Intelligenza artificiale, evoluzione naturale

Alessandro Baricco, The game, Einaudi, pagg. 336; Barbari, Einaudi, pagg. 236.
Evgeny Morozov, Silicon Valley, I signori del silicio, pagg.150. Codice edizioni

Se ne sono ricordati in pochi, ma con i vari cinquantenari c'era anche quello della nascita di Internet. Eppure, quell'evento fu il più importante di tutti.

In The game, Alessandro Baricco affronta il cambiamento avvenuto nella società con la generalizzazione delle macchine elettroniche e dei loro programmi, dell'aiuto portato al lavoro umano e dei problemi che questo comporta. L'autore, che già si era cimentato con l'avvento sulla scena storica dei nuovi Barbari, evita accuratamente ogni tono luddista e cerca di analizzare l'evoluzione della sovrastruttura sociale per quello che è diventata, sotto l'influenza delle macchine, in modo del tutto naturale.

Naturale: tant'è che entrambi i libri riflettono il lato spontaneo della conoscenza, quello cioè che si basa sulla percezione dei fenomeni attraverso i nostri organi di senso e attraverso le elaborazioni immediate, istintive che ci sono offerte dal primo impatto con la natura, anteriori alla capacità di progetto. Diciamo subito che è il progetto a stabilire quale sarà il campo vincente. I tre libri non si occupano apparentemente di economia, ma è impossibile affrontare l'argomento Internet senza annotare che la Rete è insieme prodotto e fattore di un particolare mondo economico, smaterializzato, difficile da valutare in prezzi, impossibile da dominare.

Il PIL mondiale cresce di circa il 3 per cento all'anno. Per adesso la sopravvivenza del sistema è permessa dalle droghe distribuite dalle banche centrali. Quest'economia drogata non ha alcuna possibilità di salvare sé stessa, perché prima poi, com'è sempre successo, il capitale in esubero che sconquassa i normali rapporti di produzione e circolazione dovrà essere cancellato. Solo che questa volta le cifre in ballo sono ben diverse rispetto a quelle del 2007. La stessa borghesia sta suonando l'allarme facendoci conoscere alcune cifre, dai 2,2 milioni di miliardi di dollari fissati nel mondo completamente virtualizzato dei derivati, ai 250.000 miliardi di dollari del debito pubblico generale, cresciuto di tre volte negli ultimi tre anni (il PIL mondiale è 82.000 miliardi di dollari).

Baricco non si occupa di economia e parla del moderno Grande gioco in modo del tutto asettico rispetto al bisogno di valorizzazione del capitale. Perciò inverte il processo evolutivo reale e parte dagli effetti invece che dalle cause. Nel libro sui nuovi barbari, precedente, aveva descritto dettagliatamente il cambiamento dell'approccio umano ai problemi della vita quotidiana e della conoscenza, annotando da cronista la perdita in profondità della nuova intelligenza e l'acquisita capacità di quest'ultima di risolvere i problemi con un approccio estensivo, di superficie. Nel libro successivo analizza la società informatica, senza però riuscire a collegarla al fatto che le macchine producono necessariamente, in questa società, una distruzione della profondità a favore dell'estensione: perdendo il proprio controllo sui mezzi di produzione e sul ciclo produttivo, l'uomo diventa custode passivo delle macchine, la produzione di massa lo rende inutile e la profondità viene riservata ai teorici, ai progettisti, agli ingegnerizzatori, finché anche questi non sono sostituiti da sistemi automatici.

Baricco avverte questo cambio di paradigma come può avvertirlo da romanziere, come se volesse suggerire (ma lo fa in un modo impercettibile, tanto da sembrare inconscio) che il cervello sociale, per una qualche ragione sconosciuta, ha cambiato il suo modo di risolvere i problemi. Come se al posto di pochi intellettuali e tecnici dal pensiero profondo, avessero incominciato a lavorare vasti insiemi di uomini comuni dal pensiero superficiale ma ugualmente efficace, se non di più. Avremmo insomma perso la capacità di centellinare l'inarrivabile barolo di un'annata speciale e di una vigna conosciuta da pochi intenditori, per bere il merlot "internazionale" prodotto nei nuovi vigneti di Cile o California.

Forse cambieranno gusto e metodi, per cui palati sensibili sapranno valutare in massa ineffabili aromi oggi a noi negati. All'epoca dell'uscita di I Barbari, Eugenio Scalfari aveva polemizzato con Baricco proprio a proposito della profondità, condizione irraggiungibile, secondo Scalfari, da una intelligenza diffusa. Più o meno nello stesso periodo Umberto Eco, parlando di Internet, tesseva l'elogio della ricchezza (intellettuale) e bacchettava la povertà degli imbecilli (sic) che invece di sfruttare le potenzialità della rete per arricchire sé stessi, chattavano sulla Web scambiandosi sciocchezze.

