Dialogato coi morti (2)
Il XX Congresso del Partito Comunista Russo

 

Giornata seconda

Culto della cartaccia

Più volte avremo a ridurre ancora le posizioni del movimento di Mosca alla negazione, di controfacciata assoluta, dei cardini del comunismo. Basta ora vedere la cruda banalità della manovra cartacea con cui si pensa davvero di sormontare la tellurica scossa d'oggi tenendo tuttora in piedi, (e se questo avverrà sarà in grazia di ben altri e ben individuabili fattori) il mondiale baraccone.

Tutto il «materiale Stalin» si toglie di colpo di mezzo, e lo si rastrella indietro da tutti gli spacci di periferia. Al suo posto si rovescia di colpo, rigo a rigo, la letteratura di questo ventesimo congresso, più sconnessa ancora, nella sua filiazione da più padri, degli «scientifici» e davvero pietosi parti del mammone Stalin. La cestinatura del secolo, direbbe lo scribame; la più grande cestinata della storia, diremo noi: milioni e milioni di rubli, al solo valore di carta da macero. Miliardi di spese di stampa in tutte le lingue; rotative a ritmo degno di quest'epoca atomica, ed asina.

La stessa scolastica medioevale non è arrivata a tanto quando ha bruciato, insieme ai condannati autori, magari in sottana nera, i cumuli dei loro scritti, ha scomunicato chi li leggesse o toccasse in avvenire, ed ha imposto ai fedeli di recitare a milioni la preghiera di impetrato perdono per l'eresia, di riconsacrazione dei pulpiti violati e delle cattedre salite da Satana.

La scolastica, fase storica assai più rispettabile di questa che ne occupa, aveva la giustificazione di essere del tutto coerente alla propria organica dottrina sull'azione e la conoscenza umana. Per essa, le masse sono pilotate per la coscienza, e questa è pervia alle operazioni di «propaganda fide» quando l'organizzazione delegata dal supremo Ente esprime nelle sue formulazioni il dettato e la luce della Grazia.

Il moderno pensiero critico borghese, che ancora non sgombera malgrado le brutte figure a catena su tutti i fronti, rifiutò l'Ente, la Grazia, e l'investitura d'infallibilità, ma pretese sostituirvi un pilotaggio dell'azione umana non diverso, ossia prese gli uomini per la testa, delirò per la macchina da stampa, per l'alfabetismo e per il libro in grande tiratura, ed - ahi per lui - per l'inondazione delle gazzette; per il Maestro-fiaccola contro il Prete-spegnitoio.

Non sgarra chi traduce questa presa dell'uomo-cittadino per la testa, in reale presa per il dialettico, se pur scurrile, contrario.

Molto peccando, noi socialisti di passati tempi scambiammo il movimento nostro con una nuova propaganda fide, non intendendo che il militante marxista non è più uno che sa convincere e insegnare, ma uno che sa imparare dai fatti, che alla testa dell'uomo corrono avanti, mentre essa, vacillando, da millenni cerca inseguirli.

La più matura accezione del determinismo nulla ha a che fare col passivismo, ma chiarisce che l'uomo agisce prima di aver voluto agire, e vuole prima di sapere perché vuole, essendo la testa l'ultimo e meno sicuro dei suoi arti. Il migliore uso che un gruppo di uomini possa farne sarà di prevedere il momento storico in cui - altro che passivismo! - saranno catapultati, per la prima volta a testa avanti, in un turbine di azione e di battaglia.

I sapientoni delle inesauribili risorse e delle manovre escogitabili in qualunque stretta con furbesco successo, gli attivistissimi, stiamo da anni ed anni a vederli oscenamente procedere, il viso imperterrito, ma le-cul-le-premier.

Noi riconsultiamo in faccia a loro gualciti inarrivabili libelli che ci guidano da circa un secolo: quei signori danno un saggio del loro ritorno al marxismo cambiando da un giorno all'altro, ad un fischio del contromastro, tutto l'armamentario stampato, in critica storica, economica, politica, filosofica, certi che così cambieranno a lor modo la faccia del mondo.

Appunto perché non oggi certo abbiamo imparato a schivare il culto della personalità, compulseremo sempre che ci paia l'opera di Stalin; non quoteremo un soldo più alto di questa il lanciato Florilegio di congressuali coglionerie, che oggi trabocca.

Confessate svolte

Nella prima Giornata di questo Dialogato abbiamo preso in esame due aspetti delle cancellature e riscritture di dogmi operate in questo moderno Concilio, non di Nicea o di Trento, ma di Mosca. A noi soprattutto preme questo falso credo: «l'economia russa odierna è di struttura socialista», che non è fino ad ora stato gettato fuori bordo, e preme l'altro non meno folle di Stalin: «nella economia socialista vige la legge dello scambio tra equivalenti (mal detta legge del valore)» in merito al quale le cose sono tuttora allo stesso stato.

Sui punti economici che sono stati più da vicino trattati nel discorso Mikoyan ci fermeremo più avanti. Abbiamo finora preso atto di mutate posizioni che, già contenute nella relazione del segretario del partito, hanno avuto in altri discorsi ampio sviluppo, sulla storiografia e sulla personalità.

La prima mutazione consiste nel rimangiare come calunnie tutte le accuse di tradimento mosse ai bolscevichi anti-staliniani sterminati nelle oscene «purghe». Gli uccisi restano uccisi, e il loro massacro conserva la forma della distruzione dell'avanguardia rivoluzionaria operaia: l'errore di «storiografia» non si salva con una riabilitazione (da quella gente teniamo sommamente ad essere chiamati traditori e banditi fascisti, mentre avremmo sacro orrore di una riabilitazione da parte loro!). L'errore apparrà nella sua luce storica il giorno che risplenderà come esatta fosse la posizione marxista di quel poderoso movimento (si trattava di diecine di migliaia di provatissimi militanti ovunque selezionati e giustiziati nella controrivoluzione, da allora palese, come la vera storiografa marxista registrerà), ossia quando si dovrà dichiarare non socialista la trama economica della società russa. Questo non ancora si confessa appieno. Ma l'ora verrà.

La seconda mutazione fin qui esaminata è quella della condanna al culto della personalità, anch'essa effetto solo di una determinazione forzata, e del tutto inadeguata alla posizione marxista. Si liquida il culto di Stalin, colla bieca interpretazione che lo avesse fondato Stalin stesso, e l'asserzione che al posto del Capo unico va messo il «collegio» direttivo dello Stato e del partito. Anche qui la posizione nuova è inconsistente, e non vive in essa la giusta soluzione del rapporto tra classe e partito. Se fosse possibile ad un uomo costringere un'intera collettività al mito del suo potere personale, non si tratterebbe di errore di un cattivo marxista, bensì di una decisiva prova storica contro il marxismo.

