Le Alsazie-Lorene del Medio Oriente

L'incontro e il reciproco influenzarsi della rivoluzione nazionale e della guerra imperialista, si manifestano nel Medio Oriente in maniera più netta che nella restante parte dell'Asia, perché più stridenti vi sono i contrasti derivanti dal diverso grado di sviluppo storico degli Stati e più serrato il crudo gioco dell'imperialismo che qui non ha a che fare con grandi organismi statali – come gli capita nel resto del continente – e quindi non è costretto a mimetizzare i suoi interventi politici.

E' un fatto che nel Medio Oriente si verificano i più grandi scarti nella scala dello sviluppo economico, politico e militare degli Stati. Infatti, se si prende in esame la differenza di sviluppo storico che esiste, ad esempio, tra la Cina e l'India, i più grandi Stati del continente, si vede che essa è inferiore alla differenza di sviluppo che intercorre tra l'evoluto Stato di Israele e l'Egitto, il quale, pur essendo il più progredito degli Stati della Lega Araba, non può reggere affatto il confronto con Israele, se si considerano entrambi dal triplice punto di vista dello sviluppo tecnico, economico e politico-militare. Mentre Israele, che è il prodotto di un "trapianto di capitalismo" sulla tabula rasa del deserto, può considerarsi un caso di "rivoluzione borghese sino a fondo" per la concomitanza di forme industriali modernissime e di gestioni collettive del suolo agrario, l'Egitto, ad onta della soluzione che ha apportato alla questione nazionale, rinserra in sé forme arretratissime di struttura sociale, specialmente nei villaggi, i miserabili spaventosi villaggi della Valle del Nilo, che pure è una delle più fertili terre del mondo. Al contrario, gli esordi di industrializzazione cinese, benché questa proceda ad un rapido andamento, non comportano un profondo squilibrio nei rapporti tra Cina e India, che hanno rispettivamente enorme spazio geografico e sociale da rivoluzionare.

D'altra parte, la relativa piccolezza degli Stati del Medio Oriente e lo squilibrio che la monocoltura o la monoproduzione (l'Egitto dipende per la vita e per la morte dal cotone, gli altri stati arabi dal petrolio, ecc.) apporta nella loro economia, facilitano la penetrazione dell'imperialismo e, per essa, la rivalità aperta delle Grandi potenze. Non deve meravigliare, dunque, il fatto che il Medio Oriente sia, dalla Seconda guerra mondiale, una delle ragioni più terremotate della politica internazionale.

Ad onta della retorica patriottarda, la rivoluzione nazionale non affratella gli Stati che pure da essa sorgono. La forma nazionale dello Stato rende illusorie tutte quante le "solidarietà" soprannazionali, anche quando queste sono fondate sulla giustificazione teorica della comunanza delle origini etniche o delle tradizioni dottrinarie e sociali o addirittura della lingua. Ne è prova quanto avviene nel "mondo arabo". E' un fatto che la costituzione in nazioni e in Stati nazionali delle popolazioni arabe sia stato proprio essa la causa del divampare di fiere rivalità benché i fedeli dell'Islam continuino, prescindendo dalle frontiere nazionali, a pregare con la fronte rivolta alla Mecca, la "solidarietà" è oramai solo una espressione letteraria. Mai come oggi l'Islam è diviso, nonostante tenti di mascherare il suo stato effettivo dietro le frasi della lotta comune contro l'espansionismo israeliano.

A guardare a ritroso il processo storico, ci si avvede che la organizzazione statale che riuscì a tenere unificato il "mondo mussulmano", fu il secolare Impero Ottomano che univa in un solo confine la Turchia e l'immenso spazio che oggi risulta diviso negli Stati di Arabia Saudita, Yemen, Iraq, Israele, Libano, Siria, Transgiordania, ecc. La Prima guerra mondiale travolse la gigantesca costruzione politica, suscitando profondo rimpianto nei reazionari del mondo, ben consci della funzione di bastione antirivoluzionario svolta dal Governo della "Sublime Porta". Non bisogna dimenticare che il quadro storico, in cui la rivoluzione dell'Asia è esplosa, è indubbiamente quello introdotto nel mondo dalle guerre imperialistiche. Diversamente non si comprendono a fondo i motivi di contrasto che dividono, in maniera virtuale o attuale, gli stati asiatici di nuova formazione, i quali necessariamente dovevano ereditare, sorgendo, le "tare" degenerative dell'ambiente storico nel quale si sono generati.

