Dialogato coi morti (5)
Il XX Congresso del Partito Comunista Russo

 

Giornata terza (vespro)

Questioni di principio

Siamo all'abbordo delle grandi questioni della vivente storia: la politica mondiale degli Stati, la pace e la guerra.

Krusciov, echeggiato da tutti gli altri, ha detto di dover sistemare, nel XX congresso, «alcune questioni di principio». È grazia che si dia atto ancora che esistono questioni di principio: già da tanti anni lo slogan radicato in tutto il mostruoso apparato che ha il vertice al Kremlino è: «Basta col portare questioni di teoria tra le masse!». Tra le masse non si portano che situazioni di passaggio, problemi «concreti», e si ha il diritto, quando sia utile al successo del momento, di mobilitare «principii», magari da Marx, Engels e Lenin, ma egualmente da Robespierre o da Cristo, da... Cavour e Garibaldi o dal Papa; la sola condizione è che espedienti del genere trovino quota e voga nell'andazzo delle Opinioni, nel favore popolare...

Quelle questioni di principio si è ostentato di porle su un piano nuovo rispetto al precedente periodo, al XIX congresso, a Stalin; e questo potrebbe anche ammettersi in parte. Quello che invece stiamo qui smantellando è che il «nuovo corso» (formula, per legge sperimentale, sospetta cento volte su cento) sia nella direzione dei principii che seguivano storicamente Marx, Lenin, il bolscevismo, l'Internazionale Comunista.

Questo nuovo corso non fa che stracciare alcune ultime carte di principii che «sotto Stalin» non si era ancora deciso di rinnegare: qui la nostra netta valutazione del XX congresso.

Crediamo avere dato questa prova circa la questione terza di Krusciov: Le forme di passaggio dei vari paesi al socialismo. Non una pagina del marxismo-leninismo si è qui salvata. Anche se non si è osato dire (lo dirà il XXI congresso) che la forma violenta e dittatoriale del passaggio è ormai «proibita», si è senz'altro stabilito che quella «attraverso la democrazia» è la regola in tutti gli Stati di oggi, con cui Mosca ha un dibattito diplomatico aperto.

Il corollario a questo passo è stato poi dato con la sfrenata abiura - dichiarazione di liquidazione del Cominform. Quando si distrusse l'opera storica di Lenin contro la vergognosa adesione alle guerre «democratiche» del 1914, abbracciando la politica social-patriottica per la guerra del 1942, si liquidò l'Internazionale Comunista, da lui fondata. Oggi si rimangia del pari tutta l'opera della «scissione» nel primo dopoguerra tra socialdemocrazia e comunismo mondiale, e si rimpiange l'unità sullo sfondo della peggiore II Internazionale, quella della collaborazione di classe a scala mondiale. Si indica infatti come conseguenza «delle modificazioni avvenute nella situazione internazionale» anche «il compito del superamento della scissione del movimento operaio, e del rafforzamento dell'unità della classe operaia per dare successo alla lotta per la pace ed il socialismo». Ma questo nuovo traguardo non è - come sembrerebbe in apparenza - un partito solo della classe operaia, ma è la sommersione di questa in un ben più largo fronte delle classi medie pacifiste, nazionalmente e socialmente. Soggezione del movimento comunista ad un fronte delle classi popolari è, ripetiamo, formula storica che può avere un solo contenuto: soggezione di tutta la società all'alto capitalismo.

Sia inteso: ben può da taluno, da uno qualunque, sostenersi che le «modificazioni della situazione storica mondiale» tra il 1919 e il 1956 inducono a conclusioni e prospettive opposte a quelle che determinarono e indirizzarono allora la lotta internazionale comunista.

Non ora e qui ci estendiamo a dimostrare che invece, come è nostro fermo avviso, non se ne possono trarre che drastiche conferme.

Ma dimostriamo per intanto il non diritto ad esistere - che in un dato avvenire si dimostrerà non con parole ma con atti di forza - di chi voglia legare le dette modificazioni della situazione a questo nuovo indirizzo, e non dichiari al tempo stesso fallita e caduta, non per quarant'anni ma per sempre, la costruzione storica a cui Marx e Lenin sono legati.

Coesistenza senza guerra

Restano, a parte quella del passaggio, altre due grandi questioni, che Krusciov intesta: «La coesistenza pacifica dei due sistemi» e: «La possibilità di evitare le guerre nell'epoca attuale».

Occorre vedere se su detti punti vi è stato del nuovo, ed in quale senso. Quello che vi è stato di nuovo lo diciamo presto: oltre a rinnegare Marx e Lenin, si è rinnegato perfino Stalin.

Abbiamo riportata la posizione del congresso circa il «non ingerimento» dello Stato sovietico negli «affari politici interni» degli altri paesi; e quindi il non ingerimento del partito, seduto in congresso a Mosca; e la strana pretesa che Stato, partito e congresso seguitino a prevedere che il socialismo sostituisca in tutti quei paesi il capitalismo, e a desiderarlo, «a mani nette». Purtroppo questa attitudine follemente disfattista seguita a trovare credito nelle masse operaie del mondo, in quanto tutta l'opinione e la propaganda borghese la accreditano, continuando ad arte a confondere il proprio reale terrore del comunismo con la campagna di agitazione contro la politica di Mosca. La fine di ciò è ancora lontana: occorrendo a un chiarimento dei rapporti non già altri congressi come questo, ma nuovi schieramenti originali e diversi degli interessi e dei fronti di conflitto dell'imperialismo; come, tra tanti esempi, emerge dalle parole recenti del semi-accidentato presidente d'America.

Qui bisogna indicare lo svolgersi storico di questa questione della coesistenza, o addirittura convivenza (nessuno è tanto cieco da affermare che i due gruppi di Stati possano andare avanti «ignorandosi»).

Ed infatti la coesistenza oggi disegnata non vuol dire solo: astensione dalla guerra di classi e di Stati, pace internazionale, disarmo rivoluzionario e perfino partigiano, vuole chiaramente dire: collaborazione economica, sociale, politica.

Storicamente questa questione nasce da un'altra che oggi viene taciuta, che si simula di ritenere pacifica: mentre è la sola, vera che noi poniamo sul tappeto, in una cerchia di silenzio, ma in attesa che tra qualche altro triennio sia dai due lati chiassosamente, clamorosamente disputata. È la questione del socialismo in un solo paese.