Siccome il primo discorso diffuso è stato quello di Krusciov, più che le mutazioni (apparse poi clamorose) sui primi due punti detti, ha colpito la sua posizione in merito al compito dei partiti comunisti (ben pochi non hanno mutato tal nome; e meglio è dire dei partiti legati con Mosca) nei paesi «fuori cortina». In tutti i paesi - ha detto - il nostro programma resta l'avvento della società comunista; non vi abbiamo affatto rinunziato (questa confessione sarà ancora più lontana). Ma quanto al processo storico che conduce dalla società capitalistica al comunismo, non riteniamo che esso debba necessariamente passare per la guerra civile, l'uso della violenza, la dittatura proletaria, come Lenin sostenne nel 1917 (ha fatto anche su questo riserve Krusciov) e ammettiamo che possano esservi vie diverse da quella, e diverse da paese a paese. Ha sostenuto che possa esservi anche la via della conquista della maggioranza parlamentare, e che i partiti debbano utilizzare in questa lotta non il solo appoggio dei lavoratori salariati, ma l'alleanza con questi delle classi medie, il consenso del popolo e di tutti gli uomini colti e di buona volontà. Non ha però escluso che in date situazioni invece di prendere tale strada pacifica, o quando questa sia sbarrata dal capitalismo, si ricorra alla guerra civile.

Questa crassa dichiarazione è stata tutta originata dalla necessità di sostenere le note tesi di politica internazionale: coesistenza coi paesi capitalistici, evitabilità della guerra con essi.

Qui (in massima) non vi sono svolte rispetto alla posizione di Stalin, e quindi non si è trattato di una clamorosa mutazione, come sulla storia dei tradimenti e sulla direzione unipersonale. Si è trattato di abbassare la maschera e dire, proprio mentre per i primi punti si asseriva di ritornare, da quegli errori e sviamenti, all'ortodosso marxismo e leninismo, che si sarebbe condotta la stessa azione politica, nei paesi esteri, che hanno sempre condotta i partiti socialdemocratici e piccolo-borghesi.

Logico quindi che si rilevasse l'incontro del nuovo con l'antico opportunismo e la complicità di entrambi con la salvezza dell'ordine borghese. Ma non basta a noi marxisti dire che la prima ondata e la seconda ondata dell'opportunismo sono la stessa cosa, né si tratta di frettolosamente dedurne che il capitalismo di Occidente e quello di Oriente, indifferentemente, sono gli stessi. Le vie storiche dei due opportunismi sono diverse (il secondo è molto peggiore), e diversa la via con la quale il capitalismo nei due campi si è sviluppato, e la rivoluzione lo vincerà; diversa, ma in nessuno dei casi pacifica.

È poi forse medita questa confessione di Krusciov? Va guardata di nuovo, s'intende ripetendo quanto abbiam sempre detto, la questione della strada al potere, e del potere di classe.

Forze in urto nel mondo 1956

Se la società umana nella sua storia presenta una serie di urti e di conflitti, non sfugge certo a tal sorte il suo torbido quadro presente.

Non poteva sfuggire ad un tale esame questo congresso. E il problema della lotta sociale e politica in quei paesi che stanno fuori della frontiera dell'U.R.S.S. e della famosa «cortina», il problema della «politica interna» dei paesi «capitalistici», non è, nell'avviso di tutti, il solo. Vi è quello della politica russa a cui sappiamo come Krusciov e compagni rispondono: non vi sono classi e lotta di classe, vi è concordia intorno al governo socialista, del tutto unanime. A ciò si replica con tutto l'esame che andiamo svolgendo della struttura economica e sociale russa. Nella figurazione deforme dei convertiti da Stalin (a tutto, fuorché a Marx e Lenin), in Russia e nei paesi fratelli non vi sarebbe più urto tra Stato e Società, nel senso di Engels, ma vi sarebbe ciò solo nei paesi atlantici, ove vige lotta di classe (ed anche questo in un senso bastardo).

Divisi così gli Stati del mondo in due gruppi, sorge il problema dei rapporti di forze tra essi. Questo problema sorge in tre modi. Rapporti tra gli Stati di un gruppo e quelli dell'altro - rapporti tra gli Stati del gruppo est - rapporti tra gli Stati del gruppo ovest. Siamo qui in pieno ai problemi che trattammo nel Dialogato con Stalin. In economia: mercato unico mondiale o doppio mercato? In politica: pace o guerra? Domanda che riguarda anche i due ultimi casi, nel seno di gruppi omogenei.

Le mutazioni qui ci sembrano queste. La coesistenza, nel senso di «non guerra» e di «ciascuno si fa i fatti di casa sua», era affermata al XIX e lo è al XX congresso. L'emulazione o competizione economica nel senso di discesa su un unico mercato (dimostrammo come fosse rigorosa la dimostrazione di un economista borghese che questo vale ammissione dell'analoga natura, mercantile e capitalistica, delle economie dai due lati), appare chiaramente accettata nel XX congresso, mentre era fortemente riservata sotto Stalin. Era questo congresso un'accademia marxista, come pretende, o non piuttosto ha fatto a pezzi l'idolo Stalin per soddisfare le richieste della Camera d'affari del Capitalismo mondiale?

Quanto ai rapporti tra Stati nel seno del gruppo est, si sottolinea l'impossibilità di loro contrasti, e le effusioni esterne sono caldissime. Ma chi crederà a questi calori tra animali a sangue freddo? Chi ci prenderà Gronchi e granchi? Tra i motivi tuttavia per i quali Stalin e la sua spoglia si tolgon di mezzo, sta quello forse di qualche callo pestato dalla parte dell'Asia, ove sembra che la parte di satellite si reciti meno corriva che dalla parte d'Europa.

Il problema terzo, degli urti tra Stati dell'ovest, tra quelli ove si tratta di Granchioni con vere tenaglie, sembra anche in mutazione. Ma, illustri venti-congressisti, qui era più leninista (gli dialogammo su questa pretesa il fatto suo) il ci-devant (ci puzzate a mille miglia di giacobinismo borghese!) astro di scienza Stalin! La guerra tra gli Stati dell'imperialismo capitalistico nel gruppo ovest restava inevitabile. E l'orifiamma della Rivoluzione Sociale, anche se già era ridotta allora a vano spauracchio, era ammainata solo a metà.