Durante la Seconda guerra mondiale, il nazionalismo arabo si orientò verso l'Asse nazifascista, da cui sperò a torto di ricevere valido appoggio nella lotta contro la dominazione della Gran Bretagna e della Francia, potenze "mandatarie", la prima in Palestina, Transgiordania e Mesopotamia e la seconda in Siria e nel Libano. Ma l'Inghilterra ebbe rapidamente ragione dei propri nemici locali. Nell'Iraq la sollevazione e il defenestramento dell'emiro Abdullah da parte del partito filotedesco, offrì all'Inghilterra il pretesto agognato per occupare militarmente il paese, e soprattutto per mettere sotto diretto controllo i pozzi petroliferi di Bassora e di Mossul e il gigantesco oleodotto che porta il prezioso combustibile da Kirkuk a Kaifa in Palestina e a Tripoli in Siria. Dopo violenti combattimenti, il corpo di spedizione britannico sbarcato a Bassora e la Legione araba comandata dal generale inglese Glubb Pascià che aveva invaso il territorio iracheno dalla Transgiordania, spossessarono del potere i rivoltosi e restaurarono il regime filobritannico di Abdullah. Ciò avvenne nell'aprile 1941. In Siria, a schierarsi sugli opposti fronti della guerra civile non furono gli arabi, ma le stesse forze militari della potenza mandataria. Infatti, mentre il governo militare di Damasco si mantenne fedele al governo filotedesco di Vichy, una parte delle truppe si schierò per il movimento degaullista, e fu la guerra. Nel giugno 1941, truppe degaulliste e britanniche occuparono Damasco. Anche in Siria la lotta assunse carattere di estrema violenza e accanimento, e gli arabi assisterono compiaciuti a come i loro oppressori si scannassero reciprocamente. Lo sconvolgimento causato dalla guerra doveva costringere ì Francesi a proclamare, nel luglio, l'indipendenza della Siria. Nel dopoguerra, il governo di Parigi cercò di riprendersi il bottino mollato, ma fece fiasco, anche se lo smacco non raggiunse le dimensioni di una Dien Bien Phu.

Edificante, specie ai fini dello smascheramento delle ipocrite politiche paladinesche che vanno sbandierando, sia pure su opposte bande, anglo-americani e russi, fu la guerra anglo-russa contro l'Iran. La minuscola – nell'ordine di grandezza della popolazione e della potenza statale, bene inteso – e disarmata Persia si vide invadere dal nord e dal sud, dalle truppe dell'Inghilterra e della Russia, che procedettero alla spartizione del territorio conquistato: gli inglesi occuparono Teheran e le raffinerie del Golfo Persico, i russi presidiarono l'Azerbaijan, che nel dopoguerra tentarono di staccare dall'Iran e trasformare in una "democrazia popolare". Se oggi Mosca compie une sforzo immenso per riporre piede nel Medio Oriente, introducendosi nella fortezza attraverso la pusterla aperta dall'interno dall'Egitto, non strilli per questo Londra se nell'agosto del 1941 non esitò ad approfittare dei servizi dell'alleato russo per accaparrarsi il petrolio iraniano. Ad essere giusti, il predominio del cartello internazionale del petrolio in Persia, contro il quale invano doveva lottare il regime di Mossadeq e Fatemi, conta tra i fasti della sua storia recente anche la occupazione anglo-russa della Persia.

L'Islam è diviso

L'attenuazione della dominazione, o almeno delle forme dirette della dominazione imperialistica anglo-francese non comportò affatto, nel dopoguerra, l'appianamento delle divergenze fomentate dai rissosi nazionalisti arabi, anzi incoraggiò le tendenze espansionistiche degli Stati che pretesero di monopolizzare, ciascuno per sé, la guida della Lega araba. A lungo andare, il panarabismo doveva rivelarsi, alla stretta dei conti – oggi è evidente – una versione mediorientale delle impotenti ideologie di terza-forza che in Europa hanno così miseramente fallito.

II conflitto tra la Repubblica di Israele e la Lega Araba – che è ancora fermo alla fase armistiziale è stato enormemente gonfiato dalla propaganda e, come sempre accade, la stampa ha tirato fuori anacronistici schemi storici, parlando addirittura di "guerra santa" dell'Islam contro Israele. Saremmo, dunque, ritornati all'epoca del Califfato? In realtà, la comune appartenenza ad una stessa religione, non ha impedito agli Arabi di dividersi negli opposti campi del nazionalismo. Del resto, forse che gli Stati dell'Occidente sono trattenuti, quando la guerra scoppia, dalla comune qualità di "difensori della civiltà cristiana"?

