I fondamenti del comunismo rivoluzionario marxista nella dottrina e nella storia della lotta proletaria internazionale (2)

IV. Snaturamento piccolo-borghese dei caratteri della società comunista nelle concezioni "sindacaliste" ed "aziendiste" dell'inquadramento proletario

Insostituibilità del partito

La pretesa di una completa aderenza di struttura dell'organizzazione operaia di lotta con la rete di produzione dell'economia industriale borghese, pretesa giunta alla sua estrema espressione col sistema di Gramsci, e alla quale oggi si richiamano diversi gruppi di critici della degenerazione staliniana, accompagna, e non poteva essere diversamente, la sua impotenza di azione alla sua incapacità a scorgere i caratteri di opposizione fra la struttura economica di oggi e quella di domani, la società comunista che attraverso la vittoria di classe del proletariato prenderà il posto della società capitalista. In ciò resta grandemente al di sotto dei classici risultati della critica eretta dal marxismo alla economia presente.

Il suo errore economico si accompagna in tutto a quelli che denunzia il sistema staliniano e che sono stati aggravati enormemente dalle fasi post-staliniane inaugurate col XX Congresso russo, proprio quando si è levata la bandiera di criticare e correggere Stalin. L'errore è sempre quello, e sta nello scorgere il miraggio di una società in cui gli operai abbiano avuto partita vinta sui padroni entro la comune, entro il mestiere e entro l'impresa, ma siano rimasti imprigionati nelle maglie di una sopravvivente economia di mercato, senza accorgersi che questa è la stessa cosa del capitalismo.

Le caratteristiche di una società non capitalista e non mercantile quali risultano dal vero studio marxista, come risultato di una previsione critica e scientifica libera da ogni "goccia" di utopismo, possono essere raggiunte e possedute, nella forma programmatica, solo dal partito, in quanto esso appunto non ha la schiavitù di "aderire" allo schieramento che alla classe produttrice impone il modo capitalista. Le esitazioni davanti alla necessità della forma-Partito e della forma-Stato, diventano smarrimento completo delle conquiste programmatiche quanto a completa antitesi delle forme comuniste rispetto a quelle capitalistiche, di cui era ben padrone il partito della scuola marxista. Basti pensare ai postulati cui il programma marxista perviene: abolizione della divisione tecnica e sociale del lavoro, che vuol dire rottura dei confini tra azienda ed azienda di produzione; abolizione del contrasto tra campagna e città; sintesi sociale della scienza e della attività pratica umana, per intendere come ogni tracciato "concreto" per l'organizzazione e l'azione proletaria che si proponga di riflettere in sé la presente ossatura del mondo economico, si condanni a non uscire dai caratteri e dai limiti propri delle attuali forme capitalistiche, e nello stesso tempo si condanni a non capire di essere antirivoluzionario.

La strada per uscire da questa inferiorità passa, sia pure in una lunga serie di contrasti, per organi eretti senza alcun materiale ed alcun modello tratto dagli organi del mondo borghese, e che possono essere solo il Partito e lo Stato proletario, nei quali la società di domani si cristallizza prima di essere storicamente esistente. Negli organi che diciamo immediati e che copiano e serbano l'impronta della fisiologia della società attuale, non può altro in potenza cristallizzarsi che la ripetizione e la salvezza di questa.

La forma comunale

La ristrettezza di visione dei libertari che polemizzavano con Marx nella Prima Internazionale intorno al 1870 e che abbiamo già ricordati, e la stranezza del pregiudizio diffusissimo che di Marx essi fossero "più avanzati", è evidente dal fatto che essi, pure opponendosi al militarismo e al patriottismo a parole, non colsero la potenza del trapasso, nella condanna dell'economia borghese, dalla sua considerazione nel campo nazionale alla ricerca delle sue leggi di diffusione mondiale, all'importanza della formazione del mercato internazionale.

Mentre Marx assurge a questo ultimo coronamento della descrizione del compito della borghesia moderna, al di là del quale altra tappa egli non pone che la conquista della dittatura proletaria negli Stati avanzati del mondo, e fa seguire alla distruzione degli Stati nazionali che col capitalismo nacquero un sempre più vasto potere internazionale del proletariato, gli anarchici propongono la distruzione dello Stato capitalista per sostituirvi (quando non proprio l'illimitata autonomia di ogni individuo, anche già borghese) quella di piccole unità umane che sarebbero le comuni dei produttori, autonome anche una rispetto all'altra dopo il crollo del potere dello Stato centrale.

Questa forma astratta di società futura fondata dalle comuni locali non si vede in che differisca dalla società borghese attuale, e quali forme economiche diverse dalle presenti ce ne diano il quadro. Quelli che hanno procurato di tratteggiarla, come Bakunin e Kropotkin, non hanno fatto che collegarla a ideologismi filosofici e non ad una critica delle leggi della produzione storicamente constatabili fino ad oggi. Quando tale critica hanno preso da Marx, non ne hanno saputo trarre che una minima parte delle conclusioni: colpiti dal concetto di plusvalore, che è teorema economico, non vi hanno poggiata che la condanna, morale, dello sfruttamento e ne hanno scorta la causale nel fatto del "potere" dell'essere umano sull'essere umano. Restati al di qua e al di sotto della dialettica, non potevano ad esempio capire che dal trapasso tra l'appropriazione di prodotto fisico e di lavoro del servo da parte del signore terriero alla produzione di plusvalore del tempo capitalistico vi è stata una effettiva "liberazione" da forme più pesanti di servitù e di oppressione, pur persistendo la necessità di una divisione in classi e di un potere di Stato, a vantaggio della borghesia, ma anche, in quella fase, a vantaggio di tutta la restante società.

Uno dei principali motivi di maggiore rendimento degli sforzi di tutti gli uomini, e di maggiore media remunerazione a parità di sforzo, è stata la formazione del mercato nazionale e la divisione del lavoro produttivo tra rami di industrie che scambiavano i loro prodotti intermedi e finali in un campo di libera circolazione, con la tendenza sempre più energica ad estenderlo anche fuori delle frontiere di ogni Stato.

Cresciuta, in piena coerenza alla integrale descrizione marxista, la ricchezza della borghesia e la forza di ogni suo Stato e con ciò la produzione del plusvalore (che non vuol dire immediatamente aumento del suo prelievo integrale assoluto a danno della classe inferiore, in quanto si concilia, fra l'altro, con una certa diminuzione della giornata di lavoro, ed un generale aumento del campo di soddisfazione dei bisogni), per demolire il potere capitalista non ha alcun senso l'idea di tornare a spezzare lo Stato nazionale nelle isolette di potere che caratterizzavano il medioevo preborghese. Ha poi addirittura senso retrogrado quella di richiudere l'economia delle cerchie di produzione e consumo in quei limiti angusti, al solo scopo di eliminare in ogni piccola cerchia il prelievo dei pochi oziosi non lavoratori.

In questo sistema di comunardi ugualitari è certo che il costo del nutrimento di un giorno in ore di lavoro di tutti i componenti adulti la comune (lasciamo il piccolo argomento: chi costringerà a lavorare quelli che non vorranno farlo?), risulterà certamente più alto che in una nazione, poniamo la Francia moderna, in cui sia perenne il flusso economico tra comune e comune, e si faccia pervenire un dato manufatto dalla zona ove lo si produce con difficoltà minore, malgrado che vi pappino gratis le "cento famiglie".

Alla comune non resterebbe che trattare su un piano di libero scambio tra l'una e l'altra, e, pure ammesso che solo una "coscienza universale" regoli pacificamente questi rapporti tra i nuclei economici di località, nulla impedirebbe che oscillando le equivalenze tra merce e merce si realizzassero sottrazioni di plusvalore e di pluslavoro tra una comune e l'altra.

