Imperialismo in salsa cinese

"Può sembrare un'affermazione strana e perfino paradossale che la prossima sollevazione del popolo europeo, e il suo prossimo movimento a favore della libertà e di un sistema di governo repubblicano, possano dipendere più probabilmente da ciò che avviene nell'Impero Celeste che da qualunque altra causa politica attuale. Ma non è un paradosso, come possono capire tutti esaminando i vari aspetti della questione" (Marx, Rivoluzione in Cina e in Europa, 14 giugno 1853).

Dal gadget alla fresatrice universale

Si parla della Cina come di un grande paese produttore ed esportatore di beni di consumo, ma il rapido sviluppo sta cambiando la struttura delle sue esportazioni: oltre ai prodotti di consumo la Cina sta esportando macchine, cioè mezzi di produzione o comunque beni durevoli. La grande diversificazione dei tipi di merci esportate fa sì che le variazioni nelle differenti sfere produttive si bilancino nel risultato finale, per cui, ad esempio, Pechino sembra non risentire della "guerra dei dazi" cominciata dagli Stati Uniti di Trump. L'aumento del 25% dei dazi su acciaio e alluminio non ha rallentato sensibilmente gli scambi tra i due paesi e non c'è stato il temuto effetto sui prezzi internazionali. D'altra parte conseguenze clamorose erano prevedibili in un mondo che produce 1,66 miliardi di tonnellate di acciaio, di cui un miliardo solo in Cina. Tanto più che la quantità di acciaio importato dagli Stati Uniti, se è notevole in relazione al loro fabbisogno interno (circa 30 milioni di tonnellate su 115 milioni), risulta quasi insignificante in relazione alla produzione cinese. Insomma, l'impatto sulla Cina è stato quasi nullo, si è trattato più di un bisogno politico interno americano che di una "guerra" economica contro Pechino.

Attualmente la struttura dei dazi americani sulle merci cinesi comporta tariffe che vanno dal 10 al 25% su 250 miliardi di dollari in merci importate. Sui restanti 267 miliardi, sempre di merci importate, incombe la minaccia di Trump di elevare le tariffe al 25% se la Cina non abbandonerà il proprio comportamento selvaggio nella concorrenza, a cominciare dall'indifferenza verso i brevetti e la proprietà intellettuale in genere, per finire alle manovre monetarie volte a mantenere sottovalutato e quindi concorrenziale lo Yuan. La manipolazione del tasso di cambio nominale ha una notevole importanza per i paesi che hanno un grande volume di importazioni/esportazioni. L'aggancio al dollaro, operante nel periodo che va dalla crisi delle "tigri asiatiche" del 1997 sino al 2005, era perseguito e ufficialmente dichiarato. Si voleva impedire che l'acquisto di merci cinesi mettesse sotto pressione lo Yuan portando in questo modo al suo apprezzamento. Inoltre, il tasso di cambio "fisso" permetteva stabilità e dava continuità ai flussi di capitali in entrata.

Era il periodo in cui fiorivano l'outsourcing delle produzioni verso la Cina e la sistematica imitazione, da parte di quest'ultima, dei brevetti che avrebbero dovuto proteggere le tecnologie importate. Questo mentre il flusso in uscita riguardava il massiccio acquisto di titoli finanziari occidentali, specie i buoni del tesoro americani. Dal 2000 circa la moneta cinese è stata agganciata ad un paniere di monete e si è lentamente rivalutata rispetto al dollaro, tanto che la rivalutazione reale è di entità addirittura maggiore di quella nominale. Nonostante ciò, si continuano a registrare avanzi commerciali rispetto agli Stati Uniti. Walmart, il maggiore importatore americano di merci cinesi, mette in guardia contro politiche restrittive come quelle protezioniste. La richiesta americana di sviluppare i consumi interni della Cina per abbassare il livello di concorrenza sul piano internazionale è controproducente: l'aumento dei salari nei distretti industriali avrebbe già causato un aumento dei prezzi all'origine, aumento non trasferibile sul consumatore americano senza che ne consegua uno stimolo all'inflazione.

Di fronte all'iniziativa di Washington, Pechino ha risposto aumentando i dazi al 25% su 60 miliardi di importazioni, specialmente su soia e cereali, guarda caso i prodotti la cui coltivazione è concentrata negli stati che hanno votato Trump.

Nonostante queste scaramucce non c'è pericolo che saltino gli interessi reciproci e, se di "guerra" proprio si deve parlare, essa consiste semmai nella radicale variazione nella struttura delle esportazioni cinesi; è quindi una guerra che non si svolge a colpi di dazi ma di merci e mercati in cui farle circolare. La Cina non è più soltanto la "fabbrica del mondo" subordinata a committenti che la usavano per dislocare le proprie aziende e per diversificare i loro investimenti, ma è diventata un paese imperialista che combatte con le stesse armi dei suoi concorrenti.

Tra il 2007 e i 2016 la Cina ha visto una crescita del 20% delle esportazioni di macchinari e di beni durevoli: locomotive, navi petroliere, caldaie, gruppi elettrogeni, impianti di condizionamento, pannelli fotovoltaici, monitor a cristalli liquidi o a led. Ciò accadeva mentre le sue esportazioni in generale crescevano del 5% contro il 2% del resto del mondo. In termini assoluti la Cina detiene il 32% delle esportazioni mondiali di beni a media tecnologia e il 20% di quelle dei mezzi di produzione. E, mentre una volta la concorrenza cinese si svolgeva del tutto sul terreno dei prezzi, oggi si incomincia a sfidare il macchinario occidentale sul terreno della qualità. Il capitale è troppo impaziente per aspettare che gli uomini predispongano i loro piani, magari a lunga scadenza. Perciò, come sempre da quando esiste il capitalismo, costringe la borghesia a rivoluzionare di continuo il proprio modo di produzione (Manifesto).

Composizione delle esportazioni cinesiFigura 1.
Tasso di crescita settoriale delle esportazioni cinesiFigura 2.

