La "mancata rivoluzione borghese" in Italia alla luce dei rapporti tra industria e agricoltura

Alla fine della Prima Guerra Mondiale, Piero Gobetti, tentando il disegno ambizioso di una "storia ideale" del Risorgimento, lanciava la teoria di una mancata rivoluzione liberale in Italia e assegnava al proletariato e al suo partito il compito storico di realizzarla. Era, su un piano profondamente diverso e ricco di suggestive trasposizioni, la stessa teoria che, nella Russia zarista, aveva predicato l'avvento di una rivoluzione borghese ad opera non della borghesia, ma della classe operaia: trasportata sul terreno economico per un gioco tutto esteriore di avvicinamenti, essa pareva giustificare l'altra teoria, che cioè l'economia italiana avesse ancora da fare la sua rivoluzione capitalistica e che, essendo i monopoli e il capitalismo di Stato non già un prodotto dell'evoluzione storica del capitalismo ma una superfetazione di origine "feudale", la lotta contro queste superfetazioni offrisse a borghesia e proletariato un terreno comune e obiettivi convergenti. Non per nulla accade perciò oggi di sentir giustificare la tattica opportunistica della democrazia progressiva, della solidarietà nazionale, della partecipazione al governo, con la teoria del mancato sviluppo capitalistico dell'economia italiana, e della necessità di percorrere, prima di giungere alle soglie della rivoluzione proletaria, le tappe storicamente battute da tutti gli Stati borghesi dal principio dell'Ottocento; non per nulla una teoria analoga - per quanto, ripetiamo, costruita su basi teoriche diverse - servì nel 1917 russo di alibi provvidenziale alla tattica del menscevismo e di certi strati dello stesso partito bolscevico.

Dal punto di vista teorico (prescindiamo qui dalle evidenti truccature a scopo polemico e propagandistico), questa teoria si fondava su un doppio errore: il primo, di isolare gli aspetti contraddittori di ogni sistema economico (sopravvivenze feudali in pieno fiorire dell'economia capitalistica, da una parte; estrema esasperazione delle forme monopolistiche in un'economia borghese relativamente "giovane", dall'altra) e ritenere che l'esistenza di questi squilibri interni infirmasse il carattere fondamentale e generale di quella certa economia: il secondo, di isolare il processo di sviluppo dell'economia di un determinato paese (nella fattispecie l'Italia) dal proceso di sviluppo dell'economia internazionale capitalistica.

In realtà, il marxismo non sarebbe un metodo di interpretazione dialettica della storia, se non solo non ammettesse e giustificasse il permanere di forme economiche superate nell'ambito dell'economia storicamente più evoluta, ma non riconoscesse in queste "isole precapitalistiche" un elemento necessario del ritmo ascendente di sviluppo del capitalismo, allo stesso modo che, nel perpetuo rifiorire dei ceti medi entro il loro generale processo di proletarizzazione, non individuasse un fattore non già di freno, ma di impulso all'ampliamento delle basi storiche dell'economia capitalistica. E non sarebbe d'altra parte un metodo di interpretazione dialettica della storia, se guardasse i fenomeni economici, sociali e politici dal punto di vista di un'economia nazionale chiusa, anziché da un punto di vista internazionale, cioè nelle loro necessarie connessioni col complesso mondiale del mercato capitalistico.

Ora, è ben vero che l'economia e perciò la società borghese italiana offrono più di altre economie e società borghesi un quadro estremamente variopinto di squilibri, in cui isole economiche ad esteriore apparenza feudale, e forme di artigianato, di piccole industrie disperse e di piccola proprietà contadina polverizzata si accompagnano alle forme più esasperate del grande capitalismo industriale terriero; è verissimo che l'Italia si è presentata tardi sulla scena dello sviluppo internazionale capitalistico e perciò in condizioni di partenza più difficili (ritardata accumulazione primitiva, assenza di un grande mercato nazionale); ma, per quel che concerne il primo punto, il problema non è già di conciliare gli aspetti più evidenti di un ritardato processo economico con la realtà di un avanzatissimo processo di concentrazione sulla base delle più moderne esperienze capitalistiche (conciliazione che può rappresentare un problema soltanto per i cronisti dell'economia borghese), ma di chiedersi se l'economia italiana prenda il suo particolare accento da quei relitti o da questa realtà, e se le cosiddette "tare originarie" del capitalismo italiano non siano state, al contrario, le premesse del suo rapidissimo sviluppo, la ragione per cui esso ha potuto "bruciare le tappe" e, nel giro di poche generazioni, esprimere le forme più tipiche del capitalismo monopolistico, accentratore, statalista - in altre parole, le forme più tipiche dell'imperialismo.

