Storia della Sinistra comunista Vol. III - Parte quinta
Dal II al III Congresso dell'Internazionale Comunista. Settembre 1920 - giugno 1921

V. Il congresso di Livorno e i primodi del PCd'I

E' un'ironia della storia che un Congresso, come quello di Livorno, annunciatosi imponente per numero di delegati e rappresentativo dell'influenza del PSI sulla classe operaia italiana e del suo peso nella vita politica nazionale si sia poi risolto nella più clamorosa manifestazione del suo declino e, in particolare, della fragilità della sua direzione.

Trionfatore a Bologna nella tarda estate 1919, a Livorno il massimalismo tocca il punto più basso delle sue fortune: è bastato un anno e mezzo di "esercizio del potere" al vertice del partito per mostrare l'inconsistenza delle sue basi teoriche e l'incertezza o la vacuità della sua azione pratica; costretto a difendersi su tutti i fronti, ma incapace di farlo attaccando, esso, che pur vanta il controllo dell'enorme maggioranza della base, cerca rifugio dalla violenza dell'assalto nella polemica spicciola, negli "scampoli" di una lotta interna accettata per dovere d'ufficio e sostenuta quasi con fastidio. Non ha né idee né vitalità proprie: mendica le prime alternativamente a destra e a sinistra; va debitore della seconda all'attivismo degli organizzatori sindacali, degli amministratori municipali, dei grossi calibri del partito in parlamento: dunque, ancora una volta, al riformismo. Stretto fra due ali estreme alle quali non manca né la coerenza nell'indirizzo programmatico, né la fermezza nel difenderlo, non ha argomenti per giustificare la propria esistenza sia di fronte a una destra dalla quale vorrebbe differenziarsi, ma di cui subisce il fascino e il ricatto, sia di fronte ad una sinistra che sa depositaria dei principi e del programma nei quali, in teoria, risiede la sua legittimazione, ma che, in pratica, significano la sua condanna: posto dalla seconda nella necessità di scegliere tra due versioni contrastanti della "dottrina comune", accetta la versione social-democratica, fingendo di credere di poterla così vincolare ad una via propria, che in realtà non esiste.

Come stupirsi che il massimalismo assista da spettatore disorientato al dibattito congressuale, subendolo nei suoi sviluppi invece di dirigerlo? E che il Congresso sia sostanzialmente dominato dall'ala sinistra, l'unica in grado di dargli un'impostazione analoga - fatte le debite proporzioni - a quella dei Congressi costitutivi del Comintern, tutt'e due intesi a riproporre i principi del marxismo rivoluzionario come unica base di partenza per la definizione di un "piano tattico" generale, mentre il solo tentativo di risponderle su un terreno che almeno cerchi di avvicinarvisi viene dalla destra e, in particolare, dal più conseguente dei suoi portavoce, Filippo Turati?

1. - Prime battute del Congresso

Per non rincorrere gli aspetti esteriori del XVII Congresso del PSI, conviene seguire non lo svolgimento cronologico, ma i filoni principali del dibattito prolungatosi nel Teatro Goldoni di Livorno dal 15 fino al 21 gennaio 1921, giorno di quello che il Resoconto stenografico chiama il "distacco dei puri".

La direzione si era illusa che, rispettando l'o.d.g. stabilito in base ai canoni convenzionali delle adunanze di routine, il Congresso avrebbe limitato al minimo la discussione sull'indirizzo politico dando invece largo spazio sia ai bilanci di attività, sia ai piani di intervento nei diversi settori della vita politica nazionale ed internazionale, col vantaggio di ridurre il campo delle divergenze ai problemi di applicazione pratica di un preteso indirizzo unitario. Le questioni di fondo battevano tuttavia con tale insistenza alle porte del Congresso, che non era passata mezz'ora, e già i saluti delle delegazioni "estere" sconvolgevano le norme del protocollo. Paul Levi, per il KPD, traeva dalle sanguinose esperienze del proletariato tedesco l'ammaestramento che "l'unità del partito non è sempre un bene supremo", che "ci sono momenti della vita di un partito, nei quali non si può marciare uniti, nei quali le vie si separano e noi dobbiamo dividerci […]; in cui chi è stato nostro fratello ieri non lo è più oggi, non lo sarà più domani". Il noto telegramma dell'Esecutivo del Comintern poneva con forza l'alternativa di rompere coi riformisti o mettersi fuori dell'Internazionale. I Partiti svizzero e austriaco si dichiaravano convinti che il proletariato italiano avrebbe allontanato dalle proprie file "i socialopportunisti, i traditori degli interessi proletari", e quello spagnolo si rammaricava per lettera di non poter intervenire al Congresso al fine di "combattere a Livorno il serratismo corruttore" insieme a "tutti i centrismi, da qualunque parte vengano". Infine Tranquilli, a nome della Federazione giovanile, chiedeva "ai rappresentanti comunisti di bruciare il fantoccio dell'unità", e tutti insieme scatenavano le prime gazzarre che infioreranno il più tempestoso di tutti i Congressi del PSI dal giorno della sua fondazione.