Avanzi commerciali crescenti

In che modo, attraverso quali percorsi, si è arrivati a questa efficienza nel caso della Cina? Paradossalmente, le spiegazioni date dagli economisti borghesi, che le derivano dai loro economisti classici, sono tanto più valide quanto più i loro enunciati sono banali. Qualche esempio: se aumenta la massa monetaria senza un corrispettivo di produzione ex novo di "valore aggiunto" c'è pericolo di inflazione. Oppure: abbassando il costo del denaro si stimola l'economia. Oppure ancora: se si svaluta la moneta di un paese, quel paese diventerà concorrenziale sul mercato estero. Questo tipo di enunciati si ferma però alla superficie del fenomeno, che invece dovrebbe essere affrontato dal punto di vista della struttura produttiva cinese in evoluzione storica cioè tenendo conto che:

1) la concorrenza sul mercato interno ha permesso di raggiungere grandi economie di scala, tanto che si è passati in breve tempo dalla produzione in massa ottenuta con una massa crescente di operai alla produzione in massa prodotta con una massa calante di operai;

2) l'aumentato ricorso a tecnologie avanzate importate dall'estero ha condotto alla generalizzazione delle tecnologie stesse raggiunta copiando sistematicamente i brevetti;

3) una gigantesca produzione di mezzi di produzione ha innescato un circolo virtuoso all'insegna dell'aumento della produttività nel settore dei beni capitali. Nei distretti industriali ciò si è tradotto in un aumento dei salari ma a fronte di un'aumentata massa del plusvalore, cosa che ha permesso di incrementare i consumi interni senza influire negativamente sul saggio di profitto.

La Cina non può più essere analizzata con gli stessi criteri utilizzati fino al recente passato. Non è più un "paese in via di sviluppo".

Secondo alcuni analisti cinesi questo trend si rafforzerà perché si prevede che per effetto della concorrenza le aziende aggiorneranno la loro linea di produzione in termini tecnologici, specializzandosi ulteriormente. Cambia completamente anche il tipo di approccio del mondo occidentale nei confronti della Cina: la metà dei mezzi di produzione cinesi esportati è indirizzata verso paesi emergenti, non facenti parte dell'OCSE ed è fabbricata in Cina da un 43% di società che hanno partecipazioni straniere. È un paradosso che ha conseguenze imprevedibili: i paesi dell'OCSE producono in Cina buona parte dei mezzi di produzione che fanno loro concorrenza sul mercato mondiale.

Dal 1992 al 2016 la Cina ha registrato avanzi commerciali crescenti, tranne che nel 1993. Dal 1992 al 2003 si osservano due fenomeni significativi. Per quanto riguarda le esportazioni, la componente in beni di consumo cala dal 60% al di sotto del 40%. Quella in beni capitali aumenta e passa, dal rappresentare il 10%, a quasi il 50%. È sotto il 10% la esportazione di materie prime. Stabile invece la componente in beni intermedi (figura 1). Tralasciamo i valori assoluti in termini monetari dell'export e delle sue componenti e cerchiamo di capire, guardando ai valori differenziali, come questo sorpasso sia avvenuto. Se consideriamo i tassi di crescita annui (figura 2) vediamo che la scalata dei beni capitali sul totale delle esportazioni è stata "così veloce" in virtù di una maggiore crescita annua. Tale crescita vertiginosa si è avuta fino al 2008, anno in cui il tasso di crescita di questa componente incomincia a seguire grosso modo l'andamento dei beni di consumo e dell'export totale. Guardando alle importazioni (figura 3) balza agli occhi il ridimensionamento della componente dei beni intermedi mentre cresce l'importazione di materie prime e semilavorati.

Composizione delle importazioni cinesiFigura 3.
Esportazioni nette di beni capitaliFigura 4.

Esportazione di beni capitali

La quota dei beni capitali importati rispetto alle importazioni complessive si mantiene, grosso modo, a livello di quella dei beni capitali esportati; ma ciò non vuole dire che si esportino tanti beni capitali quanto se ne importano, perché la massa delle esportazioni è maggiore di quella delle importazioni. Il paese è, infatti, esportatore netto di beni capitali dal 2005 (figura 4).

Esportazione di beni intermedi e di consumo

Le esportazioni nette più alte si hanno nel settore dei beni di consumo, in avanzo negli ultimi 25 anni (figura 5). Diversa è la situazione per le materie prime delle quali la Cina è importatore netto (figura 6).

Esportazioni nette di beni di consumoFigura 5.
Esportazioni nette di materie primeFigura 6.

Più sensibile a variazioni l'andamento delle esportazioni dei beni intermedi (figura 7), probabilmente a causa dei rapporti monetari Yuan-Dollaro. Malgrado il minor peso dei beni intermedi sulle importazioni, la Cina rimane la fabbrica trasformatrice del mondo.

Esportazioni nette di beni intermediFigura 7.
Investimenti esteri diretti in entrata e in uscita dalla CinaFigura 8.

Aggiorniamo al 2017 la serie storica degli investimenti esteri diretti e aggiungiamo qualche considerazione (Figura 8). Il grafico mostra l'afflusso netto degli investimenti diretti (valore dell'investimento diretto verso l'interno effettuato da investitori non residenti) e il deflusso netto di investimenti esteri diretti (valore degli investimenti diretti verso l'esterno effettuati dai residenti). Il grafico aveva un andamento esponenziale che schiacciava le spezzate e non permetteva di capire gli ordini di grandezza delle due quantità, è stato rappresentato in scala logaritmica sulle ordinate. Basta per evidenziare l'andamento delle grandezze. Notare come esse si equivalgano nel 2015.

Il sorpasso

I due indicatori nell'anno 2017 ci dicono che la Cina non ricopre ancora pienamente il ruolo di paese rentier. Le grandezze rappresentate nel grafico esprimono due trend storici distinti. Il costante surplus di investimenti esteri diretti degli ultimi trent'anni rifletteva l'attrattività, per i capitali internazionali, di un comparto manifatturiero competitivo, di un largo mercato da un miliardo di consumatori, di un paese in via di sviluppo con tassi di crescita annui a due cifre. L'economia cinese era la destinazione di tutti quei capitali che in patria non trovavano adeguata valorizzazione, a causa di un basso saggio di profitto. Ma il surplus si è velocemente ridotto negli ultimi otto anni, perché i capitali cinesi all'estero in cerca di una migliore remunerazione sono aumentati più velocemente di quelli occidentali in Cina. Tutti gli osservatori registrano riguardo a detto periodo il rallentamento della crescita cinese, che passa da un massimo del 13% al 6-7% annuo. Sotto la spinta di un abbassamento del ritorno sugli investimenti domestici, le autorità cinesi hanno allentato i draconiani controlli sui movimenti di capitali, continuando però lo stretto monitoraggio su di essi. Il sorpasso tra le due grandezze è stato accelerato dal crollo della borsa di Shangai dell'agosto del 2015, che ha visto cadere, in tre settimane, l'indice borsistico del 30%. Una tale distruzione di capitale fittizio, con il conseguente disinvestimento da parte di operatori esteri, ha portato gli investimenti esteri diretti in uscita a superare, temporaneamente, quelli in entrata. La differenza non è tale da far presumere che l'economia cinese ora possa dirottare su di sé la rendita dai mercati internazionali come fanno gli Stati Uniti. A tale proposito operiamo un confronto: nel 2017 il saldo tra investimenti esteri diretti in entrata e in uscita per la Cina è ritornato positivo (66 miliardi di dollari), l'entità dei flussi di investimenti esteri diretti che le due economie dirottano e movimentano è di 1 a 3 per gli Stati Uniti. Inoltre, avendo come riferimento il quinto contrassegno dell'imperialismo (la prevalenza dell'esportazione di capitali rispetto all'esportazioni di merci) individuato da Lenin, vediamo che il rapporto tra investimenti esteri diretti in uscita ed export, nel 2016, per la Cina è pari alla metà di quello degli Usa.