Il rovesciamento è chiaro: prima avviene il distacco della macchina dall'uomo, la sua autonomizzazione, dopo viene l'esplosione barbarica della profondità negata e della leggerezza diffusa. Baricco avrebbe dovuto invertire l'ordine temporale della scrittura dei suoi libri. Ma è sbagliato usare il verbo "dovere": egli è un artista, e noi non siamo più al tempo di Leonardo, quando si poteva scrivere che la pittura e la scienza sono la stessa cosa. Da questo punto di vista c'è stata una regressione. La cosiddetta arte è il trionfo della percezione, e ciò si contrappone al calcolo, che è tipico della scienza. Perciò Baricco, lanciandosi senza paracadute da una realtà "aumentata" da sensori attivati dal marketing, racconta, appunto, un game. In fondo è coerente: ha descritto efficacemente la leggerezza perseguita dai sistemi odierni di macchine, è logico che l'adoperi.

Ma la realtà che percepiscono i nostri sensi, ormai scivolati in rete e approdati nel grande Oceano dell'Informazione è quella. Se non interviene un drastico cambiamento nei rapporti fra gli uomini, questo oceano assorbirà sempre le piccole gocce che tutti i Baricco del mondo dovessero produrre allo scopo. Perché è difficile per un tornio, una fresatrice o un telaio meccanico influire sull'evoluzione della specie e della società umane quanto su di essa influisce una macchina elettronica che incomincia a simulare le nostre capacità da noi presunte imprendibili. In trenta o quarant'anni siamo passati dalle macchine come protesi elettromeccaniche alle macchine che "pensano". Quando toglieremo le virgolette (e succederà molto prima di quanto si immagini), se non sarà cambiato qualcosa dal punto di vista sociale, allora sì che le macchine ci faranno vedere i sorci verdi. Non perché prenderebbero il potere, come nei film di fantascienza, ma perché prenderanno il controllo degli strumenti utilizzati dal potere. Sembra la stessa cosa ma non lo è. Perché arrivi a realizzarsi la prima temuta ipotesi, esse dovrebbero prima di tutto giungere a capire qual è la differenza fra una competenza e un dominio. La competenza per elaborare dati e governare un processo (produttivo, distributivo, organizzativo) non è "potere". Chi, o ciò che, ha il potere ha il controllo della competenza e la capacità/possibilità di usarla contro gli avversari, ecc. Non si può negare in via di principio che gli automi possano giungere a tale livello di sviluppo. Ma molto prima che vi giungano, gli uomini spegnerebbero semplicemente l'interruttore, o toglierebbero qualche chip, o cancellerebbero il software, o attiverebbero il congegno di sicurezza che certamente essi stessi avranno installato negli automi. L'apprendista stregone suscita forze occulte che non può controllare, il fabbricante di macchine… fabbrica macchine.

Il controllo della competenza tramite il potere è un'altra cosa rispetto a quel che può capire una macchina d'oggi. Già adesso vengono affidati a potenti computer non solo dati, calcoli ed elaborazioni ma anche funzioni. Queste funzioni i computer non se le sono prese da sé, gliele abbiamo implementate noi. Il primo passo verso il controllo del potere sarebbe quello di delegare troppo a troppe macchine che sanno imitare troppo bene il comportamento umano secondo il famoso test di Turing. Per ancora molti decenni le macchine saranno incapaci di introdurre elementi qualitativi nuovi nei sistemi che governano: una macchina utensile, progettatrice o gestionale non potrà prendere iniziative. Quindi il game di Baricco non è inquietante da questo punto di vista, la macchina diventa inquietante perché noi le lasciamo una delega troppo ampia. Non è una questione di pigrizia: la macchina che elimina l'operatore è un affare, produce plusvalore relativo in grande quantità ed è facile da usare, anzi, se ha un buon programma è anche friendly, amichevole.

Amichevole come un Game. Dunque, predisposta in via del tutto naturale a sostituire uomini. E in effetti è difficile giocare con le tre o quattro tonnellate di un tornio o con una pressa ancora più pesante. Invece l'era dell'informatica è segnata dal gioco fin dalla sua nascita. Neppure Internet, che è nata in caserma, si è sottratta al gioco: quando si chiamava ancora Arpanet era parte di un wargame, gioco di guerra che usavano i militari.