Rotti i vincoli del protocollo, l'ordine del giorno andò in frantumi. Misiano non ebbe quindi difficoltà ad ottenere l'assenso alla proposta (già contenuta nell'articolo L'ordine dei lavori del Congresso di Firenze apparso nel numero I de Il Comunista) di invertirlo in modo che il punto 6° sull'indirizzo politico del partito diventasse il 1°, conglobando anche quello sulle tesi del Congresso di Mosca. Soltanto dopo i congressisti, se credevano di doverlo fare (ma era chiaro che la cosa avrebbe perduto ogni senso), sarebbero passati a discutere il rapporto ufficiale della Direzione. Il cambiamento di programma diede al Congresso, anche sul piano formale, la sua impronta definitiva: "storico" esso sarebbe stato - per usare il termine di Giovanni Bacci nel discorso di apertura -, ma in senso opposto a quello auspicato dalla maggioranza, cioè come scontro fra ali ormai inconciliabili del movimento operaio (1).

2. - Tre prime voci discordi

Del discorso del primo oratore, Antonio Graziadei, diamo appena il cenno necessario per farsi un'idea sia del personaggio, fondamentalmente legato alla tradizione secondinternazionalista anche se schieratosi con sincera convinzione sul fronte del comunismo rivoluzionario, sia di quella che poi sarà una corrente, di per sé insignificante ma, nel 1923-24, forte dell'appoggio di Mosca, in seno al PCd'I. Tutto ispirato al pragmatismo tipico dell'uomo, esso si muove lungo tre assi principali:

  1. Non si può essere, come i massimalisti serratiani, fieramente unitari in patria e scissionisti sul piano internazionale, cioè nei confronti di Mosca; tanto meno lo si può in tempi in cui "nessun movimento nazionale, anche se apparentemente florido, può avere valore di efficacia se non si appoggia al grande tronco dell'organizzazione internazionale".
  2. Le tesi del II Congresso non contengono nulla che non fosse implicito nei documenti costitutivi del Comintern, nulla dunque che possa essere interpretato come innovazione: contengono però anche il concetto essenziale che
    "viviamo in un periodo storico rivoluzionario prodotto dalla guerra, e in questo periodo non ci sono che due vie da scegliere: una è quella […] di chi ritiene che la conquista del potere politico è possibile solo in un periodo successivo e ancora molto lontano; l'altra, quella di chi ritiene che, appunto perché attraversiamo un periodo storico rivoluzionario, gli animi non debbano essere disarmati, ma armati con coscienza e consapevolezza morale, materiale e spirituale […] Se [ecco riaffiorare il "patriarca del revisionismo italiano"] vivessimo in un periodo storico come quello anteriore, in cui la ricchezza, sia pure attraverso l'ingranaggio borghese, si accresceva sensibilmente e la classe operaia poteva ottenere grandi vantaggi materiali e anche morali, certamente ragionerei in altro modo, cioè come ragionavo allora, perché ho sempre pensato che i periodi storici rivoluzionari non si inventano per magia di uomini o di romantici; ma, poiché viviamo in un altro periodo, quello in cui l'economia borghese non può più dare miglioramenti veri alla classe operaia […], [in cui] le conquiste economiche non sono più possibili e la democrazia ha fatto cadere tutti i suoi veli, allora al proletariato non rimane [...] che porsi come primo problema quello della conquista del potere politico".
  3. In un simile periodo, diviene incolmabile l'abisso tra
    "coloro che vogliono conquistare il potere politico al più presto possibile e gli altri che credono che il marxismo sia una cosa meccanica che deve attendere che il capitalismo abbia dato luogo a tutte le sue leggi di accumulazione, per poi, fra venti, trenta, quaranta anni, andare alla conquista del potere politico".
    Quand'anche gli unitari riuscissero a mantenere l'"unità" del partito, questo sarebbe perciò di nuovo condannato a spezzarsi dopo aver fatto perdere un tempo prezioso alla classe lavoratrice. Non a caso, a Reggio Emilia, Turati ha parlato dell'esistenza di due scuole in seno al PSI: possono due scuole convivere?
  4. Almeno una parte degli unitari è recuperabile, a condizione di procedere nei loro confronti con un po' di tatto: "la vera formula di riorganizzazione del partito" dovrebbe quindi, a differenza della troppo rigida formula imolese,

"essere tale che dicesse, senza entrare nel passato […] che, da ora innanzi [!!!], prima che il Congresso si chiuda, tutti coloro i quali non dichiareranno di accettare per libero consenso le tesi e le condizioni della Terza lnternazionale e non si impegneranno ad applicarle subito, finito il Congresso, costoro, con nostro dolore, si renderanno incompatibili con la permanenza nel Partito e nella Terza Internazionale".