Il fronte di guerra contro Israele non è valso a sanare i conflitti inter-arabi, che invece sono esplosi con estrema violenza, dopo lunga incubazione, provocando i grossi sensazionali avvenimenti che si sono susseguiti nel Medio Oriente, nel corso del corrente anno. E' un fatto che Israele si è conquistato il territorio, su cui esercita attualmente la sovranità statale, con la forza delle armi: si può dire in proposito che i trattori delle "fattorie collettive" – i famosi Kibbutz – hanno avanzato dietro i carri armati. Ma è altrettanto vero che i territori conquistati da Israele non appartenevano prima a nessuno degli Stati della Lega Araba: Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Siria, Libano, Iraq. Anzi, uno di essi, la Giordania, prese parte alla conquista territoriale, imitando in ciò il nemico Israele. In altri termini, nessuno degli Stati arabi belligeranti ha "un fatto personale", volevamo dire una questione irredentista, da far valere su Israele. A chi appartenevano allora, i territori annessi?

Nel 1919, un anno prima della firma del Trattato di Sèvres che istituì, tra l'altro, il mandato britannico in Palestina, tale regione era abitata da 633 mila arabi e 58 mila ebrei. Le due nazionalità, finché erano rimaste nell'ambito dell'Impero ottomano, avevano intrattenute reciproche relazioni di amicizia: "coesistevano pacificamente" direbbe uno stalinista. Fu l'imperialismo, impersonato dall'Inghilterra a gettare fra di esse il pomo della discordia del nazionalismo. Nel 1917, in piena guerra mondiale, il governo di Londra aveva promesso, con la famosa Dichiarazione Balfour, di appoggiare la costituzione di un Centro Nazionale Ebraico in Palestina. Nel 1922, con eguale solennità, si impegnò a salvaguardare i diritti nazionali arabi. In tal modo la Palestina fu avviata a diventare oggetto di contesa fra arabi ed ebrei. La seconda guerra mondiale provocò profondi cambiamenti nella situazione dei rapporti di forza tra le nazionalità, segnando la sorte della regione.

Sotto la spinta della brutale persecuzione antisemita scatenata dai nazisti in Europa, le correnti della immigrazione ebraica, che l'Inghilterra cercò in seguito di frenare, si ingrossarono a dismisura. Secondo New Statesman and Nation gli ebrei palestinesi ammontavano nella primavera del 1946 a 600 mila persone. Giovandosi delle favorevoli condizioni obbiettive del dopoguerra, il sionismo si diede attivamente ad edificare il Centro Nazionale Ebraico, appoggiato dagli sforzi finanziari dei milioni di ebrei della Diaspora e dal concorso politico degli Stati Uniti. Ma l'alterazione profonda dei rapporti numerici tra le nazionalità e, soprattutto, i successi degli ebrei che si dedicavano alla colonizzazione della desolata regione, muniti dei ritrovati della tecnica e dell'organizzazione occidentale, ebbero per effetto il radicalizzarsi della resistenza araba. Il 29 novembre 1947 l'ONU credette di intervenire a sanare il conflitto e varò un progetto di spartizione della Palestina in due Stati indipendenti: uno ebreo e l'altro arabo. Gli avvenimenti, invece, ancora una volta si incaricarono di smentire l'inutile consesso internazionale. Infatti, la proclamazione dello Stato di Israele, avvenuta i 14 maggio 1948, allo spirare del "mandato" inglese in Palestina non si accompagnò con la fondazione del progettato stato arabo, ma diede agli ebrei il segnale dell'occupazione del territorio completo, al quale atto la Lega Araba rispose con la guerra contro Israele, riportando le tremende legnate che tutti conoscono.