Abbiamo dato atto al Krusciov di una profezia robusta sui rapporti inter-occidentali, sebbene egli parlasse più di urti tra assi di affari, che tra assi di guerra. Ma indubbiamente questo messere ha preso altri terzaroli nelle vele della minaccia rivoluzionaria, in legame allo spettro di guerra, e la tela è stata ammainata per tre quarti.

Chi resterà a fare queste operazioni, di tali navigatori dalla precaria carriera, allorché senza mercede e senza pietà il vento della Grande Bufera riprenderà a soffiare? Giocate pure per qualche tempo, capi di una Russia neo-borghese, col vostro ciclone «Marianna», profumato di Coty.

Per ora dedichiamoci al problema classico del potere, in paese capitalista, e prendiamo con le molle le vostre «creatrici» teorie neonate: puzzano di putrefatto.

Prima lo scopo, poi i mezzi

Naturalmente il primo commento che ha fatto la stampa capitalista internazionale è stato quello di fingere stupore: come, tanta corsa alla distensione generale, e poi la prima cosa che Krusciov dice è che il suo movimento è sempre per il socialismo e il comunismo in ogni paese? Non più guerra né calda né fredda, ma sempre propaganda per la rivoluzione all'interno dei paesi, con i quali si mantengono relazioni di corretta amicizia? Questo gioco dalle due parti durerà ancora per molti e molti anni: deliziosi finti tonti.

Ma dove sei, Trotzky, che conclamavi che con la guerra polacca - sebbene nella tua capacità militare la temessi precipitata - si doveva portare la Rivoluzione proletaria nel cuore dell'Europa borghese? Il modo con cui Krusciov si è dichiarato sempre comunista è tutto speciale. Egli se l'è presa con i borghesi esteri che trovano contraddizione tra la dichiarata pacifica coesistenza e l'affermazione di aver per programma il comunismo dovunque. Secondo lui «gli ideologi borghesi confondono le questioni della lotta ideologica con quelle dei rapporti tra gli Stati» e invece «la grande dottrina marxista-leninista» afferma «che la instaurazione di un regime sociale in questo o quel paese è una questione interna dei popoli dei relativi paesi».

Tutto quello che ammette Krusciov è che i comunisti non sono sostenitori del capitalismo! Questo ai pennivendoli borghesi è sembrato linguaggio da Giove tonante? Ma egli ha aggiunto che i comunisti non si immischiano negli affari interni dei paesi con ordinamenti capitalistici. Neh, don Carlo Marx, di che ti immischiavi in quel lontano 1850? Russavi, in attesa che fondassero lo Stato di Israele, l'unico sugli affari del quale avresti avuto voce per pontificare? E allora, dove ha questo scita studiato la «grande dottrina», per le corna di Adamo?

Lasciamo queste perle.

Il discorso, nella nostra pochezza, lo leggiamo così: io segretario, in Russia sono comunista non solo ideologico ma costruttivo (bella parola dell'odierna moda che, come in cento altri casi, compete, in guanti gialli, con parallelo stile, dai due lati del sipario) ma all'estero sono un comunista «ideologico», e stop. Ormai con la coesistenza nasce il reciproco turismo: dirà il viaggiatore yankee, alla vista del conto dell'albergo (pare salato anzi che no): pagare? Ohibò, in casa vostra sono un capitalista, ma puramente ideologico.

Contentiamoci dunque del comunismo ideologico, ma guardiamolo un momento contro luce. Del socialismo ne sappiamo abbastanza dal colloquio con Baffone: è basato sulla legge dello scambio di mercato. Non resterà che aspettare il comunismo, quando i suoi «ideologi» lo avranno costruito, giusta la grande dottrina di... Fourier-Owen. Per ora l'ideologo segretario lo spiega così: il comunismo... sarà un regime sociale... in cui ogni uomo lavorerà con entusiasmo secondo le sue capacità e riceverà, IN CAMBIO DEL SUO LAVORO, secondo i suoi bisogni.

Ma questa è la grande dottrina del rigattiere e del salumiere al cantone! Sopravvive il cambio del lavoro contro il consumo, la società tiene il libretto contabile di ogni soggetto individuale, non si sogna di fare nemmeno quello che in settori ristretti fa la società attuale; raccogliere lavoro, e distribuire oggetti e servizi soddisfacenti i bisogni, anche quando chi ha bisogno non dia lavoro adeguato, non più perdendosi a scrivere l'equazione mercantile! Se lo scopo di Krusciov è ideologicamente così facile, allora forse le sue tortuose equivoche strade valgono per raggiungerlo!

Mezzi: la violenza

È giusta la frase: ai nostri nemici piace presentare noi leninisti come i partigiani della violenza, sempre e in ogni caso. L'elemento violenza non è per noi quello «discriminativo» tra il marxista rivoluzionario e chi non lo è. Non si può essere partigiani della violenza perché essa non è uno scopo, ma un mezzo, un passaggio. La società comunista sarà senza scambio e solo a tal patto senza violenza, alla fine. Perché solo allora sarà senza classi.

Può tuttavia - questo e il punto! - esservi il partigiano della non-violenza che dirà: ideologicamente voglio l'emancipazione del proletariato, ma se per averla occorre violenza, abbandono tale rivendicazione. Chi dice questo non e un marxista: ogni pacifista «immediato» si respinge dal marxismo. E Lenin respinse, sulla parola di Marx, chi è contro qualunque guerra, sempre e dovunque; lo spiegammo a lungo nella parte Prima della «Struttura della Russia».

Ma il marxismo condanna egualmente anche queste vecchissime tesi: la violenza civile fu mezzo adatto all'emancipazione dei cittadini dal regime feudale e dispotico, e lo ridiventa se le conquiste della libertà personale e la democrazia sono minacciate; ma fin quando la democrazia sia rispettata la lotta politica deve essere pacifica.

Condanna non meno quest'altra: dal tempo della Comune di Parigi, o almeno della fondazione della Seconda Internazionale, la trasformazione della società borghese in socialista avverrà gradualmente e senza ricorso alla violenza, con misure realizzate dal proletariato con l'arma del suffragio, che condurrà il suo partito al potere.