Questo sistema immaginario di piccole comuni economiche si riduce ad una caricatura filosofica del self-government, dell'autogoverno dei piccoli borghesi di tutti i tempi. È facile vedere che esso è un sistema tanto mercantile, quanto quello della Russia di Stalin e di quella sempre più antiproletaria post-Stalin, e che esso è un sistema di equivalenti monetari (senza lo Stato che batta moneta?!) totalmente borghese, e più pesante per il medio produttore di un sistema di grandi industrie nazionali ed imperiali.

La forma sindacale

Abbiamo svolta la parte storico-politica della critica alla concezione sindacalista della lotta proletaria, mostrando l'insufficienza dottrinale e la cattiva prova, nell'esperienza passata, della formula: sindacato contro Stato borghese; affacciata nell'intento di fare a meno dell'organo di lotta costituito dal Partito politico, e dell'organo di direzione sociale rappresentato dallo Stato rivoluzionario di Marx, tanto indispensabile quanto transitorio storicamente.

Nell'ideologia di Sorel e seguaci il sindacato bastava, solo, tanto alla funzione di direzione della lotta, quanto a quella di organizzazione e gestione dell'economia proletaria, non più capitalista. Nella parte attuale si tratta per noi di mostrare come questa posizione sia possibile solo in quanto i caratteri della forma di produzione opposta e successiva al capitalismo borghese sono svaniti e scoloriti fino ad una figura fuori della storia, che non si realizzerà e non è realizzabile, e che vive solo nelle illusioni di un pensiero semiborghese, nutrito di un certo odio contro l'alta borghesia padronale, ma impotente a cogliere la profondità dell'antitesi tra la società odierna e quella che uscirà dalla vittoria del proletariato.

Molta confusione ha arrecato l'opportunismo di tutte le epoche circa il programma della futura forma sociale, quale fu propugnato dai partiti politici che si richiamavano al marxismo, e che si svergognarono fino a sostenere che la formulazione di un tale programma storico finale, che si disse massimo non tanto per contrapporlo a un programma immediato e "minimo", quanto per deriderne l'esigenza, fosse totalmente pleonastica. E lunga fu, e sarà, La lotta per provare che i decisi connotati di tale programma li possediamo fin dalla prima apparizione della corrente rivoluzionaria marxista. Ma maggiore ancora è l'indeterminatezza nella visione di questo modo sociale che uscirebbe dalla vittoria dei sindacati economici sul padronato capitalistico e dalla distruzione e crollo dello Stato politico della borghesia.

Molto nella storia delle correnti socialiste si è equivocato sulle forme di semplice cooperazione che si sono confuse, anche in testi importanti, con la forma economica socialista, mentre sono figlie dell'utopismo premarxista. Ma il collegamento con una prospettiva sociale di reti di cooperative di produzione sovverrà meglio più oltre, quando dovremo occuparci della corrente aziendale, dei Consigli di fabbrica. In presenza di una visione sindacalista soreliana della società funzionante dopo la disfatta dei capitalisti, abbiamo anzitutto il dovere di chiederci se la cellula costitutiva di essa sarà il sindacato di mestiere locale, di piccole circoscrizioni di territorio, ovvero il sindacato di mestiere nazionale e, in potenza, internazionale.

Non dobbiamo dimenticare che nell'ingranaggio delle organizzazioni economiche di resistenza, quale si delineò alla fine del secolo XIX ed all'inizio del XX (e soprattutto nettamente nei paesi latini) un ente venne a primeggiare come attività dinamica, e fu la Camera del Lavoro, che in Francia si chiamò meno bene Bourse du Travail. Se la prima denominazione puzza di borghese parlamentarismo, la seconda è peggiore perché risente di un mercato del lavoro, di una vendita dei lavoratori al migliore offerente tra i padroni, e sembra più lontana dal contenuto di una lotta sradicatrice del principio stesso del padronato.

Comunque, mentre le singole leghe e le stesse loro nazionali federazioni, organi meno unitari e centralizzati, risentono fortemente della limitatezza della categoria professionale preoccupata di richieste precarie ed anguste, le Camere cittadine o provinciali del lavoro, sviluppando la solidarietà tra operai di diverso mestiere e sede di impiego, erano portate a porsi problemi di classe di un ordine superiore, e nettamente politico; discutevano veri problemi politici, fuori del trito senso elettorale, ma di azione rivoluzionaria, sebbene il carattere locale non potesse sottrarle del tutto a quei difetti che abbiamo esaminati nella critica delle forme "comunaliste" e localiste.

Vigore delle forme intersindacali

Potremmo citare episodi degli anni italiani rossi del primo dopoguerra in cui lo specifico e vivace organo della Camera del Lavoro, detto Consiglio Generale delle Leghe, decise movimenti di piazza a largo respiro, perfino senza la formalità di convocazione da parte dei funzionari sindacali, e dietro vigorosi appelli fatti a viso aperto a nome dei gruppi di partito socialisti e poi comunisti. In Francia nei primi anni del secolo era all'ordine del giorno il tremore della Sûreté per le ondate di movimento che partivano dalle Bourses du Travail. Queste, senza saperlo, erano organi politici della lotta per il potere, ma le bonzerie confederali riformiste e anche talvolta anarchiche speculavano sul loro isolamento locale per impedire i movimenti di portata nazionale (e, nel caso dello sciopero tentato nel 1919 in difesa della Russia aggredita dalle armate borghesi e intesiste, internazionale).

Durante il settembre 1920, della occupazione delle officine in Italia, i bottegai borghesi terrorizzati rialzarono le saracinesche lasciando formare depositi di oggetti di consumo presso le Camere del Lavoro che li distribuivano ai disoccupati: funzione che trascendeva davvero i problemi sindacali di remunerazione del lavoro, e che per grande suo merito non fece perdere il sangue freddo al procuratore supremo dell'ordine costituito Giovanni Giolitti, che non ci processò come ladri, il che sarebbe stato di tutto rigore giuridico.

Nella successiva fase fascista le azioni non delle squadre di Mussolini, di cui a suo tempo registrammo una serie di sanguinose sconfitte, ma quelle delle forze armate statali, fino alle artiglierie (Empoli, Prato, Sarzana, Parma, Ancona, Foggia, Bari, in cui sparò perfino la marina militare), riuscirono solo con reiterati assalti ad aver ragione della difesa armata degli operai che avevano trasformato in fortezze le sedi delle Camere del Lavoro.

Mancò nello sciopero di agosto 1922 la coordinazione nazionale di questa difesa, tentata dal solo giovane partito comunista, per il tradimento delle centrali sindacali e del partito maggioritario dei massimalisti-riformisti, che riuscirono per la ennesima volta a frenare il movimento proprio nelle grandissime città, in cui il movimento fascista non contava nulla, essendosi reso padrone soltanto di Bologna e Firenze, ma non di Milano, Roma, Genova, Torino, Napoli, Venezia, Palermo, purtroppo legalmente e pacificamente collegate ai centri addormentatori. Quella fu la data, e non l'ottobre 1922 con la commedia della marcia su Roma, della vittoria del capitalismo italiano sulla rivoluzione proletaria, uccisa dalla labe infame dell'opportunismo - e con ciò lasciamo il tema italiano.

Nella rete sindacale, dunque, vediamo soprattutto impotente il sindacato locale e la federazione professionale nazionale, con la centrale nazionale quasi ovunque controllata dai partiti opportunisti, mentre la sola sede di un'azione di classe si ravvisava un tempo nelle sedi intersindacali di città e di provincia.

Nella presente fase dell'ondata stalinista di opportunismo anche questa ultima risorsa è stata distrutta, poiché la Camera del Lavoro, come sede di febbrile convegno dei lavoratori più combattivi, più non esiste (tradizionalmente la sera erano migliaia i lavoratori presenti, ed era facile la mattina seguente far arrivare una loro decisione in tutta la zona); e al suo posto i pretacci rosa e rossi hanno elevato un corridoio con burocratiche file di sportelli ove ogni operaio isolato e intimidito va a domandare quali sono le sue spettanze, o quali sono le "disposizioni" giunte dall'alto circa qualche ridicolo moto di quelli odierni, biascicando poi le consegne avute e singhiozzando gli scioperi castrati.