Conclusione ultima ma significativa:

"Se la divisione deve avvenire, è inevitabile che avvenga a destra anziché a sinistra, avvenga separando i più lontani anziché i più vicini. Ma se, malgrado la nostra buona volontà e l'onestà dei nostri fini, ciò non dovesse avvenire, noi, disciplinati perché liberi, liberi perché disciplinati di fronte alla Terza Internazionale, voteremo per la Terza Internazionale, voteremo per la frazione comunista".

In conformità a questa dichiarazione, due giorni dopo Marabini inviterà i compagni di corrente a votare "per quella mozione che sarà riconosciuta dai rappresentanti autorizzati del Comintern". Ciò non toglie che fino all'ultimo, in colloqui ai margini del congresso e in presenza dei due delegati di Mosca, tanto lui quanto Graziadei cerchino - inutilmente - di convincere Serrati ad accettare la loro formula (2).

La posizione dell'Internazionale è bene espressa dal successivo discorso di Christo Kabakčev (3). Esso inquadra il problema della scissione del PSI in quello più generale del compito - imposto dalla "nuova epoca rivoluzionaria aperta nella storia dalla crisi economica e finanziaria creata dalla guerra" e realizzabile solo a patto di trarre profitto dalle colossali esperienze della rivoluzione russa - di "unificare la lotta rivoluzionaria del proletariato internazionale e dirigerla verso lo scopo supremo: la conquista del potere politico e l'instaurazione della dittatura proletaria". Non è che - come sosteneva Graziadei - un'epoca anteriore abbia imposto compiti di segno opposto: è che la "nuova epoca" ridà straordinaria evidenza ai principi di cui, in anni precedenti, si era in parte smarrita la nozione:

"L'imperialismo e la guerra imperialistica hanno aperto un epoca nuova di battaglie e di rivoluzioni. Nonostante il tradimento della 2a Internazionale, una parte del proletariato, prima minoranza insignificante, in seguito minoranza sempre più forte, è rimasta fedele alle tradizioni rivoluzionarie del marxismo. Sotto la bandiera del marxismo ha vinto il proletariato russo, sotto la sua bandiera oggi si radunano nell'IC milioni di operai. La nuova epoca rivoluzionaria esige metodi di lotta e di organizzazione rivoluzionari. Chi non è capace di comprendere e di adottare questi metodi, sarà schiacciato e respinto dalla corrente vittoriosa della rivoluzione proletaria. Tale è, e non può essere altro, il destino dei centristi italiani, se essi non si correggono e non dimostrano di essere in grado di comprendere i doveri della rivoluzione".

Se d'altra parte la situazione internazionale aperta dalla guerra e dalla crisi postbellica è intrinsecamente rivoluzionaria, lo è pure la situazione italiana; e l'oratore crede di poterlo dimostrare analizzando le condizioni economiche, sociali e politiche del paese e gli sviluppi della lotta proletaria in risposta ad esse. Il PC ha quindi

"un dovere supremo ed urgente: quello di creare subito un'organizzazione ben centralizzata e disciplinata del proletariato italiano, di unificare e coordinare gli sforzi rivoluzionari parziali in un grande e profondo movimento rivoluzionario e di dirigerlo coscientemente verso la conquista del potere politico e l'instaurazione della dittatura proletaria. In seguito, il PC ha il dovere supremo ed urgente di unire le forze proletarie d'Italia con quelle degli altri paesi d'Europa e del mondo intero […] per assicurare ed affrettare la vittoria della rivoluzione. E' ormai tempo che i proletari e i socialisti rivoluzionari d'Italia prendano coscienza di questo dovere. Non vi è un giorno, non vi è un'ora da perdere per creare un Partito comunista solido, bene organizzato, centralizzato, disciplinato, penetrato della coscienza della necessità della prossima rivoluzione e preparato alle più grandi lotte".