Queste sono già tesi non morali o filosofiche o «ideologiche», ma strettamente storiche. Lo stesso Lenin ha chiarito i lungamente dibattuti dubbi sulle enunciazioni di Marx e di Engels, la versione che fino al 1865 pensassero possibile in Inghilterra una vittoria pacifica del proletariato, che alla sua morte Engels la considerasse possibile in Germania. In teoria può ammettersi che una borghesia in condizioni sfavorevoli abbandoni il potere politico a un partito di programma socialista: ma l'urto violento sorgerà subito dopo. Lenin nota come Marx (risposta dopo una conferenza in Olanda) negò la possibilità anche in Inghilterra di una «dimissione» della borghesia dal potere, e quanto ad Engels la sua tanto discussa prefazione suggerisce soltanto, nella Germania 1890, di lasciare al governo l'iniziativa del conflitto.

Quello che qui diciamo per il mezzo violenza, vale per il mezzo insurrezione, guerra civile. In teoria non sono, in tutti i casi, pensabili e desiderabili. Il loro impiego ha limiti storici.

Questo limite Lenin e tutti i marxisti radicali lo rinvennero, in un secondo ciclo europeo successivo a quello classico del 1848-1871, nell'inizio della fase imperialista del 1900, e lo dimostrarono varcato in tutti i paesi sviluppati alla data del primo conflitto mondiale.

Queste premesse storiche sarebbero mutate, secondo Krusciov, e quindi potrebbero apparire dei casi in cui la presa proletaria del potere possa farsi senza violenza e guerra civile.

Contestiamo anzitutto le circostanze di fatto invocate: Le forze del socialismo e della democrazia sono cresciute. Falso. Al momento in cui Lenin stabilì la teoria storica tutta l'Europa era parlamentare e i seguaci dei partiti socialisti numerosissimi in tutti i paesi. L'imperialismo economico, questo sì giusta Marx e Lenin, ha dopo generate le forme politiche totalitarie, battute nella guerra, ma non nel tipo sociale del capitalismo supersviluppato: perché si dichiara nelle stesse pagine il pericolo che minaccia la democrazia in America, Inghilterra, Francia, Germania, ecc., i cui governi, ieri alleati, sono dipinti spesso come briganti fascisti? O questo era musica Stalin?

L'inserzione, dopo il «periodo idilliaco» 1890-1910, di due feroci guerre, non conterà nulla?

«Il campo dei paesi del socialismo conta oltre 900 milioni di uomini».

Contestato il socialismo - e la democrazia, di cui poco ci cale - come nuova forma in tale campo. Una novità storica ha smosso questi 900 milioni di uomini, solo un cieco può contestarlo. Ma come? Grazie a vampate di violenza e di guerra civile. Basta uno dei due termini a escludere che, soffice soffice, il resto del mondo si volti sottosopra senza cannonate.

Quanto alla «forza di attrazione» e alle «idee che hanno conquistato le menti...» ne facciamo grazia... alla nuova filosofia marxista.

Comunque, ammesso, per un momento quanto contestato, concediamo pure, a fine dialettico, che in qualche paese il capitalismo lasci il timone per pudore dei vecchi trascorsi, per cristiana rassegnazione, per paralisi da idropisia, per fair play, per quello che accidenti vuole il segretarissimo; che lo lasci gridando: perdiana, mi avete emulato in una pacifica competizione, mi chiamo toccato, mi avete regolarmente surclassato: vi riconosco... più capitalisti di me!

La pietra filosofale

Dunque accettiamo per un istante l'ipotesi del potere politico preso dal proletariato, una volta tanto, sine effusione sanguinis, senza violenza, senza sommossa, senza putch, senza blanquismo, senza insurrezione. Tutti questi non sono elementi discriminativi abbia ragione Krusciov.

Ce n'è un altro, il SOLO, il GRANDE, l'INSOSTITUIBILE, il NON NOMINATO al XX congresso: LA DITTATURA DEL PROLETARIATO.

Qualcosa - nella grande dottrina di Marx e di Lenin - non è cambiato tra il 1848 e il 1917, sebbene nell'intervallo il mondo borghese abbia fatto un tuffo di un quarto di secolo nel lattemiele.

Sarebbe cambiato dopo? Nel tempo di due guerre che hanno incendiato il pianeta intero? Della più grande vittoria rivoluzionaria della storia, quella di Ottobre, più e più a lungo irta di armi di quella epica del 1793, che ha fatto riecheggiare più tonante il grido eroico della borghese Carmagnole: vive le son, vive le son, vive le son, du canon!? Dell'affogamento nel sangue non solo delle Comuni di Berlino, di Budapest, di Monaco - dopo la prima guerra - di Varsavia, di Berlino ancora, dopo la seconda? Della passata per i plotoni Comune di Lenin, di Trotzky, di Zinoviev, di Kamenev, di Bucharin, di Radek, di dieci e dieci altri maestri sommi, di cento e cento sergenti e veterani del bolscevismo, di mille e mille soldati di classe, figli della gloriosa guerra guerreggiata del proletariato di Russia? Della stessa sanguinosa se pur borghese maschera che la degenerazione pose sui volti dei proletari europei nella falsa riscossa partigiana contro le stragi della dittatura capitalista in Italia, Germania, Francia, Spagna, Balcani e dovunque? Di quarant'anni di lotte civili nella Cina, in cui armate sterminate si incalzarono alternatamente più volte dal nord estremo al sud? Di cento episodi di lotte coloniali in otto o dieci imperi, grondanti sangue, in cui le gesta degli europei più democratici fanno impallidire quelle dei regimi reazionari, nella inenarrabile serie che va dalle stragi belghe dei negri del Congo, di prima delle lacrime 1914 sul popolo martire, alla recente sinistra albionica deportazione del vescovo cipriota, con tutto il resto?

Tutto quanto passò sul quadro storico, tra le due date che collimarono i due colossi, il cui nome insozzano le citazioni del Kremlino, era romanzo per giovinette, se messo a confronto della cannibalesca vicenda che si svolge nel mondo, da quando il tremendo esempio della Dittatura di Ottobre lanciò al mondo mammonistico del Capitale una tale sfida, che ha solo per posta la Morte.

Sebbene in questo stesso congresso, nel vantare nuove avviature e sviature, e nel millantare scoperte a catena che allargano il marxismo, si sia più volte ammesso che vi sono taluni principii che non è dato toccare e mutare, ecco che si attenta al principio dei principii, tolto il quale noi, dall'ultimo al primo, noi, milioni di rivoluzionari di ieri, oggi e domani, cessiamo di esistere.