La funzione economica

Dobbiamo farci l'ipotesi di un moto vittorioso contro le forze dell'ordine, e di un'attività economica e produttiva che abbia preso a svolgersi dopo avere eliminata la direzione borghese, ipotesi che sarebbe meno lontana dalla possibilità reale nel solo caso di una città di forti organizzazioni aventi un centro camerale unico, ma che ci riconduce alle obiezioni che valgono per la forma "comunale" quanto alla eventualità di vittoria in una città o provincia e non anche in quelle prossime dello stesso Stato.

Per capire quindi la frase dei soreliani e simili sulla gestione sindacale dell'economia "futura" (senza ripetere quanto abbiamo detto circa l'illusione sulla gestione delle comuni locali) ci resta solo da immaginare un apparato di direzione economica che, in un dato paese (con le abituali riserve sulle prospettive negative per la vittoria sul capitalismo in un solo paese, che si sia chiusa in sé medesima), venga ad essere smistato tra le direzioni nazionali dei sindacati di categoria. Per fissare le idee, l'organizzazione della produzione del pane ed altri prodotti granari da parte della "Federazione dell'arte bianca" ed analogamente per tutti i settori di produzione e di industria.

Conviene cioè immaginare che tutti i prodotti del dato genere siano messi alla disposizione di grandi organismi, specie di trust nazionali, dai quali siano stati ormai eliminati i padroni capitalisti e che devono decidere sulla utilizzazione del tutto, nella fattispecie pane, paste alimentari ecc., in modo tale da ricevere dagli altri organismi paralleli tutto quanto loro occorra, tanto al fine del consumo dei loro componenti quanto del fabbisogno di materie prime, strumenti di lavoro, ecc. Una simile economia è una economia di scambio, e la possiamo pensare in due modi: in uno, più elevato (per intenderci brevemente), tale scambio avviene soltanto al vertice di tutti questi settori di produzione, che nella loro gerarchia a scale distribuiscono tutto dall'alto al basso, come beni di uso e beni strumentali. Il sistema di scambio in testa resta un sistema mercantile, ossia ha bisogno di una legge di equivalenza dei valori degli stock di merci tra un sindacato e l'altro, il numero dei quali è facile prevedere elevatissimo mentre è altrettanto facile vedere che ciascuno ha bisogno di negoziare con quasi tutti gli altri. Non ci domandiamo nemmeno chi stabilirà il sistema delle equivalenze, e che cosa garantirà l'atmosfera che caratterizza tutte queste costruzioni prevalentemente fantastiche, l'autonomia e l'"eguaglianza" tra tutti questi sindacati di "produttori". Mostriamoci "liberali" al punto di credere possibile che i vari rapporti di equivalenza possano uscire in modo "pacifico" da equilibri che si formano in modo "spontaneo". Un sistema di misure tanto complesso non potrà agire senza il già acquisito da millenni espediente dell'equivalente generale: in una parola il denaro, misura logica di tutti gli scambi.

Non è meno facile concludere che si scenderebbe al modo meno elevato: il maneggio del denaro non avverrà in una società simile solo alla testa e tra trust e trust di produzione (la parola sindacato è qui del tutto a posto), ma un tale potere sarà concesso ad ogni associato del trust, ossia ad ogni lavoratore che avrà la possibilità di "comprare" quello che vuole, dopo aver ricevuto dal suo sindacato verticale la sua quota di moneta: in una parola un salario, come oggi, con la sola pretesa che sia "indiminuto" (come in Dühring, Lassalle ed altri) della tangente del profitto padronale.

L'illusione borghese e liberale che un sindacato sia autonomo dall'altro nel negoziare le condizioni a cui cede il suo stock di prodotti (monopolizzati), non si separa mai dall'altra che ogni produttore remunerato secondo il totale prodotto del suo lavoro - nonsenso ridicolizzato da Marx - possa farne quello che meglio crede quando si tratta di decidere sui suoi consumi. È qui che casca l'asino e queste "economie di produttori" si rivelano lontane dall'economia sociale, che Marx chiama socialismo e comunismo, quanto e peggio dell'economia capitalistica.

Nell'economia socialista il soggetto che delibera non solo in fatto di produrre (come e quanto) ma anche di consumare, non è più l'individuo ma la società, la specie. Qui sta il punto. L'autonomia del produttore è una di quelle tante vuote frasi democratiche che non risolvono nulla. Il salariato, lo schiavo del capitale, non è autonomo come produttore ma lo è oggi come consumatore, in quanto, entro un limite quantitativo che non è quello della pura fame secondo la legge di bronzo del ciarlatano Lassalle, bensì si allenta abbastanza nel corso del divenire della società borghese, fa dei soldi della sua busta paga quello che vuole.

In essa il proletario produce come vuole il capitalista (e in modo più generale e scientifico come vogliono le leggi del modo di produzione capitalistico, come vuole il capitale, mostro extraumano) e consuma, entro un dato limite, non quanto, ma certo come vuole lui. Nella società socialista il componente non sarà "autonomo" nella scelta dei suoi atti di produzione, e nemmeno nella scelta dei suoi atti di consumo, entrambe le sfere restando dettate dalla società, e per la società. Da chi?, è la domanda imbecille. Conviene non esitare nella risposta. In una prima fase, dalla "dittatura" del proletariato rivoluzionario, il cui solo organo che può sentire in precedenza il gioco delle forze del periodo seguente è il partito rivoluzionario; in una seconda fase storica, dalla spontaneità sorta dalla diffusione di un'economia che abbia abolite le autonomie delle classi e delle persone in tutti i campi.

Polemica che è sempre quella

La nostra discussione ad ogni passo sembra elevare formule che sorprendono, e per tale motivo ci corre l'obbligo di dimostrare, in soste continue e pazienti, che sono quelle secolari della nostra scuola dai taglienti connotati. Dall'opposto ci interessa del pari provare perché ci stanno sullo stomaco altrettanto degli stalinisti classici, e degli sbilenchi semi-stalinisti oggi in auge, quegli antistalinisti che oggi si levano come gli sciami di locuste e che, rifischiando coi primi la correzione, l'arricchimento del marxismo all'antica, spezzano tutte le lance contro i violatori delle "autonomie", e a questi stupri mostrano di attribuire le disfatte incessanti della rivoluzione.

Che cosa sono ora andati a tirare fuori questi impazienti inventori di nuovissime risorse? Nientemeno (da un foglio del ben noto e sempre più eclettico quadrifoglio) che gli scritti di Francesco Saverio Merlino, il "socialista libertario", che risalgono al decennio 1880-1890. Un precursore della ricetta ultrarancida, che oggi cucinano con salse così diverse da sfuggire all'enciclopedia Chiron una schiusa di giornaletti sorti a cantare sotto le finestre di Palmiro le strofe a dispetto, senza capire che per quella ricetta il povero Palmiro è uno chef alla scala in cui essi dissidenti sono appena sguatteri. La ricetta è quella: La salvezza sta nell'innesto tra i valori di socialismo e di libertà!

L'ideologia del salvatore (da Marx e dalla scienza rivoluzionaria), del vecchio scombinatissimo Merlino, sarebbe oggi un trionfo nei moti non solo del 1905 e 1917 russo (!) ma soprattutto del 1956 polacco ed ungherese, a cui si aggiunge perfino la "esperienza" jugoslava.

Le formule di Merlino sono tratte tra l'altro da un articolo sul Programma di Erfurt del 1891. Per gli aggiornatori non c'è male. Esse fanno la nota confusione, dispersa dalla nostra scuola nel primo dopoguerra, tra il balordo "Stato libero popolare" della socialdemocrazia germanica e la possente posizione centrale di Marx sulla dittatura proletaria, senza tener conto che per questo Marx ed Engels andarono, fin dal 1875, ad un pelo dallo sconfessare i tedeschi, come citeremo più innanzi. Ecco intanto che dice Merlino: "Il potere di direzione, di gestione, di amministrazione deve appartenere, nella società socialista, non ad un mitico Stato Popolare ed Operaio, ma alle stesse associazioni del lavoratori, tra loro confederate".

