Storia della Sinistra comunista Vol. I - Parte sesta
La linea storica della Sinistra Comunista dalle origini fino al 1919 in Italia

26. Avvisaglie pre-elettorali

La riunione della Direzione a Milano ebbe luogo dal 18 al 22 marzo 1919. Il riportato ordine del giorno, leggermente diverso nel testo del "Soviet" e in quello dell'Avanti! (si pensi alla censura) reca le firme di Gennari, Serrati e Bombacci. Ottenne dieci voti contro tre; non sappiamo dire chi furono i tre contrari, e se Lazzari fu tra essi.

La Direzione non poteva ignorare le proteste che le erano giunte da ogni parte del partito dopo i non soddisfacenti convegni del Gruppo parlamentare e della Confederazione del Lavoro, che abbiamo sopra illustrati.

Tra gli altri settimanali del partito il "Soviet" ha un vigoroso articolo contro l'atteggiamento del gruppo parlamentare fin dal numero del 2 febbraio, e critica aspramente il consiglio nazionale della Confederazione del 31 gennaio nel numero del 9 febbraio con un articolo dal titolo "Il parto chirurgico del laburismo italiano" sottolineando il consenso del fascismo mussoliniano a tale pernicioso indirizzo, che insensibilmente, e senza trovare resistenze continue se non nelle forze della battagliera sinistra comunista italiana, serpeggerà per decenni verso l'ordinovismo e il krusciovismo. Vi si legge: "La Confederazione opera così contro il partito e contro la Rivoluzione in un sintomatico accordo colla classe industriale, che si rileva da vari indizi sui quali porteremo la nostra attenzione, e prepara tra il consenso dei Mussolini quel Partito del Lavoro che, facendo una sua politica corporativista e riformista, farà da scudo alla borghesia italiana contro il bolscevismo del Partito.

Di fronte a ciò noi pensiamo che si debbano organizzare manifestazioni delle masse confederate contro i dirigenti e di consenso con la politica del partito, al quale piuttosto che ai pochi segretari e funzionari propri le organizzazioni sindacali devono rimettere la direzione della lotta politica. Ma intanto che fa la Direzione del Partito? E come mai l'Avanti! pubblica i prolissi resoconti confederali senza i commenti necessari a proteggere il proletariato dall'insidia che gli viene tesa?

Si verrà nella determinazione di andare risolutamente incontro alla selezione che i riformisti per conto loro accelerano con un contegno di aperta indisciplina, e si porrà termine allo spettacolo di incertezza e di contraddizione, che recide i nervi e prostra le energie del proletariato socialista?"

La Direzione, dunque, nella seduta di cui trattiamo torna sulla questione. Era all'ordine del giorno l'argomento dell'azione per i "quattro punti immediati" (smobilitazione; libertà, ritiro truppe dalla Russia e Ungheria, amnistia generale e completa): la Direzione conferma il proposito di organizzare uno sciopero in loro appoggio, sciopero "la cui proclamazione sarà fatta appena il lavoro per la organizzazione e coesione delle forze proletarie e socialiste darà affidamento per il suo pieno e completo successo".

Nel corso della riunione, vivaci critiche sono rivolte al Gruppo parlamentare e alla Conf. del Lavoro, per avere il primo introdotto a scapito del suddetto programma minimo "la diversione della riforma elettorale" e la seconda quella della proposta di Costituente. Perciò viene votato questo o.d.g.: "La Direzione… constata ancora una volta che l'attività in genere dei rappresentanti politici in Parlamento e fuori non può soddisfare l'azione richiesta dalla gravità del momento presente e dalle esigenze del Partito [su questa parte Repossi si astiene "perché ritiene debbasi dare una più precisa condanna all'opera del Gruppo, specie per la riunione dei deputati avvenuta a Milano e relativa deliberazione, e per la condotta tenuta in occasione della presentazione del progetto di legge per la proporzionale"] e reclama dalle sezioni interessate un'attenta vigilanza sulla funzione politica compiuta da singoli deputati allo scopo di ottenere da essi un maggior affiatamento con gli organi direttivi del Partito per la esplicazione del loro mandato secondo la espressa volontà dell'ultimo Congresso Nazionale, ed ora principalmente per il dovere di solidarietà socialista internazionale che il Partito ha sempre affermato, onde assicurare la libertà e il trionfo della Repubblica Socialista di Russia".

Va qui ricordato che i partiti parlamentari di sinistra borghese avevano varata la riforma per cui dal collegio uninominale (il suffragio universale lo aveva già dato Giolitti in relazione alla "pillola" guerra di Tripoli) si passava allo scrutinio di lista per collegi provinciali con rappresentanza proporzionale. Giolittiani, nittiani e cattolici se ne facevano belli nella loro ostentata qualità di ex neutralisti, facendo il chiaro gioco dei responsabili della guerra con l'offrire quell'offa al proletariato. Dal campo socialista si doveva affermare ben altro: la fine della democrazia elettiva e la dittatura rivoluzionaria. Ma i nostri signori deputati si dettero a indorare la nuova amara pillola e a magnificare la conquista democratica: di qui la giusta ira di Luigi Repossi. La situazione tornerà dopo l'altra guerra mondiale 1939-45, e si elargirà il suffragio anche alle donne, malgrado gli annosi tremori che fosse sfruttato dai preti. Noi a gridare con Marx da un secolo: Basta con la democrazia! - e di contro le generazioni in tutto simili di carognoni a piatire: Più democrazia!, reggendo gli zebedei alla controrivoluzione.

Ciò che trascinava il partito non era la visione radiosa della Europa rossa, ma quella oscena di una grande orgia di vittorie elettorali.

La Direzione del partito fu presto costretta ad occuparsi di questo argomento che era in discussione in tutto il partito. La sezione di Napoli era stata la prima a pronunziarsi per l'astensione dalle non lontane elezioni politiche generali, ed il "Soviet" organo della federazione napoletana già evolveva verso la sua seconda fase di organo di un movimento nazionale, la Frazione Comunista Astensionista del PSI Da molte parti d'Italia giungevano al "Soviet" adesioni non di compagni isolati ma di gruppi e di intere sezioni del partito. La polemica cominciava ad accendersi e l'allarme si spargeva nella destra del partito. Occorre appena dire che il primo mezzo ovvio di questa polemica degli inveterati "elezionisti" fu di dire che si trattava di estremisti arrabbiati, di elementi anarchici che ritornavano alle posizioni di prima del 1892, e addirittura di bakuninisti. Nel seguito si vedrà come la corrente del "Soviet" non solo nulla avesse di anarchismo o di sindacalismo, ma fosse caratterizzata dalla più rigida condanna su basi marxiste dell'anarchia e del sindacalismo alla Sorel, e parimenti lontana da un insurrezionismo cieco e barricadiero.

Nessun componente della Direzione si fece portavoce della proposta astensionista, e, salvo una generica preoccupazione di Gennari, di cui diremo, l'ordine del giorno sulla partecipazione alle elezioni ebbe voto unanime.

La presa di posizione degli astensionisti, oltre che nei primi convegni meridionali e campani e nelle assemblee di sezione a Napoli, si ha fin dagli articoli: "Illusione elezionista", del 9-2-l9; "Contro l'intervento alla battaglia elettorale", del 16-2; "Elezioni o conquista rivoluzionaria del potere. Contro il pregiudizio elezionista", del 23-2, e via via in tutti i numeri. Val la pena di dire che è falso che il "Soviet" si occupasse solo della questione della tattica elettorale. Nello stesso numero ora citato si tratta di: "Il bolscevismo pianta di ogni clima" che é già risposta preventiva ai tradimenti stalinisti di molti anni dopo, e per non citare troppo largamente basti il titolo del 27-4: "L'utopia della pace borghese"; in cui si prende posizione contro un altro futuro cancro della politica rivoluzionaria, l'infame pacifismo.