Prima infatti di prendere posizione sul curioso quesito: un paese a sistema socialista e uno a sistema capitalista devono farsi necessariamente la guerra? bisogna chiedersi se una tale situazione storica può determinarsi, e se si è già oggi determinata.

Di questa grande questione vediamo tre tappe: 1926, all'Esecutivo Allargato di dicembre dell'Internazionale di Mosca (Settima Sessione) - 1939, al XVIII congresso del Partito Comunista russo, alla vigilia della seconda guerra - 1952, al XIX congresso, e prima della morte di Stalin.

La svolta del 1926

Quella prima discussione riflette un momento decisivo. La grande organizzazione che in Russia teneva solidamente lo Stato, abbandona lo sforzo per provocare la rivoluzione proletaria mondiale, e si pone due compiti: la propria difesa interna ed esterna con la forza armata - una direzione dell'economia sociale, che i fautori della tesi vincente chiamano «edificazione del socialismo».

Due tesi erano allora giuste, e la storia le ha confermate: la rivoluzione nei paesi capitalistici era «rinviata» - l'assalto armato alla Russia di essi era possibile, e probabile.

La tesi di Stalin, e allora anche di Bucharin, fu che (anche prolungandosi a lungo quella situazione: proletariato internazionale passivo, Stati capitalisti attivi) si poteva in Russia, conservando il potere, attuare la trasformazione dell'economia in «sistema socialista».

Particolarmente vigorosa fu la contro-dimostrazione di Trotzky, Zinoviev e Kamenev, che ripetiamo ancora degna di attentissimo studio, oggi. Essi chiarirono in modo incontrovertibile la dottrina di Marx e Lenin su quei punti: la ricordiamo senz'altro.

1. Il capitalismo appare e si sviluppa nel mondo con tempi e in ritmi disuguali.

2. Ne segue altrettanto per la formazione della classe proletaria e la sua forza politica e rivoluzionaria.

3. La conquista del potere politico da parte del proletariato può avvenire non solo in un paese unico ma anche in uno meno sviluppato di altri, che restino al potere capitalista.

4. La presenza nel mondo di paesi ove la rivoluzione politica proletaria è già avvenuta accelera al massimo la lotta rivoluzionaria in tutti gli altri.

5. In fase ascendente di questa lotta rivoluzionaria è possibile che intervengano in difesa e in offesa le forze armate degli Stati proletari.

6. Ove le guerre civili e statali sostino, un solo paese può compiere solo i passi consentiti dallo sviluppo economico che in esso è stato raggiunto «nella direzione» del socialismo.

7. Se si trattasse di uno dei grandi paesi più avanzati, prima della sua piena trasformazione economica socialista, in dottrina non impossibile, avverrebbe la guerra civile e statale generale.

8. Se si tratta, come per la Russia, di un paese appena uscito dal feudalismo, questo con la vittoria politica proletaria non potrà fare altri passi che il realizzare le «basi» del socialismo, cioè una progressiva forte industrializzazione; e definirà il suo programma come attesa e lavoro per la rivoluzione politica estera, e come una costruzione economica di capitalismo di Stato a base mercantile.

Senza la rivoluzione mondiale, in Russia il socialismo era allora, ed è, impossibile.

Abbiamo volutamente riassunta in modo crudo la posizione. La cosa più notevole in quel 1926 fu la prova che nessuno era stato fino al 1924 di altra opinione; fu sventata la falsa interpretazione di uno o due passi di Lenin (vedi la nostra serie sulla Russia e la Rivoluzione, Prima parte) e fu dimostrato che gli stessi Stalin e Bucharin avevano parlato e scritto sempre in quel senso.

Ai fini dello sviluppo che ora seguiamo non torniamo sulla parte economica. Oggi è molto più facile di allora dimostrare che la società russa è capitalista. Sarà solo un poco più lungo sentirlo confessare.

Mentre oggi Krusciov parla di «leninista» teoria della coesistenza pacifica, non solo noi stabiliamo che non fu mai teoria leninista quella dell'edificazione del socialismo nella sola Russia, ma che quella del pacifismo tra i due sistemi, al 1926, non era nemmeno teoria stalinista, o buchariniana.

Nei deboli discorsi di Stalin, freddo, e del caldo Bucharin, questo si vede in modo indubbio. Un solo passo di Bucharin: «La esistenza perpetua di organizzazioni proletarie e di stati capitalistici è una utopia. Una tale esistenza simultanea è un fenomeno temporaneo. Pertanto, forzatamente, nella nostra prospettiva noi prevediamo una lotta armata tra i capitalisti e noi. Dichiaro categoricamente che la vittoria definitiva del socialismo è la vittoria della rivoluzione mondiale, almeno la vittoria del proletariato in tutti i centri decisivi del capitalismo» Questo nel 1926; oggi si amoreggia con il «non decisivo», il trascurabile capitalista Uncle Sam!

Queste parole di Bucharin erano marxiste. Egli era solo troppo ardente, quando non voleva aspettare oltre a vedere attuato il socialismo nell'immensa Russia, e da così totale potere. Riscattò poi con la stessa vita il diritto ad essere chiamato un grande, vero comunista rivoluzionario.

Perfino Stalin deve in parte ringraziare di qualcosa, se è vero che lo hanno fatto morire. Subito lo vedremo.

Fiamme della vigilia

Il 10 maggio 1939 Stalin svolge il suo rapporto a Mosca al XVIII Congresso del Partito russo. Nella lotta tra il 1926 e il 1939 in Russia gli assertori dell'edificato socialismo hanno sanguinosamente vinto. Non solo Zinoviev e Kamenev ma lo stesso Bucharin sono stati uccisi, Trotzky profugo avrà poco da vivere. Nel suo stile fatto di retorica ripetizione il loro nemico, uomo non ottuso ma testardo, che perdette una grande occasione di provare come la testardaggine sia una qualità da rivoluzionario, si mostra sicuro che non parleranno più dai loro sepolcri, chiusi o tuttora aperti: «la epurazione del pugno di spie, assassini e sabotatori del genere di Trotzky, Zinoviev, Kamenev, Jakir, Tucacewsky, Rosengolz, Bucharin e altri mostri, che strisciavano davanti allo straniero...».

Ma che dunque pensa allora Stalin della coesistenza e della guerra? Ebbene, in quel discorso di Stalin la guerra è certa, vicina, inevitabile.