Tutto iniziò verso la fine degli anni '70 con Space Invanders e simili, che permisero di vendere milioni di Vic20 e Commodore facendo giocare i ragazzini. Google sembrava uno scherzo, ma Napster aveva già mobilitato avvocati e poliziotti, smanettoni e commercianti in un gioco sempre più complesso e irreversibile: il dentifricio era ormai uscito dal tubetto. E via con Amazon, Linkedin, Wikipedia, Skype, Facebook, Twitter e… l’iPhone. Il 9 gennaio 2007 Steve Jobs presenta "un computer che fa finta di essere un gioco". Miliardi di cervelli connessi attraverso un aggeggio che sta nel taschino. È fatta: niente sarà più come prima. Baricco dice che si tratta di un'insurrezione mentale. Accontentiamoci per adesso di considerarla una rivoluzione tecnologica, ce ne sono state tante. Questa però è un po' diversa. Non solo e non tanto per il confronto immediato fra tonnellate di acciaio e grammi di silicio: il confronto va fatto tra grammi di silicio e zero grammi di software, tra microchip e neuroni.

Dal meccanico calcetto all'elettronico videogame passando dall'elettromeccanico flipper la rivoluzione informatica ha cambiato il mondo. Così come impongono le esigenze del capitale. Le teorie vengono dopo. Nel gioco a chi guadagna di più, comanda chi riesce: 1) ad abbassare il capitale costante e variabile per aumentare il saggio di profitto; 2) a inventare un valore d'uso che giustifichi il valore di scambio. Questi due fattori permettono a chi arriva per primo di avere un prezzo di costo inferiore al prezzo di produzione, e di obbligare tutti i concorrenti ad adeguarsi. Il prezzo di produzione si normalizza, il valore d'uso contagia il mercato, i nuovi prodotti diventano una necessità e modificano radicalmente i rapporti (o i non rapporti) fra le persone.

In questo girone di rinormalizzazione continua, le condizioni appena descritte sembrano volute dagli uomini, e certamente sono gli uomini che manovrano in cabina di comando: ma non lo fanno seguendo la propria volontà, obbediscono alle leggi dell'accumulazione. La marcia verso la leggerezza, qui l'abbiamo sottolineato più volte, è un cammino storico e non è un caso che sia stata descritta prima dagli "artisti" che non dagli addetti ai lavori, cioè dagli economisti, dagli storici, dagli scienziati. E anche gli artisti hanno lasciato vuoti incredibili. Insomma, il Game non è stato anticipato: in tutta la storia della narrativa fantascientifica nessuno ha fantaprevisto un fenomeno universale come Internet. Sembra dunque che brillanti inventori abbiano creato prodotti miracolosi in grado di dar vita a un proprio mercato con il solo fatto di esistere, come in un'aggiornata legge di Say, ma a ben vedere sono state le leggi della produzione e della distribuzione a suscitare un determinato tipo di merci e quindi una loro giustificazione sul mercato.

Paradigmatica la storia di Apple, inscindibile da quella del suo co-fondatore Steve Jobs. In principio fu il personal computer, con molti agganci al concetto di game. Poi venne l'Apple II, un successo universale. Fu questo modello a crearsi un mercato? La risposta è negativa: Jobs entrò in conflitto con i suoi soci e venne licenziato. Fu quindi libero di inventare la merce in grado di creare da sé il proprio mercato. Dai migliori cervelli del campo uscì Next, un piccolo supercomputer, una meraviglia della tecnica con la pretesa di essere il miglior PC del mondo. Fu un fiasco, alla faccia di Say. Ma anche la politica della casa madre, Apple, fu un fiasco. Jobs fu richiamato e mostrò di aver appreso la lezione: produrre per il mercato. Se il mercato richiedeva game la Apple gliel'avrebbe fornito. Nel 2001 i riproduttori di musica a nastro e a Cd erano già sostituiti da quelli allo stato solido per Mp3, l'i-Pod fece morire tutti i rimanenti vecchi supporti. Il passo successivo fu i-Phone, uno sviluppo dei cellulari cui venne abbinata una serie di prestazioni capaci di trasformare ogni utente nel terminale di una rete complessa.