In fig. 9 l'istogramma mostra l'acquisizione di partecipazioni e l'incremento netto delle passività. I valori positivi rappresentano i flussi in entrata, quelli negativi i flussi in uscita. La linea scura continua è la differenza che influisce sulla bilancia dei pagamenti. Dal 2015 la Cina investe all'estero più di quanto dall'estero si investa in Cina (145 miliardi di dollari contro 135,6). Si tratta certamente di un punto di svolta, peraltro annunciato. In Italia, a parte le squadre di calcio che fanno più notizia, investitori cinesi hanno acquisito partecipazioni industriali di importanza strategica, ad esempio nella Pirelli (dagli pneumatici alle comunicazioni), nella Snam (prospezione e distribuzione gas), nella Terna (rete elettrica primaria). Il dato è importante non tanto per la cifra assoluta quanto per l'incremento nel tempo. Tra il 2010 e il 2015 gli investimenti cinesi all'estero sono triplicati e Pechino ha già diramato una stima per i prossimi cinque anni: 1.000 miliardi di dollari.

China's Foreign Direct Investment BalanceFigura 9.

La storia degli investimenti cinesi all'estero e del sorpasso rispetto a quelli dall'estero in Cina, con il corollario delle esportazioni che cambiano di struttura, passando dai beni di consumo di massa ai beni durevoli e ai mezzi di produzione, è essenziale per capire il futuro di questo anomalo rapporto. I dati dimostrano un trasferimento in massa di capitali su di un asse preferenziale che ha origine negli Stati Uniti e raggiunge l'Africa passando dall'Asia e dall'Europa. Detto in estrema sintesi, gli americani acquistano merci cinesi in grande quantità senza un corrispettivo di acquisti cinesi di merci americane; si dilata perciò il deficit commerciale americano, cioè il surplus cinese, che permette alla Cina di acquistare parte del debito pubblico di Washington e di innescare lo stesso meccanismo nei confronti di altri paesi. Come abbiamo già dimostrato (cfr. n. 25 della rivista), l'imperialismo all'ultimo stadio (e l'imperialismo è già di per sé l'ultimo stadio del capitalismo) non permette la prosecuzione storica "normale" della serie imperialistica (Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, Cina…): il paese imperialistico guida ha tipicamente un'esuberanza di capitali che investe nei paesi controllati, è cioè un paese creditore netto, e i paesi debitori sono controllati in parte anche per questo dato di fatto. Gli Stati Uniti non sono più un paese rentier ma un paese indebitato, mentre l'aspirante successore, la Cina, è sì il paese che compra il debito, ma lo fa producendo ed esportando merci. Non è insomma nelle condizioni del candidato alla successione, non è quel paese che, all'apice della ricchezza e della potenza, può permettersi di vivere di rendita nel senso di sfruttamento del lavoro altrui. Al contrario, sono gli operai cinesi che lavorano per il paese imperialista dominante.

L'imperialismo delle portaerei

La situazione sembra molto ingarbugliata ma in realtà è abbastanza semplice se ci si riferisce ai flussi di valore invece che alla contabilità tradizionale basata sui rendiconti monetari. Gli Stati Uniti al culmine della loro potenza (anni '50-'60 del secolo scorso) producevano ed esportavano, erano di gran lunga la massima potenza mondiale con più della metà del valore monetario prodotto dal resto dei paesi considerati globalmente (il PIL è la cifra contabile di un anno di attività, non il valore prodotto nel tempo di rotazione del capitale) e avevano la potenza militare adatta al loro ruolo. Dai grafici (figg. dalla 9 alla 12) si evince anzitutto che l'economia statunitense rimane oggi ineguagliata in termini di grandezza. Si registra un ridimensionamento, tuttavia non così pronunciato come i teorici del declino dell'egemonia vogliono far credere. Gli Stati Uniti rappresentano un quarto dell'economia mondiale in termini assoluti, ma controllano direttamente o indirettamente una quantità enorme di capitali altrui.

Diverse sono le considerazioni che si possono avanzare per Cina e paesi della zona Euro. Questi ultimi, anziché ottenere, come dividendo derivante dalla loro maggiore integrazione economica e monetaria, un aumento del PIL prodotto, conoscono una modesta ma continua discesa. La Cina passa dal rappresentare poco più dell'1% del prodotto mondiale nel 1987 a produrne il 12% nel 2017 (in dollari correnti). L'economia cinese cresce dal 1977 ininterrottamente a un tasso annuo al di sopra di quello mondiale, gli "stati disuniti" d'Europa marciano a un ritmo inferiore al tasso di crescita mondiale annuo per 43 anni su 57.

A proposito degli Stati Uniti, la nostra corrente aveva già individuato una peculiarità della superpotenza: essa era al contempo colonialista ma combatteva il colonialismo, eravamo insomma di fronte a un imperialismo di tipo nuovo, quello delle portaerei (cfr. appunto "Imperialismo vecchio e nuovo" e "L'imperialismo delle portaerei" sul nostro sito).