Si insiste dal pugno di vili adulatori di allora, intenti oggi alla demolizione della figura di Stalin, sul fatto che egli non avrebbe vista, a poche ore, l'offensiva tedesca del 1942. Fu poi quello del 1939 un fiducioso abbraccio russo-germanico, e fu proprio solo tedesco il colpo basso all'amico? Questi mestieranti riducono la dialettica storica ad uno straccio puzzolente. Non si muovono così immense forze per mosse tramate nell'ombra una sera prima! Noi dobbiamo stare al documento in cui Stalin dimostra, sei mesi prima dell'invasione hitleriana della Polonia, una visione sicura. È stranissima la leggerezza impudente con cui oggi lo squalificano proprio quelli che su tale prospettiva hanno edificata la condotta politica di tutta la guerra e il dopoguerra!

Stalin descrive il gioco dell'imperialismo mondiale come sicuramente diretto allo scioglimento di guerra. Le sue parole sono esplicite: «La nuova guerra imperialistica è diventata un fatto». Gli stati capitalisti tuttavia la temono perché «può condurre alla vittoria della rivoluzione in uno o più paesi». Stalin si richiama ancora alla dottrina di Lenin sull'imperialismo.

Ciò che è invece strano, e che meriterebbe critica di noi marxisti, non dei senza principii che da ora lo attorniavano, è che Stalin impianta in pieno la distinzione tra «stati aggressori» e «stati democratici» su cui poi verrà costruita la politica disfattista dell'Antifascismo e della Liberazione.

Per lui «gli stati aggressori, Germania, Italia e Giappone» mascherano il proposito di attaccare gli «stati democratici, Inghilterra, Francia, America» con il loro famoso «patto Anti-comintern». Egli frusta perfino l'arrendevolezza (Monaco) davanti alle prepotenze di Hitler! Stigmatizza poi, dopo avere vagamente detto che la Russia è per la pace, la politica pilatesca del «non intervento» in guerra. Quanto alla Russia, essa prepara le sue armi: «Nessuno crede più ai discorsi melliflui secondo cui le concessioni di Monaco agli aggressori avrebbero inaugurata una nuova era di pacificazione»; in ogni modo: «noi non temiamo le minacce degli aggressori e siamo pronti a rispondere con un doppio colpo a quello dei fautori di guerra che cerchino di violare i nostri confini».

Noi siamo marxisticamente ben lontani dalla «teoria dell'aggressione» e dalla distinzione tra paesi guerrieri e paesi demo-pacifici, che del tutto offusca la vera dottrina di Marx e Lenin sulla guerra, figlia dei rapporti di produzione borghesi, che non ha alcun bisogno di essere «voluta» da criminali.

Ma non possiamo tacere che il linguaggio odierno sulla coesistenza pacifica e la evitabilità della guerra, è molto molto più degenere e nauseoso di quello tenuto alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Se l'alternativa della alleanza prima con gli aggressori e poi con i pacifici è un capolavoro di più della abolizione dei principi, ciò non toglie che il modo odierno di raccontare il dramma che va da Danzica a Stalingrado è ancora più fumogeno e sospetto, fermo restando per noi che allo stesso titolo fu tradimento stringere la armata mano di Hitler come di Churchill e Roosevelt, pari genuflessione di un potere già divenuto capitalistico agli imperativi dell'imperialismo, pari obbedienza alle superiori forze del determinismo, cui soggiace la politica internazionale, affidata, a dir dei gonzi e dei ciarlatani, alle fragili, labili mani dei «Pochi Grandi».

Testamento di Stalin

La biografia del personaggio non ci commuove più di quella di ogni altro lontano o vicino, nemico od amico. Ce ne serviamo di strada storica perché vale a sgomberare il campo dalla nuova menzogna, in nulla meno indegna di quella che rese «mostri» i grandi nostri Fratelli sterminati nelle purghe russe: la menzogna che in tutto questo scrollarsi più che vano dalle responsabilità legate al nome di Stalin, si possa disegnare un sano ritorno ai tempi grandiosi in cui la linea di Marx-Lenin era levata in alto indefettibile, a smisurato terrore del mondo capitalistico.

Nello scritto di Stalin sui «Problemi economici» rilevammo come la tesi della guerra imperialista, a cui può porre fine solo la distruzione del capitalismo, se pure enunciata con visibili contraddittorie concessioni alla coesistenza e al pacifismo, fin da allora affermati, sembrava ancora tenuta in piedi.

Oggi quello scritto lo vediamo condannato, ma in sostanza perché? Non già perché si ponga minimamente in dubbio il carattere di già raggiunto socialismo dell'economia sovietica, o si denunzi come folle e falsa la tesi del valere delle leggi di mercato in pieno socialismo. Abbiamo visto che si condanna unicamente la pretesa di Stalin che già da quel tempo fosse escluso un aumento della produzione capitalista occidentale. Oggi assodiamo che si condanna un altro punto: lo sbocco dell'imperialismo e della crisi nella terza guerra.

Attendere una catastrofe economica e politica del mondo borghese, e poi non vederla giungere, è una felix culpa per i rivoluzionari.

Tante volte le crisi e la catastrofe hanno deluso Marx ed Engels. E tante volte lo ha fatto l'esito delle pronosticate guerre internazionali.

Nel 1926 il primo concerto di insulti ai futuri mostri tende a soffocarli sotto l'infamia di pessimismo, e come teorizzatori della stabilizzazione del capitalismo. Per questo è un Trotzky deriso risibilmente perfino da un Togliatti.

Nel discorso prima trattato Stalin deduce la guerra del settembre 1939 da una visibile crisi della produzione mondiale, che, dopo quella 1929-1932, cui aveva fatto seguito una robusta ripresa, si delinea nettamente nel 1937; anno in cui nella sola Russia la produzione non declina.

L'ultimo errore di Stalin nel 1952, consistente nell'attendere una depressione occidentale, mentre è seguito il «boom» imprevedibile al quale i K.B. si vanno per il mondo untuosamente genuflettendo, è caso mai la minore di tutte le sue vergogne. Purtroppo questo mostra che gli allievi hanno di gran lunga superato il maestro.

Se dunque la curva dell'accumulazione si fosse piegata in basso, il passaggio sarebbe stato dalla guerra fredda ad un conflitto aperto? Ma questo avrebbe forse dato adito a sperare che finalmente la storia avrebbe visto la sconfitta o dell'Inghilterra o dell'America, o di entrambe queste potenze, che vincendo sempre da due secoli anchilosano il divenire dell'umanità.

