numero di operai per unità di mezzi di produzione.

Le due curve devono essere confrontabili come scala, altrimenti non avrebbe senso sovrapporle. Quindi abbiamo due indicazioni piuttosto pesanti: 1) mentre il primo diagramma potrebbe teoricamente salire all'infinito (un solo operaio e milioni di robot), il secondo ha un limite che è lo zero. Con zero operai per unità di mezzi di produzione non si produce plusvalore; zero addetti vuol dire tutti disoccupati, che si fa? Li si lascia alla fame? Gli si dà un reddito indipendentemente dal fatto che lavorino o meno? 2) molto prima che si arrivi a questi estremi la società capitalistica salta, le contraddizioni sociali esplodono prima della deriva economica. Quindi è utile fare qualche considerazione su che cosa è realmente il capitalismo adesso. Il punto in cui si intersecano le due linee può essere interpretato come equilibrio fra una certa produttività e un certo numero di addetti per unità di mezzi di produzione, una specie di traguardo ottimale. Sono passati trent'anni e la forbice si è enormemente allargata. Questo non è più capitalismo, è una società nella quale pochi addetti fanno da guardiani a un mondo di macchine dalle quali, come si sa, non può essere estratto plusvalore se non sono accudite da operai.

Saggio di profitto mondialeFigura 3. Saggio di profitto mondiale. La caduta storica è eclatante, ma probabilmente il grafico non tiene conto delle deformazioni dei dati indotte da una società che produce profitto in buona parte nella sfera dei servizi, difficilmente analizzabili se si vuole giungere alla classica formulazione di Marx: T = p/(c+v).

Un saggio di profitto mondiale al di sopra del 10% ci sembra eccessivamente alto, tenendo conto che c'è una relazione tra saggio di profitto e interesse medio, e quest'ultimo, almeno per quanto riguarda il tasso ufficiale di sconto (tasso di riferimento) è prossimo allo zero (i due grafici sono un'elaborazione di G. Carchedi e M. Roberts, The World in crisis, Zero Books).

La "coda piatta" dal 1981 in poi sembra indicare che la caduta è stata fermata, ma non va interpretata come indice di salvezza bensì come indice di una omeostasi del sistema, che non può scendere più in basso ma nemmeno rivitalizzare le proprie prestazioni. Tutti i dati convergono verso una conclusione: lo stadio cui è giunto il capitalismo non permette più vie d'uscita come la guerra del 1939-45, quando si è verificato l'ultimo sprazzo di vitalità, cioè di stimolo alla produzione e al consumo. Come abbiamo detto più volte, il sistema economico-sociale a forza di autoregolarsi è entrato in una fase di "retroazione negativa", cioè di interventi per evitare che esploda sui mercati la micidiale quantità di capitale finanziario: un po' come fa il termostato che spegne l'impianto quando a temperatura raggiunge un certo livello. Ma il capitalismo è un sistema a "retroazione positiva", non si può spegnere l'impianto quando cresce la temperatura, cioè la produzione; anzi, quella crescita è considerata benefica e quindi è voluta.

La prossima botta

Sono stati sufficienti gli incrementi di qualche parametro sovrastrutturale per far circolare un po' di ottimismo, ma l'atmosfera festaiola, sottolineata da un qualche record di Wall Street o dalla capitalizzazione dei mostri informatici, è finita molto presto. È bastato un crollo alla borsa dei titoli tecnologici per ricordare a tutti che il mondo non è ancora riuscito a recuperare l'andamento interrotto nel 2008. I dati positivi del PIL americano e, a livello di cifrette insignificanti di altri paesi, non hanno convinto il capitale ad investirsi in qualcosa di materiale, e quindi non si è vista la proverbiale locomotiva americana trascinare tutti verso un radioso boom economico.

Il 2018 è stato un anno così così per quanto riguarda le cifre, ma assai buio per quanto riguarda il potenziale. Tutti i cosiddetti fondamentali annunciano tempeste. Lo si sente nell'aria, non di meno nessuno ha il coraggio di prendere decisioni per la semplice ragione che nessuno sa quali possano essere. La diminuzione dei tassi negli Stati Uniti ha spinto il PIL trimestrale ad un aumento del 4% su base annua, ma è un episodio, non una tendenza. Il FMI prevede anzi che ci sarà una diminuzione degli incrementi percentuali. Situazione pericolosa, che si può trasformare, se dura, in una diminuzione dei valori assoluti.