La nuova parola del Partito che leva contro il mondo il suo «Manifesto» nel convulso 1848, verte sul passaggio al socialismo, trattato al XX congresso in modo beota.

«Tutte queste misure sociali (che sciolgono i nodi dell'oppressione borghese) hanno come premessa l'organizzazione del proletariato in classe dominante - dopo che in partito politico - e il DISPOTICO intervento in tutti i rapporti di produzione borghesi».

Dispotismo - o forza di persuasione, o messeri?!

Il «Manifesto» tace (nella citata pagina) sulla insurrezione a mano armata. Si tratta di più che di una rivolta di schiavi. Sono le impersonali forze produttive che si rivoltano, e l'espropriazione degli espropriatori nasce sciogliendo un'equazione scientifica. Non rimbomba, qui, nel «Manifesto» il cannone. Ma poggia il suo pugno di acciaio la Dittatura sul nemico, anche vinto, prigioniero, arreso.

Nell'epopea sulla disfatta del 1848 del proletariato di Parigi echeggia la parola e la Consegna: distruzione della borghesia! Dittatura della classe operaia! Echeggia perché, come altre cento volte è avvenuto ed avverrà, la classe media insorta contro la destra annega nel sangue, dopo l'ottenuta vittoria, l'avanzata fiduciosa, l'imbelle ingenua «competizione emulativa» del proletariato. Allora, contro questi agenti del sistema borghese condannati dalla inerzia storica a far da boia della rivoluzione socialista, come già nel '31, si leva il grido, che con eguale sfortunato eroismo si leverà nel '71: dittatura della classe operaia! Silenzio nella strozza di ogni altra sezione del popolo! Non solo dei patrons e dei banquiers, ma dei sozzi, strozzini épiciers delle strade di Parigi! Silenzio nella strozza di Jacques Bonhomme (il contadino francese) col suo bas de laine, la calza rigonfia d'oro borghese.

E il preteso antinsurrezionista Engels, tanti anni dopo, alla fine della persecuzione sui socialisti tedeschi, grida: chiedete, o filistei, che cosa sia mai la dittatura? La Comune di Parigi: questa era la dittatura del proletariato! Anche dunque per una borghesia abdicante (e perfino fosse nelle mani di un Krusciov!) ed inerme, saranno presi ostaggi, e il proletariato dittatore, nelle date condizioni, ne farà l'uso che nel 1871 a Parigi ne fece, rispondendone leoninamente, nei rantoli dei Federati, e nell'apologia che Carlo Marx ne fece sul viso dei boia, davanti alla storia.

L'essenziale in Marx - Lenin

Nella seconda edizione di «Stato e Rivoluzione» scritta da Lenin nel 1918, egli inserì i passi della lettera di Marx al compagno Weydemeyer, già da noi ricordato, perché ritenne che «esprimessero ciò che distingue sostanzialmente e radicalmente la dottrina di Marx da quella dei pensatori borghesi, e l'essenza della sua dottrina sullo Stato».

Abbiamo voluto concedere che l'essenziale non stia nell'uso della violenza, nella guerra civile, nell'insurrezione, ossia che vi possa essere un caso storico di scioglimento incruento della lotta delle classi. Ma l'originale, l'essenziale per la «grande dottrina di Marx e di Lenin» non è neppure la lotta delle classi, è la dittatura, ed è la distruzione dello Stato. Come dirlo meglio che Lenin stesso?

«Mehring pubblicava nel 1907 nella 'Neue Zeit' alcuni estratti della lettera di Marx a Weydemeyer, in data del 5 marzo 1852. Questa lettera contiene, tra le altre, la notevole osservazione che riferiamo qui appresso: 'Per quel che mi riguarda, non ho né il merito di avere scoperta l'esistenza delle classi nella società contemporanea, né quello di avere scoperta la lotta delle classi tra loro. Storici borghesi avevano esposto molto tempo prima di me lo sviluppo storico della lotta delle classi, e alcuni economisti borghesi l'anatomia economica delle classi (in cui scioccamente notiamo di passaggio noi, certi gruppetti recentissimi con errore vecchissimo, vogliono leggere tutto il comunismo). Ciò che io (Marx) ho fatto di nuovo e di aver dimostrato 1) Che l'esistenza delle classi si riferisce solo a certe fasi storiche dello sviluppo della produzione (tesi che concerne la non eternità delle classi: vi sono state e vi saranno forme di società umana senza classi); 2) Che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) Che questa stessa dittatura non è se non la transizione alla soppressione di tutte le classi e alla società senza classi...'».

Lenin dopo aver detto di dottrina essenziale, sostanziale, e radicale, ne fa la «pietra d'assaggio» per la comprensione e il riconoscimento effettivo del marxismo. E aggiunge: non è marxista se non chi estende il riconoscimento della lotta di classe fino al riconoscimento della dittatura del proletariato.

È di cristallina evidenza che tutte le vie di preteso passaggio al socialismo che non estendono il riconoscimento della lotta di classe a quello della dittatura, caratterizzano l'opportunismo contro il quale si svolse la battaglia teorica e materiale di Lenin in quegli anni, e che questo è un principio base che vale per tutti i tempi e tutte le rivoluzioni. Tale scoperta originale del marxismo non è una «conquista creativa» dell'esperienza storica, su cui si è fatto tanto cianciare: Marx la stabilisce quando non si è ancora vista nella storia una dittatura proletaria, e tanto meno una soppressione delle classi. Lenin ne fa inderogabile principio (dopo che Engels aveva additato nella Comune di Parigi il primo esempio storico di dittatura proletaria), poco dopo che la prima dittatura stabile ha clamorosamente trionfato, ma si esercita tra violentissimi assalti nemici, e sempre molto prima che si veda uno storico esempio, lontano molto oggi ancora, di sparizione delle classi e dello Stato.

Può venire chi vuole a dire che la lezione della storia ha smentito Marx e dimostrato che nello sviluppo delle forme di produzione si avranno decorsi senza dittatura; ma quello che non può sussistere è il proclamare ritorno alla dottrina di Marx e di Lenin, che in questa pagina danno concordi a distanza di 70 anni il «carattere discriminativo» della comune teoria, il riconoscimento odierno da Mosca di una forma della lotta delle classi, che si sviluppa nel campo mondiale come coesistenza pacifica e gara emulativa, e in alcuni campi nazionali come «lotta ideologica» e come conquista parlamentare dello Stato.