Ecco il testo del voto della Direzione, nel quale segnaliamo la timida iniziale riserva che la rivoluzione politica possa precedere la convocazione dei comizi elettorali! Quella che noi invece chiedevamo era la salvezza del proletariato e del partito dal naufragare ed affogare nell'orgia legalitaria, in cui la borghesia aveva interesse ad attirarlo. Quando il "Soviet" scriveva: o elezioni o rivoluzione, intendeva dire che non ci si doveva gettare nelle elezioni per dedicarsi invece alla preparazione dell'azione illegalitaria per la presa del potere, cui non si pretendeva, e lo vedremo, di prefiggere una data come si può farlo per la giornata della corsa folle alle urne. "La Direzione, confermando per tutte le Sezioni e tutti gli organi del Partito il dovere di rendere più intensa ed estesa la agitazione per quell'azione immediata e quell'obiettivo che formano l'indirizzo della politica attuale del Partito, - di fronte alla possibile convocazione dei comizi elettorali prima che lo sforzo liberatore del proletariato abbia portato anche in Italia la classe lavoratrice al possesso del potere esecutivo: - ricorda che il metodo elettorale per la conquista dei poteri pubblici forma parte integrante del programma fondamentale e della storia del Partito, il quale non può rinunziarvi senza perdere il suo vero carattere; - ritenuto che le deliberazioni degli ultimi Congressi Nazionali indicano chiaramente e a sufficienza la tattica elettorale che il Partito deve seguire per mantenere anche nel campo parlamentare l'indipendenza e la separazione dell'azione socialista da tutte le correnti politiche della classe dominante, - delibera di impegnare tutte le Sezioni del Partito a preparare il lavoro elettorale, adottando per la scelta dei candidati il metodo di scrutinio per larghe circoscrizioni regionali che saranno determinate dalla Direzione del Partito, con rappresentanza proporzionale - metodo che il Partito reclama energicamente dallo Stato per le proprie elezioni - e il criterio di iscrizione al Partito per un periodo non inferiore ai cinque anni e di accettazione della disciplina del Partito entro e fuori del Parlamento, - e stabilisce fin d'ora che in caso di votazioni di ballottaggio nessun appoggio sarà dato alle candidature estranee al Partito e saranno ritirate le candidature socialiste risultate in evidente inferiorità numerica; - determinando nelle seguenti linee principali il programma elettorale che deve servire di base e di agitazione nella presente lotta politica: - sostenere di fronte al sistema legislativo parlamentare della borghesia il sistema di rappresentanza politica per mezzo dei Consigli dei Lavoratori;

- smascherare le menzogne della democrazia borghese condannando i responsabili della guerra, per opporre alla dittatura degli sfruttatori quella degli sfruttati; - dimostrare la necessità che alla conquista del potere politico il proletariato deve aggiungere quella del potere economico per creare i nuovi congegni adatti alla gestione collettiva per la produzione e la distribuzione della ricchezza".

È da notare che Gennari aveva proposto d'inserire una pregiudiziale nel senso che si sarebbe partecipato alle elezioni solo nel caso che "non scoppino nuovi avvenimenti che consentano la attuazione del nostro programma d'azione" e alla condizione che fossero assicurate la libertà massima di propaganda e voto, la smobilitazione generale e l'amnistia completa: "Se tali condizioni non saranno assicurate e rispettate, le elezioni dovranno essere impedite con qualunque mezzo".

La proposta non ebbe seguito.

Nel commentare questo voto il "Soviet" del 30-3-1919 esprime la sua delusione perché la Direzione "massimalista" ha deciso l'intervento del partito alle elezioni. Conferma la disciplina al deliberato della Direzione, ma rileva che "mentre la Direzione è per l'azione massimalista ed accetta le elezioni, vi sono nel partito altri elementi che vogliono le elezioni, ma negano l'azione rivoluzionaria. Con costoro non si può né si deve volere la collaborazione, né da noi astensionisti, né dai compagni massimalisti favorevoli alle elezioni".

E conclude che è necessario convocare il Congresso Nazionale Socialista per giungere all'irrevocabile "taglio" dalla destra opportunista - quel taglio che in autunno, al congresso di Bologna, la estrema sinistra riproporrà, pronta a sacrificare per esso la pregiudiziale astensionista; ma che gli esponenti del vacuo massimalismo respingeranno.

Tra queste evidenti incertezze degli organi di lotte della classe operaia, a cui manca una chiara visione delle direttive da seguire, e mentre si scontrano indirizzi contrastanti e incompatibili fra loro, si iniziano irresistibili i primi moti proletari, di cui non possiamo che dare un cenno a grandi tratti.

27. Le grandi lotte proletarie e i loro riflessi entro il Partito

Tutte le categorie reclamano le otto ore e i minimi di salario, spinte dalla rapida perdita di valore della moneta che rende irrisorie le paghe rimaste ferme dall'inizio della guerra, salvo per pochi lavoratori specializzati. Gravi problemi e lotte economiche sorgono dagli effetti della smobilitazione militare, dalle esigenze degli invalidi e mutilati, delle vedove ed orfani di guerra, ai quali tutti l'amministrazione statale non provvede che con grande lentezza e mezzi inadeguati. In contrapposto alle associazioni patriottiche dei combattenti, si forma la grande Lega Proletaria Mutilati, che si mostrerà forte e battagliera.

Particolarmente combattiva è la categoria dei metallurgici, che si scioglie dai vincoli semi-militari di guerra. Abbiamo già avuto occasione di dire delle lotte dei metallurgici nel Napoletano, ove questa primaria categoria di lavoratori erra quasi allo stato nascente.

Ai primi di febbraio del 1919 scoppia a Trieste uno sciopero di ferrovieri che paralizza le operazioni di spostamento delle truppe connesse alla occupazione militare della Venezia Giulia. La repressione dello "sciopero politico" è energica: il tribunale emette a carico dei "colpevoli di avere abbandonato improvvisamente il lavoro presso le Ferrovie dello Stato cui erano addetti" condanne massime: 5 anni e 2000 lire di multa per 5 ferrovieri, 3 anni e multa per circa 40 imputati minori. Sono i primi allori degli "irredenti".

Il 5 febbraio le otto ore vengono riconosciute ai 500 mila metallurgici scesi in lunga lotta: sono in moto con lo stesso obiettivo ferrovieri, tessili, edili, ecc. in tutta l'Italia.

Nel marzo campeggiano gli scioperi dei metallurgici liguri per 11 giorni, dei braccianti novaresi per 8, dei metallurgici ancora a Brescia. Per sette settimane lottano i ferrovieri triestini finché non ottengono la riassunzione in servizio alle stesse condizioni già riconosciute dalla amministrazione austriaca.

Ma ci sarebbe qui impossibile fare una cronaca di tutte le lotte sindacali, o scegliere tra esse le più notevoli per durata, per numero di partecipanti, per conquiste realizzate e anche per forme di violenta repressione da parte delle forze statali. Vi accenniamo appena.

In aprile proseguono le lotte rivendicative di metallurgici, grafici, edili, braccianti agricoli, e così via. Il 23 marzo viene fondato il partito fascista, con aperta posizione anti-socialista. Il 15 aprile a Milano si hanno i primi scontri di piazza fra operai e squadre fasciste; viene assalita e devastata - come in tutti questi episodi con la piena solidarietà della forza pubblica senza la quale tali azioni non sarebbero mai state possibili, il che ne rende responsabili lo ingranaggio borghese di Stato e i partiti democratici che lo reggevano - la sede dell'Avanti!. La risposta è lo sciopero generale che in tutta Italia riesce imponente: ma la dirigenza del partito si esprime e comporta fiaccamente. Il "Soviet" del 20 aprile riferisce: "A Napoli lo sciopero si svolge imponente e totalitario. Agli uffici della Camera del Lavoro ove siedono in permanenza la segreteria camerale e il Comitato della sezione socialista è un continuo affluire di operai e di compagni organizzati in squadre di vigilanza che recano entusiasti le notizie sulla splendida riuscita dello sciopero nelle varie località da parte delle varie categorie".

Scioperano anche i non confederati lavoratori del porto. Un telegramma viene inviato, come da ogni città italiana, alla Direzione del partito, auspicando la riscossa proletaria.

Si approssimava il primo Maggio e grande era la tensione e nel proletariato e tra le forze nemiche. Da molti vanamente si diceva che il primo "Primo Maggio" non di guerra doveva segnare la data della rivoluzione. Per smentire l'antica-nuova leggenda che i compagni della sinistra fossero dei ciechi insurrezionisti sarà forse utile riportare quanto scriveva il "Soviet" in data 29 aprile: "Ma per noi, per tutti i proletari che ancora non sono riusciti a emanciparsi dalla schiavitù capitalista, questo primo Maggio assume un altro significato: esso deve dire il proposito fermo e definitivo del popolo lavoratore di impadronirsi dappertutto del potere per sostituire alla sfruttatrice economia capitalista il comunismo, fondato sull'eguaglianza e sulla libertà dei lavoratori. La borghesia nostrana ha inteso questo significato preciso che la manifestazione assumerà, e va facendo grandi preparativi di repressione armata. Essa conserva la mentalità del '98 e spera sempre che anche questa volta il proletariato si lasci trarre anzitempo, davanti a provocazioni sapientemente preordinate, a un moto di piazza che permetta l'eccidio, desiderato dai lanzichenecchi della classe dominante, e l'arresto degli elementi dirigenti. Vane illusioni! Il proletariato ha imparato molte cose dal '98 ad oggi; specialmente ha appreso il senso della disciplina e dell'azione metodica, come ha dimostrato nei recenti scioperi di protesta contro la aggressione di Milano. Esso scenderà in piazza allora, e soltanto allora, quando la volontà di rivoluzione l'avrà per tal modo pervaso e permeato tutto, che il solo spiegamento della sua massa armata di incrollabile volontà basti a rendere vana, impossibile, inattuabile ogni resistenza borghese. E saranno i lavoratori a scegliere il momento. Sarebbe certo più comodo per la classe dominante una rivolta a breve scadenza e a data fissa, ma appunto perché la cosa sarebbe comoda alla borghesia, il proletariato la eviterà. Dunque, il 1° Maggio non sarà la data della rivoluzione, ma soltanto un'alta affermazione pacifica che valga ad intensificare e ad allargare in strati sempre più profondi del proletariato la coscienza dei suoi destini che maturano...".