"Si vuol rimettere tutto nelle mani di un potere centrale, o si consente alle associazioni operaie il diritto di organizzarsi a loro modo, prendendo possesso degli strumenti di lavoro?". "Non un governo od amministrazione centrale, che formerebbero la più esorbitante delle autocrazie, ma le associazioni di lavoratori debitamente e liberamente confederate".

Queste formule ci vanno benissimo e ne prendiamo utile occasione per stabilire che esse presentano bene quanto pensano Togliatti, Krusciov, Tito e simili, e il perfetto contrario di quanto andiamo propugnando noi. I quadrifogliari, barbaristi, ed altre simili associazioni confederali si accomodino dall'altra parte.

Il grido finale che esce dal loro cuore è sempre quello: "Centralismo burocratico, o autonomia di classe?". Se l'antitesi fosse questa, al posto di quella di Marx e di Lenin: "Centro Dittatoriale del Capitale, o del Proletariato?", noi staremmo, e schiatti chi vuole, per il centralismo burocratico, che a certe svolte della storia può essere un male necessario, ben dominabile da un partito salvo dal mercanteggio di principii (Marx) dalla rilasciatezza organizzativa, dal funambolismo tattico e dalla peste autonomistica e federalista. Quanto alla "autonomia di classe" è una coglioneria integrale. La società socialista è quella in cui sono abolite le classi; ammesso che sotto la dominazione di classe l'autonomia sia una forma di rivendicazione della classe dominata, in una società senza classe capitalista l'autonomia non può essere altro che una lotta di parte dei lavoratori contro altre parti, di federazioni contro federazioni, di sindacati contro sindacati, di "produttori" contro "produttori". Nel socialismo i produttori non sono più una parte distinta della società.

Ogni associazione in possesso "a modo suo" degli strumenti di lavoro del suo settore non ci dà il socialismo, ma sostituisce alla lotta di classe, il cui sbocco non è l'autonomia ma la dittatura, l'assurdo bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti, una soluzione storica per buona sorte tanto infeconda quanto assurda.

L'autonomia di classe sarebbe la posizione di un moto di schiavi che chiedesse: Vogliamo restare tali, ma decidere da noi quale cibo servire a tavola al padrone, o quale delle nostre figlie mettergli a letto! Mille volte più rivoluzionaria la posizione cristiana, che non preludeva a una società senza classi, ma che enunciò nettamente: nessuna differenza tra schiavo e libero.

Questo concetto sta parola per parola in Marx, e passiamo a questa parte della dimostrazione.

Parole non più dimenticabili

Tutto l'equivoco delle scuole di tipo sindacalista od operaista, che noi vorremmo designare tutte col nome di "immediatiste", in quanto confondendo i tempi (dialetticamente distinti) di organizzazione attuale, corsa storica, e teoria rivoluzionaria, vogliono chiudere tutto il ciclo proletario alla inscrizione in registro degli operai di una fabbrica, di un mestiere o di altra piccola isola, e tutto cucire su questo freddo modello senza vita, sta in questa sostituzione. Il determinismo marxista distrugge la finzione borghese dell'individuo, della persona, del cittadino, svelando che gli attributi filosofici di questo mito altro non sono che la universalizzazione, l'eternamento dei rapporti di cui beneficia il membro della moderna classe dominante, il borghese, il capitalista, il possessore di terra e di denaro, il mercatore. Rovesciato questo idolo lurido, al suo posto mette la società economica "e provvisoriamente una società nazionale".

Tutti gli immediatisti, ossia gente che delle vette comuniste ha salito solo un millesimo della differenza di quota, fanno questo scambio: al posto della società mettono un semplice aggruppamento di lavoratori. Scelgono questo aggruppamento stando ai limiti di una delle galere di cui si compone la borghese società di uomini liberi: la fabbrica, il mestiere, la aiuola territoriale e giurisdizionale. Tutto il loro sforzo consiste miseramente nel dire a non-liberi, non-cittadini, non-individui (questa la grandezza che, inconscia, detta loro la rivoluzione capitalista): invidiate ed imitate i vostri oppressori, divenite autonomi, liberi, cittadini, persone. In una parola: li imborghesiscono.

Per noi è (al posto di gruppo immediato dello schieramento sociale odierno che si attribuisca le funzioni che ha oggi il capitalismo) società non capitalista: qui l'abisso fra noi e questi battaglieri toporanocchiati. Davanti ai risultati di questo procurato aborto si blatera, che si è creata una nuova autocrazia, un centro burocratico, un vertice di oppressione, e che per evitare questo si debba spezzare quell'unità potente: società, non persona, in tanti frammenti "autonomi", liberi di scimmiottare i modelli borghesi ignobili, e tra l'altro ormai trogloditici.

Ditelo: ma fate almeno come Merlino. Passate Carlo Marx tra gli autocrati, gli oppressori, i traviatori del proletariato. E Lenin, si intende, sebbene Merlino non lo abbia conosciuto, dalla stessa parte.

Antonio Labriola dette ragione a Merlino quando insorse contro l'idea di Lassalle (un immediatista principe) di: "preparare le vie alla soluzione della questione sociale stabilendo società di produzione con l'aiuto dello Stato sotto il controllo democratico del popolo dei lavoratori". Questo passo stercorario passò infatti nel programma di Gotha (1875), ma non figura in quello di Erfurt del 1891 che provocò duri interventi di Engels.

Ma chi, se non Marx, e con lui Engels, in testi che furono tenuti nascosti 15 anni, nel ridurre a brandelli quella ignobile formulazione, dette nella Critica del Programma di Gotha la più classica dialettica costruzione della società futura in linee da cui, con l'immediatismo (oggi ultradilagante) della mammella statale tra le labbra della classe operaia, resta stritolato ogni particolarismo e federalismo, ogni concetto deforme di "campi autonomi di organizzazione economica"? I testi, su cui da maestro lavorò un Lenin, lo provino ancora.

Oggi che affoghiamo tra le bestiali "questioni di struttura", e "problemi da portare a soluzione" e "vie da preparare", respiriamo una boccata di ossigeno da questi fogli ingialliti nel cassetto di Bebel:

"In luogo dell'esistente lotta di classe subentra una frase da gazzettiere: la 'questione sociale' di cui si è avviata la 'soluzione'. Invece che da un processo di trasformazione rivoluzionaria della Società, I''organizzazione socialista del lavoro complessivo' [Marx ha già polverizzata l'altra frase idiota, ancora in circolazione, di "emancipazione del lavoro", laddove egli dice sempre della classe lavoratrice] sorge dall'assistenza dello Stato!".

Egli deride poi la formula del controllo democratico del popolo lavoratore: "Un popolo lavoratore, il quale, ponendo queste rivendicazioni allo Stato, dimostra di aver piena coscienza di non essere né al potere, né maturo per il potere!".

Ma la frase che mostra qual è per noi marxisti genuini la forma della società di domani, è in questo testo la seguente:

"Il fatto che gli operai vogliano instaurare le condizioni della produzione collettiva alla scala della società e, per cominciare, a casa loro, su scala nazionale, significa soltanto che lavorano al rivoluzionamento delle attuali condizioni di produzione; e non ha nulla a che vedere con la fondazione di società cooperative assistite dallo Stato".

Alla scala della società

Questo passo, simile a tanti altri, basta a stabilire che chi scende dalla "scala della società" che per un momento storico è indicata come "scala nazionale" prima della conquista del potere, a scale federalsindacali (comunali, aziendali e ancora peggio) cade nell'immediatismo, tradisce il marxismo, manca di ogni concezione della società comunista - il che vuol dire: è fuori della lotta rivoluzionaria.