Perché, ecco il gran punto, quando dite che con moti nel quadro costituzionale in taluni paesi (che sarebbero poi due soli in tutto il mondo, Francia e Italia) sperate di avere il potere (se pure non escludete, a rigore, il ricorso alla lotta armata ove, violando la Costituzione, non ve lo passeranno dopo una vittoria elettorale), non dite affatto, anzi negate in teoria e in pratica, che distruggerete l'apparato del vecchio Stato, e nemmeno che escluderete la perdita parlamentare del potere in fasi ulteriori, sopprimendo ogni diritto politico alle classi non lavoratrici: la dittatura è questo e non altro.

Il dopo-conquista del potere

Fatta un'altra concessione - non meno fittizia di quella dell'arrivo al potere senza lotta insurrezionale - ossia che tendiate, come in qualche passo è detto, ad uno stabile potere dopo la conquista «popolare», e che assumiate impegno a difendere con la forza una tale stabilità nel caso che la maggioranza elettorale vi venga a mancare, facile cosa è vedere che si tratta di impegno impossibile a mantenere, e quindi ad assumere.

Queste concessioni ed ipotesi storiche assurde ce le rimangiamo subito: non tema il lettore che noi minimamente crediamo di aver a che fare davvero con socialisti e comunisti «negli scopi», rei soltanto di prendere clamorose cantonate circa «i mezzi». Lo stesso titolo di «passaggio al socialismo» è bestialità. Il termine passaggio serve a ciò che l'elegante gergo moderno (dei giovani signori che Lenin schiaffeggia) chiama pomiciare: indietro, sporchi pomicioni della Rivoluzione! Essa è scontro, urto, esplosione, feconda sanguinosa breccia nella storia!

Abbiamo dunque supposto che un governo «socialista» sia pervenuto per la via «costituzionale» al potere «unendo attorno alla classe operaia i contadini lavoratori e gli intellettuali, tutte le forze patriottiche».

Potrà il governo fondato su una tale maggioranza conservarla - anzi: avrà mai potuto conseguirla? - se dice: non ammettiamo che successive elezioni ce la tolgano, e ci fermiamo stabilmente al potere, non facendo più elezioni, o facendole in quel modo che ormai da tutte le bande si è appreso: votate, elettori, liberamente, ma solo a favore del governo?

Che diranno i contadini, che diranno gli intellettuali, che diranno le forze patriottiche (leggi per fissare le idee in Italia i cattolici «di sinistra», anzi di centro-sinistra)? Evidentemente essi, imbevuti di costituzionalità a tutti i costi, potrebbero anche scendere in armi se la storia ripetesse la situazione di una dittatura di destra prima o dopo un'elezione a vittoria popolare, ma non lo faranno per una dittatura di proletari che sospenda le sacre garanzie in nome delle quali si sarà montata tutta la sbornia. Ma che diranno i proletari autentici essi stessi, dotati di spirito rivoluzionario e marxista? Non diranno nulla, perché non ve ne saranno, altrimenti all'ipotesi dell'elefantesco fronte popolare non si sarebbe neppure giunti.

Krusciov evita dunque accuratamente la scandalosa parola Dittatura. Egli parla in edizione purgata di «direzione politica della classe operaia con a capo la sua avanguardia». Echeggia i traduttori di Marx che invece di dittatura rivoluzionaria del proletariato scrissero critica del proletariato.

Egli infatti si spinge a dire che «dove il capitalismo dispone di un enorme apparato militare e poliziesco le forze reazionarie (?) opporranno una forte resistenza».

Qui, in questo paese di eccezione, si fa grazia che «il passaggio al socialismo avvenga attraverso un'aspra lotta di classe, rivoluzionaria».

Siamo dunque arrivati al riconoscimento della lotta di classe in qualche caso speciale, ma non al riconoscimento della dittatura dopo la conquista del potere. È quello che Lenin chiama aver ridotto Marx ad un volgare liberale. Anche il più conservatore giurista liberale ammette che i cittadini usino la forza quando si viola un loro diritto costituzionale. Ci permetteremo quindi di lottare aspramente contro le forze reazionarie solo dopo aver dimostrato loro che non hanno la maggioranza parlamentare!

Noi qui non stiamo né ripetendo la dimostrazione della impossibilità di usare il Parlamento a fini di classe, né spiegando ai Krusciov-Togliatti che il loro metodo li deluderà. Sappiamo bene che così devono parlare e perché così devono parlare. Sono canne di organo in cui soffia proprio la volontà di non fare arrivare il proletariato al potere, e se tra essi vi fosse qualcuno che lo fa senza esserne pienamente conscio, anche questo a noi non direbbe nulla.

Preme a noi un punto solo: questo rinnegamento strepitoso dello stalinismo può essere spiegato in ogni modo, con le deduzioni del caso dal gioco delle forze internazionali e sociali interne della Russia, e lo stiamo ben facendo, ma non può essere fatto passare anche per i più gonzi, con la bandiera del ritorno alla dottrina Marx e di Lenin.

Le inabili e sciatte formulazioni del ventesimo congresso, anche prese come «letteratura», contengono apertamente il rifiuto del punto centrale della invocata dottrina: «la dittatura come transizione alla soppressione delle classi» ossia la dittatura dopo la conquista del potere. La tesi che essi lo ottengano senza battaglia potrebbe anche essere vera, perché potrebbe il fatto essere del tutto comodo per l'ordine borghese.

Leninisti kautskiani

Si risponde facilmente a questa vantata nuova edizione del leninismo con la voce di Lenin stesso, così come egli potesse parlare dopo il XX congresso.

Citazioni di Lenin naturalmente ne hanno fatte molti di questi signori. Il brano su cui fa leva il discorso di Krusciov, secondo cui sarebbe falsa applicazione del materialismo storico dare uno schema generale di successione di fasi prestabilite che identicamente debbano presentarsi in tutti i paesi, è come al solito invocato avulso dall'integrale sviluppo dell'autore. Lenin scriveva in aperta polemica con i socialisti della destra che avevano in nome di Marx idiotamente stabilito che la Russia, e in essa il proletariato, il partito bolscevico, non si dovevano muovere perché il materialismo storico imponeva che la rivoluzione russa potesse essere proletaria solo dopo tutte le altre rivoluzioni europee; e doveva essere diretta dalla borghesia fino a che l'economia russa non si fosse potuta mettere all'altezza di quelle occidentali. Da quarant'anni anche noi conducemmo questa battaglia, contro la bestiale idea che la forma rivoluzionaria russa dovesse essere democratica e non dittatoriale, per motivi di «determinismo economico». Nel nostro studio sulla Russia stiamo analizzando nei successivi paragrafi gli scritti di Lenin che questa teoria della rivoluzione russa costruiscono con un vero capolavoro di continuità coerente fin dall'inizio del secolo. Lenin non si cita con due cifre: volume e pagina. Non lo diciamo noi a Krusciov, di cui siamo solo in metafora interlocutori: glielo dice Lenin, quando lo dice nel suo scritto «La dittatura del proletariato e il rinnegato Kautsky».