È inutile scandalizzarsi per la perduta identità del ragazzino che gioca su Internet, sul furto di dati personali, e sul loro utilizzo per far soldi mentre chi è fornitore di dati non vede un euro. Inutile indignarsi per il bombardamento pirotecnico di pubblicità occulta, per il potere di aziende che hanno miliardi di utenti, per la sopraffazione economica di queste ultime che, come niente, arrivano a capitalizzare da sole, senza grosse strutture e quasi senza dipendenti, anche mille miliardi di dollari, molto più di quanto capitalizzino solide aziende con enormi stabilimenti e migliaia di operai. È inutile lamentarsi se Internet e i fabbricanti di aggeggi per usarla possono contare su miliardi di utenti che forniscono lauti sovrapprofitti. Nel 2003 Apple fu denunciata per obsolescenza programmata: le batterie dell'iPod non tenevano la carica e la casa non forniva batterie di ricambio. Le vendite andavano benissimo lo stesso.

Baricco cerca di capire cosa sia successo nell'epoca del Game e ovviamente non si avvicina al funzionamento del capitalismo, rimane appeso al dato sociologico perdendosi in ipotesi sulla riappropriazione dell'esistenza come risposta a un secolo appena passato, terribile in tutti i sensi, del quale ci si deve in qualche modo liberare. Il Game potrebbe essere una risposta alla sovrastruttura di quel secolo, un modo di negare la necessità di ciò che quel secolo rappresenta. Il Game è lo strumento nuovo per mostrare che è finita l'era delle macchine che fanno paura, che sottomettono gli uomini, che li usano come batterie usa-e-getta.

Non è un'assoluzione del capitalismo filtrata attraverso la sua troppo poco sostanziale condanna. Bisogna leggere la prima parte del libro (nella seconda l'autore si perde) come se la rivoluzione in corso avesse cercato un interprete per spiegare che cosa ci sia in ballo. In The Game non è Baricco che parla. Baricco è uno dei tanti che, preparati o meno, stanno spiegando una transizione di fase. L'aveva già anticipato con I barbari, con il confronto fra gli intellettuali pochi e profondi e le masse di uomini tanti e superficiali. Il passaggio dall'uomo al superuomo, da questo all'oltreuomo e poi all'iperuomo non avviene attraverso l'inflazione dell'individuo ma attraverso la negazione dell'individuo, che si fa cellula di un organismo più grande di quello puramente biologico. Anche se alla fine Baricco non ce la fa a sostenere il peso di ciò che ha appena intravisto, anche se si mette in piedi sullo scranno per dirci che lui l'ha capito e che adesso ce lo spiega (e poi non lo spiega), bisogna dargli atto che ci mette una pulce nell'orecchio, mostrandoci un'umanità in transizione verso uno stadio che sarà interpretabile come si vuole, ma non avrà più nulla a che fare con quello in cui adesso viviamo.

Baricco critica, in modo cosciente o meno, la tesi secondo cui le nuove tecnologie precipitano l'individuo nella solitudine, la tesi secondo cui un'iper-umanità tecnologica perde le sue caratteristiche di umanità per omologarsi al pensiero unico dell'ideologia neoliberista. Secondo i critici tradizionalisti, dalla Silicon Valley sarebbe partita un'ondata mistificatrice che vorrebbe farci digerire il monopolio, la concentrazione, la prevaricazione economica e sociale spacciandoli per democrazia diretta. Sbagliano: il Game è un rapporto sociale che supera i vecchi concetti di democrazia, dittatura, oligarchia, tecnocrazia o altro.

Diciamo che la rivoluzione dei mezzi è reale, e con questa Baricco è in regola; che si tratti di rivoluzione, lo scrive anche Marx nel Manifesto a proposito dei mezzi e le modalità di produzione di allora. Che il capitalismo non cambi natura anche se cambia spesso la pelle è dimostrato dal fatto che con le nuove tecnologie siamo sempre nel campo della concentrazione e centralizzazione del capitale, alla tendenza monopolistica e alla utilizzazione massima delle condizioni che portano alcune aziende ad avere una presenza globale sui mercati del mondo, che sfruttano questa posizione anche contro gli stati e operano indifferentemente con politiche di alti prezzi da monopolio o di bassi prezzi da dumping o "concorrenza sleale" (come accusa chi non riesce a fare altrettanto). Da questo punto di vista non sembra che sia il caso di avere nostalgia dei vecchi monopoli Exxon, Bayer, Krupp, Toyota, General Electric, Fiat, eccetera, peraltro ancora tutti operanti. E che quelli d'oggi siano tutti americani può essere un argomento solo per chi mette aggettivi nazionali dietro le parole capitalismo, imperialismo, o monopoli. Un qualsiasi smartphone ha al suo interno materie prime e microcomponenti provenienti da mezzo mondo.