Come sempre, i vari paesi non si mettono in sintonia e procedono in ordine sparso. È la normale anarchia capitalistica, ma ci si potrebbe aspettare che, di fronte ai disastri che si preparano, tentassero un minimo di coordinamento. Invece no: Washington abbassa i tassi dopo otto rialzi consecutivi, mentre il Giappone va a tassi sottozero, e l'Europa cosiddetta unita sembra ripromettersi di aumentarli ma poi non li aumenta. La Cina, ormai grande protagonista, usa la sua potenza economica in modo a volte sorprendente: con la scusa di un leggero rallentamento dell'economia ha abbassato i tassi. Quando i tassi aumentano negli Stati Uniti senza che gli altri paesi possano o vogliano sincronizzarsi, aumenta il "valore" del dollaro. Per un paese indebitato avere una valuta sopravvalutata è un vantaggio: anche se ne soffrono le esportazioni, già in deficit, si comprano più merci con la stessa quantità di denaro. Allora la Cina aiuta gli Stati Uniti a gestire il loro immenso debito? Per contro i paesi indebitati in dollari hanno uno svantaggio evidente, come stanno provando Turchia, Argentina, Pakistan. L'insieme di questi paesi (detti impropriamente emergenti) è la fonte del 59% della produzione mondiale e le manovre scomposte dei paesi più potenti possono avere effetti esplosivi. Al punto in cui è arrivata l'integrazione mondiale del sistema capitalistico, non ci sarà semplicemente una "crisi asiatica" come vent'anni fa.

È vero che il sistema bancario si è assestato dopo i disastri iniziali e quindi è più resiliente, cioè meno sensibile al cambiamento, ma sui mercati più attivi, quelli dei paesi ancora in crescita, stanno avanzando notizie non buone per i capitali in cerca di valorizzazione. Succederebbe in pratica questo: non solo gli Stati Uniti in leggera crescita non fungono da locomotiva, ma quasi tutti i paesi ancora in crescita fungeranno fra poco da freno per i paesi "ricchi" anche senza andare in recessione. Siccome la politica anticrisi si è basata in gran parte sulla manipolazione dei tassi, i quali sono già calati a causa degli interventi di questi ultimi anni fino a raggiungere lo zero in alcuni paesi (Giappone e zona euro), non c'è più spazio su quel versante.

L'aumento della spesa pubblica comporta tensioni politiche: nonostante le resistenze, gli Stati Uniti hanno aumentato il tetto del deficit al 4%. L'Europa troverebbe già alto un tasso della metà. Il ritorno alla politica del quantitative easing (acquisto di nuove emissioni di titoli per mezzo delle riserve delle banche centrali) potrebbe risultare inefficace, come sarebbe inefficace la leva fiscale (tassare i pochi supercapitalisti e detassare i tanti a basso reddito). Allora non resterebbe che offrire denaro direttamente alle imprese e agli individui, soluzione peraltro già prospettata all'inizio della crisi e mai effettivamente provata. Qualcuno propone, al contrario, di abbassare i sussidi ai disoccupati perché rappresentano un "automatismo perverso": aumentano la spesa producendo più danni che vantaggi, con buona pace per la "propensione marginale al consumo". Insomma, il mondo entrerebbe nella nuova recessione assolutamente disarmato di fronte ad essa.

La situazione politica non facilita le cose al capitale: mentre l'incombente crisi bis avrebbe bisogno di una sintonia internazionale, di un coordinamento delle misure, s'ingrandisce l'area politica cosiddetta sovranista, che propugna esattamente il contrario: protezionismo, rilocalizzazione, espulsione della manodopera straniera, svalutazioni competitive. Il capitale, che aveva spinto il pianeta alla globalizzazione autonomizzandosi sempre di più, adesso deve fare i conti con la borghesia nazionale dei vari stati che, per proteggere i propri interessi, tira i remi in barca. Proprio mentre gli Stati Uniti aumentano i dazi sulle merci che importano dalla Cina, quest'ultima minaccia di inasprire la svalutazione già in atto dello yuan. Entrambi a protezione delle proprie esportazioni. È una dichiarazione di guerra.

Rivista n. 44