Gli Arabi palestinesi, incalzati dalla guerra, abbandonarono le loro case e i loro miseri campi, e uscirono dalla Palestina, rifugiandosi negli Stati arabi confinanti: il Libano, la Siria, la Giordania, l'Egitto. Fu un esodo di una massa di circa 900 mila persone. La misura del movimento di "entrata" e di "uscita" della contabilità demografica, brutalmente impostata dalla guerra, è espressa ancora una volta dalle cifre: allo scoppio del conflitto, la popolazione palestinese contava 640 mila ebrei e 1 milione e 100 mila arabi, nel 1950 la popolazione dello Stato di Israele, che secondo certe fonti occuperebbe 1'80 per cento della vecchia Palestina sotto mandato, comprendeva 1 milione e 200 mila ebrei contro appena 170 mila arabi. La guerra finì il 18 luglio 1948, ma i profughi arabi non ritornarono nelle loro case: vivono ancora oggi nei campeggi istituiti dall'ONU e nelle bidonvilles sorte alle frontiere israeliane, da cui partono nelle notti di agguato le squadre di guastatori lanciate contro i villaggi israeliani.

Lungi da noi, trattando di questioni storiche e specialmente di quelle che mostrano lo zampino dell'imperialismo, l'indulgere a considerazioni di giustizia astratta. Ma quanta ipocrisia trasuda dagli atteggiamenti di quei governi, che a Potsdam decretarono con un tratto di penna la espulsione, manu militari, di milioni di tedeschi (non di SS naziste) dagli Stati della Europa orientale, e oggi piangono false lacrime sulla sorte dei profughi arabi di Palestina! Deportazione, scambi di popolazione, genocidio: è sulle piante delle ideologie patriottiche e nazionalistiche che maturano di tali frutti.

A conti fatti, gli Stati della Lega Araba non hanno nulla di proprio, in quanto a territori, da rivendicare contro Israele. Anzi, se il vecchio progetto della costituzione di uno Stato arabo palestinese avesse ad attuarsi – ma su questo tasto non sentiamo battere più nessuno – la Lega Araba rappresentata dalla Giordania avrebbe qualcosa da restituire. Di contro, gli Stati arabi hanno diverse controversie territoriali da risolvere gli uni con gli altri. Cerchiamo di illustrarne alcune, districando per quanto possibile il groviglio degli interessi in urto e delle sotterranee complicità diplomatiche.

Il conflitto più clamoroso scoppiato nella Lega Araba è quello che, fin dalla firma del Patto di Baghdad avvenuta il 24 febbraio 1955, oppone l'Iraq all'Egitto. Gli impressionanti avvenimenti che si sono incalzati nel Medio Oriente, negli ultimi mesi, e che sono stati coronati dalla cessione di armi all'Egitto da parte della Russia e della Cecoslovacchia, sono stati interpretati come uno svolgimento della lotta arabo-israeliana. Ma è un fatto che la guerra di scaramucce si è alimentata cronicamente anche prima della odierna trasformazione dei pacifisti russi in mercanti di cannoni. E' egualmente vero che i più grossi scontri nel deserto del Negev si sono registrati all'indomani dell'annuncio dell'accordo russo-egiziano. Cioè, il maggiore pericolo di una ripresa della guerra tra Egitto e Israele si è concretato "dopo" e non "prima" della decisione di Mosca di contribuire all'armamento dell'Egitto. Colpisce, invece, la circostanza che il brusco voltafaccia in senso filo-russo del Governo del Cairo, che pure tiene in carcere i comunisti locali, è seguito di qualche mese alla clamorosa rottura tra Egitto e Iraq a causa della firma del Patto di Baghdad, che in origine era un patto bilaterale turco-iracheno, ma in seguito ricevette l'adesione del Pakistan e dell'Inghilterra, e, nelle scorse settimane, dell'Iran.

In altre parole, la brusca sterzata dell'Egitto verso Mosca si è verificata mentre nella fascia settentrionale del Medio Oriente si costituiva una coalizione di Stati che rafforzava lo schieramento occidentale, dato che la nuova alleanza è collegata tramite la Turchia e l'Inghilterra al Patto Atlantico, e, tramite il Pakistan, al Patto dell'Asia sud-orientale (SEATO) mentre alzava, in particolare, il prestigio dell'Iraq di fronte agli altri membri della Lega Araba. E' provato che mentre il governo del Cairo contrattava l'acquisto di armi russe e cecoslovacche e predisponeva il colpo di scena dell'accostamento alla Russia, i rapporti di forza tra Egitto e Israele si mantenevano stazionari, ma non avveniva lo stesso per quanto riguarda i rapporti tra l'Egitto e l'Iraq. E' chiaro, infatti, che, stringendosi in intima alleanza con le potenze del Patto di Baghdad, il governo dell'Iraq saliva di molti scalini nella scala della grandezza politica e da quel momento figurava nei confronti degli altri Stati della Lega Araba non più come un semplice Stato-membro, ma come uno Stato avente dietro di sé una vasta coalizione militare con estese ramificazioni internazionali. Si comprende agevolmente che, grazie all'accresciuto potere di influenzamento, l'Iraq si apprestava a diventare la Potenza più autorevole nell'ambito della Lega araba. Di più, si delineava il pericolo che a lungo andare la pressione irachena avrebbe indotto gli altri stati arabi ad aderire al Patto di Baghdad, isolando così l'Egitto.