Bilancia commerciale degli Stati Uniti in percentuale sul proprio PILFigura 10. Bilancia commerciale degli Stati Uniti in percentuale sul proprio PIL. Fonte: http://www.data360.org/dsg.aspx?Data_Set_Group_Id=270

Non che fosse cambiata la struttura economica, ma certo nella sovrastruttura qualcosa era successo: gli Stati Uniti stavano spazzando via il colonialismo, cioè la vecchia forma imperialistica legata alla presenza sul territorio, per sostituirla con il controllo da… un territorio mobile, cioè la flotta munita di aeroporti galleggianti. Quindi un controllo di tipo nuovo, basato sulla finanza globale, sulla produzione ed esportazione assistita (Piano Marshall e connessi), sulla superiorità militare dovuta alla incontrastata presenza sugli oceani. Quale sarebbe stata la prospettiva di questo nuovo assetto imperialistico? La solita. La legge della miseria relativa crescente sarebbe rimasta valida con tutte le sue premesse, a cominciare dalla teoria del valore: la condizione del proletariato (e dell'umanità) non si sarebbe manifestata con l'aumento assoluto della miseria ma con l'aumento relativo, con il divario sempre più netto fra gli estremi sociali di un mondo super-polarizzato, nel quale pochissimi individui sono potenti non solo perché posseggono capitale, ma perché ne controllano. Questo gruppo di super-capitalisti si sarebbe allontanato sempre di più dalla massa della popolazione al punto di rendersi indipendenti anche dallo stato nazionale, diventando di fatto il personale di servizio del capitale internazionale, finalmente libero da ogni tipo di vincolo, ammesso che gli uomini nell'attuale modo di produzione siano mai riusciti ad evitare di essere dei simbionti nei confronti del capitale.

I teorici del passaggio di consegne da Washington a Pechino hanno entusiasticamente salutato il sorpasso del 2014, raffigurato nel grafico di fig. 11. Dati alla mano, il PIL americano misurato in base alla Parità di Potere d'Acquisto veniva scavalcato da quello cinese. Ma attenzione, valutare il PIL in dollari PPA significa rendere confrontabili i valori delle merci in base, appunto, al potere d'acquisto, cosa che porta a sopravvalutare il peso di quelle economie in cui il livello generale dei prezzi è inferiore a quello delle altre. È come se si confrontassero due economie in base non ai dollari correnti ma alla quantità di merci che quei dollari acquistano in differenti aree. È chiaro che al cambio ufficiale un dollaro compra meno merce nel centro di Milano che alla periferia di Bari. Va quindi tenuto presente il contesto in cui si calcola il "valore aggiunto" prodotto in un anno.

1 Cina (2) 23,120
2 Stati Uniti (1) 19,360
3 India (8) 9,447
4 Giappone (3) 5,405
5 Germania (4) 4,150
6 Russia (11) 4,000
7 Indonesia (12) 3,243
8 Brasile (9) 3,219
9 Gran Bretagna (7) 2,880
10 Francia (5) 2,826
11 Messico (10) 2,406
12 Italia (6) 2,307
13 Turchia (13) 2,133

La tabella mostra l'elenco dei maggiori paesi in ordine di PIL in migliaia di miliardi di dollari-parità di potere d'acquisto. Il numero tra parentesi indica la posizione che avrebbero avuto vent'anni fa nello stesso elenco.

La Cina è un paese dalle grandi risorse, niente sembrerebbe impedirle di ereditare il posto di paese guida dell'imperialismo. Anche la semplice proiezione a qualche anno dei grafici relativi a parametri di tutti i tipi ci dice che la candidatura sarebbe realistica e che la Cina avrebbe i requisiti economici per succedere agli Stati Uniti. Ma questo tipo di proiezione ha un difetto: non tiene conto del fatto che la proposizione "paese guida dell'imperialismo" contiene due concetti, collegati: paese guida, e imperialismo. L'enunciato avrebbe un significato soltanto se essi coincidessero, se cioè, dato che la Cina è molto attiva e abile nella gara per diventare paese guida, se l'imperialismo reggesse alla prova. Ma può il pianeta reggere un paese con un miliardo e mezzo di abitanti che prenda il posto degli Stati Uniti? Con i compiti di gendarmeria internazionale di questi ultimi? Sarebbe pensabile per un paese del genere la convivenza con colossi popolosi come l'India o economicamente potenti come il Giappone? Ricordiamo che la Cina è al primo posto nel mondo per il Prodotto Interno Lordo, ma scende al 105° posto per PIL pro capite. Dobbiamo chiederci inoltre: che cosa farebbe la Cina senza quel paese complementare che sono diventati gli Stati Uniti? I quali acquistano più merci cinesi di tutto il resto del mondo e pagano un tributo salato affinché la Cina continui a comprare debito pubblico americano. Continuano ad essere il paese rentier perché strappano ancora cedole degli investimenti passati ma nel frattempo si indebitano invece di elargire crediti, e obbligano paesi amici e pseudo-nemici a pagare una tangente affinché il loro debito rimanga infinito. Gli Stati Uniti non si sono garantiti una pensione da ricchi: stanno vendendo a rate il proprio futuro pagandolo con cambiali che sono in protesto prima ancora di essere scontate. Ed è evidente che ciò non potrà durare davvero all'infinito.

Adamo Smith e la "casalinga di Voghera"

Quando diciamo che la Cina e gli Stati uniti sono paesi complementari, intendiamo quel termine alla lettera: che si completano l'uno con l'altro e che se venissero separati sarebbero nei guai. Molti pensano che la Cina sia un paese ancora arretrato, che lo stato sia ancora in grado di controllare il capitale, come in Russia al tempo di Stalin. Non è così: in Cina l'enorme "balzo in avanti" è stato compiuto quando lo stato ha smesso di pilotare l'industrializzazione ed è passato a quella che alcuni hanno chiamato "economia neo smithiana" (cfr. Giovanni Arrighi). Tale economia non sarebbe una nuova edizione di quella originale ma un inedito tentativo di applicarla integralmente. In pratica l'enorme successo dell'economia cinese non sarebbe dovuto a un misto di liberismo e dirigismo economico ma a un'applicazione alla lettera del libro di Smith, in cui le funzioni dello stato e del mercato sono completamente separate tramite una netta divisione del lavoro: al mercato tutto ciò che concerne l'economia, allo stato quel che rimane, cioè la guerra, la giustizia e le opere pubbliche.

È una tesi suggestiva ma sbagliata. Due giganti economici come la Cina e gli Stati Uniti non possono permettersi svolazzi teoretici. Smith è un economista liberale del '700, la Cina è il risultato di alchimie geostoriche del terzo millennio. E il dato empirico attorno al quale ruota il rapporto Washington-Pechino è: l'8,4% delle esportazioni americane vanno alla Cina; il 21,6% delle importazioni provengono dalla Cina. Questo rapporto non c'entra con la guerra, non con la giustizia, non con le opere pubbliche, ma la sua gestione non potrà essere lasciata all'iniziativa privata. Un debito crescente di quella portata dovrà essere gestito dallo stato. Non è una novità, a partire dagli anni '20 del secolo scorso, quando i fascismi hanno dovuto prendere in mano le redini del capitalismo per conto del capitale. E il problema si è esteso all'intero pianeta (fig. 14).