Frattanto, nella primavera del 1919, il precipitare del disagio economico conduce il proletariato per la forza stessa delle cose su un nuovo terreno di lotta. Il prezzo di tutti i generi di prima necessità, dai cibi al vestiario, sale in modo vertiginoso e insostenibile per le borse dei meno abbienti, mentre si avverte l'impossibilità di seguire il precipizio del valore di acquisto del danaro con lo strappare aumenti delle mercedi che si rivelano sempre più irrisori.

Nelle principali città scoppiano moti violenti, che prendono il nome di "lotte contro il carovita". Folle minacciose si addensano innanzi agli spacci e ai mercati e impongono il dimezzamento dei prezzi. I commercianti sbigottiti subiscono i prezzi fissati dalla Camera del Lavoro o, per tema del peggio, portano le loro merci alle sedi delle organizzazioni operaie che compiono sommarie distribuzioni. I giornali borghesi e benpensanti parlarono di saccheggi, di rapine e cose simili, ma il fatto è che il movimento non aveva sbocchi pratici per il rapido esaurirsi delle scorte. Non mancarono gli incidenti spesso gravi e gli scontri con la polizia, che aveva ordine di ristabilire l'ordine e la libertà di commercio, ma dovette finire col lasciar correre.

Sorsero dei comitati ispirati alla difesa del consumatore, che nulla potevano avere di rivoluzionario anche se vi furono casi di violenza esteriormente "espropriatrice". Si pretendeva che tutti i ceti avessero un comune interesse al ritorno illusorio del "buon mercato" e si fecero enormi pateracchi. I rivoluzionari non potevano non deprecare questa assurda forma di azione, e lo dissero affrontando l'impopolarità. Troviamo nel "Soviet" del 29 giugno un bell'articolo di un nostro valente compagno che a suo luogo potrà essere riportato integralmente. Vi si denunzia coraggiosamente l'ipocrisia dei fautori della guerra, fino alla Confederazione degli industriali che scende in lotta contro il rincaro perché... i padroni hanno interesse a che gli operai mangino a prezzo ridotto. Si dimostra vano il tentativo di annebbiare la coscienza degli insopprimibili antagonismi di classe, e si stigmatizza la Confederazione del Lavoro che fa sciocca eco all'appello dei padroni. Inoltre, viene condannata ancora una volta l'invadenza confederale in un campo che spetta al solo partito.

Dopo aver messo in evidenza come il rincaro dei prezzi, specie per i generi alimentari, è inevitabile in regime capitalistico e specialmente dopo le guerre, l'articolo così conclude: "Quando avremo dimostrato che gli alti costi sono legati indissolubilmente a tutto il sistema capitalistico di produzione e di scambio, ci sarà facile concludere che solo con la eliminazione di tale sistema si avrà un efficace rimedio ai mali che travagliano l'umanità".

Dalla fine di maggio al principio di giugno si svolge un grandioso sciopero dei lanieri biellesi. Tutte le categorie operaie scendono in lotta; si distinguono soprattutto le donne, la polizia procede ad arresti in massa, la truppa è chiamata contro gli scioperanti. Si svolgono agitazioni dei gasisti, dei lavoratori di albergo e mensa, dei tranvieri e ferrovieri. L'8 e 9 giugno si ha lo sciopero, che abbiamo descritto, di solidarietà con i metallurgici, a Napoli.

Il 10 giugno i moti contro il carovita esplodono alla Spezia; la folla assale il mercato e negli scontri con la polizia si hanno due morti e 25 feriti. Segue lo sciopero generale violentissimo; accorrono come pacificatori deputati e capi confederali, che la folla, come sempre in quel tempo, accoglie col grido di "pompieri!". Il 12 moto analogo a Genova, e a Torino, ove durante lo sciopero generale poliziotti e squadristi assalgono la Casa del Popolo. Il 16 giugno scoppia lo sciopero dei metallurgici di Dalmine che occupano la fabbrica, e Mussolini tiene il famoso discorso. L'abile politicante si pone a favore delle rivendicazioni operaie, approva lo sciopero, fa l'apologia di un movimento sindacale legato al partito fascista. Solo un "esperto" dei movimenti dei lavoratori poteva essere utile alla borghesia nell'organizzare la propria dittatura per scongiurare la minaccia di quella rossa.

Il discorso illustra il nuovo sindacalismo nero, e sviluppa il programma dì San Sepolcro del 23 marzo. Non solo esso vale quello della confederazione riformista, ma ha vari spunti che saranno propri di non schiette correnti di sinistra come quella dell'"Ordine Nuovo": suffragio universale, soppressione del Senato, costituente (eventualmente repubblicana), giornata di otto ore, partecipazione degli operai alla gestione delle aziende, imposta progressiva con carattere di espropriazione delle ricchezze; celebre frase demagogica del "paghino i ricchi!".

Vi è di più: Mussolini precorre allora tutta la presente deboscia della politica opportunista con la sua somma di ignoranza retorica e faciloneria carrozzonista e intrallazzatrice. Egli dichiara di beffarsi di etichette e definizioni ideologiche; i fascisti non sono né socialisti né antisocialisti, e a seconda delle necessità decidono di marciare sul terreno "della collaborazione di classe, della lotta di classe, e della espropriazione di classe". Essi sono, come il loro Duce annuncia, dei "problemisti" e il loro è un antipartito che non ha principi fissi, che ha per norma solo l'azione del momento. Mussolini del 1919 non poteva ancora avere dimenticato le polemiche che fino al 1913, con la sinistra del partito, aveva condotto contro il revisionismo indigeno e internazionale caratterizzato dalla famosa formula di Bernstein: "Il fine è nulla, il movimento é tutto". I degeneri capi contemporanei del falso partito comunista, che menano come solo vanto loro rimasto quello di avere ucciso il fascismo e il suo capo, non vedono come sono cresciuti alla sua scuola. Quando dopo la seconda guerra ne abbiamo trovato qualcuno tra i piedi e abbiamo avuto la debolezza di scambiare qualche battuta, la frase con cui ci hanno volto le spalle è stata sempre la stessa: "Non andrete ancora a tirar fuori di porre questioni di principio davanti alle masse!".

Dopo lunghi anni da quando le nostre vie si divisero, essi sono arrivati a tenere lo stesso linguaggio di Mussolini a Dalmine: principi, fini, soluzioni generali della lotta sociale, non ne enunciano mai e li lasciano ai "dogmatici"; sono, come Benito volle, solo dei "problemisti" - e ciò da quando Gramsci li volle "concreti", dato che la tesi è la stessa; - hanno lasciato a noi gli astrattismi, e la loro "problematica" scopre ogni mattina un campo chiuso in cui condurre la bassa agitazione da fautori di riforme di struttura della società borghese, che in un Turati avrebbero provocato il vomito. Alludiamo, si capisce, tanto al partitone che ha per duce Palmiro, quanto all'altro che capeggia Nenni, e del quale per lo meno il capo non ha dovuto fare un giro tanto lungo per tornare a Mussolini: era partito con lui nel 1914 coi fasci interventisti di combattimento: è un campione di coerenza.

Tutta questa gente, come Benito, Palmiro e Pietro, non potrebbe navigare se avesse una bussola; ha di comune il fatto di non legarsi le mani con nessun atto di fede, perché nel corso di una vita rifabbrica cento volte la dottrina di comodo, mettendo la vela come il vento tira.

Problemisti: al grande Benito il brevetto di questo termine che definisce tutti i cialtroni e i ciarlatani di oggi. Un'altra prova che il metodo fascista ha vinto la seconda guerra mondiale in profondità, essendo un puro fatto di superficie la fine tragica di Mussolini e di Hitler. La lezione della storia è sempre dialettica, da quando "Graecia capta ferum victorem coepit", ossia la cultura della sconfitta Grecia dominò e guidò il vincitore bellico romano.

Non avreste potuto distruggere Benito senza far strame dei principi, è la vostra sconcia scusa. Ma, con la vostra tattica ignobile del fronte antifascista, il risultato è che Benito ha soggiogato e mortificato voi! Il principio socialista è andato nel fango, il "problemismo" che Benito insegnò ha trionfato in voi come nel mondo borghese di cui siete parte ben degna.

Nel luglio 1919 la violenza della agitazione contro il carovita, di cui riassumeremo le fasi, raggiunse estremi gravissimi, e frattanto era in programma un grande sciopero internazionale per fermare le operazioni militari contro la Russia e l'Ungheria, fissato per il 20 luglio.