La curva per ora si è volta in alto; e non lo ha fatto solo in Russia, come allora mostravano le cifre di Stalin nel passaggio tra gli indici 1937 e 1938. Di qui lo sporco idillio pacifista e lacrimogeno, al quale, con bestemmie del marxismo-leninismo dieci volte più orribili, si è dedicato lo stato maggiore del XX congresso.

Citiamo di nuovo le frasi di Stalin che riportavamo nel «Dialogato» con lui. «Per eliminare l'inevitabilità delle guerre, è necessario distruggere l'imperialismo». Questa drastica conclusione di Stalin chiude una confutazione risoluta di «alcuni compagni che affermano che per lo sviluppo di nuove condizioni internazionali dopo la seconda guerra mondiale, le guerre fra i paesi capitalistici abbiano cessato di essere inevitabili». Stalin non solo si oppone a questa tesi alla Krusciov, ma anche all'altra, che «i contrasti tra il campo del socialismo e il campo del capitalismo siano più forti dei contrasti tra i paesi capitalistici».

Ed ecco la posizione per la quale il XX congresso stacca la testa imbalsamata di Josif dal freddo cadavere, e la reca su un piatto d'oro oggi a Londra e domani, non v'ha dubbio, ad elezione presidenziale scontata, a New York.

«Da ciò deriva che l'inevitabilità delle guerre tra i paesi capitalistici continua a sussistere. Si dice che la tesi di Lenin secondo cui l'imperialismo genera inevitabilmente le guerre deve considerarsi superata, perché attualmente si sono sviluppate potenti forze popolari, che agiscono in difesa della pace, contro una nuova guerra mondiale. Questo non è vero».

Questo non era vero, e non è vero. Questo: quello che dice Krusciov: «Le guerre non sono più fatalmente inevitabili perché oggi... esistono i partigiani della pace». E questi, e simili cose, non esistevano ancora quando fu elaborata «una» tesi marxista leninista secondo la quale le guerre sono inevitabili finché esiste l'imperialismo.

Una, miserabili? La tesi; tolta la quale marxismo e leninismo cadrebbero nel nulla.

Viva Stalin, allora?

Nel Dialogato con Stalin mostrammo le gravi debolezze della presentazione di costui. Egli non credeva ancora possibile buttare fuori bordo quella che è, come abbiamo detto, la tesi di Lenin, non una tesi di Lenin. Voleva tuttavia spiegare perché fin da vari anni si assicurava possibile la «coesistenza», che era già stata inventata. Voleva intanto buttare via la tesi di Bucharin, e sua, sulla inevitabile guerra tra i due sistemi. Si mette quindi a dichiarare più probabile la guerra tra gli Stati capitalisti. Ricorda non senza coerenza la sua posizione del 1939: perché, egli dice, gli Stati capitalisti si attaccarono tra loro prima di darci addosso? Mostra di possedere ancora qualche lume di quella dialettica, per la quale il XX congresso si è foderato di cecità assoluta: è una incessante discesa nella tenebra, sono la sera, la notte che incombono sulle grandi giornate storiche di Ottobre. È lo stanco occhio di Stalin che registra gli ultimi raggi. Gli Stati di Occidente hanno per lui aiutato il riorganizzarsi del capitalismo germanico dopo la catastrofe del 1918, per poterlo lanciare contro la rivoluzione russa, egli afferma. E tuttavia, pure cadendo nella retorica classificazione del 1939 tra pacifondai ed aggressori, nel 1952 spiega col motivo economico della mancanza di mercati e di sbocchi, alla Lenin, e non con la criminologia storica degli imbecilli, il movente irresistibile di quella riscossa tedesca.

La mollezza in teoria di quest'uomo dall'azione di ferro, era già segnata dalla non superabile penna di Trotzky.

In effetti la poco salda costruzione di Stalin conteneva già tutti i dati dell'ulteriore calata lungo la scala controrivoluzionaria, che al XX congresso hanno consumato in pretesa onta a lui; e potemmo quattro anni addietro chiaramente indicare come. Egli deve liberarsi da ogni avanzo dell'ingenua tendenza buchariniana ad una guerra santa rivoluzionaria. Mantiene la derivazione inevitabile della guerra dall'imperialismo, e addita in questo il nemico. Ma prepara il travisamento totale della leninista «teoria del disfattismo» col dire, dopo avere tuttavia minimizzati ad una specie di remora e di rinvio gli effetti del «movimento per la pace», che
«questo si distingue dal movimento svoltosi durante la prima guerra mondiale per trasformare la guerra imperialistica in guerra civile, perché quello andava oltre e perseguiva scopi socialisti».

La tesi restava in mezza ombra e mezza luce. La tesi di Marx contro i democratici borghesi di «pace e libertà» nel 1848 era la stessa di Lenin contro i socialisti guerraioli del 1914. Noi neghiamo che vi sia un obiettivo pace distinto da quello socialismo, dalla emancipazione di classe operaia. Aspettiamo meglio la Rivoluzione dalla Guerra, che la Pace dal Capitalismo. Non sappiamo altra via per «seppellire la guerra» che l'uccisione del sistema borghese.

Stalin già svincola un movimento per la pace dall'azione per il socialismo, e dice quella possibile, ma non irrevocabilmente, prima di questo. Krusciov e i suoi si sono immersi nel fondo del baratro, vogliono la Pace senza Socialismo. Richiesta idiota, ad un tempo, ed impossibile!

Tutto l'impaccio e l'imbroglio sono subito, ieri ed oggi, sciolti dalla nostra posizione. La Russia è capitalista quanto gli altri Stati di occidente, e la guerra verrà anche tra essa ed altri Stati. Stalin la vedeva vicina e preferiva non essere il primo a sparare, sperava attendere, col movimento popolare, che la cosa andasse come nel 1939. Assicurava quindi gli Stati borghesi che gli urti tra loro erano più impellenti di quello tra i sistemi: augurava loro crisi interna e guerra esterna. Ultima illusione. Questi di oggi non credono più alla crisi entro il capitalismo e tra i capitalismi: hanno perduti gli ultimi barlumi cui Stalin trovava utile richiamarsi. Offrono la desistenza da ogni disturbo, elevano a regola eterna la evitabilità della catastrofe bellica per volontà e coscienza popolare, per persuasione mondiale, liquidano cinicamente gli ultimi rossori a cui la durissima grinta di un Giuseppe Stalin era tuttora sensibile.