Kautsky disse che tutta la questione della dittatura viene da una «parolina» che una volta scrisse Marx. Con una serie ruffiana di citazioni egli tentò di svuotare il peso fondamentale di questo concetto in Marx, ridurlo ad una scelta infelice nel lessico. Per questo nell'altro mondo la faccia di questo teorico, che aveva lungamente difeso Marx contro i revisionisti di destra, e sulle cui pagine Lenin si era formato, quanto su quelle di Plekhanov, finito come lui, la faccia di questo spettro porta il segno indelebile dello sfregio della frustata di mano di Vladimiro, che a tanti allora parve ingiustamente sanguinosa.

«Chiamare parolina questa celebre illazione di Marx, che costituisce la somma di tutta la sua dottrina rivoluzionaria, significa farsi beffe del marxismo, significa rinnegano completamente. Non si deve dimenticare che Kautsky conosce Marx quasi a memoria; che, a giudicare da tutte le sue pubblicazioni, egli ha nel suo scrittoio o nella sua testa tutto uno schedario nel quale gli scritti di Marx sono accuratamente classificati, nel modo più comodo per citarli. Kautsky non può non sapere che tanto Marx quanto Engels parlarono ripetutamente della dittatura del proletariato... che tale formula è l'esposizione più completa e scientificamente più esatta del compito del proletariato di spezzare la macchina statale borghese, del quale compito Marx ed Engels parlarono, tenendo conto delle rivoluzioni del 1848 e del 1871, dal 1852 al 1891, per ben quarant'anni». «Dall'inizio della guerra in poi Kautsky, con progressione sempre più rapida, ha raggiunto una grande virtuosità nell'arte di essere marxista a parole e lacchè della borghesia nei fatti».

Gli oratori del XX congresso disponevano di uno schedario delle Opere di Lenin migliore di quello di Kautsky per Marx, elettronico magari, a sfogo della sciocca invidia che affiora in ogni loro discorso per la spesso pagliaccia tecnica americana. Hanno quindi ben superato il primato di allora «di virtuosità nell'arte di essere marxista-leninista a parole e lacchè della borghesia nei fatti».

La parolina Kautsky la spiegava così: dittatura significa soppressione della democrazia. Lenin con una lunga analisi storica dimostra che si arriverà anche a sopprimere, alla fine, qualunque democrazia: sparite le classi e lo Stato la parola sarà senza senso, e il fatto ignoto da gran tempo.

Ma rettifica con scientifico rigore lo sporco «liberalismo» di Kautsky: «Dittatura non significa obbligatoriamente la soppressione della democrazia per la classe che esercita questa dittatura contro altre classi, ma significa obbligatoriamente soppressione della democrazia per quella classe, contro cui la dittatura è esercitata».

Questo è molto chiaro e vale per le due opposte dittature del tempo moderno: borghese e proletaria. Vi par di sentire Krusciov-Togliatti dire alla borghesia: noi eserciteremo la dittatura dopo che a mezzo della democrazia ti avremo rovesciata, ma se tu sopprimi la democrazia per noi quando siamo minoranza, sei una forza reazionaria?

La scena a tre

Tutti i passi di Lenin su cui si bara si riferiscono non al capitalismo dei moderni paesi occidentali, ma a quei luoghi e tempi ove lottano tre forze: feudalismo, borghesia e proletariato. È allora che vi sono multiple vie di passaggio al socialismo in un paese: quando la scena è solo a due il problema storico consiste ormai tutto nella vittoria della rivoluzione socialista nella società capitalista sviluppata. Il romanzo del paese nazionale isolato si deve invece necessariamente scrivere quando si esce dal feudalismo e sorgono i centri statali nazionali. Qui è un ponte di passaggio al socialismo, e qui, qui soltanto, sono multipli aspetti «con questa o quella forma di democrazia, con questa o quella varietà di dittatura del proletariato».

Nel testo che abbiamo richiamato, Lenin, dopo aver scientificamente definita la dittatura in generale, così passa a definire quella proletaria: «un potere conquistato e mantenuto dalla violenza del proletariato contro la borghesia, un potere non vincolato da nessuna legge».

Come vi sa questo forte agrume, intellettuali, patrioti, ed altri insetti?

Più oltre si riferisce l'autore alla scena a tre, ricordando che prima del 1905 in Russia tutti i marxisti definivano la rivoluzione come borghese: i menscevichi ne inferivano la politica di intesa colla borghesia, i bolscevichi prevedevano la lotta del proletariato alleato ai contadini prima contro il feudalismo, poi contro la borghesia. Kautsky invocava l'arretratezza sociale della Russia per affermare «questa idea nuova: che in una rivoluzione borghese non si possa andare più lontano della borghesia», dice con sarcasmo Lenin. E aggiunge: «E ciò, nonostante tutto quanto Marx ed Engels dissero mettendo a confronto la rivoluzione borghese del 1789-93 in Francia con la rivoluzione borghese del 1848 in Germania!».

Tra i leninisti del XX congresso, e il leninismo, corre questa differenza: Lenin e la storia provarono che il proletariato non può fare a meno della dittatura lungo il corso di una rivoluzione borghese, senza essere sconfitto. Questi di oggi affermano che ne deve fare a meno nelle rivoluzioni esclusivamente proletarie, in cui non è più questione di abbattere il feudalismo, ma il capitalismo!

Essi rendono l'insurrezione inessenziale, e la dittatura la sopprimono in qualunque caso, cancellano persino la «parolina». E sono leninisti? Parli, ancora, Lenin (sempre nel Kautsky, al principio).
«Se Kautsky avesse voluto ragionare seriamente e onestamente avrebbe potuto chiedersi: vi sono leggi storiche sulla rivoluzione che non conoscono alcuna eccezione? La risposta sarebbe stata; no, non vi sono leggi di tal fatta. Tali leggi considerano solo il caso tipico, ciò che da Marx è stato una volta designato come 'ideale', nel senso di un capitalismo medio, normale, tipico».