La delicatezza della situazione delle battaglie proletarie e i pericoli che risultavano dalla dubbia direttiva dei tanti comitati per la lotta al carovita, che in alcune città fecero addirittura parlare di giornate di governo proletario, mentre in altre la folla poneva in fuga interi battaglioni di carabinieri, e da parte statale veniva perfino fatto uso dell'aviazione in sussidio della polizia, resero necessaria, per il 10 luglio, una nuova riunione della Direzione del partito.

La discussione non dovette essere troppo chiarificatrice, come si vede dalla risoluzione votata su proposta di Gennari e in cui la Direzione riconoscendo "giustificato l'accendersi di ire del popolo contro tutti gli affamatori e speculatori" e additando ad esempio "i compagni e lavoratori organizzati che guidarono e disciplinarono, coordinandole, le agitazioni… volgendole da semplice e cieca esasperazione a forme ordinate e più efficaci, più conscie del grave problema dell'alimentazione del popolo",

invita il partito ad illuminare le masse sulle cause e i rimedi dell'attuale situazione, a rifiutare "ogni forma di collaborazione" in comitati misti, e a costituire "consigli di lavoratori formati soltanto di rappresentanti diretti del Partito e delle organizzazioni economiche e della Lega proletaria dei mutilati" per "disciplinare e coordinare le agitazioni contro il caro della vita... La loro azione sarà svolta unicamente sul terreno della lotta di classe, e sarà informata al proposito che una prossima lotta finale del proletariato porti alla conquista del potere economico, e che questo, sulla base della dittatura, sia affidato interamente agli organismi della classe lavoratrice".

Si decise anche di convocare al più presto il consiglio nazionale del Partito con l'intervento di delegati delle Federazioni. Esso si riunì il 13 luglio.

I delegati della sinistra presero viva parte alla discussione su tutti gli argomenti. Per lo sciopero internazionale, sostennero che doveva essere ad oltranza per ottenere che le forze militari dell'Intesa fossero realmente ritirate dai fronti russi e dall'Ungheria, ove appoggiavano l'azione reazionaria scatenata dai rumeni. Dalla Direzione si oppose che non era possibile ottenere tanto dai socialisti francesi ed inglesi, che avevano accettato di partecipare allo sciopero ma non su una posizione di solidarietà con le repubbliche Soviettiste bensì su una vaga formula borghese di non intervento negli affari di altri paesi. La posizione della sinistra può essere desunta da questo estratto dal "Soviet" il 13 luglio a Bologna. "I compagni hanno potuto desumere dall'Avanti! lo svolgimento delle discussioni al Convegno Socialista di Bologna al quale le sezioni del Napoletano sono state rappresentate.

Da molte parti è stato vivamente discusso il criterio della Direzione di fare lo sciopero puramente dimostrativo per sole 48 ore. Si è invece quasi sorvolato sulle questioni da noi ampiamente dibattute nei numeri scorsi intorno alla organizzazione internazionale del movimento ed alle finalità che ad esso danno socialisti inglesi e francesi.

Il convegno di Bologna, che non aveva poteri deliberativi, esaminata la situazione politica, concluse unanime per la disciplinata attuazione delle modalità stabilite dalla Direzione del Partito.

Oggi quindi non resta altro da fare che lavorare perché lo sciopero riesca completo e la dimostrazione di forza imponente.

Il proletariato socialista italiano, riafferma la sua forza e la sua fede astenendosi dal lavoro il 20 e il 21 col significato preciso di solidarietà alle repubbliche Sovietiche comunistiche dei Soviet di Russia, di Ungheria e degli altri paesi ove il comunismo ha trionfato, contro la politica di aggressione militare, di sabotaggio e di affamamento economico dei governi borghesi.

Noi non abbiamo bisogno di ricordare ai compagni che essi devono compiere tutto il loro dovere per la piena riuscita del movimento, e nel tempo stesso attenersi colla più stretta disciplina alle decisioni degli organi direttivi del Partito".

Lo sciopero non ebbe in Europa un successo completo, soprattutto a causa del sabotaggio del partito e della confederazione francesi; ed anche in Italia vi fu la gravissima defezione del sindacato dei ferrovieri. Se ne può trarre il bilancio da questo lodevole Manifesto della Direzione del partito lanciato il 22 luglio appena chiuso il movimento, e rivolto "ai compagni dei Governi comunisti di Russia e d'Ungheria": "All'indomani della manifestazione proletaria di solidarietà piena e completa colle vostre Repubbliche Comuniste, sentiamo il bisogno di riassumere ed interpretare quanto le masse lavoratrici hanno inteso significare in questi giorni e di inviarvi, per nostro mezzo, il saluto commosso dell'intero Proletariato d'Italia.

Lo sciopero generale del 20-21 corrente non doveva, per volontà nostra, aver altro carattere che quello di solidarietà con voi, compagni, che collo strumento della dittatura proletaria traducete in atto l'ideale nostro di redenzione umana. Volevamo che esso costituisse un monito, una minaccia verso le borghesie che rivolgono le armi contro di voi, o con blocchi inumani ed anticivili tentano di affamarvi, od organizzano, incitano, sorreggono, proteggono le mene controrivoluzionarie nei vostri paesi; insomma verso le borghesie che, comunque, agiscono in spregio alle stesse norme del loro diritto internazionale ed intervengono in paesi altrui per soffocare violentemente la volontà dei popoli. Non era l'inizio della nostra battaglia. Doveva tutt'al più esserne il preannuncio. Doveva, insomma, esprimere l'anima delle nostre folle che intendono manifestare tutta l'ammirazione per l'opera vostra, tutta la solidarietà ed il desiderio intenso di seguire il solco da voi aperto e tracciato e, nello stesso tempo, vogliono frapporsi fra voi e l'arma protesa contro i vostri petti dalla sfruttatrice borghesia capitalistica internazionale. Questo era lo scopo propostoci: per questo soltanto stringemmo accordi con proletari di altri paesi.

Malgrado tutte le manovre, le insidie, le menzogne, le intimidazioni del Governo e della borghesia; malgrado la mobilitazione di tutte le forze governative e capitalistiche che agirono come se dovessero sostenere l'urto supremo delle energie proletarie: malgrado la colpevole debolezza di qualche dirigente di una categoria di lavoratori dei pubblici servizi: malgrado la inspiegabile ed inescusabile defezione della C.G.T. di Francia - defezione annunciata e diffusa a cura del Governo all'ultimo momento, mentre il proletariato francese stava per mobilizzarsi e per agire, - malgrado tutto il Proletariato italiano delle officine e dei campi rispose concorde e compatto al nostro appello: fu sospesa in tutta Italia la vita economica e civile. La borghesia, pavida, tremò alla voce possente, alla minaccia del nostro proletariato.

Il Proletariato d'Italia sente ormai che le sue lotte non sono che un aspetto, un dettaglio della lotta che si combatte in ogni angolo del mondo civile; che esse debbono coordinarsi e dirigersi al fine unico della rivoluzione mondiale per l'abbattimento del dominio capitalistico e per l'instaurazione della dittatura proletaria. Non giudica della necessità e dell'esito delle sue battaglie nello stretto ambito nazionale, ma alla luce delle necessità internazionali della rivoluzione proletaria. È convinto che esistono nel mondo due sole razze irreconciliabilmente nemiche: quella degli sfruttati e quella degli sfruttatori. Si sente, perciò, sempre più strettamente legato, solidale col Proletariato di tutto il mondo, vede ogni giorno più approfondire l'abisso che lo separa dalla borghesia del proprio paese, come da quella internazionale. Si convince ogni giorno più e meglio della necessità e dell'urgenza di apprestarsi alle ultime battaglie per spezzare, per annientare il sistema di sfruttamento capitalistico borghese.

Il Proletariato d'Italia dolorante, esasperato per le mille ferite, per i lutti, per i dolori, per le miserie, per le vergogne procurate dal flagello immane della guerra non intende, non vuole esser seppellito insieme alla borghesia nel crollo economico e morale che questa, ciecamente, si apparecchia e si prepara. Sa che, in regime borghese, la sua pace è sempre in pericolo, sempre minacciata; che si preparano anzi, si cercano nuove e più sanguinose stragi; che i conflitti economici, la lotta feroce, imperialistica, di concorrenza industriale, di tariffe, di accaparramento di materie prime aggraverà sempre più - rendendolo insanabile - il marasma, la paralisi economica che già invade tutto il mondo borghese e che riuscirà esiziale, mortale per i paesi economicamente deboli e poveri come il nostro. Aspira e vuole l'eguaglianza e la pace fra tutti i popoli: pace civile e pace economica. Dichiara guerra, invece, senza quartiere, a tutti gli sfruttatori, a tutti gli oppressori. Riunisce tutte le sue energie, tutti gli sforzi per la salvezza dell'Umanità, salvezza che può attuarsi soltanto nell'Ordine Nuovo: colla conquista rivoluzionaria del potere politico da parte del Proletariato, col sostituire la propria dittatura a quella borghese, coll'opera di ricostruzione economica socialista.