Grandezza e piccolezza di uomini, durezza e sensibilità di animi, nulla hanno a che vedere con questo. Stalin in effetti sbagliava, e non vedeva che la terza guerra era lontana ancora; manovrava come se fosse più prossima. In egual misura lui e i suoi seguaci e successori non credono alla Rivoluzione, che possa ovunque fermarla, e vivono alla giornata nell'infame e cogliona lunga pace borghese, che si para per forse vent'anni davanti a noi.

Concorrenza ed emulazione

Il poderoso profetico discorso di Trotzky nel 1926 si svolgeva su un piano così alto, che gli fu troncata la parola. Forse dopo egli non completò adeguatamente, per quanto abbia scritto in modo anche meraviglioso, quella costruzione. Insistette su altri aspetti del dramma russo: l'avidità della burocrazia statale e di partito, la ferocia di Stalin: rispetto ai temi che aveva allora toccati, piccole cose.

Oggi il misero Krusciov, per sganciarsi dalle condizioni cui è legata «una» tesi di Lenin, baratta le ultime luci del marxismo che mai lo abbiano raggiunto, e afferma che nel 1914 agivano i fattori economici, nel 1956 sarebbero in gioco anche altri fattori, morali e di volontà. «La guerra non è un fenomeno esclusivamente economico». «Nella questione se la guerra ci deve o non ci deve essere (ma che razza di questione è mai codesta?) assumono grande importanza i rapporti di classe le forze politiche, il grado di organizzazione e la volontà cosciente degli uomini».

In quale spaventoso guazzabuglio siamo caduti, per tornare da Stalin a Marx?! Stalin avanzava in libreria col lanciafiamme, ma a quella luce qualche lembo di pagina si leggeva ancora; i vari Krusciov vi irrompono come tori ai quali, a copertura del rischio che abbiano appreso a leggere, si sono bendati gli occhi dopo avere spento tutte le luci.

Per caso siamo marxisti, e dopo ciò abbiamo da una parte schierato «i fattori economici», dall'altra, in suggestivo ordine, i rapporti di classe, le forze politiche e di organizzazione, la coscienza, la volontà?! E avviando tra questi avversari una «gara emulativa» sentiamo lanciare un «a voi signori», mentre il maresciallo Bulganin, col più fotogenico sorriso, tiene la smarra?!

Trotzky portò il discorso, da povero fesso quanto noi, sui «fattori economici» del momento. Fu grande. Non potete fare altro, disse, che sviluppare il passaggio dalla nostra società precapitalistica al mercantilismo, che avvicinarvi al modello capitalistico. Più passi avrete fatto per raggiungerlo, più saranno irresistibili le sue influenze su di voi. Non è solo con la guerra che egli può soggiogarvi. O noi andremo a snidarlo nei suoi covi di occidente, o egli sarà qui a fare i conti con noi. Né militarmente né economicamente i due sviluppi possono correre senza incrociarsi. Lanciato uno sguardo da gigante della dottrina storica nel fondo avvenire, Trotzky rispose a qualche interruzione da idiota: più di tutti credo nella rivoluzione mondiale, ma, se avremo guardato le cose in viso, potremo aspettare anche cinquant'anni. La condizione è che in tutto questo tempo non avremo sciolto la realizzazione dell'economia socialista in Russia dall'abbattimento della forma sociale capitalistica nell'Occidente.

L'internazionalismo, insegnò allora Trotzky con le parole della intangibile dottrina, si imposta sull'internazionalità degli scambi che la forma capitalistica ha dovunque introdotto, e nel vortice della quale saremo portati. Nulla varrà l'illusione di stare fuori dalle sue influenze. Quando gli posero il bavaglio egli non si poté difendere. Scese dalla tribuna per l'ultima volta dicendo: l'Internazionale discuterà ancora... Lui morto, ci è oggi dato ancora seguire il «dialogo» con cui la sua mente luminosa confutava, avanti lettera, i Krusciov.

Mercati e commerci

Coesistenza significa «non guerra», ma non può significare non contatto, non scambio. Trotzky lo aveva bene avvertito. La storia lo conferma.

Al momento di Stalin la formula fu quella del doppio mercato mondiale, che noi, nel dimostrarla falsa, rettificammo nella pretesa esistenza di due mercati semi-mondiali. La prospettiva di Stalin era tanto ingenua quanto audace. Tagliato mezzo mondo al capitalismo di occidente, esso si affoga nel suo sovraprodotto, si dilania in sé con guerre di quadrupla velenosità, e noi restiamo, noi passiamo. Ma chi noi? L'altro mezzo capitalismo, soltanto più del primo vitale?

Oggi la teoria illusoria dei due mercati-compartimenti stagni, è gettata risolutamente via: la patria socialista non abbassa solo il velo, ma si scinge decisa la cintura. Seppellisce con Stalin le ultime minacce di trarre un ferro mortale di sotto le gonne, dopo l'invito.

Qui dobbiamo sentire l'economista di servizio, Mikoyan. «Siamo fermamente convinti che una stabile coesistenza è inconcepibile senza il commercio (corsivo del testo in «Rinascita», febbraio 1956) che può essere la base di questa convivenza anche dopo la formazione di due mercati mondiali. L'esistenza di due mercati mondiali - di quello socialista e di quello capitalistico - non solo non esclude, ma al contrario presuppone il commercio, reciprocamente vantaggioso fra tutti i paesi. L'esatta interpretazione di questo problema ha valore di principio, sotto l'aspetto della coesistenza fra i due mondi, ma ha anche un'importanza pratica, economica».
Evitando corsivi ed esclamativi nostri sulla formulazione estremamente abbandonata, incosciente, come di chi corra sicuro su lastre di ghiaccio sottilissime, citiamo ancora: «riteniamo che il nostro commercio con i paesi capitalistici sia vantaggioso per entrambe le parti... Ciò è imposto dalla necessità stessa della divisione sociale del lavoro... dal fatto che non è ugualmente vantaggioso produrre tutti i tipi di merci in tutti i paesi...».
Ha mai dubitato, il Mikoyan, dubiterà mai uno su mille di quelli che leggono «Rinascita», che nel sistema socialista, a parte il vecchio fatto che non vi è commercio, non vi è mercato, deve essere superata, se non la divisione tecnica del lavoro nella manifattura, certamente la divisione tanto professionale ed aziendale quanto regionale e nazionale, del lavoro nella società? Che tutte queste formule sono inchiodate al tipo capitalista dei rapporti produttivi, e supremamente quella che «il produrre debba essere vantaggioso»? Vantaggio e profitto di capitale sono termini, che dicono la stessa cosa.