Quanto all'altra ciclopica antitesi tra "trasformazione rivoluzionaria della società" e "organizzazione socialista del lavoro", essa può pari pari essere girata ai costruttori di socialismo di Mosca per ribattere sul loro muso che il trapasso al socialismo non si appalta ad un'impresa di costruzione, parola che Marx, che qui si vede come le pesa (e si vede in Lenin come le ripesa lui) non si è mai sognato di adoperare; parola crassamente borghese, volgarmente volontarista.

Qui non riporteremo la nota scarnificatrice critica allo Stato popolare libero che nella sua incomparabile potenza è stata da Lenin riecheggiata davanti a milioni di uomini, non più dal chiuso di un mobile ma dai cieli fiammeggianti di una rivoluzione, della più grande; e quanto è più miserabile chi anche questa volta ha dimenticato! Più lo Stato è libero, più esso stritola il proletariato in difesa del capitale: non lo vogliamo liberare, ma incatenare, per poi sgozzarlo. E con ciò l'antistatalismo dei Bakunin e dei Merlino è tornato al suo posto tra le parodie carnascialesche. Al suo posto - altezza della dialettica! - sarà posto il nuovo Stato (Engels), che non ci serve per la libertà ma per la repressione, ma che dovrà sorgere per poter poi morire per sempre, con l'abolizione delle classi.

Lo Stato popolare libero può andare a porsi a braccetto con l'autonomia di classe! Non sono che forme della impotenza immediatista, della immanenza del pensare da borghesi.

Tornando al concetto fondamentale di "società" unitaria al posto delle antitesi tra capitalisti e proletari - tra produttori e consumatori anche - vale la pena di seguirlo nei vari programmi, pur così vivamente criticati, del partito tedesco. Quello dei lassalliani (Lipsia, 1863) contiene la formula che Marx dovrà staffilare: eliminazione degli antagonismi di classe, laddove, Marx dirà, sono le classi che dovranno essere eliminate, e il mezzo sarà il loro antagonismo.

Il programma dei "marxisti" (Eisenach 1869), che Marx giudicò non redatto tenendo conto delle conquiste teoriche, chiede la fine del dominio di classe e del salariato, ma parla ancora di "prodotto integrale del lavoro" dato ad ogni lavoratore, e di organizzazione del lavoro su base cooperativa (non però con aiuto statale).

Il programma di Gotha, 1875, fusione deprecata tra eisenachiani e lassalliani, rimasto come Marx lo aveva condannato, dice tuttavia che gli strumenti di lavoro saranno "patrimonio comune di tutta la società". Marx avrebbe lasciata la frase, ma voleva che non si dicesse elevati a, bensì trasformati in patrimonio comune. Vi leggiamo una rettifica antiattivista.

Il programma di Erfurt, per cui furono accettati in gran parte i suggerimenti di Engels, dopo la pubblicazione delle critiche a quello di Gotha, si esprime su tal punto chiaramente:

"Trasformazione della proprietà capitalista in proprietà sociale, e trasformazione della produzione di merci in produzione socialista, in produzione effettuata dalla società e per la società".

la conclusione è che in dottrina l'immaginaria "società gestita dai sindacati operai di produzione", mentre non è una previsione storica della scienza proletaria - e, a meno di una totale bancarotta di questa con Marx, Engels, Lenin e noi tutti quanti rematori della barca, non si vedrà mai, - non ha nulla di comune con la forma socialista e comunista, nemmeno come fase di passaggio.

La produzione e la distribuzione in tale schema ideologistico non sono portate alla scala della società, e nemmeno alla scala "nazionale", in quanto strumenti di lavoro e prodotti del lavoro sono messi a disposizione dei sindacati "liberamente confederati" o "federalmente liberi" di fare il comodo loro. Tali settori, se riuscissero a chiudersi in campi "autonomi", lotterebbero tra loro con la concorrenza prima e in forme fisiche dopo, soprattutto se "assente" ogni tipo di Stato.

Nel detto schema fittizio non solo la produzione non è effettuata dalla società e per la società, ma dai sindacati e per i sindacati, quanto resta una produzione di merci, dunque non socialista, dato che ogni bene di consumo passa come merce da un sindacato all'altro; e non potendo ciò avvenire senza un'equivalente moneta, in ultima analisi passa come tale ad ogni produttore singolo. Sopravvive il sistema del salario, come ogni qual volta si accampa l'utopia del frutto indiminuto del lavoro, e sopravvivrebbero le possibilità della accumulazione del capitale, nelle mani del sindacato autonomo e in seguito in quelle dei singoli. Quanto in questa critica appare dedotto per assurdo, si deve unicamente al contenuto piccolo-borghese di tutte queste utopie.

Si chiuda questa parte dottrinale con altro passo della Critica del programma di Gotha atto a colpire insieme immediatisti da un lato, e capitalisti di Stato dall'altro, ricordando ad entrambi che il nostro indispensabile Stato dittatoriale proletario non ha il compito di liberare ma di reprimere il capitale, nei suoi difensori tanto borghesi quanto piccolo-borghesi, o anche operai schiavi della tradizione borghese o sottoborghese. È una frase che Marx scrisse per deridere la proposta "minimalista" dell'imposta progressiva sul reddito, ora vigente in Russia. Una di quelle che mozzano il fiato in gola: e a voi, messeri!

"Una imposta sul reddito presuppone le diverse fonti di reddito delle diverse classi sociali, quindi la società capitalistica".

L'esperienza russa e Lenin

Tra i Congressi internazionali comunisti del 1920 e del 1921, nel partito comunista russo (esattamente al X Congresso del 3-16 marzo 1921) si svolse un dibattito con la "Opposizione Operaia", di cui nello studio russo ci siamo largamente occupati. Deve notarsi che l'opposizione condotta dalla sinistra italiana nel 1920 e nel 1921 (per cui rimandiamo ad una futura nostra pubblicazione documentata) non stava sulla stessa linea di una tale opposizione, che Lenin chiamò aspramente: deviazione sindacalista ed anarchica nel nostro partito.

Fu uno dei mille falsi del Breve corso stalinista accomunare con questi "operaisti" anche Trotzky, perché egli sostenne una polemica a riguardo del compito del sindacato. Nello stadio di cui si tratta, Trotzky era del tutto a fianco di Lenin e la sua proposta era quella marxista di assoluta subordinazione dei sindacati di categoria al partito ed allo Stato politico proletario, che nel 1921 non era per lui né per noi "degenerato".

La proposta dell'opposizone operaia consiste proprio nella concezione immediatista dell'economia socialista, e nella tesi ingenua quanto falsa: il socialismo si può istituire in qualunque condizione e momento, se si lasciano gli operai fare da soli, gestire da soli il fatto economico. Così Lenin la riporta: "Il compito di organizzare la produzione dell'economia nazionale spetta al Congresso dei Produttori di tutta la Russia, riuniti in sindacati di produzione, i quali eleggono un organo centrale che dirige tutta l'economia nazionale della Repubblica".

Lasciate fare un altro poco Nikita Krusciov coi suoi Sovnarcos e vedrete che farà sua questa vecchia proposta, col peggioramento che non si tratterà di sindacati nazionali, ma solo regionali, di produzione. Tutta questa gente, invece di considerare la conquista del controllo nazionale come un semplice trampolino verso quelle internazionali, giusta i cardini della dottrina marxista, cala appena può a quadri locali e regionali e prosegue la sua marcia imbecille verso le autonomie, che non avrà mai altro sbocco che le autonome iniziative ed intraprese di natura capitalista.

Non ci interessa qui rifare tutto il processo russo a proposito di gestione economica, che abbiamo svolto in lunghi studi noti ai lettori, e notiamo solo che ci troviamo al Congresso in cui Lenin svolse il classico Discorso sulla imposta in natura, dimostrando che era all'ordine del giorno non il trapasso al socialismo, ma quello al capitalismo di Stato e, persino, per chi sa trattare tali punti da marxista, dalla produzione molecolare al capitalismo privato. Posizione di gigantesca potenza, che mette tutto a posto, mentre il successivo infame opportunismo tutto turpemente tornò a dislocare.