Tutto ciò, o compagni dei Governi Comunisti di Russia e d'Ungheria, dice a voi, promette, prendendo impegno solenne, il Proletariato di Italia. Di ciò si rende garante il Partito Socialista Italiano i cui voti ed i cui auguri a voi rivolti vanno anche e convergono verso la vittoria finale del Socialismo Internazionale".

Non meno vivaci erano stati al convegno del 13 luglio i dibattiti sulla agitazione contro il carovita, ed anche qui la sinistra si oppose vivamente non solo alla destra riformista ma alle molto disordinate posizioni di vari dei famosi "massimalisti". Mentre il partito era tutto dominato dai propositi di una trionfale campagna elettorale, alla quale evidentemente avrebbero dato decisivo apporto le forze della destra apertamente controrivoluzionaria, il centro massimalista parlava di ordine da impartire al movimento rivoluzionario come di un atto che si potesse compiere da un momento all'altro; e da molte parti echeggiava la frase demagogica ed infelice di "sciopero espropriatore". L'Avanti! riferì in modo non congruo l'intervento del rappresentante di Napoli su questo punto, e al riguardo è bene riportare una sua lettera di rettifica dal "Soviet" del 20 luglio: "Caro Avanti!,

il resoconto di quanto dissi brevemente a Bologna merita un chiarimento.

Volli indicare il pericolo contenuto nella formula "sciopero espropriatore" troppo sintetica ed inesatta, ricordando che l'atto e il fatto rivoluzionario rivestono carattere politico e consistono nel passaggio violento del potere dalla borghesia al proletariato.

Lo sciopero non è che la misura tattica indispensabile per la mobilitazione delle forze proletarie a tale scopo.

Il trapasso dal regime economico capitalistico a quello comunistico si inizia subito dopo con l'attuazione di una serie di provvedimenti mediante i quali i nuovi organismi politici procedono gradualmente alle espropriazioni economiche.

In questo senso deve parlarsi di rivoluzione politica ma di evoluzione economica, sia pure acceleratissima, che si determina dopo di avere infranto i vicoli che i vecchi istituti politici ponevano allo sviluppo delle forme di produzione.

Così è nel linguaggio marxista e nello svolgimento delle rivoluzioni comunistiche cui assistiamo.

Il concetto dell'espropriazione simultanea all'insurrezione ed attuata capricciosamente da individui o da gruppi, implicito nella frase di "sciopero espropriatore", é un concetto anarcoide che nulla ha di rivoluzionario.

Grazie e saluti".

Da quanto fin qui ricordato emerge da un lato la posizione nettamente controrivoluzionaria della destra assai forte nel Gruppo parlamentare socialista e nei quadri della Confederazione del Lavoro, e dall'altro la poca chiarezza delle posizioni della Direzione del partito e della sua maggioranza, che pur si era dichiarata, ancor prima che la guerra finisse, solidale con la grande rivoluzione bolscevica, e fautrice di un'azione di attacco in Italia contro il regime borghese.

Compito della sinistra comunista fu di lottare contro questi due pericoli, ossia l'azione di aperto siluramento dell'avanzata proletaria che conducevano i riformisti parlamentari e confederali, e il grave disordine di programmi e di metodi dei cosiddetti massimalisti. I due pericoli si sommavano nell'unico che la fase oggettiva di slancio proletario verso la lotta generale terminasse prima che un partito capace di dirigere la rivoluzione italiana si fosse formato, liberandosi dalle sue gravi deficienze ed incertezze e rompendo per sempre con la corrente socialdemocratica, che in Russia i bolscevichi avevano saputo battere prima della vittoria finale di ottobre 1917.

Cerchiamo qui di seguire parallelamente la pressione di classe dei lavoratori e le lotte tra gli indirizzi contrastanti nel seno delle loro organizzazioni e nel partito. La fertilità, il calore e l'ardore della situazione traspaiono dalle cifre della statistica delle agitazioni sindacali.

La Confederazione del Lavoro, che aveva sempre raccolto la grande maggioranza degli organizzati, ne ebbe un massimo di 384 mila nel 1911. Vi fu poi una lieve flessione, accentuata nel 1916, fino a 234.000; e nel 1918, ultimo anno di guerra, gli organizzati furono 201.000. Lo slancio del dopoguerra fu tale che nel 1919 si balzò a 1 milione 159.000, e nel fiammeggiante 1920 si toccò il massimo di ben 2.150.000. Nel 1921 era già cominciata la discesa e gli organizzati non furono che 1.076.000. Nel 1922, anno del fascismo, calarono a 400.000 restando su tale mediocre livello fino al 1925, dopo il quale anno le organizzazioni di classe furono praticamente distrutte.

Quanto alle agitazioni, gli scioperi nell'industria da 27 nel 1880 salirono a 810 nel 1913, e gli scioperanti da 22 mila a 384.700. Nell'anno dello scoppio della guerra si ebbero solo 539 scioperi e 132.100 scioperanti e sempre meno fino al 1918. Qui viene la cifra formidabile del rosso 1919: 1.663 scioperi e 1.049.000 scioperanti. Nel 1920 la situazione è ancora fervida: 1.881 scioperi e 1.268.000 scioperanti, sebbene le giornate di sciopero calino da 18.888.000 a 16 milioni 398.000.

Da allora scema la intensità della lotta: nel 1921, 1.045 scioperi, 645.000 partecipanti, 7.773.000 giornate. Nel 1922 le cifre mostrano la posizione di difesa: soli 552 scioperi e 443.000 scioperanti, ma sempre 6.586.000 giornate: durata media di ogni lotta da dodici a 15 giorni. In seguito le cifre scendono di molto.

La parte dei lavoratori agricoli a queste lotte è impressionante. A 286 scioperi con 173.000 scioperanti nel 1908, corrispondono nel 1918 (guerra) soli 10 con 657, ma nel 1919 si hanno 208 scioperi e 505 mila scioperanti, nel 1920 si ha il massimo con 189 scioperi ma ben 1.046.000 scioperanti, ossia oltre i tre quarti dell'industria; rapporto anche maggiore per le giornate di sciopero (14).

Dal 1921 le cifre scendono; in tale anno poco più di un decimo degli scioperi e scioperanti sono agricoli: è noto che l'azione fascista iniziò prima nelle campagne. (Con questi cenni al fascismo non intendiamo dire che esso fu la sola causa del rinculo proletario; la principale furono i nefasti opportunisti).

In una situazione tanto oggettivamente favorevole, gravissimi furono gli errori e i difetti del movimento organizzato e del partito.

Andiamo provando che, fin dai primi cenni, la Sinistra li denunziò, e anticipò la previsione dei loro deleteri effetti.

Mentre nel luglio 1919 Direzione e Consiglio nazionale del partito discutevano dei difficili problemi tattici, e purtroppo dominava la confusione delle vedute, una cronaca dei moti può trarsi dallo spoglio dell'Avanti!.

3 luglio: A Forlì la folla assalta i negozi e trasporta la merce requisita alla C.d.L. I "consigli degli operai riuniti" ricevono dai negozianti le chiavi dei negozi.

4 luglio: A Imola i carabinieri sparano all'impazzata sulla folla; 4 morti.

5 luglio: Sciopero generale a Firenze: requisizioni come sopra. "Al pomeriggio la massa operaia è padrona della città".

Costituzione di "Soviet annonari" in Emilia, Romagna, Marche, Toscana.

A Prato e Pistoia sciopero generale.

6 luglio: "L'insurrezione contro gli affamatori si va estendendo a tutta l'Italia".

Lo sciopero generale paralizza Firenze, dove squadre di "commissari rossi" fanno riaprire i negozi; carabinieri e soldati pattugliano la città e, qua e là, sparano sulla folla; due morti e numerosi feriti. La notte del 6, le organizzazioni politiche e sindacali sospendono lo sciopero. A Empoli, il vettovagliamento è diretto da un comitato popolare; a Siena, operai organizzati dalla C.d.L. procedono alla requisizione di derrate alimentari presso le fattorie.

A Palermo sciopero generale proclamato dai metallurgici; requisizione di numerosi negozi; arresti in massa da parte della polizia che "ristabilisce l'ordine".

A Brescia sciopero generale e requisizioni; cavalleria e carabinieri sparano sulla folla. Fermento ad Ancona.

7 luglio. Malgrado la sospensione dello sciopero, a Firenze continua l'agitazione; i carabinieri attaccano (2 morti, 8 feriti, 200 arresti; coi precedenti, questi crescono fino a 700 circa). A Milano la folla reclama la riduzione del 50 per cento sui prezzi degli alimentari; dopo primi scontri sporadici sui mercati rionali, vengono presi d'assalto diversi negozi e divelte le saracinesche abbassate. Membri del P.S. e della C.d.L. intervengono a "calmare" i dimostranti; qualche esercente espone un cartello con la scritta: "Merci a disposizione della Camera del Lavoro".