USA e Cina non potranno essere complementari però né per quanto riguarda la bilancia dei pagamenti né per quanto riguarda l'economia interna. La bilancia dei pagamenti è la somma che si ottiene a saldo dei movimenti di capitale fra residenti in un certo paese e i residenti in un altro. Sono conteggiati i movimenti commerciali (scambio di merci) e quelli finanziari (investimenti diretti e indiretti). La Cina può benissimo rappresentare la "fabbrica del mondo", ma per farlo deve non solo vendere, deve anche acquistare, altrimenti la bilancia commerciale registra un attivo perenne. In un mondo estremamente differenziato gli aggiustamenti funzionano anche se vi sono esportatori e importatori netti: vuol dire che i primi sfruttano in qualche modo i secondi, i quali bilanciano il deficit od offrendo forza lavoro a basso prezzo, o permettendo lo sfruttamento di risorse naturali. In realtà la differenza nella bilancia commerciale è compensata dalla differenza nella bilancia dei pagamenti, solo che gli investimenti diretti e indiretti del paese in attivo figurano come valore realizzato da quelli indiretti. Com'è possibile? Dal 1971 i dollari che circolano al di fuori degli Stati Uniti sono inconvertibili. Questa massa monetaria permette, al paese di emissione che non vede presentare il conto per il pareggio, di acquistare all'estero una enorme quantità di beni (circa il 6% del suo PIL, 1.200 miliardi di dollari) senza l'obbligo di compensare la propria moneta la quale, ricordiamolo, è una promessa di pagamento al portatore.

China - Trade balance, percent of GDPFigura 11. Bilancia commerciale della Cina in percentuale sul proprio PIL.
EsportazioniFigura 12. Esportazioni: tre paesi, Cina, Stati Uniti e Germania coprono il 30% dell'interscambio mondiale (il Giappone, che è il quarto, esporta tre volte meno della Cina). Una tale situazione non può durare perché una parte delle esportazioni non è bilanciata da importazioni e va ad incrementare il debito commerciale. (Dati in US $ correnti, 2017, CIA factbook).

In un mondo complesso, in cui due giganti come USA e Cina scambiano merci e capitali, gli altri paesi fanno da sfondo, ma non possono che contribuire a rinsaldare questo reciproco "patto col diavolo" sottoscritto da due paesi che sulla scena internazionale sono nemici e concorrenti. Gli Stati Uniti sono indebitati con i maggiori paesi del mondo, diciamo i primi trenta nella graduatoria sulla base del PIL. Una importante funzione conservatrice, che impedisce il collasso di un sistema di debito-credito a senso unico è quella del dollaro, di gran lunga la valuta più usata sia per le transazioni internazionali che come valuta di riserva. Finché il mondo ha bisogno di dollari questo squilibrio può essere sopportato; ma certamente si è creata una situazione mondiale in cui il maggiore paese imperialista, super-indebitato, dipende dai suoi creditori come essi dipendono dalla continuità del rapporto.

Sembra un test per vedere se la famosa "casalinga di Voghera" sa fare la spesa! Questa non è la situazione in cui si trovava l'Inghilterra al tempo del suo massimo splendore imperialistico, quando prestava capitali in cambio di interessi. La casalinga, di Voghera o meno, sa fare benissimo i conti e non casca nel tranello di considerare il debito come una debolezza: il maggiore interessato a finanziare un debitore è il suo creditore; se il debitore fallisce il creditore perde tutto. In questo caso il debitore ha anche le portaerei.

Gli americani acquistano sia merci cinesi prodotte da aziende cinesi, sia merci cinesi prodotte in aziende partecipate o controllate dagli americani. Per avere un pareggio i cinesi dovrebbero produrre e acquistare con le stesse modalità e per un ammontare identico: comprare merci completamente americane e merci americane prodotte in aziende partecipate o controllate da cinesi. Invece importano dagli Stati Uniti merci per 130 miliardi di dollari e ne esportano per 506, con un surplus commerciale di 376. Non è una gran cifra di fronte ai quadrilioni di dollari che sono ormai la misura standard nel campo della finanza e delle scorrerie nelle borse, ma questo è un dato fisso che la Cina deve gestire. Lo fa comprando, con l'avanzo commerciale, buoni del tesoro americani e diventando così un paese creditore. In dollari, perché lo Yuan è inconvertibile. Dall'accumulo di buoni del tesoro americani la Cina ricava un interesse in dollari, quindi asseconda un legame Pechino-Washington.

Del resto anche gli Stati Uniti, nonostante l'ideologia che professano, sono neosmithiani, con relativa divisione del lavoro: il mercato sull'altare e lo stato che si occupa, in modo mistificato e nell'ombra, svolgendo le sue funzioni peculiari, di guerra, giustizia e opere pubbliche (il nation building di Italia, Germania e Giappone nel dopoguerra). Il compito del paese egemonico dell'epoca imperialista è di salvaguardare la propria egemonia, e questa è in conflitto con uno stato che entro i confini della patria "lascia fare" al capitale. Se il capitale oggi non avesse convenienza in un controllo dello stato sugli uomini che gestiscono l'economia, se insomma si ritornasse a una gestione diretta della ricchezza da parte dei suoi possessori, un sistema impazzito esploderebbe trovando nella guerra aperta l'unica soluzione.

Com'era la questione ai tempi di Marx

Nella serie di articoli sul commercio britannico Marx analizza la situazione in cui si era venuta a trovare l'Inghilterra a causa della propria strapotenza e osserva:

"Il piccolo margine di profitto lasciato al fabbricante inglese, ancora ridotto dalla costante necessità – per un paese la cui stessa esistenza dipende dalla situazione di monopolio che ne ha fatto l'officina del mondo – di svendere costantemente rispetto al resto del mondo, è allora compensato dal taglio dei salari della classe lavoratrice e dalla creazione in casa propria di una miseria su scala rapidamente crescente… L'Inghilterra è costretta, accordando ampi crediti, ad alimentare la speculazione negli altri paesi per trovare un campo di utilizzazione per il suo surplus di capitale, e a mettere così in pericolo la sua ricchezza acquisita proprio nel tentativo di aumentarla e conservarla." (Marx, Commercio britannico, inedito, in n+1 del settembre 2000).

L'Inghilterra si era trovata in questa situazione paradossale a causa dell'eccesso di capitale non utilizzabile in patria, capitale che migrava all'estero soprattutto sotto forma di prestiti, tramite i quali i paesi concorrenti riuscivano a finanziare la propria industria. La stessa situazione che si era creata ad ogni passaggio di testimone fra gli storici esponenti dell'imperialismo: Venezia, Portogallo, Olanda, Spagna.