La realtà è appunto questa: che il capitalismo italiano, strutturalmente debole ai suoi inizi, ma apparso sulla scena storica nella fase aurea di ascesa del capitalismo internazionale, non solo ha potuto svilupparsi rapidamente per la pressione esterna dell'evoluzione internazionale capitalistica e per l'intervento di larghissimi apporti finanziari esteri (parallelo del resto all'intervento diplomatico, politico, militare nel processo di formazione dello Stato nazionale e delle cosiddette guerre di "indipendenza"), ma ha sfruttato magnificamente le "debolezze organiche" della struttura economica nazionale per impiantare su un terreno relativamente vergine (dal punto di vista delle esperienze storiche) il più raffinato regime di sfruttamento capitalistico. Il capitalismo italiano ha beneficiato di un'evoluzione internazionale dell'economia borghese che presentava già i caratteri, definiti più tardi dai teorici marxisti dell'imperialismo, della fase di ascesa del capitale finanziario, con relativa tendenza all'esportazione dei capitali ed al loro impiego nei paesi ad economia precapitalistica; ha beneficiato della penuria non già di capitali in senso generico, ma di capitali in senso specifico - cioè della ritrosia dei detentori di beni mobili al loro investimento nell'industria - per pompare capitali allo Stato e all'alta banca, divenuti da allora, per un gioco complesso che non val qui la pena di esaminare nel dettaglio, i tramiti necessari fra risparmiatori e industriali; ha giocato sull'interesse dei grandi proprietari terrieri del Sud - i famosi feudatari che, nel pensiero di qualcuno, dovrebbero aver rappresentato una remora allo sviluppo dell'economia italiana in senso capitalistico - per imporre un sistema di protezionismi doganali parimenti nocivo agli interessi della piccola industria e a quelli della piccola proprietà contadina; si è avvantaggiato di un'enorme riserva di manodopera agricola a buon mercato per realizzare profitti supplementari con l'erogazione di mercedi estremamente basse, e dell'esistenza di un mercato semicoloniale nel Sud per distruggervi le sopravviventi industrie artigiane e assoggettarle in regime di monopolio al Nord; infine, non essendo costretto a spezzare le resistenze tradizionali di interessi precostituiti nell'ambito stesso dell'economia capitalistica, ha raggiunto quasi di colpo le forme estreme del capitalismo finanziario, con la stretta connessione fra industria, banche e Stato, con l'impianto di giganteschi complessi industriali, di cartelli, di monopoli e di trust, con l'assoggettamento di tutta la politica finanziaria e doganale agli interessi della grande industria e, da ultimo, con l'esperimento fascista della totale dipendenza dello Stato dal grande capitale (protezionismo, corporativismo, autarchia, economia di guerra).

Quando perciò si parla di "capitalismo parassitario" e di "tare" dell'economia e della società borghese italiana, si esprime una critica morale, non una critica marxista; quando si contrappone il capitalismo monopolistico ad un supposto Stato borghese non monopolistico (o, sul piano politico, fascismo e democrazia) si fa non del marxismo ma dell'idealismo; quando si parla della sopravvivenza di un'economia feudale in contrapposto all'economia capitalistica, si dimentica che interessi agrari ed interessi industriali hanno vissuto in Italia una perfetta simbiosi, a danno, ben s'intende, del proletariato e dei ceti minori tradizionalmente e cronicamente sfruttati dallo Stato industriale-agrario, come produttori, come consumatori e come contribuenti; quando si prospetta la possibilità di una "rivoluzione dei ceti medi" come premessa all'avviamento di un ciclo capitalistico che ripercorra le tappe, putacaso, del capitalismo inglese o francese, si dimenticano due cose fondamentali: che il capitalismo italiano domina nel modo più spietato, attraverso una rete complessa e aggrovigliata di rapporti, tutti i settori dell'economia nazionale, e, soprattutto, che è assurdo pensare alla possibilità di una riproduzione del ciclo storico tradizionale del capitalismo in un ambiente internazionale irrevocabilmente improntato ai caratteri strutturali e storici dell'accentramento monopolistico in regime di capitale finanziario.

Se il fascismo ha fatto la sua prima apparizione in Italia non è a caso. Allo stesso modo che la catena internazionale del capitalismo tende a spezzarsi nel suo anello più debole (e l'Italia, dopo la Russia, è stata nell'altro dopoguerra ai limiti di questa rottura), è su questo anello che l'aborto della rivoluzione proletaria evoca necessariamente l'esperimento fascista. Il quale, dal punto di vista della struttura economica come da quello della struttura politica, non solo non rappresenta in Italia una frattura di tradizioni, ma è la manifestazione ultima di un processo storico di cui è facile ritrovare le origini nel ritmo di formazione dello Stato nazionale. In definitiva, il capitalismo che vive succhiando alle mammelle dello Stato e che lo domina è lo stesso capitalismo di Crispi, di Magliani, di Giolitti e di Mussolini: il capitalismo delle forniture navali alla siderurgia nascente, del salvataggio statale delle banche nell'ultimo decennio del secolo scorso, nel primo dopoguerra, nella grande crisi del '31; il capitalismo dell'inestricabile connubio tra grande industria e alta finanza, e del tradizionale matrimonio fra interessi grandi-industriali del Nord e interessi grandi-terrieri del Sud, prima, durante e dopo il fascismo; il capitalismo, infine, dei bassi salari e dei profitti di monopolio del regime democratico pre-fascista come del regime fascista post-democratico. Ed è, d'altra parte, il capitalismo che l'evoluzione storica postula sul terreno internazionale e che, non pago di aver servito di esempio ad esperimenti perfettamente identici in campo politico come in campo economico, sopravvive ora nella prassi dei grandi Stati vincitori del... fascismo.