Ci preme solo dimostrare come l'argomentare di Lenin contro la proposta dell'economia gestita dai produttori è lo stessissimo di Marx e di Engels, che oggi a noi sovviene contro recentissime deformazioni sindacaliste e anarchiche, affioranti perfino tra gruppi che non hanno creduto a Stalin, Togliatti o Thorez, e oggi sembrerebbero non credere a Krusciov (ma a quel bel garofalo di Tito, che poi ne sarebbe il precursore, sì!).

I sindacati di produzione tra gli artigli di Lenin fanno la stessa fine delle cooperative di Lassalle tra quelli di Marx.

Ripetiamo una parte dei passi che nella detta occasione già citammo (vedi Programma Comunista n. 21 del 1956, e in specie gli articoli 69, 70, 71 della Struttura russa): "Idee completamente false dal punto di vista teorico [...] rottura completa con il marxismo e il comunismo [...] contraddizione con l'esperienza pratica delle rivoluzioni semiproletarie (meditare!) e della presente rivoluzione proletaria".

"In primo luogo nel concetto di produttori sono compresi il proletario, il semiproletario e il piccolo produttore di merci: in questo modo ci si sposta radicalmente dal concetto fondamentale della lotta di classe e dall'esigenza fondamentale di distinguere nettamente le classi": Meditare sei volte, e pensare alle bestemmie di Stalin, a quelle del XX Congresso, anche a quelle degli entusiasti dei moti polacchi e ungheresi ultimi.

"Il contare sulle masse senza partito o il civettare con esse [quadrifoglisti, barbaristi, bramosi di demagogia che non avete nemmeno chi demagogare, in gamba!] costituisce una deviazione non meno radicale dal marxismo".

Parla quel Lenin a cui, facendo gioco agli stalinisti peggiori, avete fatto scoprire la risorsa infallibile di "tuffarsi nelle masse"!

"Il marxismo insegna [e qui Lenin cita le conferme dei congressi mondiali] che soltanto il partito politico della classe operaia, vale a dire il partito comunista, è in grado di raggruppare, di educare, di organizzare l'avanguardia del proletariato e di tutte le masse lavoratrici, unica capace di resistere alle inevitabili oscillazioni piccolo-borghesi di queste masse, alle inevitabili tradizioni e rigurgiti della grettezza di categoria e dei pregiudizi professionali che si riscontrano tra il proletariato".

In questo passo che mette in evidenza l'inferiorità di tutte le organizzazioni immediate rispetto al partito politico, e il grave rischio che quelle corrono nei contatti storici inevitabili con le classi semiproletarie e piccolo-borghesi, Lenin ancora una volta conchiude che: "Senza la direzione politica del partito, la dittatura del proletariato è irrealizzabile".

In questo medesimo testo Lenin smentisce che il programma 1919 del partito russo abbia attribuito funzioni di gestione economica ai sindacati. lnvero talune frasi del programma parlavano di gestione di tutta l'economia nazionale, ma "come un unico complesso economico", e di "legame indissolubile tra l'amministrazione statale centrale, l'economia nazionale e le masse lavoratrici" come un traguardo da raggiungere, alla condizione che i sindacati "si liberino sempre più della grettezza corporativa, reclutando la maggioranza e a poco a poco la totalità dei lavoratori".

Sindacati e capitalismo di stato

La questione dei sindacati e della gestione economica centrale statale ritornerà in primo piano in Russia, anzi in tutto il mondo, perché costituisce un comodo ripiego moderno per il capitalismo di tutti i Paesi, America in testa da tempo.

Il criterio "leninista" in questa questione è che i sindacati seguono in ritardo e a stento gli stadi già raggiunti dal partito politico rivoluzionario, e se da questo lasciati a se stessi ripiegano verso debolezze piccolo-borghesi e la collaborazione con l'economia borghese.

In uno stadio sociale come quello della Russia 1919 e 1921 in cui si era al grado infimo della curva di industrializzazione, e ai primi passi in una gestione difettosa dell'industria appena tolta di mano ai capitalisti privati, era evidente che il partito comunista poteva formarsi un forte appoggio nei sindacati degli operai delle industrie a condizione che fossero non autonomi, ma solidamente influenzati dal partito stesso, e, come Trotzky giustamente sostenne nel 1926, considerati parti ed organi dello Stato centralizzato.

La questione riesce chiara se si tiene presente che in tutto questo stadio siamo in presenza di una statizzazione dell'industria, ma non di una industria e di una economia socialista. Lo Stato gestisce l'industria tolta senza indennità al privati e ai trust, in un sistema economico aziendale e mercantile. Anche se lo Stato che sta a tanto operando è, come base di classe e come politica mondiale, socialista, il sistema della società industriale si chiama sempre capitalismo di Stato, e non socialismo. Non occorre per dichiarare capitalista la forma economica che sia avvenuto quanto avvenne nei decenni seguenti: lo Stato perde il contenuto politico socialista e il contenuto di classe proletario, in quanto non si dedica nel mondo a suscitare la rivoluzione negli Stati borghesi; contrae con questi alleanze di guerra; contrae nel seno degli Stati borghesi alleanze anche di potere con partiti borghesi e democratici: antepone nell'interno della Russia gli interessi di classi piccolo-borghesi e contadine a quelli dei proletari effettivi della città e della campagna.

Ci possiamo così domandare quale sia il posto del sindacato nella fase del capitalismo di Stato. Se lo Stato è retto da un partito che non conduce, anzi che avversa, la politica della rivoluzione proletaria mondiale, il sistema aziendale, mercantile, monetario e salariale di trattamento della forza di lavoro giustifica la esistenza dei sindacati come organi di difesa delle condizioni di lavoro, il cui contraddittore non è altro che lo Stato-padrone, lo Stato-datore di lavoro. Anche in tale situazione la formula utile non è la ripartizione tra i sindacati della gestione amministrativa centrale, ma la direzione dei sindacati da parte di un partito politico proletario capace di risollevare la questione della conquista del potere centrale. Ove questo partito non esista, o ne esista come in Russia la carcassa ridotta ad uno strumento dello Stato capitalista, si è ricaduti in uno schiavismo salariato da cui storicamente non si uscirà mai per sforzi di gruppi autonomi operai tendenti ad afferrare il controllo di campi staccati della produzione, e con la insulsa formula di ricominciare a fare una rivoluzione liberale; tanto è vero che in Russia la sta facendo, questa vuota manovra, proprio lo Stato di Krusciov. Se quei campi si staccheranno e se un tale sfaldamento avverrà, essi cadranno in mano a forze di capitale privato e comunque a lunghe mani artigliate del capitale internazionale.

All'opposto in quella fase decisamente progressiva di capitalismo di Stato in cui il potere politico centrale opera storicamente a dilatare la rivoluzione internazionale, i sindacati, se non vogliono divenire organi disfattisti e da reprimere, devono apprendere dal partito di classe, dall'autentico partito dei lavoratori salariati di industria del mondo intero, ad ottenere dalla valorosa e generosa classe degli operai di fabbrica, che già nella storia ne ha date prove di altezza luminosa, che offra lavoro, sopralavoro e plusvalore per la rivoluzione, per la guerra civile, per le armate rosse in tutti i Paesi, per le munizioni al conflitto sociale di classe oltre tutte le frontiere. Anche in un tale caso storico la loro rivendicazione di tutto il frutto del lavoro al salariato sarebbe, oltre che antieconomica e antisociale, disfattista del compito terribile che la storia segnò alla classe salariata pura e ad essa sola: provocare la generazione sanguinosa della società nuova.