Evgeny Morozov, uno dei critici più noti del complesso monopolistico della Silicon Valley, sostiene che oggi, se si parla di tecnologia, si finisce inevitabilmente per assecondare il potere dei potenti gruppi fondati sul capitalismo selvaggio. La loro influenza sarebbe tale che la critica al loro operato non avrebbe senso se, da destra o da sinistra, non si formasse un'opposizione in grado di combattere per "liberarsi dall'avidità del capitalismo finanziario contemporaneo." In I signori del silicio Morozov sostiene che prima di tutto bisogna capire dove l'umanità stia sbagliando: non serve criticare solo l'economia politica attuale, ma obiettivo della critica deve essere anche il carattere invasivo che fa parte della natura di questi colossi neocapitalistici. La nostra specie dovrebbe capire, insomma, che la Silicon Valley è il prodotto di cambiamenti profondi e che il suo potere è legato all'estinzione dello stato sociale, alla sua sostituzione con iniziative private più efficienti e snelle, alla deregolamentazione dei flussi di capitali e di merci. L'errore del cittadino braccato dai rapaci neoliberisti tecnologici sarebbe quello di non capire, quando si parla di Google o di Amazon o di Facebook, che questi mostri hanno un futuro solo con il capitalismo odierno, così come il capitalismo odierno ha un futuro solo con questi mostri finanziari. Morozov è dunque convinto che il problema non sia nel capitalismo senza aggettivi ma nel capitalismo neoliberista contemporaneo.

L'artista tuttofare Baricco batte l'accademico Morozov. Il primo affronta un problema come quello della società permeata dalle nuove tecnologie dal punto di vista delle transizioni di fase, del cambiamento di stato, il secondo lo affronta dal punto di vista della conservazione, producendo uno strano effetto di riformismo d'antan. Baricco sorvola sul capitalismo ma cerca una differenza sistemica robusta tra la società del'900 e quella del secolo corrente, Morozov la butta in politica tradizionale, fatta di destre e di sinistre, di cattivi monopoli e di odiose ideologie antidemocratiche. Baricco tenta di proiettarsi in un domani disegnando mappe simboliche, Morozov vola basso, si accontenta di una società democratica che non rubi i dati personali per fare soldi.

L'antipatico Baricco, ubiquo come il prezzemolo, leggero come il suo mondo barbarico e detective del mondo a venire, cerca di farci ragionare (adesso ve lo spiego) sulla realtà capitalistica di oggi senza addentrarsi troppo in profondità nel soggetto. L'accademico Morozov, lamentoso come un sindacalista d'oggi, sale sul treno della critica seriosa e lamenta gli effetti della crisi finanziaria globale che ha fatto collassare ciò che rimaneva dello Stato sociale, dinamica che ha mutilato fino a farlo quasi sparire il settore pubblico, secondo lui l’unico antidoto contro l'ideologia neoliberista, tesa a creare mercati a partire da qualunque cosa, prima di tutto dalla propria volontà.

Sarà curioso il risultato del confronto fra due personaggi che sono il contrario di quello che mostrano di essere. Lo scrittore promette un'escursione emotiva nella realtà e ci presenta invece un percorso deterministico verso lo sviluppo materiale di un nuovo paradigma; l'accademico promette un'analisi socioeconomica del neoliberismo attraverso l'esempio di una sua frazione tecnocratica e ci presenta invece uno stantio quadretto moralista:

"La Silicon Valley non mente quando dice che nelle nostre vite quotidiane è in corso una rivoluzione: il punto è che a rivoluzionarle sono forze ben più maligne della digitalizzazione o della connettività. E il nostro feticismo per l’innovazione non è una scusa per accollarci i costi della recente turbolenza economica e politica."

Non avrebbe senso metterci a dissertare su contenuti come questo, ma è utile un altro confronto: tra l'accademico riformista e il politico di ogni provenienza non c'è sostanziale difformità. La borghesia, nonostante tutto, non è in sintonia con la scienza. Le nostre vite quotidiane sono in continua rivoluzione da quando un nostro antenato australopiteco è riuscito a comunicare un'azione da lui compiuta a un suo simile (uno a uno nello stesso tempo) e quest'ultimo ha imparato a memorizzare l'informazione. Una seconda rivoluzione l'abbiamo vissuta quando l'informazione è stata scritta e la trasmissione si è realizzata tramite una memoria di materiale non biologico (uno a molti in tempi qualsiasi). È questa dinamica che fa sorgere e tramontare tutte le Silicon Valley della storia.

Rivista n. 46