"Delle considerazioni svolte, l'aspetto veramente inquietante per l'Inghilterra è che essa non è evidentemente in grado di trovare, in casa propria, un campo di impiego sufficiente per il suo pletorico capitale; e che deve quindi prestarlo su scala crescente e, simile in questo ai paesi imperialisti che l'hanno preceduta all'epoca della loro ritirata, forgia essa stessa le armi dei suoi concorrenti. Essendo obbligata ad accordare ampi crediti ai paesi manifatturieri esteri, come il continente europeo, anticipa essa stessa ai suoi rivali industriali i mezzi per farle concorrenza sui semilavorati, e contribuisce quindi al rincaro delle materie prime utilizzate per i propri tessuti. E, l'abbiamo visto, un paese che importa più merci di quante ne esporta da un altro paese più forte è da questo condizionato, dato che può pagare solo con forza lavoro o materie prime a basso prezzo." (Marx, Commercio britannico cit.)

La Cina interrompe questo rapporto-tipo: non esporta capitali ma ne importa sotto forma di investimenti diretti e indiretti; non importa merci ma ne esporta verso i paesi più forti e a capitalismo più vecchio; non vende titoli del suo debito pubblico ma acquista titoli di quello americano. Soprattutto non ha scalzato il capitale-stirpe, come lo chiamava Marx, cioè il capitale radicato nel paese che rappresenta l'imperialismo, il capitale-ceppo con radici, dal quale gettano i polloni. Perciò, nonostante le brillanti prestazioni, non è un forte paese imperialista. Lo sarà se e quando la sua struttura economica la farà passare dal controllo dello stato sul capitale al controllo del capitale sullo stato. Quando cioè il capitale di passaggio metterà radici profonde, obbligando quello degli altri paesi a confrontarsi. Di conseguenza il capitalismo cinese si colloca ancora fra i vecchi paesi imperialisti, anche perché conserva il bisogno di alimentarsi con traffici "terrestri" dato che non controlla i mari, deve acquistare terreni invece di colonizzarli (come sta succedendo in Africa) e ha ancora bisogno di mandare uomini nei paesi-partner invece di attivare un controllo a distanza.

Le mani sull'Africa

In Africa ci sono ufficialmente 750.000 cinesi, ma diverse fonti parlano di 1,2 milioni. Si tratta di cinesi che curano affari in nome di Pechino, al cui seguito sono arrivati i bottegai, i ristoratori, i trafficanti che compongono tutte le Chinatown del mondo. La presenza americana nel mondo si differenzia dunque da quella cinese: non vi sono USAtown nelle periferie delle megalopoli, vi sono invece molte persone native dei singoli paesi di tutto il pianeta che curano gli affari americani per conto di americani.

Il titolo di questo capitoletto è anche quello di un libro del 1978. L'autore, Jean Ziegler, denunciava la violenta acquisizione di lavoro e materie prime da parte dei paesi imperialisti. Il libro fece scalpore e circolò come un best seller. Oggi c'è forse meno violenza visibile, ma alla penetrazione imperialistica di allora si è aggiunta quella della Cina di oggi. A dire il vero era ancora vivo Mao Zedong quando fu costruita dai cinesi la ferrovia che univa le capitali di Zambia e Tanzania. Già allora le buone relazioni diplomatiche commerciali erano nel programma cinese per l'Africa, tanto che 43 paesi africani avevano rapporti e contratti con Pechino.

Il rapporto della Cina con l'Africa è ambiguo: da una parte, sembra che il Continente sia il contraltare del "parco investimenti" che i paesi imperialisti hanno realizzato in Cina; dall'altra le cifre sono ancora basse (a parte il significativo numero di cinesi in Africa), e sembra che la "rapina imperialistica" denunciata da molti vada ridimensionata. Di certo c'è che l'attenzione della Cina è reale e si manifesta con tutto l'armamentario tipico dell'imperialismo. Anche qui però qualcosa non funziona: l'attivismo cinese verso l'Africa si manifesta da una parte con la penetrazione capillare di basso profilo, dall'altra con grandi opere pubbliche, infrastrutture, intere città costruite ex novo, opere che l'epoca imperialista precedente non si sognava neppure. Siccome non è pensabile che un paese imperialista intervenga con i suoi investimenti per altruismo, tutte le teorizzazioni e le assicurazioni propagandistiche sul "colonialismo soffice" di Pechino suonano come ammissione di scarsa potenza contrattuale nei confronti dei singoli stati. Non c'è dubbio, le opere sono state costruite, le risorse sono sfruttate e sono arrivati anche i militari, ma le cifre dell'impegno cinese in tutto il continente sono ancora relativamente basse rispetto al PIL cinese. Nello studio del 2013 La penetrazione cinese in Africa (vedi bibl.) è bene in evidenza che tipo di strategia stia dietro agli investimenti cinesi: a fianco dei poli di sviluppo vi è un mare di investimenti a tappeto, con cifre relativamente piccole ma che sommate danno l'idea di che cosa significa per i cinesi "Via della Seta africana". Guardando alla mappa degli insediamenti (investimenti) e alle direttrici di sviluppo è fin troppo agevole vedere un reticolo di flussi che costituiscono una grande e unica Via, i cui segmenti vanno dal cuore dell'Asia all'Africa passando dall'Eurasia, dal Caucaso e dal Medio Oriente. Sembra quasi che Pechino abbia sguinzagliato una muta di capitali "leggeri" che, applicandosi là dove trovano elementi di valorizzazione, costituiscono una mappa di investimenti fra i quali prima o poi si instaureranno dei flussi locali che confluiranno sulle dorsali antiche. Sappiamo che in Egitto le carovane partite dalla Mongolia trovavano altre carovane che raggiungevano Timbuctù ramificandosi verso l'Africa nera e l'Atlantico. Un tempo il tragitto era pericoloso per via dei predoni, oggi lo è dal punto di vista strategico per via delle difficoltà che si incontrano ad attraversare grandi aree in cui sono in corso conflitti e che gli stati non riescono a controllare.