Il curioso è che queste stesse considerazioni si possono trarre dalla lettura di alcuni recenti libri sullo sviluppo dell'economia borghese in Italia, il cui intento politico è, per contro, di giustificare storicamente la politica opportunista degli attuali "partiti di massa" e di offrire una base insieme documentaria e teorica alla cosiddetta "lotta contro i monopoli". Pietro Grifone può ben premettere alla sua storia del capitale finanziario in Italia - libro che non dice in realtà nulla di nuovo, ma che offre una documentazione aggiornata dello sviluppo economico italiano - una prefazione intesa a lanciare uno schiacciante "atto di accusa contro quei gruppi monopolistici e finanziari che hanno contribuito in maniera decisiva al sorgere del fascismo e che sono rimasti fino all'ultimo legati alle sue sorti", ma il succo della sua argomentazione è che il fascismo - come regime di massimo potenziamento del capitalismo accentratore, monopolistico, "parassitario" - rappresenta il punto naturale di approdo di tutta la storia della società borghese in Italia. C'è una continuità ferrea, palmare, indistruttibile, nella storia di questo sviluppo, non ci sono anelli spezzati, ma un riprodursi via via accentuato degli stessi fenomeni e, al termine, uno stato di fatto che vede il capitale finanziario intrecciato a tutti i gangli e tessuti dell'economia italiana, non come una superfetazione, ma come l'ossatura stessa di questa economia (e perciò come la spina dorsale dello Stato) e, nello stesso tempo, indissolubilmente connesso alla rete internazionale del capitalismo. Andate, in queste condizioni, a parlare di "rivoluzione borghese non avvenuta", di "rivoluzione dei ceti medi", di "residui feudali da distruggere", di "monopoli senza la cui eliminazione non ci sarà mai democrazia vera"; o provate a porre, di fronte al mostro del capitalismo monopolistico e dello Stato accentratore, un problema che non sia di rivoluzione comunista!

In realtà, la democrazia d'oggi è condannata ad usare le stesse parole d'effetto che il radicalismo italiano di cent'anni fa lanciava all'alba della costituzione dello Stato nazionale. Si parla d'indipendenza nazionale, in regime di accentramento economico e politico e di sudditanza all'economia ed alla politica mondiali, allo stesso modo in cui si parlava allora di lotta per l'indipendenza in regime di intervento diretto, militare e diplomatico delle Potenze maggiori, e di subordinazione della vita economica e politica italiana alle esigenze internazionali del capitalismo.

La teoria che auspica un'"alleanza democratica" tra il blocco del proletariato industriale e agricolo e quello dei piccoli e medi ceti borghesi contro il "nemico comune" il fascismo, e in vista di una "rivoluzione borghese", trova almeno una sua giustificazione nella struttura dell'economia agricola italiana, autorizzante a porre il problema in termini non di rivoluzione proletaria, ma di democrazia progressiva?