Efficacissima nel mettere in risalto i compiti storici del movimento e nel denunciare le fatali esitazioni non solo dei riformisti, ma dei centristi, non come gruppo amorfo di individui, ma come corrente organizzata ("Non vi è più tempo per le esitazioni. Ognuno deve scegliere il suo posto nella lotta: a sinistra o a destra. La rivoluzione proletaria ha diviso il mondo in due campi: non vi è posto per un centro nella rivoluzione"), l'arringa ha il suo punto debole nell'identificazione della tendenza storica della situazione mondiale con il carattere immediato di questa stessa situazione, che assume perciò - specialmente riguardo all'Italia - l'aspetto, ovviamente forzato, di situazione prerivoluzionaria o comunque prossima a divenirlo (4), dando così l'impressione che la rottura con l'opportunismo socialdemocratico non venga posta come questione di principio, sia pure rafforzata da ragioni obiettive, ma fatta dipendere dai puri e semplici dati della contingenza e che l'antitesi fra le due "scuole" tenda a ridursi ad una diversità di valutazione dei rapporti di forza fra le classi e delle prospettive di intervento risolutore del partito; ovvero ad una maggiore o minor capacità di riconoscere la portata oggettivamente rivoluzionaria della situazione.

Sia pure involontariamente, una simile impostazione portava acqua al mulino del tentativo - fatto per la maggioranza dei massimalisti da Adelchi Baratono -, di giustificare la difesa coûte que coûte dell'unità del partito, mentre andava nel senso della tesi del gruppo Graziadei-Marabini secondo cui l'accettazione dei 21 punti era dettata da condizioni oggettive della cui portata i massimalisti avevano il solo torto di non rendersi conto. L'oratore ufficiale degli unitari si aggrappa infatti a quello che gli sembra un provvidenziale ramoscello d'olivo: a sentir lui, il disaccordo con Mosca non verte su nessuna delle tesi del II Congresso e, quindi, su nessuno dei principi marxisti, bensì sul giudizio sui fatti d'Italia. Questi fatti, l'Esecutivo del Comintern li vede in una luce distorta per quel che riguarda sia la situazione oggettiva in cui il partito si muove, sia la natura e il peso delle correnti esistenti nel suo seno; lasci dunque che in materia decidano i compagni a diretto contatto con la realtà nazionale del paese, e otterrà tutta la disciplina internazionale che giustamente chiede!

Il guaio è che, per gli unitari, le "speciali condizioni" dell'area italiana sono tanto speciali, che i riformisti appaiono tali soltanto a metà, non rappresentano quindi un vero pericolo per la rivoluzione, mentre le organizzazioni e istituzioni da essi controllate costituiscono dei "fortilizi" l'abbandono dei quali (o anche solo il loro passaggio in mani meno esperte) segnerebbe il principio della sconfitta rivoluzionaria. Da un lato, non esiste in Italia una vera frazione collaborazionista, che "porti cioè come suo programma e cerchi di attuare nella sua attività di partito la tendenza a collaborare colla borghesia"; dall'altro essa contiene uomini e persone dalla "mentalità non precisamente riformista ma riformistoide", consistente "nel collocare la meta più in qua della rivoluzione, senza però negare la rivoluzione", nel "guardare l'immediato presente o vivere nella sfera del parlamentarismo e del possibilismo contingente, senza escludere [!!] che domani si possa, si debba, si voglia fare la rivoluzione". A questi individui sparsi è giusto chiedere "disciplina nell'azione" (e, se sgarrano, colpirli con misure disciplinari individuali) ma sarebbe assurdo espellerli, in blocco e a priori, come tendenza. Bisogna presentar loro (ma anche ai compagni di sinistra, non meno colpevoli di eterodossia) la "cambiale" della mozione unitaria. Poiché questa "accetta i 21 punti nella loro integrità [!!]", il problema è bell'e risolto:

"chi la firmerà sarà con Mosca, sarà con l'Internazionale […] sarà con la rivoluzione, sarà con la dittatura del proletariato [...] sarà per la concentrazione più stretta delle nostre forze, per la subordinazione più stretta dell'organizzazione sindacale verso il partito", ecc. ecc.; "se mancherà, da destra come da sinistra, ci vorrà disciplina, inflessibile rigore".