Noi facemmo a suo tempo tutta questa critica dell'ancora prudenziale visione di Stalin sul commercio, sul confronto dei due sistemi, e citammo anche come gli economisti borghesi di scuola liberale aderissero a questo confluire delle due produzioni sugli stessi sbocchi, e accettassero che il vincitore sarebbe stato quello dei due, che più vi avesse lucrato. Ma allora qual dubbio che perde ogni minimo valore l'argomento che in Russia «sono stati annientati gli sfruttatori» e «non esistono più borghesi», una volta ammesso che, per i canali internazionali, profitti di capitale, anonimo e tanto più avido per questo, traversano liberamente ogni frontiera?

Scambio di capitali

Questa gragnuola di paurose ammissioni sui sempre più larghi rapporti tra le pretese due economie, i pretesi due sistemi, mostrano come la manovra della «coesistenza» e della «emulazione» si legge tutta nel suo contenuto economico, e che non vi cambiano proprio nulla le millanterie di prevalere con la pressione delle opinioni «popolari», diffuse nella «coscienza» delle masse mondiali, e simili omelie. Al fine dì tutta questa colorata «frangia di interferenza», che si vuole vedere stabilita sul limite tra due sistemi opposti ed eterogenei, se si ha riguardo al loro interno, è possibile una sola conclusione. Questo amplesso a cui vorrebbe condurre la persuasione dei popoli, come solita alternativa al conflitto violento, è puramente un amplesso tra nature omosessuali, tra sistemi identici. Esso non è che una tappa della rivendicazione scema della liberalizzazione commerciale mondiale, accarezzata da tutti gli «operatori economici». Anche in questi giorni in America gli ambienti affaristici invocano l'eliminazione dei divieti di importazione di prodotti esteri; se vogliamo, dicono, che ad esempio i giapponesi comprino da noi cotone greggio, dobbiamo permettere a loro di «guadagnare dollari» vendendo qui le loro cotonate a basso prezzo. Guadagnare in due, formula del XX congresso, e di Mikoyan, formula in cui chi compita appena Marx può leggere tutto il capitalismo.

Cadute queste cose in bocca ai vari Nenni, ecco che sparano a salve: si deve stabilire con la Russia anche il «mercato dei capitali». Deve dunque essere permesso di esportare dalla Russia capitale «socialista» e quindi importarvi capitale... capitalista. Anche questo è messo sulla coscienza di Mikoyan, e fa parer vero che K. e B. offrano fra una tazza e l'altra di tè ad Elisabetta due miliardi di dollari in oro, sia pure in conto acquisto merci.

Naturalmente quando siano attuate queste gigantesche esportazioni di capitale finanziario si seguiterà a dire che non si tratta più del fenomeno caratteristico del più sadico imperialismo, quello descritto da Lenin: già; già; allora era il tempo dei volgari, crudi fattori economici: oggi è tutt'altro, ci sono i valori morali, le spinte ad emularsi con reciproco vantaggio; e la coscienza generale di questi tempi gentili e leggiadri non consente più le manovre di una volta per fregarsi l'un l'altro traverso i confini: la guerra è evitabile.

Un mondo che sia tutta una rete di borse di merci e di borse di capitali è evidentemente tanto assurdo dirlo socialista, quanto semi-socialista. Ma è ancora più illusorio prospettarlo come un mondo in cui sia possibile quanto Lenin escluse: impedire lo scoppio di una terza guerra generale solo al fine di assicurare la pace, e tenendo in vita il capitalismo.

Nel 1947, dunque, gli Stati Uniti avrebbero avuto un monopolio del mercato dei capitali, ed oggi lo avrebbero perduto (insieme a quello delle armi nucleari; e questo lo dice l'americano Lippman). Quindi riesce per gli Stati Uniti sempre più difficile esigere, come contropartita degli aiuti economici, sia accordi militari che accordi politici.

Bene, siamo dunque in pieno idillio. Riesce infatti per la Russia tanto facile esigere, in contropartita di ben due miliardi di dollari, appena un sorriso della Sua Graziosa Maestà Britannica!

Si, la guerra è evitabile

Noi siamo, è ben chiaro, per la piena validità attuale della dottrina di Lenin sulla guerra, la quale non è che la dottrina di Marx enunciata al suo nascere storico, dopo la guerra franco-prussiana e la Comune parigina, con cui si erano chiuse le guerre rivoluzionarie di sistemazione liberale: tutti gli eserciti nazionali sono ormai confederati contro il Proletariato!

Marx aveva fin dal 1848 annientata ogni ideologia pacifista-umanitaria che prospettasse la fine delle guerre per «generale persuasione» sulla loro inutilità. Dal 1848 al 1871 una serie di guerre erano ancora utili, per lo stesso radicalismo borghese dei Mazzini, Blanc, Kossuth e simili, che non lo capivano. La guerra tra nazioni non sarebbe finita con la Pace Universale, ma con la rivoluzione di classe supernazionale.

Gli stessi marxisti della Seconda Internazionale, come Lenin contestò loro per un decennio, avevano sinceramente creduto che la guerra potesse essere impedita dal proletariato mondiale. Però anche in quel periodo idilliaco e evoluzionistico, in cui nei parlamenti del mondo i voti socialisti si ammassavano, neppure i più smaccati riformisti pensarono di fermare la guerra con forze «morali» e persuasive. Impedire la guerra significava per loro impedire con lo sciopero generale nazionale ad oltranza la mobilitazione generale da tutte le parti delle frontiere, prendendo nelle mani il potere, per fondare il socialismo nella unita Europa.

Quando Lenin stabilì che la tappa imperialista del capitalismo conduce alla guerra, egli non credeva ancora ad una serie successiva di guerre mondiali, ma attendeva che al delinearsi della prima il proletariato, almeno di Europa, si levasse in piedi e la fermasse. La sua formula fu «trasformare la guerra imperialista in guerra civile». Ma la formula era alternante: o comincia e si sviluppa la guerra delle nazioni, o scoppia in ciascuna la guerra civile, le borghesie sono rovesciate, e la guerra non «scatta».