8 luglio: A Genova, tumulti e scontri con le forze dell'ordine: 1 morto e numerosi feriti. A Napoli gli operai degli stabilimenti in rioni popolari proclamano lo sciopero che si estende ad altre categorie. Un corteo diretto verso il centro è attaccato con cariche massicce dall'apparato di polizia.

9 luglio: A Brescia l'agitazione tocca il vertice; la folla assiepata davanti alla C.d.L. chiede la scarcerazione degli arrestati. Uno squadrone di carabinieri spara sulla folla, che reagisce costringendolo alla fuga. Interviene un contingente di soldati e, a tarda sera, arrivano gli alpini con le mitragliatrici. Aerei sorvolano la città, praticamente in stato d'assedio.

6-10 luglio: A Barletta, dal 6 al 10 luglio, i Consigli del Lavoro operano con pieno potere la requisizione e calmierazione dei generi alimentari: l'Avanti! parla di "due giorni di governo socialista". Nella serata del 10, la cittadella è cinta d'assedio e infine sottomessa.

9 luglio: 4 morti e numerosi feriti fra gli operai a Taranto.

10 luglio: arresti in massa a Foggia.

13 luglio: scontri a Lucera (8 morti e 30 feriti nella folla) e a Rio Marina all'Elba (1 morto e numerosi feriti). Una parte del sindacato ferrovieri respinge la decisione del comitato centrale del SFI di revocare l'ordine di sciopero per la giornata di solidarietà internazionale.

20-21 luglio: piena riuscita dello sciopero generale di solidarietà con le repubbliche Sovietiche di Russia e Ungheria, malgrado la defezione di una parte dei ferrovieri (impiegati, ecc.); severamente condannata l'astensione dallo sciopero della CGT francese.

28 luglio: sciopero dei metallurgici a Milano, che al sesto giorno si estende ai siderurgici e il 9 agosto diventa generale in Lombardia, Liguria ed Emilia, oltre che in località della Toscana.

28. Il grave contrasto di indirizzi nel Partito

Per dare una idea del come, mentre la dinamica di lotta proletaria era tanto acuta, nel seno del partito socialista il cozzo delle opposte posizioni divenisse sempre più aspro, facciamo subito riferimento ad un comunicato della segreteria della Confederazione del Lavoro in data 17 giugno, il quale molto stranamente viene diffuso dall'Avanti! senza commenti.

Il testo giustifica le "irrefrenabili esplosioni" delle masse indignate dal materiale disagio, ma passa subito a denunziare, sotto la giusta ragione che il movimento deve avere una direttiva unica e comune a tutte le località, l'opera di non ben definiti gruppi "secessionisti" che affermano di assumere la responsabilità di estreme azioni locali; e che si porrebbero così contro il compito del partito e della organizzazione sindacale unitaria. Non è precisato quali siano tali "appositi (?) organismi secessionistici" che vengono accusati di avere "scarsissimo seguito di masse organizzate", col solito espediente che la rappresentanza delle "masse" è sempre invocata dalle forze della destra.

Si accenna ipocritamente al legame internazionale, che si starebbe concertando a Parigi, in difesa delle repubbliche Sovietiche (sappiamo che poi le organizzazioni francesi tradirono), ed è anche qui strano che l'Avanti! non abbia protestato contro questa falsa speculazione sulla solita disciplina e sulla solita unità. E il testo conclude ancora per la necessità di "sventare qualsiasi tentativo di sopraffazione degli organismi secessionistici".

Chi erano i secessionisti? Dal punto di vista sindacale, i secessionisti erano gli anarco-sindacalisti della Unione Sindacale Italiana staccatisi prima della guerra, ma dalla guerra divisi in due tronconi: quello interventista di Parma, e quello di sinistra di Bologna. Si trattava di una secessione scontata da anni, e di forze già fuori dalla unità confederale. Non si alludeva nemmeno al Sindacato ferrovieri, non aderente alla Confederazione, che nello sciopero del luglio venne meno, è vero, come è vero che più tardi fu conquistato alle tendenze di sinistra, ma che appunto allora non aveva atteggiamento combattivo nei moti di piazza.

L'allusione prende di mira la estrema sinistra del partito, che era molto attiva anche nel seno delle organizzazioni sindacali. Siamo di fronte ad una prima manifestazione delle menzogne dei destri estremi, che aborrono dalla sinistra con ragione in quanto sanno che li vuole buttar fuori dal partito, ma già vanno dicendo che L'Astensionismo elettorale non è che un ritorno alle posizioni degli anarchici e dei sindacalisti di anteguerra, e attribuiscono alla nuova sinistra marxista e comunista il metodo della scissione dei sindacati, che essa mai propugnò, come mai non fece lega con gli anarchici allora in Europa dediti a diffamare la dittatura proletaria nella realtà russa e nel principio. I pompieri confederali parimenti ignoravano la nostra posizione sulla necessità di formare il partito della dittatura sgombrando il terreno dai socialdemocratici col massimo di energia, prima dell'ora degli scontri supremi.

È ben vero che, nel partito, tra i famosi "massimalisti" vi erano elementi estremisti che nel moto di piazza si mostravano favorevoli a un'intesa con gruppi anarchici e sindacalisti rivoluzionari, il che nell'azione non sarebbe stato pernicioso, ma aveva pessimi effetti sul terreno dei principi e dei programmi politici, sostituendo alla visione storica della lotta europea per la dittatura comunista un banale ribellismo piccolo-borghese che ereditava la sterilità del localismo e di una vuota apologia della violenza individuale. Abbiamo già in queste pagine mostrato come ne fosse lontana la visione marxista dell'autentica sinistra, che frequentemente si scontrò in polemica anche coi buoni anarchici, e basterà ricordare la nostra condanna delle informi agitazioni contro il carovita, la nostra posizione sul primo Maggio e la messa a punto di quei giorni sul famoso slogan bombacciano dello "sciopero espropriatore".

Va però dato atto alla direzione dell'Avanti! di avere in quel tempo reagito alle manovre della destra parlamentare del partito. Questa, già nel 1919, delineava una tattica di tradimento che in fondo è la stessa che pochi anni dopo vedremo prendere dal Partito Comunista, quando purtroppo comincerà, a soli cinque o sei anni dalla sua formazione, l'irreparabile processo degenerativo.

Si vedeva avanzare il movimento di Mussolini e si prevedeva che esso avrebbe tentato di prendere il timone dello Stato. Francesco Ciccotti, già elemento della frazione intransigente, propugnò "vie nuove" che il partito avrebbe dovuto prendere mediante un'alleanza parlamentare di governo coi partiti di Nitti e di Giolitti nonché col nascente partito cattolico, che erano stati "contro la guerra".

Nel nr. del 26 luglio l'Avanti! ha un fondo dal tono forse ingenuo ma lodevolmente indignato, dal titolo "La nostra immutabile via". Basta citare la prima battuta: quante "vie nuove", dacché il proletariato socialista si è organizzato in partito, i suoi amici gli hanno di volta in volta consigliato!

Infatti Bonomi poco prima della espulsione di Reggio Emilia nel 1912 aveva scritto un libro: Le vie nuove del socialismo. E, dopo mezzo secolo, i traditori di oggi non stampano la rivista "Vie Nuove"? L'articolo del 1919 spiega che si tratta, sempre, del solito vicolo schifoso che conduce alla rovina, e che il partito proletario si è salvato quando ha saputo, in ogni bufera, restare saldo sulla "vecchia via" della lotta di classe. L'articolo giustamente ricorda le tappe del trasformismo politico della squallida borghesia italica il cui sogno inguaribile è ancor oggi di "aprire verso i socialisti", con una risorsa più velenosa assai della proclamata dittatura, e bolla il pateracchio del tempo per cui la "Stampa" di Frassati aveva plaudito a Ciccotti; esso non era che una formula precorritrice delle più moderne vergogne: i Comitati di Liberazione del 1945 o il centrosinistra delle elezioni 1963!

Il direttore dell'Avanti! di allora era tra quelli che non hanno mai capito che la tattica elettorale e parlamentare ha conseguenze inesorabili, a cui è vano sottrarsi, e che storicamente non mutano mai.

Già da quanto abbiamo riferito si rendono noti i cardini della politica della tendenza di sinistra: la lotta impostata contro l'ala riformista del gruppo parlamentare e della dirigenza confederale sì svolge fino alla logica richiesta della divisione del partito che non può tollerare elementi postisi contro la prospettiva rivoluzionaria. La questione delle elezioni è posta fino dai primi numeri del "Soviet"; ad esempio nel numero 27 del 29 giugno 1919 il primo articolo ha il titolo: "O elezioni o rivoluzione". Viene subito formulata la rivendicazione di un congresso nazionale per decidere questo punto vitale. Lo scritto prende le mosse da frasi di Lenin, citate dalla "Riscossa" di Trieste e largamente censurate. Lenin stabiliva che "bisognava finirla col parlamentarismo borghese" e ricordava l'impiego dell'azione parlamentare da parte dei socialisti "a scopo dì propaganda, fin tanto che la lotta dovrà svolgersi necessariamente entro l'ordine borghese".