Stabilito che il disaccordo con Mosca verte "su particolari, su contingenze di fatto", il massimalismo italiano fila via sul più liscio dei tappeti. Per Mosca, la destra in Italia è tanto corrotta da rappresentare un pericolo per la rivoluzione? I massimalisti, giudici competenti del "colorito speciale di questa corrente", rispondono che riformismo e rivoluzione qui da noi non si escludono; la destra "non è una causa della mancata rivoluzione, ma ne è, se mai, un effetto"; la sua esistenza dimostra "che le condizioni d'Italia sono tali che questi nostri destri sono ancora oggi compatibili, o erano ancora ieri compatibili, nelle nostre file". A parere dell'Esecutivo del Comintern, la "disperata miseria" delle masse prova l'esistenza in Italia, ora o al tempo dell'occupazione delle fabbriche, di una situazione prerivoluzionaria? I giudici competenti del massimalismo rispondono che, è vero, "la miseria ci sarà, perché precipitiamo verso la disoccupazione e la fame" (rimandiamo dunque all'avvenire una preparazione rivoluzionaria che solo allora sarà giustificata dai fatti), ma "disperata miseria non c'era nel giorno nel quale, secondo Mosca, noi avremmo dovuto fare la rivoluzione e non l'avremmo fatta per l'intervento dei socialisti di destra"; quando, dunque, avevamo ragione di non occuparci di una preparazione rivoluzionaria che i fatti non giustificavano ancora. D'altronde, era proprio il caso di prepararsi a fare la rivoluzione? Non sarebbe stato meglio accettare "un punto di vista rivoluzionario ma intermedio" (splendida definizione del pensiero massimalista), consistente nel non "chiedere tutto ad un tratto la presa di possesso di tutti gli stabilimenti", ma nell'"accontentarsi che gli operai non uscissero più dalle fabbriche ormai diventate loro per legittimo impossessamento"? Se così si fosse agito, l'avversario sarebbe Stato abbandonato perfino dal suo governo e, in possesso di alcune fabbriche, "si poteva anche allargare il movimento".

L'argomento principe è tuttavia un altro. Visto che tutto si riduce a particolari e in fondo secondarie differenze di giudizio, i massimalisti chiedono:

"Nella valutazione delle condizioni per la riuscita di una rivoluzione, ci volete o non ci volete mettere anche l'elemento che si chiama psicologia dell'operaio; che si chiama preparazione delle masse; che si chiama psicologia di coloro che dirigono e sempre dirigeranno le organizzazioni, perché, anche quando ci andrete voi, i più puri tra i comunisti, i più ardenti fra i comunisti, dovrete fare un'opera nello stesso senso che la fanno loro?".

Ecco, per esempio, a proposito di psicologia: si può certo ammettere che "a un dato punto della vita politica, si possa e si debba imporre agli altri" qualcosa come la dittatura proletaria diretta, o addirittura incarnata, dal partito. Ma il portavoce della direzione massimalista nega che "si possa assumere ciò come nostro programma", perché "se voi intendete accaparrarvi il diritto ad una rivoluzione proletaria in Italia nel senso di dare l'assoluto potere nelle mani di una piccola minoranza, non potreste mantenere questo potere in Italia come in Russia, appunto perché la psiche italiana è diversa da quella russa, perché noi non siamo orientali, e questo consesso lo dimostra ampiamente". Quanto alla preparazione delle grandi masse, gli unitari, mentre sono con tutta l'anima per la rivoluzione e la dittatura proletarie, non condividono l'idea purtroppo diffusa fra i compagni che,

"per impossessarsi del governo politico, quello che importa è l'assalto frontale, è l'assalto sulla piazza, è il fatto della conflagrazione armata […]. Se così fosse, noi dovremmo disperare immediatamente della rivoluzione, perché non avremmo mai un esercito sufficiente da contrapporre all'esercito della borghesia […]; perché, per quanto la nostra preparazione segreta fosse rafforzata e intensificata, non avremmo mai armi sufficienti che, come forza bruta, come violenza, si possano contrapporre alla forza bruta, alla violenza legalizzata".

Arrivati a questo punto di non ritorno, due sono le strade che il massimalismo, sollevandosi dal regno delle "valutazioni di fatto" a quello dei principi validi per tutti i casi e tutte le organizzazioni, indica alla classe operaia. La prima consiste nell'

"andare alla rivoluzione non abbandonando quel potere reale, effettivo, che abbiamo conquistato fino ad oggi, non abbandonando i fortilizi della nostra battaglia, non abbandonando le nostre organizzazioni, i nostri Comuni, la nostra posizione in Parlamento, l'autorità che abbiamo dappertutto, non abbandonando quello che è già il patrimonio del più grande, del più rispettato partito che esista in Italia", anche se tutta questa autorità è tale che "il solo fatto che siamo fuori della legge, e che la violenza che ci si contrappone, fosse anche minore, è protetta dalla legge, questo solo fatto ci mette in un'inferiorità schiacciante" (5).