Compito che, scavalcando secoli e secoli di tormentata storia, è l'opposto delle ubbìe della scuola dei ragionieri e dei rigattieri operaisti, della scuola degli "immediatisti" in cui ogni generazione vuole toccare con la mano breve il gettito dell'affare che ha fatto, autonomamente confederandosi.

La forma aziendale

I difetti della forma del "Consiglio di fabbrica" emergono tutti, aggravati di molto, dalla disamina che abbiamo fatta di una gestione sindacale della società successiva al capitalismo, come è concepita da questo settore degli "immediatisti".

La corrente della Sinistra italiana lo avvertì quando si ebbero le prime manifestazioni della fede in questo rinnovato mito, al tempo dei congressi a Torino dei Commissari di reparto della Fiat, della grande Fiat; e della rivista di Gramsci l'Ordine Nuovo, che ammonimmo e salutammo al tempo stesso in quanto scendeva a schierarsi animosamente contro l'opportunismo menscevico dei sindacati italiani tradizionali e contro la inconsistenza del Partito Socialista che si vantava, in quel 1919, filo-bolscevico.

Gramsci, all'inizio della sua evoluzione ideologica, mai dissimulata data la chiarezza propria dell'uomo, da filosofo idealista e da interventista di guerra verso il marxismo antidifesista restaurato da Lenin, dette al suo giornale un titolo leale. Non parlò della Classe nuova nel dominio politico, né dello Stato nuovo di classe, e solo a rilento accettò le direttive marxiste sulla dittatura del partito e sulla stessa incidenza del sistema marxista, fuori dell'economia di fabbrica, in una visione radicale di tutti i rapporti di fatti nel mondo umano e naturale: lo ammise apertamente al Congresso di Lione del 1926: "Preferiremo sempre quelli che imparano capitoli del marxismo a quelli che li dimenticano". Al 1919 Antonio Gramsci era appena fuori di una valutazione della Rivoluzione di Ottobre che vedeva in essa il rovescio del determinismo, e il miracolo della volontà umana che violava avverse condizioni economiche: quando egli vide Lenin, questo miracolatore, difendere il più stretto determinismo marxista, la cosa non restò senza effetto; maestro ed allievo non erano da dozzina.

Comunque il sistema dei Consigli, costruzione ideale quasi letteraria, e meglio diremo artistica, di cui l'agile suo spirito si era innamorato, fece bene a chiamarlo Ordine Nuovo, perché in esso il proletariato di fabbrica si erigeva, sulla sua base immediata, in un nuovo Ordine, come quelli di prima della Rivoluzione liberale, come i tre Stati della società francese del Settecento. E tutti gli "immediatisti" che abbiamo passati in rassegna hanno tradotta la rivendicazione della Classe dittante che sopprime le classi, e non aspira nemmeno ad essere l'Unica Classe, in una pedestre richiesta di essere elevata a Quarto Stato. L'immediatista ha sempre bisogno di disegnare il nuovo su una passiva fotografia del vecchio. Il suo immediatismo Antonio lo chiamò concretismo, e prese la parola da attitudini di intellettuali borghesi nemici della rivoluzione: non avvertì, o poco noi potemmo avvertirlo, che ogni concretismo è controrivoluzione.

Ma l'umanità, se non avesse avuta altra risorsa che quelle immediatiste, non avrebbe saputo che la terra è sferica, è mobile, che l'aria pesa, che pesano i corpi celesti, che vi sono gli atomi di Epicuro, le particelle infratomiche dei moderni, la relatività di Galileo e quella di Einstein... E non avrebbe previsto nessuna rivoluzione del passato o del futuro.

Antonio non sapeva, non perché non avesse letto (aveva la disgrazia di essere di quelli che leggono tutto), che gli Ordini li avevamo lasciati dietro fin dal 1847 nella Misère antiproudhoniana di Carlo Marx.

"Diremo che dopo la caduta della antica società vi sarà una nuova dominazione di classe, riassumentesi in un nuovo potere politico? No". (Questo solo monosillabo, schiere di contraddittori, bastava leggere).

E perché no?

Perché "la condizione dell'emancipazione della classe lavoratrice è l'abolizione di ogni classe, allo stesso modo che la condizione dell'emancipazione del Terzo Stato, dell'Ordine borghese, fu l'abolizione di tutti gli Stati, di tutti gli Ordini".

Sono passate molte generazioni, e tre Internazionali sono nate e morte. Abbiamo visto partire in ascensione a dozzine di dozzine quelli che volevano salire più in alto di Marx, e poi di Lenin. Pochi, pochissimi sono giunti all'altezza appena del borghese incorruttibile, di Massimiliano Robespierre. Che riposa, da centosessant'anni, sulla pietra sepolcrale di tutti gli Ordini Nuovi.

Marxismo ed economia dei consigli

Ci basterà trovare nei testi l'inconciliabilità dell'antitesi, che ci interessa non per la storia delle polemiche di Gramsci, ma perché oggi gruppi di smarriti antistalinisti e di squallidi epigoni si vorrebbero riattaccare a quelle consegne.

L'azienda locale autonoma è la più piccola delle pensabili isole sociali, avendo allo stesso tempo la limitatezza della categoria professionale e della circoscrizione locale. Abbia essa ancora una volta eliminati dentro di sé il privilegio e lo sfruttamento, distribuendo l'inafferrabile totale valore del lavoro, ai suoi confini angusti è presente la piovra del mercato e dello scambio, e nella forma peggiore la peste dell'anarchia economica capitalista, in cui tutto piomba. Chi regolerà le funzioni non strettamente di tecnica produttiva in questo sistema dei Consigli, in cui è assente il partito e lo Stato, prima che l'eliminazione delle classi sia un fatto; e, per dirne una sola, chi provvederà ai non arruolati in azienda, ai senza-lavoro? Molto più che in un sistema alveolare di comuni o di sindacati sarà possibile che l'accumulazione riparta - se mai fosse stata fermata - come accumulazione di denaro ed anche gli stock formidabili di materie da lavorazione e di prodotti già lavorati. In questo sistema ipotetico, vi sono al massimo grado le condizioni per trasformare un occhiuto lento risparmio in capitale dominatore.

La bestia è l'azienda, non il fatto che abbia un padrone. Come scriverete le equazioni economiche tra azienda e azienda, specie quando vi saranno le grandi a soffocare le piccole, quelle dagli strumenti produttivi "convenzionali" e quelle ad energia nucleare? Questo sistema, partito come gli altri da un feticismo dell'uguaglianza e della giustizia fra individui, e da un buffo orrore del privilegio, dello sfruttamento e della oppressione, ne sarebbe un vivaio peggiore, se dar si potesse, della corrente società civile.

Non volete credere che le parolone privilegio e sfruttamento stanno fuori del nostro marxistico dizionario? Riprendiamo la Critica al Programma di Gotha. Il passo per cui Marx getta fiamme, e che contiene le idiozie lassalliane sullo "Stato Libero" e la "legge di bronzo del salario", finisce con quella che Marx chiama - ed Engels in altro luogo - vaga formula ridondante che termina il paragrafo; ed è questa (sì, chi non ha peccato scagli la prima pietra!): "Il partito si sforza [...] di raggiungere l'abolizione dello sfruttamento in ogni forma e l'eliminazione di ogni disuguaglianza sociale e politica".

Bisogna dire così, scrivono Marx ed Engels (senza, è chiaro, aver preso accordi): "Con l'abolizione delle differenze di classe, scompaiono da sé tutte le disuguaglianze sociali e politiche che ne derivano".

Questo scientifico modo di parlare basta - a parte la lunga nota critica sulla eguale ripartizione, che la riduce alla insinuazione degli economisti borghesi: i socialisti non sopprimono la miseria, ma solo la generalizzano a tutti gli uomini - a fare giustizia di intere serie di riviste che si scrivono circa il contenuto del socialismo come filosofia dello sfruttamento, negli anni di grazia, ahimé, 1956-57.