Il tipo di espansione che sembra aver adottato la Cina non è compatibile, sul piano geo-storico, con l'imperialismo moderno. Tutti i grandi imperi sono sorti perché hanno potuto espandersi partendo da un centro protetto dagli attacchi provenienti dalla periferia; tutti sono caduti quando non sono più riusciti a controllare la periferia che rappresentava il limite dello spazio conquistato. L'imperialismo delle portaerei deve prescindere dal controllo diretto del territorio. La strategia cinese sembra adeguarsi intelligentemente alle condizioni attuali, in cui la potenza americana è chiaramente in declino quantitativo ma ancora in grado di modificare le condizioni esistenti a proprio favore. Tuttavia la penetrazione territoriale, sia pure con criteri moderni e con il rinforzo di basi militari, non è nelle concezioni militari della nostra epoca. Oggi, pur con tutte le varianti, la dottrina è sintetizzata nella frase: "controllo a distanza". E siccome Pechino lo sa benissimo, dobbiamo dedurne che la sua reale strategia sia un'altra. Quale?

È stata la Banca Mondiale a battezzare Africa's Silk Road (Via Africana della Seta) la corrente dei traffici afro-cinesi. L'istituto non prendeva in considerazione tanto le cifre assolute quanto le percentuali di crescita. Le esportazioni dell'Africa verso la Cina erano aumentate, dal 1999 al 2004, a un ritmo del 48% all'anno. E verso la Cina è diretto oggi il 27% delle esportazioni africane (il 29% verso l'Europa, il 32% verso gli Stati Uniti). Non si tratta solo di banane e caffè; l'Africa esporta ferro e uranio, rame e diamanti, oro e petrolio (l'Angola è diventato il più grosso fornitore di petrolio della Cina con mezzo milione di barili al giorno nel 2006). In Africa stanno sorgendo "città fantasma" esattamente come sono sorte in Cina. Può essere cieca speculazione mal riuscita, dovuta al surplus cinese che ovviamente si ripartisce fra i grandi gruppi industrial-finanziari, ma può anche essere il livello estremo cui giunge un'invasione che dura da quarant'anni.

Su Internet circola una cifra, attribuita alla BBC e ripresa da molte fonti, riguardante "l'invasione africana": Pechino starebbe studiando un gigantesco piano di emigrazione che comporterebbe l'arrivo di 300 milioni di cinesi in Africa. La cifra è tale che si direbbe senz'altro falsa, ma il tipo di propagazione virale (con Google oltre un milione di ricorrenze per la frase "300 milioni di cinesi in Africa" senza virgolette) dimostra che il tema è sentito e che comporta una diffusione di dati non sempre innocente, dati verso i quali la gente si divide come sempre tra bianchi e neri, favorevoli e contrari, guelfi e ghibellini. A fianco di questa "notizia" occorre segnalare l'emigrazione africana verso la Cina. Su Wikipedia vi è una voce apposita sulla popolazione africana a Guangzhou (Canton), che sembra, fra i distretti industriali, quello che ne attira di più (300.000). Anche in questo caso, per i dietrologi, si tratterebbe di cinesizzazione voluta per formare quadri da rinviare in patria.

Quota del Pil mondialeFigura 13.

Il declino relativo degli USA

Dal grafico di fig. 13 si evince anzitutto che l'economia statunitense rimane oggi la prima in termini di grandezza e, conseguentemente, di capacità di controllo. Si registra un ridimensionamento, ma questo non è certo così pronunciato come i teorici del declino dell'egemonia vogliono far credere. Diverse sono le considerazioni che si possono avanzare mettendo a confronto il PIL della Cina con quello dei paesi della zona Euro. Questi ultimi anziché ottenere, come dividendo per la loro maggiore integrazione economica e monetaria, un aumento del PIL prodotto, scontano una modesta ma continua discesa. La Cina passa dal rappresentare poco più dell'1% del prodotto mondiale nel 1987 a produrne il 12% nel 2017.

Quota del Pil mondialeFigura 14.

Secondo dati Istat-Eurostat, il grado di apertura al commercio internazionale di ogni paese, negli ultimi dieci anni, non presenta sensibili variazioni. Tuttavia, gli sbocchi per la sovrapproduzione di merci si stanno restringendo. Interroghiamo i dati che i centri studi della borghesia rendono disponibili e facilmente accessibili via internet. Selezioniamo nel database della World Bank il commercio mondiale, e a prima vista notiamo che nel biennio 2014-2016 le esportazioni hanno registrato una contrazione ben più grande rispetto a quella avvenuta nell'ormai storico anno della "Grande recessione" (il 2008-09 segnò dopo decenni di inarrestabile crescita una pronunciata caduta del PIL mondiale). Facendo più attenzione sottolineiamo che si tratta di esportazioni in valore nominale. Insoddisfatti, concentriamo il nostro interesse sui dati forniti dell'Organizzazione mondiale del commercio. Ci accorgiamo che la realtà delle cose è più sfumata.

Ciò significa che il volume dei traffici di merci movimentate rimane pressappoco stabile, cambia la sua espressione monetaria. A cosa è dovuta questa sovrastima del valore nominale delle esportazioni? Alla caduta dei prezzi delle materie prime (i prezzi petroliferi registrarono un -47% tra il luglio e il dicembre 2014, effetto congiunto dell’abbondante offerta americana e del calo della domanda dei paesi emergenti) e alla rivalutazione del dollaro, valuta con cui è misurata la variabile in esame, rispetto alle altre valute (in media del 14%), avvenuta tra 2014-15 (nei confronti dell’euro si è rafforzato del 20% in pochi mesi).

Marchandise trade indicesFigura 15.
Numero indice del prezzo internazionale delle commoditiesFigura 16. Numero indice del prezzo internazionale delle "commodities" composto da materie prime agricole, beni alimentari, energia, metalli. Fonte: www.indexmundi.com

A questo punto, coloro che ripongono la propria fiducia nel futuro del capitalismo potrebbero tirare un sospiro di sollievo. Ma si tratterebbe di una triviale consolazione, perché la cartella clinica del paziente riserva ancora delle brutte sorprese. Sfogliamo attentamente il documento della FED intitolato "Causes of the global trade slowdown". Se volgiamo la nostra attenzione esclusivamente al volume reale del commercio possiamo osservare quanto segue: a) la crescita impetuosa che il commercio mondiale ha conosciuto negli ultimi quarant'anni si è pressoché arrestata, rallentando notevolmente dal 2011 (i tassi di crescita orbitano intorno allo zero per cento); b) come percentuale del PIL mondiale il commercio rimane stazionario, continuando a rappresentare poco meno del 30%. La cosa inaspettatamente inusuale, per un commentatore borghese, è che tale fenomeno (la non crescita del rapporto commercio/pil mondiale) era normalmente associato ai soli periodi recessivi; c) qualunque causa si voglia individuare all'origine della fiacchezza del commercio mondiale, la decelerazione della Cina e i cambiamenti strutturali della sua economia hanno cambiato la percezione del ruolo del paese: da quella di speranza salvifica si è passati a quella di problematico macigno che affonda il sistema capitalistico (nel 2016 rappresentava il 16% delle esportazioni e il 12% delle importazioni globali). La crisi 2008-09, ultimo episodio della crisi senile del capitalismo, ha rappresentato l'ennesimo fenomeno di isteresi per i parametri del capitalismo, commercio mondiale compreso.