La grande occasione leninista fu perduta, adunque nel 1914 perché tutti o quasi i partiti operai non solo non bloccarono i cantieri, le ferrovie e i corpi d'armata, ma marciarono con la guerra nazionale. La rivoluzione russa nacque dal sommarsi di due condizioni singolari; la sopravvivenza di un regime feudale e la serie di disfatte militari. Il ciclo che avrebbe dovuto costringersi in troppo pochi anni mancò: condanna e sconfitta dei partiti social-traditori, ripresa del proletariato nei paesi d'Europa, abbattimento delle borghesie imperiali, vinte o vincitrici. E la rivoluzione russa fu sola.

Alla seconda guerra mondiale non si oppose all'inizio nessuna resistenza delle classi lavoratrici, e non seguì nessuna rivoluzione: sulla strada dei mostri imperialisti i partiti proletari non si trovarono: quelli comunisti nati dopo il 1914 nei venti anni tra le due guerre si erano totalmente snaturati, e la loro più grande battaglia perduta fu quella ad essi data con le repressioni di Stalin.

Oggi chi leva ancora la tesi di Lenin dice che, ricostituitesi le condizioni di tipo imperialistico anche nei paesi vinti, dopo un certo ciclo la guerra si presenterà, con una sola alternativa (del tutto improponibile se già oggi scoppiasse): che la rivoluzione proletaria possa strozzarla sul nascere.

Dalla terza guerra nascerebbe la rivoluzione se prima del suo scoppio, che tutto fa ritenere ancora ben lontano, fosse risorto il movimento di classe.

La prima condizione per questo arduo risultato è la messa fuori discussione del preteso carattere socialista della Russia presente.

Alla tesi del XX congresso sull'evitabilità attuale della guerra, noi rispondiamo non che la stessa è inevitabile in senso assoluto, ma che non può essere evitata da un movimento vagamente ideologico di proletari e classi povere e medie, su cui passerebbe come un turbine senza trovare resistenze. La guerra generale è dunque storicamente evitabile, ma alla sola condizione che le si opponga un movimento della pura classe salariata, e che questo l'attenda non per surrogarla con la pace ma per abbattere, con essa neonata, il vecchio, infame capitalismo.

Squallido utopismo

L'obiettivo storico della stabile pace in un mondo capitalista - e peggio sarebbe dire in un mondo mezzo capitalista, mezzo socialista! - insieme all'altro del XX congresso di «scelta» tra capitalismo e socialismo in base ad un confronto emulativo, giudicato dalla generale coscienza degli uomini, vale, in conclusione, aver retroceduto da Lenin per una lunga tratta, oltre quella di cui aveva retroceduto Stalin, il quale quando è morto lasciava ancora sperare agli smarriti, e più che mai difettosi di coscienza e di volontà, lavoratori del mondo, che in una prossima conflagrazione l'esercito Rosso avrebbe tentato di dilagare oltre le frontiere capitaliste, per persuadere col linguaggio del cannone e delle bombe: un ultimo residuo di marxismo, per quanto già ottenebrato dalla degenerazione delle teorie economiche, restava in questa vana speranza degli operai, che mormoravano la vana frase: eppure verrà Baffone!

La degringolade dal XIX al XX congresso rovina oltre Lenin ed oltre Marx, ad una concezione della lotta storica che, prese a pretesto le rivelazioni dei nuovi tempi, e le «creazioni» dettate da situazioni nuove, giace all'altezza di tempi più lontani del «Manifesto», e si perde nelle nebbie dell'Utopia.

L'idea che il mondo si decida dal confronto tra due modelli di società economiche, saggiando, con questi «plastici» artificiali della vivente umanità, ove vi sia maggior benessere materiale con tutto il contorno, e poi si orienti per una delle due forme proposte, non può assimilarsi che ai primi conati del socialismo utopistico, con l'enorme differenza a vantaggio di questo che al suo tempo esso anticipava con audacia rivendicazioni storiche del domani, mentre oggi sarebbe il risultato di un favoloso indietreggiamento e rinculo.

Marx ed Engels hanno infatti scritto degli utopisti senza alcun disprezzo, e per alcuni di essi come Saint Simon, Fourier, Owen, con vera ammirazione.

Ma tutta la loro costruzione teorica, su cui si formò il socialismo europeo dell'avanzato ottocento, e il comunismo russo di Plekhanov e Lenin, ebbe due pietre angolari: la critica dell'utopismo socialista - e la critica della democrazia borghese, della democrazia, come Lenin dice, in generale.

Erano due vie del tipo emulativo e persuasivo. I vecchi utopisti come Cabet pensavano che tutti si sarebbero fatti socialisti traverso visite alle Icarie, ai Falansteri; gli illusi dell'ebbrezza illuminista del XVIII secolo giuravano che la giustizia egualitaria e la libertà sociale sarebbero state adottate dalle legali consultazioni del popolo sovrano, derivanti come un corollario di pacifica civiltà dalla gloriosa rivoluzione che la classe borghese aveva condotta, in nome di quei principii.

Sono due grandi costruzioni della storia, ma i socialisti delle precedenti generazioni sono passati sulle loro nobili rovine per giungere al determinismo scientifico di Marx, e rivendicare, a fianco di Lenin, la sua teoria della nuova Rivoluzione e della Dittatura.

Dittatura - ovvero persuasione. Aut-aut. Si ditta a chi non vi è tempo né modo di arrivare per consenso. E più il capitalismo incarognisce a vivere nella storia, più la sua fine è possibile soltanto col mezzo della forza.

La Ragione, nelle forme davvero allora vive e seducenti, ce lo condusse per mano. Quando la borghesia levava a quella gli altari, già i gloriosi precursori della Lega degli Eguali osarono contrapporre ad essa la Forza.

Quest'altro sfregio vi è oggi nelle proclamazioni del congresso russo, sotto le ultime menzogne del ritorno a Lenin e Marx. Non solo il passaggio al comunismo traverso la democrazia, ma addirittura traverso l'utopia.