È caratteristico che questa teoria, sostenuta da un altro studioso e membro influente del P.C.I., Emilio Sereni, sia seppellita non solo dai dati reali del problema, ma dalle stesse argomentazioni scientifiche dell'autore. Contro la tesi, ripetuta fino alla nausea, del carattere prevalentemente agricolo dell'economia italiana, esse dimostrano che la prevalenza dell'industria come forza egemonica sull'agricoltura, discutibile ancora (ma solo discutibile) prima della guerra '14-'18, è oggi una realtà inconfutabile, talché si può dire che da paese agricolo-industriale l'Italia sia divenuta paese industriale-agricolo. Contro l'interpretazione dell'economia agricola italiana come un'oasi a sé nel quadro di un'economia capitalistica spinta alle sue espressioni estreme, esse dimostrano che l'agricoltura è entrata definitivamente nel giro del grande capitalismo: il settore "feudale" dell'economia contadina va rapidamente restringendosi di fronte al processo di celere capitalizzazione della proprietà terriera (si calcola che la proprietà capitalistica assorba ora non meno del 75% della rendita terriera complessiva); il rifornimento del mercato interno in prodotti agricoli è per la quasi totalità assicurato da aziende a tipo capitalistico, mentre le altre forme di conduzione non alimentano per lo più che il consumo individuale e familiare del contadino; l'economia rurale nel suo complesso subisce direttamente o indirettamente lo sfruttamento dell'economia industriale sia attraverso i prezzi di monopolio dei manufatti, sia attraverso la cessione all'industria di materie prime che questa rivende, dopo averle sottoposte ad un processo di trasformazione meccanica, a prezzi sproporzionalmente elevati, ed in gran parte alle stesse categorie sociali: al capitale finanziario l'agricoltura è legata, infine, attraverso l'organizzazione del credito e la rete del commercio. Contro la tesi di un'"economia feudale" contrapposta all'economia capitalistica, l'esame dei dati reali dimostra che il dominio esercitato sull'agricoltura italiana dal capitale finanziario - che significa nello stesso tempo dominio dell'Alta Italia sul Mezzogiorno - non postula una frattura di interessi tra grande industria e grande proprietà terriera non-capitalistica, ché anzi il predominio industriale finanziario del Nord si realizza attraverso l'aperta collaborazione dei grandi proprietari latifondisti del Meridione contro garanzie di tutela doganale daziaria dei loro prodotti; per un gioco complesso di interrelazioni, la stessa grande proprietà nobiliare ha finito per compenetrarsi sempre più col capitale finanziario, accendendo debiti ipotecari e investendo i capitali così ottenuti nell'industria, a sua volta interessata per gli stessi motivi alla conservazione degli attuali rapporti di proprietà e delle famose sopravvivenze feudali; grande capitale industriale, grande capitale agricolo, proprietà latifondista hanno inoltre beneficiato allo stesso grado della politica economica del fascismo e della spoliazione dei ceti agricoli minori, ottenendo dalla prima il controllo o l'eliminazione degli organismi sindacali autonomi, la "disciplina" dei prezzi dei prodotti agricoli ad esclusivo vantaggio dei grandi proprietari, la battaglia del grano, la protezione doganale, l'autarchia, i sovrapprofitti di guerra, e raggiungendo la seconda attraverso la rivalutazione della lira, la distruzione degli istituti di credito e delle cooperative di risparmio di piccola e media entità, il regime di monopolio della produzione industriale, ecc.

E allora? Evidentemente, il processo che ha condotto alla spoliazione e proletarizzazione dei ceti medi e piccolo e medio-contadini, che ha favorito il diretto controllo del grande capitale sulla campagna, non solo senza intaccare le basi storiche della grande proprietà non-capitalistica, ma dandole una stabilità che non avrebbe altrimenti conosciuto, e che ha d'altro canto promosso il celere e sempre più largo sviluppo della grande produzione a tipo capitalistico là dove condizioni tecniche ne creavano le premesse o esigenze politiche lo richiedevano, è l'altra faccia di quel processo di sviluppo dell'economia borghese italiana, perfettamente inquadrato nel processo di sviluppo del capitalismo su scala internazionale, che ha trovato la sua espressione politica nel fascismo e la trova oggi nella veste di una democrazia legataria del fascismo. In queste condizioni, pretendere di isolare un settore dell'economia italiana dall'altro, e predicare la lotta congiunta del proletariato e dei ceti agricoli non proletari, non già per l'assalto allo Stato capitalista e la distruzione degli attuali rapporti di proprietà, ma per il ritorno a "forme borghesi" di produzione antistoricamente contrapposte alle forme monopolistiche, è mettersi fuori della realtà da un punto di vista borghese ed agire contro gli interessi della rivoluzione dal punto di vista proletario. Quando ci si parla di mancato sviluppo capitalistico dell'economia italiana, noi siamo scientificamente e politicamente autorizzati a rispondere che l'Italia borghese è qui sotto i nostri occhi, ed è qui con il suo tipico intreccio di nuovo e di vecchio, di esasperatamente moderno e di esasperantemente tradizionalista, e non può essere, sul piano di una economia internazionale capitalistica, nulla di diverso da quello che è.

Il connubio schiettamente borghese delle forme più moderne ed accese di grande capitalismo industriale ed agricolo e delle forme più arretrate della proprietà terriera e del costume sociale (poiché anche di questo si parla nelle omelie dei ricostruttori nazionali), questo mostruoso connubio può essere spezzato soltanto dalla rivoluzione proletaria, giacché il capitalismo è un blocco solo, non divisibile in parti, e chi tenta di dividerlo per metterne una parte contro l'altra ritarda o addirittura impedisce quella reale polarizzazione dei ceti piccolo-borghesi intorno al proletariato che è, nella crisi dell'apparato economico e politico borghese, la premessa della rivoluzione.

Da "Prometeo" n. 1 del luglio 1946

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