A questo scricchiolio inquietante hanno silenziosamente reagito i due paesi con il maggior avanzo commerciale: Germania e Cina. Per entrambi, secondo laconiche dichiarazioni dei governanti, è prevista un'inversione di rotta per mantenere la crescita: quest'ultima si baserà sulla domanda interna anziché su quella estera. Dopo tanti anni di richieste da parte americana, sembra dunque che finalmente i due grandi esportatori abbiano ceduto. Staremo a vedere se sarà veramente così o se si tratterà di una minore capacità di assorbimento da parte dei paesi importatori. Le decisioni dei policy maker sono sempre il portato di una dinamica del corso del capitalismo mondiale, non l'effetto. Vale anche per le guerre tariffarie varate da Trump insieme alla revisione degli accordi di libero scambio.

Currency distribution of OTC foreign exchange turnoverFigura 17. Distribuzione delle valute usate negli scambi internazionali al di fuori dei circuiti borsistici regolamentati. Nota: poiché in ogni transazione sono coinvolte due valute, la somma delle quote percentuali delle singole valute ammonta al 200% anziché al 100%. Fonte: Banca dei regolamenti internazionali.

La crescita del PIL cinese è stata più veloce di quella delle esportazioni e ciò ha comportato la riorganizzazione del modello di sviluppo secondo le nuove esigenze del Capitale. Infatti, la domanda estera netta è passata dall'8,67 per cento del PIL (massimo storico del 2007) all'attuale 1,79. Per un paese orientato alle esportazioni un andamento del genere è decisamente negativo.

Shares of currencies in identified official holdings of foreings exchange in the world, 1976-2012 Figura 18. Divisione delle valute accantonate come riserve nel mondo. Ho-fung Hung, "The China Boom".

Barry Eichengreen, professore di economia internazionale diventato celebre per un'analisi poco rassicurante della crisi, ha qualificato la centralità del dollaro nella circolazione di merci e capitali come "l'esorbitante privilegio". Noi sappiamo che il dollaro ha assunto il ruolo di "denaro universale" in virtù della traiettoria compiuta dal capitalismo a partire dagli anni trenta del Novecento. Il dollaro rimane la prima moneta, con ampissimo margine, ad essere usata sia per ogni tipo di transazione internazionale (Fig. 17) sia all'interno del paniere delle riserve valutarie dei paesi (Fig. 18).

Il tema del declino degli Stati Uniti si era diffuso all'inizio degli anni Settanta. La sconfitta in Vietnam, la fine di Bretton Woods, la sfida economica rappresentata dall'esuberanza produttiva della Germania dell'Ovest e del Giappone, spingevano molti a considerare terminata l'egemonia degli USA.

Tra le numerose analisi, si distinguevano quelle dei cosiddetti marxisti del "sistema-mondo" (Wallerstein), che partendo dal passaggio di testimone tra potenze egemoni, Spagna, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, ragionavano induttivamente prospettando l'apertura di una nuova transizione, individuando un potenziale candidato nel Giappone, nella Germania dell'Ovest, nell'Unione Europea e per il ventunesimo secolo nella Cina. Questa opinione si è dimostrata così persistente da diventare uno dei cavalli di battaglia della campagna presidenziale di Trump. Si tratta, sotto molti aspetti, di una percezione assai soggettiva. L'attuale situazione che vede protagonista la Cina ha qualche analogia con quella degli anni Settanta, quando i competitor destinati al passaggio di testimone sembravano Giappone e Germania dell'Ovest. Sebbene sia veritiero un ridimensionamento della potenza USA, la velocità del suo declino è stata rallentata e ritardata grazie al sostegno dei suoi supposti sfidanti, primo fra tutti proprio la Cina. Negli ultimi quarant'anni la Cina non ha fatto altro che lavorare per perpetuare la centralità degli USA nella catena imperialistica, e al tempo stesso riequilibrare a suo favore la bilancia di potenza.

Global Ranking of U.S. Military Base Size in the Top-Five Foreign Holders of U.S. Treasury Bonds Figura 19. Ho-fung Hung, The China Boom.

Il fatto che tutte le nazioni collaborino a far sì che gli Stati Uniti siano ancora il gendarme del capitale è evidenziato nella tabella di fig. 19. Si confrontano in vari anni, nella colonna di sinistra i primi cinque paesi detentori di titoli del tesoro statunitensi, e nella colonna di destra il posto che essi occupano nella classifica dei paesi ospitanti grandi basi militari americane. Nell'ultimo riquadro sembra che Cina e Russia finanzino il debito federale senza nulla pretendere in cambio. Semplice filantropia? Evidentemente no. Secondo la tesi contenuta nell'articolo di Marx sul commercio britannico, Stati Uniti e Cina hanno invertito le parti: non è il vecchio paese imperialista che finanzia la crescita del suo avversario-erede, ma è l'erede che finanzia la sopravvivenza del vecchio paese imperialista. Invece di un cambio della guardia fra paesi imperialisti abbiamo un meccanismo di conservazione dello statu quo. Del resto è il capitalismo come sistema che funziona in questo modo.

LETTURE CONSIGLIATE

  • Arrighi Giovanni, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli.
  • Cellamare Daniele, Baheli Nima, La penetrazione cinese in Africa, Istituto di studi politici San Pio Quinto (2013).
  • Eichengreen Barry, O'Rourke Kelvin, A tale of two depressions redux, su Internet, 06 March 2012.
  • Hancock Tom, "China's relentless export machine moves up the value chain" Financial Times, 24/09/2018.
  • Ho-fung Hung, The China Boom – Why China will not rule the world, 2016 Columbia University Press.
  • Marx Karl, "Commercio britannico", n+1 numero 1.
  • PCInt., "Imperialismo vecchio e nuovo", Battaglia Comunista n. 3 del 1950.
  • PCInt., "L'imperialismo delle portaerei", Il programma comunista n. 2 del 1957.
  • Ziegler Jean, Le mani sull'Africa, Mondadori.

Rivista n. 44