Per il "Soviet" chiamare il proletariato alle urne significava proclamare che la lotta doveva svolgersi "necessariamente entro l'ordine borghese", quindi contraddiceva ogni preparazione rivoluzionaria per la presa del potere nella forma dittatoriale e Sovietica.

I massimalisti più leggeri solevano rispondere: la rivoluzione è matura, tanto alle elezioni non ci si arriva! Il "Soviet", aborrendo da ogni faciloneria sinistroide, risponde (e si trattò di facile profezia!): "Mentre la borghesia si accinge a iugulare le repubbliche Sovietiche… amici pratici! alle elezioni si arriverà, e mentre il sacrificio e l'onore di salvare la rivoluzione resterà tutto ai proletari russi e ungheresi che senza rimpianto versano il proprio sangue, fidando in noi, noi condurremo al simposio Montecitoriale un centinaio di onorevoli eroi della incruenta pugna elettorale, nell'allegro oblio di ogni dignità e di ogni fede che danno le orge schedaiole. Si riuscirà a scongiurarlo?".

Nello stesso numero è data notizia delle forti adesioni alla tesi astensionistica di sezioni e federazioni giovanili, tra cui il congresso emiliano-romagnolo.

Si intese presto la necessità di organizzare in campo nazionale la frazione. Il "Soviet" del 13 luglio dà notizia del primo convegno di compagni di tutta Italia tenuto a Bologna e della prima stesura del programma votato "che sarà presentato al prossimo congresso per sostituire quello di Genova 1892".

È noto infatti che la Direzione si era già richiamata a tale programma.

Nella seconda parte daremo il testo completo del programma della frazione. Qui citiamo il passo: "Quando è aperto il periodo storico della lotta rivoluzionaria tra proletariato e borghesia, compito del Partito proletario è l'abbattimento violento del dominio della borghesia e l'organizzazione del proletariato in classe dominante. Da questo momento diviene incompatibile l'invio di rappresentanti del Partito in organismi rappresentativi del sistema borghese...".

In questo testo è pure ben chiara la partecipazione dei comunisti ai sindacati operai e descritta l'opera di formazione dei Soviet anche con comitati provvisori alla vigilia dell'urto rivoluzionario.

Dato questo primo scorcio delle posizioni ben nette ed organiche dei comunisti astensionisti, e qualche cenno dei loro rapporti con la frazione massimalista favorevole al metodo elettorale, è giunto il tempo di fare cenno al gruppo che andava formandosi a Torino attorno al settimanale "Ordine Nuovo", ma che, come ammettono anche i suoi odierni storici, commise l'errore di non intendere in tempo che occorreva darsi una organizzazione nazionale.

Sul metodo propugnato dall'"Ordine Nuovo" torneremo largamente e sarà il caso di ben distinguere l'apporto di tale gruppo e di quello del "Soviet" alla formazione del Partito Comunista a Livorno nel gennaio 1921.

I due metodi si discostano l'uno dall'altro nettamente in teoria e in pratica dagli inizi, e fino agli effetti sul decorso non favorevole della storia del partito, dando luogo a utilissime deduzioni circa il metodo di fondare i partiti sulla "convergenza" di "forze" politiche che spesso appaiono analoghe ma invece non lo sono.

Ora diamo il testo del "saluto" con cui il "Soviet" del 15 giugno 1919 annunziò l'uscita del giornale torinese, perché si rifletta alla importanza dei dubbi elevati fin dal principio, sia pure nella più cordiale forma. "L'Ordine Nuovo è una nuova rivista settimanale dei compagni di Torino, uscita il 10 giugno c.a., e ad essa mandiamo il nostro fervido augurio.

Compito della nuova pubblicazione, di cui è segretario Antonio Gramsci, sarà, se bene abbiamo inteso, principalmente lo studio delle realizzazioni massime dell'Ordine Socialista nella loro imminente concretezza.

Compito gravoso e grandioso, traccia che ha il nostro plauso, con una sola osservazione che non è riserva.

L'approssimarsi della messa in pratica del programma Socialista non deve essere considerato senza tenere sempre presente la barriera che ce ne separa nettamente nel tempo, lo stabilirsi di una condizione pregiudiziale, cioè la conquista di tutto il potere politico della classe lavoratrice, problema che precede l'altro e sui processi del quale ancora c'è tanto da risolvere e definire.

Potrebbe lo studio concreto delle vitali applicazioni Socialiste trascinare alcuno a porle fuori dall'ossigeno, che le alimenta, della dittatura del proletariato, per considerarle compatibili cogli istituti attuali, scivolando verso il riformismo.

Il massimalismo vede sotto una luce perfettamente realistica il complesso corso della trasformazione dell'economia capitalistica in quella comunistica ch'esso appoggia su una base anche reale e concreta: la rivoluzione politica, rifiutandosi di avere, fino al trionfo di questa, altro compito concreto che quello di preparare ad essa le masse proletarie.

È un pericolo possibile che abbiamo voluto additare più per uno... scrupolo ortodosso che per timore che incorrano in esso i compagni dell'"Ordine Nuovo"".

L'agosto e il settembre 1919 erano frattanto contrassegnati da lotte operaie altrettanto estese quanto quelle dei mesi precedenti.

Si segnalano imponenti scioperi di tessili (30.000 nel Comasco, fra il 31-7 e l'1-8), di tipografi, di marittimi. Soprattutto riesce grandioso lo sciopero dei metallurgici lombardi, liguri ed emiliani, che si trascina compattissimo dal 9 agosto al 27 settembre (firma del concordato di Roma sui minimi di salario), dando luogo a manifestazioni di solidarietà di rara imponenza e trascinando nella lotta oltre 200.000 salariati d'industria.

In tutto questo periodo la direzione dello sciopero non ha incertezze né tentennamenti; i comunicati hanno il sapore di bollettini di guerra (agli scioperanti, ai non scioperanti, ai lavoratori di altre categorie, alla popolazione; organizzazioni di vettovagliamento per gli scioperanti; comizi e cortei di solidarietà). Si avverte un primo sintomo di propositi che si concreteranno nell'anno successivo: a Milano, il 6 settembre, il "comizio dei metallurgici... dichiara che la classe operaia è disposta e pronta… ad assumere la gerenza delle industrie non più a vantaggio del profitto padronale e individuale, ma per il benessere del Paese e della collettività".

Un episodio di squadracce bianche all'attacco dei circoli socialisti e sindacali si ha a Trieste il 4 agosto: carabinieri, arditi e poliziotti assalgono e devastano le sedi riunite delle organizzazioni operaie, procedendo a circa 420 arresti e ferendo 20 persone. È dichiarato lo sciopero generale.

A metà settembre, grande e fortunato sciopero dei lavoratori della terra nelle province di Pavia e Novara per le 8 ore e un nuovo patto colonico.

Questa stessa fase fa da prologo al congresso socialista di Bologna, e presenta lo svolgimento di una vivissima polemica condotta da tutto il partito. Non possiamo certo riportare qui gli innumeri articoli dell'Avanti! e del "Soviet".

Il quotidiano del partito del 21 agosto 1919 reca un dibattito dal titolo: "Preparazione rivoluzionaria o preparazione elettorale?". Allo scritto, che è di un compagno della frazione astensionista, risponde per il giornale Luigi Salvatori. Appunto perché si tratta di un elemento indubbiamente rivoluzionario, sebbene fautore dell'elezionismo, è interessante dare qualche cenno delle opposte argomentazioni. Salvatori che era uomo leale e non demagogico ci è qui ottimo testimone che gli astensionisti non erano i barricadieri estremi, i violentisti convulsi ed isterici, ma erano rivoluzionari marxisti che seguivano bene il corso della storia, e capivano il determinismo. Salvatori si dice più volontarista: è certo che noi non lo siamo stati mai. La volontà non può fare le rivoluzioni né il partito può crearle, le può favorire e lo deve con la sua azione cosciente sbarrando a tempo le direzioni false in cui l'opportunismo trascina la generosa folla, e forza, proletaria. La risorsa che allora la storia offriva e che il partito si lasciò sfuggire, proprio per difetto deplorevole di maturità teorica marxista, era di sbarrare la strada alla manovra nemica, che sapeva come aprendo il flusso alle urne avrebbe scongiurato l'urto della fiumana rivoluzionaria. Se il proletariato, liberandosi dalle illusioni democratiche, avesse bruciati dietro di sé il vascello parlamentare, la lotta sarebbe finita ben altrimenti. Il partito rivoluzionario aveva il dovere di tentare questo sbocco grandioso, buttandosi di traverso all'altro. Ma il partito, rivoluzionario non era.