La seconda consiste nel porre la violenza "a servizio di un'idea" e "in modo tale che la forza dell'idea compensi la debolezza della nostra forza materiale", formula che, retorica a parte, equivale alla rinuncia alla preparazione materiale della violenza di classe con la scusa che compito dei comunisti è la preparazione dei presupposti… ideali della forza.

3. - Da Lazzari e Serrati a Turati

Queste precisazioni "teoriche", che da sole dovrebbero disperdere tutti i "malintesi" circa la violenza, la rivoluzione, la dittatura ecc., sono invece la prova inconfutabile che l'equazione massimalismo = riformismo è rigorosamente esatta. Lo prova anche il fatto - in cui ci sembra di poter riassumere tutto il senso della posizione della maggioranza di centro e di destra a Livorno - che non v'è argomento svolto da Baratono in polemica con la Sinistra che non ritorni, con mille varianti, negli interventi successivi sia dei "concentratori", sia degli "unitari", sia degli "intransigenti".

Al tema della "forza morale" contrapposta alla "violenza fisica" dedicano infatti buona parte dei loro interventi sia Lazzari che Vacirca a nome della frazione... "intransigente". Secondo il primo, il cui patetico discorso è tutto una rivendicazione dei meriti storici del PSI e un'esortazione ai giovani perché ne seguano le orme, il partito sconterebbe ora il peccato di aver introdotto "negli usi, nelle abitudini, nei programmi, come mezzo di azione, il mezzo della violenza, [metodo] che è ripugnante in un Partito sorto, come il nostro, per reazione contro il vecchio culto e il vecchio fanatismo di credere che le questioni sociali possano essere risolte col mezzo della violenza" invece di prendere esempio dalla "violenza morale" dei primi cristiani, vittoriosi benché inermi sulla "violenza armata" dell'Impero romano. Il secondo spiega come "il regime borghese abbia tanta forza da schiacciare fin dall'inizio i nuclei organizzati e armati", per concluderne, con l'appoggio di… Marx, che della violenza ci si può e ci si deve servire solo "di fronte a un'ultima resistenza della conservazione borghese".

Il tema della particolare psicologia italiana è ripreso, per la destra, particolarmente da Baldesi: una ferrea dittatura è ammissibile nei "paesi indubbiamente arretrati, che non hanno una fitta organizzazione economica e cooperativa", mentre in Italia una "dittatura del tipo russo [...] non reggerebbe nemmeno 15 giorni", dato che "non abbiamo il carattere, la possibilità, la capacità di sottometterci; siamo profondamente un po' anarchici tutti quanti, noi italiani".

Ancora Vacirca si rifà al tema del blocco economico avanzando seri dubbi sugli aiuti che la classe operaia degli altri paesi sarebbe disposta a fornirci, mentre Serrati agita l'argomento da lui preferito della necessità di "non compromettere le organizzazioni economiche", il che equivarrebbe a "voler compromettere la rivoluzione stessa in ciò che ha di più geloso, di più delicato, che è il movimento di ricostruzione" ("oh! è facile abbattere; più difficile - e lo sanno i nostri compagni di Russia - è il ricostruire").

Insomma, è tutta una gara a chi più metta in rilievo le difficoltà, i rischi e, specialmente, le "impossibilità" della rivoluzione proletaria in Italia; a chi più semini sfiducia nelle proprie forze e terrore riverenziale per le sublimi capacità dell'avversario. A proposito di Serrati, va aggiunto che il suo discorso - tutto intonato alle "polemichette" di dettaglio (6) - non è che una lunga requisitoria contro "l'opportunismo di sinistra" in seno all'Internazionale, intesa ad ottenere che Mosca usi verso il riformismo italiano almeno la stessa tolleranza che verso quello francese, come se, dato che fosse davvero esistito un "revisionismo moscovita", il problema fosse stato non già di cercare di arginarlo, ma di favorirne, per amore... di giustizia distributiva, la massima espansione.