Al XX congresso hanno stracciato anche il «Manifesto» del 1848. Nelle sue pagine sulla «letteratura» socialista e comunista di altre dottrine, esso segnò per sempre il distacco dall'utopismo della lotta operaia moderna. Non possiamo riportare i testi teorici di Marx e di Engels su tal punto. Basti qualche frase, in cui è dipinta la ingenua fallacia degli utopisti.

«Basta, secondo essi, capire il loro sistema per riconoscere che è il migliore possibile ordinamento della migliore società possibile».

«Essi disapprovano quindi ogni attività politica, vale a dire rivoluzionaria, vogliono raggiungere lo scopo con mezzi pacifici, e cercano quindi con piccoli e perciò inani esperimenti (concediamo che quello russo sia un esperimento in grande... di costruire capitalismo), con la potenza dell'esempio di aprire la strada al nuovo vangelo sociale».

Ogni tanto troviamo in castagna questi «scorridori del futuro» che, per avallare tradimento ed abiura, cianciano che nuovissimi portati abbiano creativamente forgiate forme prima ignorate di trapassi storici, deducono dalle modificazioni delle situazioni la revisione di formule che asseriscono sorpassate. Costoro finiscono invariabilmente della stessa fine, convinti di vergognoso passatismo, di codinismo il più ammuffito. Coi vostri risultati che hanno tanto emozionato i cultori delle novità di ultima ora, passate dunque, signori del XX congresso, di almeno centoventi anni indietro, e lasciateci appendere alla colonna infame delle ideologie retrogredienti, fallaci e nemiche le vostre trovate dì oggi; coesistenza, emulazione, competizione; blocco, nella omosessualità, della feconda e viva storia.

Nascita del contro-ottobre

Di tutto l'anti-stalinismo presentato al mondo restano dubitosamente in piedi solo i punti che abbiamo all'inizio di queste giornate già trattati: il «culto della personalità» e la «manipolazione della storia». Su tutto il resto si è solo andati nella direzione in cui affondava Stalin, e più sotto di lui, ma anche su quei due punti la rettifica non è affatto nel senso dell'ortodossia, e si deve riparlarne prima di chiudere l'epicedio sui sepolti nell'unica palude.

Si dichiara che Stalin mentì quando definiva i «mostri» trotzkisti come agenti dello spionaggio straniero. Dunque non lo erano. E che cosa erano allora? La riabilitazione è rimedio a casi singoli, individuali, di giudizio morale, penale, ma mai correzione di giudizio critico, storico.

Stalin, a detta delle riviste sovietiche odierne («Unità» del 15 aprile) avrebbe fatto male non a mentire (non è infatti teorizzabile che in certe contingenze il rivoluzionario non sia condotto a dover mentire) ma a rendere, con quelle atroci calunnie, meno chiara la «battaglia di idee» che fu condotta contro il «trotzkismo».

Ancora qui Stalin è un marxista più conseguente dei suoi correttori di oggi! Che significa lotta ideologica? Per il marxista non vi può essere lotta ideologica senza lotta politica, e senza che questa derivi dal gioco di forze di classe. Dunque la grande sterminazione, non di alcuni mostri, ma di un grande strato degli effettivi del partito bolscevico, dal momento che non ebbe a base l'influenza di assoldamento di Stati stranieri, deve altrimenti spiegarsi come urto di forze sociali. Stalin disse l'unica cosa che poteva dire, per non ammettere che il partigiano del movimento anti-rivoluzionario era, con tutti i suoi seguaci, proprio lui, essendo pacifico che egli non fu in presenza di sommosse contro il potere: dovette parlare di spionaggio, attentato, sabotaggio in grande stile. È dunque falloso dire: «Sbagliata fu la tesi di Stalin, secondo cui la lotta di classe si fa più acuta ogni volta che il paese socialista fa un passo avanti. Questa tesi prospettata nel 1937, allorché gli antagonismi di classe erano già scomparsi, portò alle ingiuste repressioni».

Per l'ennesima volta, Stalin mentiva meno anti-marxisticamente di costoro. Si trattò proprio di una fase di lotta di classe, in cui il grosso del partito e della sua dirigenza, con Stalin, ebbe la vittoria.

Come altrimenti spiegare che la rivista russa dica, come citato dall'«Unità»: «i trotzkisti, ecc., esprimevano gli interessi delle classi sfruttatrici che opponevano resistenza, e le tendenze degli strati piccolo-borghesi della popolazione»?

I massacrati del 1934 e 1937 esprimevano gli interessi delle classi proletarie internazionali contro la politica di distacco dello Stato russo dalla lotta proletaria mondiale, mascherata dalla menzogna dell'edificazione del socialismo: in tutto quanto resta delle loro dichiarazioni, accuratamente occultate dopo il soffocamento, e negli stessi discorsi del 1926, essi rivendicano la linea di Lenin che si tratta di passare ad una lunga lotta della dittatura proletaria contro le forze interne di classi piccolo-borghesi, sostenute dalla multipla influenza del capitalismo internazionale. Qui, per marxisti, sta tutta la controversia da risolvere.

Fu quella la grande svolta, il capovolgimento della lotta rivoluzionaria in Russia. La spiegazione di questo imponente episodio scoppiato nel sottosuolo storico non può, senza che Marx crolli, essere tratta da una canagliata, un errore, o una distrazione del nominato Stalin. La lotta fu quello che fu, ed è giusto dirla una lotta di classe, nella forma ideologica e in quella violenta. Il cadavere di Stalin non griderà se dovrà scegliere un posto. Ma quello stesso posto tocca ai suoi affossatori del XX congresso, che ben si guardano dal giustificare ideologicamente oggi gli assassinati di allora.

Il posto comune al morto e ai vivi è dunque uno solo: quello della controrivoluzione capitalista.

Proprio la controrivoluzione è «creativa», e le si scoprono, vivendo la storia, le più nuove e inattese forme e manifestazioni. In questo senso abbiamo molto appreso da mezzo secolo di tradimenti al proletariato socialista.

È la Rivoluzione che è una; ed è sempre lei, nel corso di un arco storico immenso che si chiuderà come si è aperto e dove ha promesso; dove ha appuntamento forse con molti dei vivi, ma certamente coi nascituri, come coi morti: questi sapevano che essa non manca mai, non inganna mai. Essa, nella luce della dottrina, è già scontata come cosa vista, cosa viva.

Da «Il programma Comunista» n. 9 del 1956. Pubblicato in volume nel settembre dello stesso anno.

 

Archivio storico 1952 - 1970