L'articolista svolge questo concetto: "Anche se il rimanere senza rappresentanti parlamentari, anziché un vantaggio - come noi, suffragati da lunga esperienza, fermamente crediamo - fosse un pericolo, tale pericolo non sarebbe nemmeno lontanamente paragonabile a quello di compromettere ed anche ritardare soltanto la preparazione rivoluzionaria del proletariato alla conquista della propria dittatura" (15).

Il commentatore dice: "Non è che noi vogliamo allontanare la rivoluzione (ché in materia abbiamo concetti più semplici, più scavezzacolli, più volontaristi (sic) di quelli rigidamente e freddamente teorici del compagno autore dell'articolo), ma se la rivoluzione, che è cosa [forse era più giusto dire fatto] e non volontà, si trovasse ancora allo stato potenziale senza essere ancora sboccata nella fase dinamica... sarebbe proprio rispondente alla serena obiettività marxista lanciare il partito nel negativismo elettorale?"

Il soppesare le persone dei rivoluzionari o dei marxisti è cosa fessa e sciocca. A noi oggi in sede storica e di valutazione dei moti collettivi, interessa sommamente per la sinistra accettare la qualifica di freddi e rinunziare a quella di scavezzacolli. A mancata rivoluzione, il parlamentarismo ha messo all'attivo altri quarant'anni di infami devastazioni.

La colpa del massimalismo elettorale è palese, anche se per obiettività marxista lo abbiamo fatto parlare per bocca di uno dei suoi più leali esponenti.

29. Intermezzo ai volumi che seguiranno (16)

Partendo dalle prime origini del movimento proletario internazionale e dalle complesse vicende della sua diffusione in Italia, abbiamo visto delinearsi dal 1880 circa, e prendere solidamente corpo dal 1910 in poi, una corrente di sinistra rivoluzionaria che, nel periodo immediatamente precedente la guerra mondiale 1914-1918, poggiò su basi teoriche sicure e svolse in un'incessante battaglia pratica la lotta contro il duplice revisionismo riformista e "sindacalista", rimettendo ordine in concetti fondamentali come il rapporto fra partito e organizzazioni economiche immediate, programma massimo e rivendicazioni minime, centro dirigente del partito e organismi periferici, socialismo e cultura, socialismo e religione (e, a fortiori, chiese costituite), socialismo e massoneria, o come le questioni scottanti dei blocchi elettorali, dei limiti dell'azione parlamentare, dell'atteggiamento del partito di fronte all'irredentismo, e via elencando.

Lo scoppio della prima guerra mondiale non solo non incise sulla combattività dell'estrema sinistra, ma la rinvigorì e le diede un carattere di urgenza insieme lucida e appassionata. Le citazioni contenute nella parte espositiva e ancor più i testi riprodotti nella seconda valgono a provare come, di fronte all'onesto ma tentennante e in ogni caso teoricamente insufficiente "neutralismo" della Direzione e ai paurosi sbandamenti di una destra intollerante di ogni disciplina alle direttive centrali del partito, la sinistra comunista difese sulla stampa "adulta" e giovanile e in frequenti riunioni di partito le stesse tesi che la sinistra internazionale di Zimmerwald e Kienthal proclamò e sostenne nella stessa drammatica fase, malgrado l'assenza di legami diretti al disopra dei confini di Stato.

Si deve alla continuità di questa battaglia teorica e pratica se, fin dai primi giorni di "pace", la sinistra poté, sia nella stampa centrale e nelle riunioni nazionali di partito, sia attraverso il suo combattivo organo, "Il Soviet" di Napoli, lanciare una rovente offensiva tanto contro la destra apertamente e francamente riformista e democratica, quanto contro l'equivoco e ancor più pericoloso "centro" massimalista, roboante e confuso nelle sue velleità rivoluzionarie come restio a separarsi dalla destra e ad abbracciare senza riserva il programma della Terza Internazionale mediante il rifiuto irrevocabile e definitivo del metodo legalitario.

Di fronte a una situazione internazionale e nazionale, che vedeva da un lato le masse proletarie scendere sul terreno della lotta aperta contro l'avversario di classe onusto dei cruenti allori dell'immane carnaio bellico, e dall'altro il partito socialista rincorrere il fantasma di successi elettorali sacrificando ad essi la preparazione rivoluzionaria del proletariato ad una presa del potere che la corrente del "Soviet" non credette mai vicina, ma che sapeva non sarebbe mai stata possibile perdurando l'equivoco di un partito rivoluzionario a parole e legalitario nei fatti, la sinistra comunista vide nella rivendicazione dell'astensionismo elettorale - su basi non solo diverse, ma opposte a quelle proprie dell'ideologia anarchica o sindacalista - il più efficace catalizzatore del processo di separazione sia dai riformisti, che dai falsi rivoluzionari massimalisti. Ma questa rivendicazione di carattere, se così ci è permesso dire, strumentale, fu ben lungi dal costituire il tratto distintivo e il contenuto vero della corrente di estrema sinistra, e, nella lotta di questa, le elezioni del 1919 furono l'ultimo pensiero. Come dimostrano le pagine procedenti, ma soprattutto i testi che per il periodo autunno 1918 - estate 1919 riproduciamo nella seconda parte, il punto ardente, per noi, non era già che si sperasse di distogliere in quel torno il Partito dalla cronica malattia elettorale, ma di discutere per quali vie dell'avvenire potesse enuclearsi una possibilità della classe proletaria italiana, parte di quella europea, di muovere la sua battaglia di classe e di uscirne non vinta ma vincitrice. I punti fondamentali, per quella che allora si chiamò la "Frazione Comunista Astensionista", erano (e saranno il tema delle roventi battaglie di Bologna 1919, Mosca 1920, Livorno 1921, e di tutti i giorni e mesi intercorsi fra questi estremi, cui sarà dedicato un successivo volume) i seguenti, di cui la raccolta di testi che segue (soprattutto ma non solo per il 1918 e 1919) è la smagliante testimonianza:

1) Affermazione delle basi teoriche del marxismo rivoluzionario e della sua prospettiva del trapasso dal potere capitalistico a quello operaio e, per ulteriore svolgimento storico, dalla economia privata al socialismo e al comunismo;

2) Affermazione che la dottrina e il programma della Terza Internazionale di Mosca non erano un risultato nuovo ed originale della Rivoluzione russa, ma si identificavano con i canoni marxisti del punto precedente;

3) Affermazione della necessità che il nuovo movimento successivo al fallimento della Seconda Internazionale nascesse nazionalmente ed internazionalmente attraverso una spietata selezione e scissione dagli elementi revisionisti e socialdemocratici;

4) Posizione presa dalla Sinistra contro molteplici erronee e demagogiche enunciazioni dei massimalisti del tempo e contro la loro ridicola prospettiva dell'atto rivoluzionario in cui in realtà non credevano (lo "sciopero espropriatore"!); ed anche contro la prematura proposta di formare artificiosamente i Soviet e la non meno erronea costruzione propria degli ordinovisti di Torino che vedevano la società nuova già costruita cellula per cellula nei consigli industriali di fabbrica;

5) Dimostrazione che, malgrado i banali riferimenti all'astensionismo degli anarchici, i comunisti respingevano e consideravano anti-rivoluzionarie tutte le correnti posizioni anarco-sindacaliste, specie in quanto rifiutavano la dittatura statale da parte del partito politico di classe;

6) Giudizio sullo svolgimento politico italiano, che non consisteva nella proposta bruta di scatenare illico et immediate la rivoluzione armata, appunto perché fase storica pregiudiziale a questa avrebbe dovuto essere la costituzione del vero Partito comunista e un'adeguata conquista della sua influenza sull'avanguardia del proletariato; e previsione che la prospettiva ottima per la conservazione del potere borghese in Italia era la persistenza nei partiti proletari di una posizione indefinita tra la preparazione dei mezzi rivoluzionari e l'uso dei mezzi legalitari, e il tentativo - che a distanza di decenni ha finito per trionfare - di attirare una larga schiera di pretesi esponenti della classe operaia prima nel parlamento, poi nella macchina governativa statale.

Di là dalla polemica sull'astensionismo, saranno questi gli stessi punti-chiave del II Congresso dell'Internazionale nel 1920, i punti sui quali si batteranno insieme Lenin, il partito bolscevico e quella sinistra che scioccamente gli storici dissero e dicono "italiana".

Note:

13. Per Il Soviet 1918-19 cfr. l'Archivio.

14. N. Cilla, Effetti economici del fascismo, Biblioteca del Comitato sindacale del PCd'I, Milano, 1925.

15. Cfr. "La marea rossa", Il Soviet del 30 marzo 1919.

16. Questo capitolo è stato omesso nell'edizione del 1973.

FINE

Da "Il Programma Comunista", dal n. 11 del 1961 al n. 3 del 1963. Ristampato in due volumi nelle "Edizioni il programma comunista", 1964.

Archivio storico 1952 - 1970