In tali condizioni, l'Egitto ha reagito, vista l'impossibilità di impedire la realizzazione del Patto di Baghdad, cercando di fare di sé stesso il centro di un'alleanza di segno opposto. Gli sforzi in tale senso hanno avuto un innegabile successo, sebbene i governanti del Cairo sperassero di allargare il numero attuale dei partecipanti al nuovo schieramento. Infatti, la Siria e l'Arabia Saudita hanno firmato, l'una dopo l'altra, un patto di assistenza proposto dall'Egitto, ma se ne sono tenuti fuori il Libano e la Giordania, per ragioni che esamineremo tra breve. All'indomani della stipulazione del trattato egiziano-siriano, firmato a Damasco il 20 ottobre c.a., cui l'Arabia Saudita aderì il 26, l'Egitto poteva così ritenere compiuta in gran parte l'opera intrapresa: di contro alla alleanza di Baghdad si opponeva ora l'alleanza del Cairo. Ma è chiaro che il lavoro diplomatico del governo Egiziano non avrebbe colto i risultati perseguiti, se la Russia non si fosse prestata, ricevendone naturalmente una grossa contropartita, a sollevare il prestigio del governo di Nasser, riempiendogli le tasche di bombe.

Politique d'abord in Egitto

Il violento dimenarsi del governo di Nasser si spiega agevolmente col fatto che esso si regge soprattutto grazie ad una politica estera clamorosa che spezza le armi delle opposizioni interne. La condizione generale del regime "rivoluzionario" di Nasser è questa: salito al potere il 23 luglio 1952, spingendo avanti l'uomo di paglia che era Neguib, il regime ha lasciato intatti i rapporti sociali esistenti nel miserrimo villaggio nilotico, ove il fellah trascina, come al tempo del maialesco Faruk, una esistenza atroce, insidiata dalla fame e da terrificanti malattie; è incontrovertibile che contro la dominazione della aristocrazia latifondistica, i cui rappresentanti vivono nel lusso al Cairo e ad Alessandria, il regime non ha alzato un dito. Lo schiacciamento delle formazioni politiche prerivoluzionarie, rappresentate soprattutto da Wafd e Fratellanza Mussulmana, non si è accompagnato certamente allo spossessamento delle classi sfruttatrici reazionarie, delle quali costoro esprimevano politicamente gli interessi. A conti fatti, la redenzione del fellah è affidata al problematico piano di colossali opere di irrigazione che dovrebbe aumentare in un incerto avvenire la terra coltivabile.

In tali condizioni, il governo di Nasser non può fare altro che applicare lo slogan nenniano della "politique d'abord ". Deve cioè buttarsi innanzitutto nella grossa politica, il che non può fare che alimentando una clamorosa politica esterna. Sintomatico il fatto che a pochi giorni dall'annuncio della decisione della Russia e della Cecoslovacchia di vendere armi all'Egitto, il governo di Nasser ordinava la liberazione dei capi della Fratellanza Mussulmana che erano tenuti in prigione dal tempo della congiura contro la vita di Nasser. Evidentemente, ogni successo di politica estera, che innalzi il prestigio del governo militare del Cairo, rafforza il regime e gli fa temere meno gli oppositori.

L'adesione della Siria e dell'Arabia Saudita al Patto del Cairo sottintende, a sua volta, altri conflitti intestini del "mondo arabo". La Siria ha forti motivi di sospettare dell'espansionismo dell'Iraq, dove regna la dinastia hashemita, la stessa cui appartiene la casa reale della Giordania, che ufficialmente si denomina Regno hascemita del Giordano. L'Iraq difatti si è fatto banditore da tempo di un ambizioso progetto di unificazione, detto della "Mezzaluna Fertile", che dovrebbe incorporare anche la Siria, dove non mancano correnti politiche partigiane del progetto. Non occorre sforzarsi per comprendere perché il governo di Damasco abbia rifiutato di aderire al Patto di Baghdad, preferendo invece di legarsi con l'Egitto e l'Arabia Saudita.