Il solo discorso che, dall'altra parte della nostra barricata, si elevi al di sopra della contingenza per cercar di inquadrare i problemi dell'oggi in una visione di insieme, collegandoli al filo di una tradizione di battaglia per dar loro continuità e coerenza, è quello di Turati. Non per la prima volta nell'arco di tre decenni, il "grande isolato" polarizza nel suo breve intervento tutti gli umori socialisti del Congresso: è di qui che si capisce l'insistenza di Serrati affinché non si getti al vento quello che, malgrado tutto, è in Italia il vero ago della bilancia del socialismo secondinternazionalista. Modesto è il suo arsenale teorico: come a Bologna, il suo asso nella manica è il testo mutilo e mal digerito della prefazione 1892 di Engels alle Lotte di classe in Francia, scambiato per un... antidoto all'essenza rivoluzionaria del marxismo. Ma esso non è che un lasciapassare per lo smercio delle briciole di una saggezza tutta sperimentale nelle file di un pubblico non tanto socialista, quanto radicale con venature socialdemocratiche, cresciuto alla scuola del positivismo sul piano della cultura e del minimalismo sindacale e del riformismo parlamentare sul piano della politica attiva. La sua forza sta tutta nella coerenza; perciò egli segue l'andamento del dibattito col distacco di chi sa di potersi aspettare un finale tributo di applausi dalla stessa maggioranza dei suoi critici; quindi, di potersi tutto permettere, qualunque cosa essi pretendano di pensare o volere. A Bologna, aveva chiuso un lungo discorso con la profezia che sarebbe stato il massimalismo a scindersi, "non vantando che la maggioranza di un'ora"; a Livorno, assiste compiaciuto ma senza vanagloria allo spettacolo degli unitari che si coprono il capo di cenere, correndo (7) a rifugiarsi sotto l'ala protettrice della destra ancora una volta vittoriosa, e chiedendole venia dell'orgia di parole consumata in poco più di un anno di governo del partito.

Per lui, che rivendica "solennemente" alla sua frazione "il diritto di cittadinanza nel socialismo che è il comunismo", il programma del partito contiene da una parte la visione delle finalità ultime, il piano dei principi, dall'altra - e senza alcun collegamento - la scelta dei mezzi nella loro applicazione contingente alla pratica, un piano sul quale tutto è lasciato alla mercé di considerazioni empiriche di convenienza o sconvenienza, di utilità o danno; se dunque qualcosa

"oggi ci distingue, non è la generale ideologia socialista, la questione dei fini, e neppure quella dei mezzi, ma una pura e semplice valutazione della maturità delle cose e del proletariato a prendere determinate posizioni in un dato momento; è unicamente la valutazione della convenienza di determinati mezzi episodici della lotta".

E, alla luce di questa valutazione, che pretende d'essere un fatto di esperienza ma subito dopo assume valore universale e portata eterna, la violenza "non è, non può e non deve essere un programma"; la dittatura del proletariato "o è dittatura di minoranza, e allora è imprescindibilmente dispotismo tirannico, o è dittatura di maggioranza, ed è un vero non senso, perché la maggioranza non è dittatura, è la volontà del popolo, è la volontà sovrana". La via della rivoluzione, che è "quella dell'evoluzione" ed è, si, lunga, ma "la più breve", consiste a sua volta nella via delle lente conquiste quotidiane (a Bologna aveva detto: "non vi è rivoluzione che non sia composta di riforme, come non vi sono riforme socialiste che non abbiano un contenuto e uno sbocco rivoluzionario"), mentre il "culto della violenza" (8), che s'immagina il processo rivoluzionario come "l'improvviso alzarsi di un sipario e il calare di uno scenario nuovo", "non è che un fiore di serra, effimero, che dovrà presto morire" (non senza, purtroppo, aver "creato la reazione", fascista o popolare che sia, "intimidendo, intimorendo oltre misura, proclamando con suprema ingenuità [...] la preparazione dell'azione ultima, vuotando del suo contenuto quell'azione parlamentare, che non è l'azione di pochi uomini al di sopra degli uomini, ma che dovrebbe essere la più alta efflorescenza dell'azione comune di tutto il partito entro i quadri nazionali e, per accordi reciproci, anche entro il quadro internazionale"; insomma, senza aver prima creato la controrivoluzione).

L'oratore pensa di aver cosi dimostrato: 1) che "dell'impazienza, del miracolismo, del culto della violenza" - insomma della pretesa di "far camminare il mondo sulla propria testa [...] mentre il grande vanto di Marx è stato il rimettere il mondo sui propri piedi" - il partito si è liberato fin dal 1892 a Genova; 2) che non meno rapidamente "evaporerà" il mito bolscevico, giacché "la forza del bolscevismo russo è in un nazionalismo russo che avrà una grande influenza nella storia del mondo come opposizione all'imperialismo dell'Intesa, ma è pur sempre una forma di nazionalismo orientale", destinato bensì a chiamare "alla vita della storia le vecchie razze che sono negli ipogei della storia", non però a sostituirsi alla "Internazionale maggiore dei popoli più evoluti"; 3) che il solido nucleo sopravvissuto o in grado di sopravvivere alla miriade di lotte di cui è intessuta la storia contemporanea

"non è la rivoluzione in un giorno o in un anno, ma l'abilitazione progressiva, faticosa, misera, per successive graduali conquiste, obiettive e soggettive, nelle cose e nelle teste, della maturità proletaria a subentrare nella gestione sociale.