(A margine del vecchio nostro esemplare del «Kautsky» avevamo qui segnato: trovare questo passo di Marx. Ne abbiamo indicati una serie nel testo, non stampato in esteso, del rapporto alla riunione di Milano sulla «invarianza» del marxismo e delle teorie di classe rivoluzionarie anche precedenti; e sono riportati a proposito della questione del «modello» di società borghese nella serie di tre anni fa sulla questione agraria).

La legge storica della dittatura è dunque inseparabile dallo insieme della dottrina. Contro la falsificazione Lenin così la formula: «La rivoluzione proletaria è impossibile senza la distruzione violenta della macchina statale borghese e la sua sostituzione con una nuova».

Ritiro delle concessioni

Smascherati i falsi teorici - peggiori di quelli che in economia si riscontravano nei testi di Stalin - possiamo «ritirare» le ipotesi storiche concessive, e proclamare i non meno clamorosi falsi storici.

Anche Kautsky, come Krusciov, tentò di speculare sul fatto che Marx ed Engels avrebbero fatta un'eccezione per l'Inghilterra e l'America, fino al decennio 1870-1880. La risposta di Lenin è fondamentale. La necessità della dittatura è soprattutto legata all'esistenza del militarismo e della burocrazia. Queste forme non esistevano in quei due paesi e in quel tempo.

«Oggi invece (1918) esistono, tanto in Inghilterra quanto in America».

Ha il signor Krusciov notizia che tali forme siano nei due paesi scomparse dopo di allora? Avevano o no, lui ed i suoi e il loro maestro Stalin, tali forme mostruose bene negli occhi, sia quando li trattavano da fraterni alleati, che da nemici freddi?

Ma qui dobbiamo dare un altro colpo alla mirabolante descrizione di un mondo di oggi che sarebbe, in maggioranza o quasi, riboccante di democrazia e socialismo.

L'opportunismo, il denegamento della dittatura, il rinnegamento del marxismo, avevano da tempo usato questo argomento, che Kautsky incredibilmente copiava dal suo avversario di tanti anni Bernstein: siamo passati dall'era in cui il proletariato mirava al rivolgimento violento, a quella del possibile rivolgimento pacifico!

Quale diversa lettura storica ha adoperato nel 1956 Krusciov, e vari altri con lui, per sbalordire il mondo? Loro, armati dello schedario di Lenin come Kautsky di quello di Marx?

Si rispondano collo stesso schedario: e impari, il mondo dei balordi consumatori di novità pubblicitaria.

«Lo 'storiografo' Kautsky falsifica in modo così spudorato la storia da dimenticare l'essenziale: che il capitalismo premonopolistico - il quale raggiunse il suo apogeo appunto nel decennio 1870-1880 - si distingueva, in forza dei suoi tratti economici essenziali, manifestatisi in modo tipico particolarmente in Inghilterra e in America, per un amore della pace e della libertà relativamente grande. L'imperialismo invece, cioè il capitalismo monopolistico maturato definitivamente solo nel secolo ventesimo, si distingue, in forza dei suoi tratti economici essenziali, per il minimo amore della pace e della libertà e per il massimo e universale sviluppo del militarismo. Non notare questo, nell'esaminare fino a che punto sia verosimile o tipico un rivolgimento pacifico o un rivolgimento violento vuol dire scendere al livello del più volgare lacchè della borghesia».

Ne abbiamo a sufficienza per trarre sul risibile «passaggio al socialismo» dei paesi «in ordine sparso» le conclusioni finali.

La storiografia falsa era stata inventata ben prima di Stalin, ed è tutt'altro che morta dopo la sua espulsione dalla gloria.

Per Marx e per Lenin la dittatura è una legge generale. E con essa il terrore, altra peccaminosa parola messa fuori uso. Eppure la usò Engels nell'Almanacco repubblicano italiano, quest'altra parolettina, non meno dimenticata al XX congresso: «Il partito vittorioso, se non vuol aver combattuto invano, deve continuare il suo dominio con mezzi autoritari, col terrore che le sue armi ispirano ai controrivoluzionari» (1874: si trattava allora di confutare gli anarchici, che smontano la forza armata un'ora dopo la vittoria).

Nel marxismo-leninismo legge fondamentale sulla conquista del potere politico è la necessità della dittatura dopo la conquista. Un'eccezione poteva forse avere questa legge proprio nelle condizioni della Russia. Il valore mondiale (aggettivo di Krusciov) di Ottobre sta nel fatto grandioso che proprio in Russia la dittatura si è storicamente imposta. Domani si imporrà, quindi, ovunque, senza altre eccezioni.

Nel venticongressismo la via democratica al potere diventa legge generale, come già per i socialdemocratici peggiori, vecchi e superstiti.

Si fa un'eccezione per il caso che il capitalismo disponga di un enorme apparato militare e poliziesco.

Si tratta di un'eccezione? Dove sono questi paesi moderni senza burocrazia, militarismo e apparato poliziesco? Nei due soli paesi moderni ove la regola della maggioranza parlamentare potrebbe aver verifica, Francia e Italia, si può chiedere notizie di tali apparati (a parte le leggi per la mandria dei burocrati statali sostenute a spada tratta dai compari del Kremlino) ai ribelli di Algeria e ai braccianti di Venosa e di Barletta. E più brevemente alla stessa stampa del cremlinismo.

Ma l'ottimismo che fa risorgere la kautskyana prospettiva del rivolgimento pacifico, da Lenin seppellita, si basa tutto sui paesi dell'est, della democrazia popolare, del socialismo.

È dunque da quella parte che non vi sono eserciti di funzionari, di armati e di poliziotti? Il segretario generale evidentemente ritiene che non si chiamino tali quei corpi, quando dipendono dalle ramificazioni della sua Centrale. E, conoscendo come al pubblico vada a genio la versione drammatica delle vicende politiche, spera di far credere che sono scomparsi da quando si è inflitta la morte civile al generalissimo Stalin, e la morte sulla forca al superboia Beria.

Potrà la storia scrivere degli attuali «capi dell'avanguardia» russa cose diverse e migliori, che di quei due personaggi? Sciogliere il nodo che li ha tanti anni legati alla stessa funzione?

Da «Il programma Comunista» n. 6 del 1956. Pubblicato in volume nel settembre dello stesso anno.

 

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