Non meno spinose controversie dinastiche e territoriali oppongono l'Arabia Saudita alla Giordania, la pupilla degli inglesi, che occupa i territori di Maan e Aqaba, dei quali l'Arabia Saudita si considera defraudata. Un cenno a parte merita poi la questione dell'oasi di Buraimi. Essa sorge nella costa dei pirati ed è composta di otto villaggi che sono rivendicati dall'Arabia Saudita, e allo stesso tempo vengono reclamati dallo Sceiccato di Abu Dhabi e dal sultano di Muscat, che sono sotto la protezione della Gran Bretagna. Nell'agosto 1952, l'oasi, che si suppone abbia valore petrolifero, venne occupata dalle truppe saudiane, ma la Gran Bretagna, a nome dei piccoli stati vassalli, protestò energicamente, ottenendo che la questione fosse deferita ad una Corte arbitrale. Il 27 ottobre c.a., formazioni militari di Abu Dhabi e di Muscat guidate da ufficiali inglesi procedevano alla cacciata delle truppe saudiane da Buraimi, che occupavano. Il Foreign Office, in un comunicato pubblicato qualche giorno dopo l'accaduto, cercava di giustificare il colpo di mano, accusando l'Arabia Saudita di complicati intrighi aventi lo scopo di corrompere gli staterelli arabi della Costa dei Pirati e spingerli contro la Gran Bretagna. In realtà, è chiaro che la occupazione militare inglese perseguì il duplice obbiettivo di dare una risposta intimidatoria all'Arabia Saudita Che in quei giorni stipulava il noto trattato di alleanza con l'Egitto e di mettere le mani su una zona di interesse pertolifero.

Tali contrasti e rivalità sono all'origine della scissione del "mondo arabo", che è effettiva anche se la Lega Araba continua formalmente a sussistere. Ufficialmente la Giordania è rimasta fuori dei recenti patti, ma è notorio che le sue forze armate, il cui nucleo è la Legione Araba, sono animate e dirette dall'Inghilterra. Da parte sua, il Libano, la cui forza militare è praticamente nulla, si è dichiarato neutrale, nutrendo 1e aspirazione di diventare una sorta di Tangeri del Medio Oriente, in bilico tra Occidente e Oriente.

Nostro tema era l'esame, naturalmente sommario, dei contrasti nazionalistici che dividono il Medio Oriente. Ben altre "Alsazie-Lorene", ben altre questioni territoriali, dividono le Potenze della restante parte dell'Asia. Il Pakistan e l'Afganistan si guardano in cagnesco per il Pashtunistan, l'India occupa il Kashmir che il Pakistan reclama, e non parliamo delle situazioni interne dell'Indocina, della Malesia, dell'Indonesia, della Cina, della Corea!

Per decenni, gli scrittori borghesi hanno sfruttato l'immagine di un Oriente convenzionale. Gli operai rivoluzionari non debbono lasciarsi sedurre dalle descrizioni staliniste di un Oriente non meno arbitrario, dove il comune odio verso la dominazione coloniale viene rappresentato come la leva miracolosa di un mondo governato dalla concordia e dalla fratellanza nel lavoro. In realtà, il mondo nuovo — e veramente esso è nuovo rispetto alle condizioni storiche dell'Asia — è tenuto a battesimo dal capitalismo. Quello che sorge in Asia è un "cucciolo" capitalista, che è ancora sprovvisto di zanne e di artigli, che però col tempo spunteranno e cederanno il posto al lupo. Il proletariato europeo conosce a fondo, perché ne porta le cicatrici nelle carni, i feroci contrasti di cui è intessuta la sanguinosa storia del capitalismo e del nazionalismo di Europa e di America. Perciò si rende conto che sistemandosi nel quadro degli Stati nazionali, l'Asia non potrà sfuggire al nazionalismo e alle guerre. Non c'è dubbio che laggiù è in atto una grande rivoluzione, ma è altrettanto certo che, se non interverrà la rivoluzione proletaria in Occidente, l'Asia partorirà anch'essa le sue "Sédan" e le sue "Sarajevo".

Source Il programma comunista n. 23 del 1955
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