In questo paragrafo Marx tratta anche la questione della visione limitata di Lassalle - che significativamente riconduce a Malthus, oggi rimesso di moda dalle scuole americane antimarxiste del "benessere" - per cui il socialismo si leverebbe in lotta solo in quanto il salario operaio è bloccato ad un limite troppo basso; laddove si tratta di abolire il salariato in quanto "è un sistema di schiavitù, e di una schiavitù che diventa più dura via via che si sviluppano le forze sociali produttive del lavoro, tanto se l'operaio è pagato meglio, quanto se è pagato peggio".

Qui Marx svolge il paragone con lo schiavismo, che noi abbiamo più sopra tentato a proposito della rivendicazione scema per l'autonomia dei salariati:

"È come se, tra gli schiavi venuti finalmente a capo del mistero della schiavitù e insorti, uno schiavo prigioniero di concetti antiquati scrivesse nel programma della insurrezione [uno schiavo, diciamo noi, amarxista, e solo immediatista, ordinovista]: la schiavitù dev'essere abolita perché il sostentamento degli schiavi, nel sistema schiavistico, non può superare un certo massimo poco elevato".

Signori del benessere: anche dato che il capitalismo possa aumentare senza limiti il benessere medio, noi gli confermiamo la nostra previsione storica: la morte!

Ma lo standard della grande FIAT sembrò a Gramsci un nobile ordine, al confronto del vivere derelitto dell'abbrutito pecoraio sardo, più vile del Quarto Stato.

Nel piano quinquennale che regalammo, su modelli sovietici, alla Grande FIAT, prevedemmo per il "fatturato" del 1956 la progressione del 15,7 per cento sul 1955, che dette 310 miliardi; e avremmo dovuto avere 358 miliardi. Benché ne siano stati annunziati solo 340, il capitale nominale è stato elevato da 76 a 100 miliardi, ossia del 32 per cento in due anni (vedi il nostro Dialogato coi Morti).

Il nuovo ordine di Torino e di Mosca comincia già a sciorinare curve meno brillanti?

V. Conclusioni

In tutto il nostro confronto tra la "visione" che della società futura hanno gli immediatisti (i diffidenti verso la forma Stato e la forma Partito, che noi con Marx e Lenin consideriamo primigenia nella Rivoluzione), con la visione socialista e marxista, non ci siamo fermati, pure sfogliando le pagine delle Glosse marginali a Gotha, sulla basilare distinzione tra stadio inferiore e superiore della società socialista, resa classica da Lenin sul classico scorcio di Marx.

Tutta la superiorità della forma economica in cui produzione e ripartizione sono fatte non da "campi autonomi" aderenti agli attuali capitalisti "campi di concentramento", quali i mestieri, le aziende, le giurisdizioni fino a quelle nazionali, di cui faremo un giorno saltare tutti i reticolati, ma dalla società e per la società, alla scala della società, è già evidente rispetto al meno avanzato degli stadi teorizzati da Marx.

Nello stadio inferiore non sono ancora tutte soppresse le differenze di classe, non si può parlare di abolire lo Stato, vivono le patologiche tradizioni delle civiltà degli Ordini, fino a quella del Terzo ed ultimo, sono ancora staccate città e campagna, non è abolita la divisione sociale delle funzioni, la separazione tra mano ed intelletto, scienza e lavoro.

Ma nel campo economico già i settori chiusi sono stati messi nel crogiuolo unitario della fusione sociale, la partita delle piccole comuni, delle federazioni sindacali e dell'ordine delle aziende, cui non si accorda nemmeno esistenza di transizione, è già perduta.

Anche dal momento in cui abbiamo a che fare con "una società comunista quale è appena uscita dal seno di una società capitalista" avviene che non vi è più posto per un mercato a cui accedano i "campi" isolati cinti da filo spinato.

"All'interno della società collettivistica, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro trasformato in prodotti vi appare come valore di questi prodotti [sottolineato da Marx], come una proprietà oggettiva da essi posseduta, poiché ora, in contrapposto alla società capitalistica, non è più per via traversa [come sarebbe nell'ordine delle comuni, dei sindacati e dei consigli] ma direttamente che i lavori individuali materializzati in prodotti esistono come parti integranti del lavoro complessivo".

Nella parte finale dello studio sulla struttura russa abbiamo bene svolto come già il primo stadio, quello inferiore, sia fuori dalla funzione mercantile. Nulla l'individuo può procurare e vincolare alla sua persona, o famiglia, mediante danaro, ma solo il consumo di un breve tempo che gli spetta entro un limite ancora ristretto e calcolato socialmente, cui gli dà diritto uno scontrino precario, inaccumulabile. La nostra concezione della dittatura (prima, e poi della razionalità sociale e di specie) sui consumi comporta questo: che sullo scontrino non saranno scritte tante lire di cui si possano fare, per esempio, tutto alcool e tabacco e nulla latte e pane, ma dei generi come sulle famigerate "tessere".

Solamente sopravvivrà un diritto borghese, perché queste misure di consumo saranno legate alla misura del lavoro prestato alla società, fatte tutte le ben note deduzioni di generale interesse, e il calcolo dipenderà dalle disponibilità oltre che dalle utilità, e bisogni.

Non vi sarà più legame mercantile e legge del valore per il confronto tra due prodotti, che sono entrambi nella massa sociale, come vi sarebbe se venissero da "autonomi" comuni, sindacati o aziende, coi loro conti di partita doppia sopravviventi. Vi sarà solo un ultimo legame tra la quantità di lavoro ed il consumo individuale quotidiano.

Ci dà occasione di chiarire questo concetto un farfallone acchiappato a volo. Vi è chi sostiene - un fior di immediatista, come non vederlo? - questa roba: "In economia socialista il mercato resta, ma si può vedere che sarà limitato ai prodotti. Il lavoro non sarà più merce".

Questa gente serve ogni tanto per dire bene le cose giuste rovesciando il detto loro. La verità è questa: "Nell'economia socialista non vi sarà più mercato" e meglio ancora: "L'economia è socialista quando non vi è più mercato". In un primo stadio "una sola quantità economica sarà misurata come merce: il lavoro umano". Nello stadio superiore, il lavoro umano non sarà che un modo di vivere dell'uomo, e la sola sua gioia, dice Marx. Dice meglio di noi: il lavoro sarà il primo bisogno della vita.

Per liberare il lavoro dell'uomo dalla qualità di merce, bisogna distruggere tutto il sistema del mercato! Non era questa la prima parola di Marx a Proudhon?

Hanno voluto menare per buona a quel farfallone un'altra tesi peregrina, molto diffusa: ed ecco un'altra posizione che in un non lontano studio andremo a smantellare. Bisogna che aumentino di molto ancora le forze produttive per poter abolire il mercato. E non è vero: per il marxismo sono già troppe; Marx pone l'aumento delle forze produttive come base dello stadio superiore, ossia del consumo senza limiti sociali da insufficiente produzione, ma non come condizione per la fine del mercantilismo generale, dell'anarchia capitalistica.

Lo stesso programma del 1891, con parole certo del grande Engels, dice: "Già le forze produttive sono divenute troppo grandi, perché la forma della proprietà privata sia conciliabile col loro saggio impiego".

Non è che tempo di prostrare le mostruose forze produttive capitalistiche sotto la dittatura della produzione e del consumo. E non è che questione di forza rivoluzionaria per la classe che, anche se il benessere cresce (e Marx - lo provammo testé - non ha mai previsto il contrario), sta sotto il peso continuo della incertezza dell'esistenza, che d'altra parte sovrasta la società intera, e tra qualche decennio prenderà la figura di alternativa tra crisi mondiale e guerra - o rivoluzione comunista internazionale.

La questione di forza è, nel suo primo aspetto, questione di ricostruzione della teoria rivoluzionaria. Poi, del Partito Comunista senza frontiere.

Fine

Da "Il Programma comunista" n. 13-14-15 del 1957

Archivio storico 1952 - 1970