Sindacati, cooperative, potere comunale e parlamentare, cultura, tutta la gamma, questo è il socialismo che diviene! E non diviene per altre vie: ogni scorciatoia non fa che allungare la strada" (9).

Create pure, dunque, il partito comunista, impiantate pure i soviet:

"se volete fare qualche cosa che sia rivoluzionaria davvero, che rimanga come elemento di civiltà nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto, ma dopo ci verrete, perché siete onesti, con convinzione, a percorrere completamente la nostra via, a percorrere la via dei social-traditori, e lo dovrete fare perché questo è il socialismo che è il solo immortale […]. Dovrete fare questa azione graduale, e dovendo fare questa azione, che non può essere che quella, non ce n'è altre e tutto il resto è clamore, è sangue, è orrore, è reazione, è delusione, dovendo fare questa opera voi dovrete poi anche fare da oggi un'opera di ricostruzione sociale [e qui Turati ricorda il suo discorso 'Rifare l'Italia']. Voi temete oggi di costruire per la borghesia. Preferite lasciar crollare la casa comune al conquistarla per voi. Fate vostro il 'tanto peggio tanto meglio' degli anarchici. Credete o sperate che dalla miseria crescente possa nascere l'emancipazione sociale; non ne nascono che le guardie regie e il fascismo, la milizia, l'ignoranza, lo sfacelo".

Oggi, è amaro dover riconoscere che, queste parole, i figli e i nipoti della stragrande maggioranza dei convenuti a Livorno sono pronti a sottoscriverle, oppure sono pronti a ripeterle in altra forma. E a giurare di avere, allora, avuto torto - per giovanile intemperanza - contro Turati...

4. - I relatori per la Frazione comunista, e la votazione

Gli interventi dei relatori per la Frazione comunista si collocano su un piano opposto a quello - occasionale, puramente retorico o, secondo i casi, grettamente polemico - degli esponenti delle correnti avverse.

Il discorso Terracini affronta temi di natura politica più che teorica, e svolge la critica delle posizioni più della destra che del centro massimalista: è questo, infatti, uno dei due piani sui quali, secondo i deliberati del II Congresso, deve muoversi l'attacco della Sinistra; un piano che non esclude a priori lo spostamento di una parte del massimalismo su posizioni almeno formalmente compatibili con quelle dell'Internazionale e che, entro certi limiti, lo favorisce mediante il ricorso ad armi essenzialmente politiche.

La prima consiste nel porre con estrema chiarezza il problema: o, come pensano i comunisti, resta valido nelle linee essenziali il programma che il partito si è dato a Bologna, e che ne giustifica l'appartenenza al Comintern, e allora si hanno tutti i titoli per rimanervi; o si crede, come pensano i riformisti (e gli unitari non vi si oppongono), di doverlo cambiare "tornando da Bologna a Genova", e allora dalla III Internazionale si esce. Nel primo caso, una volta costituito sulla base dei 21 punti il Partito comunista, si potrà discutere delle tesi nazionali-coloniali, agrarie, ecc.; nel secondo, insieme all'atto preliminare della costituzione del Partito ci si preclude non soltanto la soluzione, ma la stessa discussione, di ogni altro problema.

Perché dunque (secondo argomento) costituire, e su quelle precise basi, il partito? Perché la situazione storica internazionale ha posto alla classe operaia, inderogabilmente, il problema della presa del potere, quindi anche delle premesse soggettive della sua conquista:

"Un partito si forma quando le condizioni sociali lo esigono. C'è una classe che acquista coscienza di se stessa, che acquista un'organizzazione, che si pone una meta da raggiungere […], e allora si forma il partito di quella classe, e quando la classe si modifica il partito si modifica, e quando la classe scompare il partito scompare".

Sono determinazioni oggettive, non scelte individuali, che impongono la costituzione del partito rivoluzionario di classe:

"Un partito politico di classe è un partito che non crea la situazione, ma sa sfruttare la situazione [...]. È quello non che organizza e fa, secondo la sua convenienza, avvenire i fatti nello svolgimento della vita di un paese, ma è quello che non si lascia mai sorpassare dai fatti, è quello che li prevede e sa guidarli verso una meta; è il Partito che ha questa meta da raggiungere".

Ora è vero che il Partito socialista

"ha creato delle forti organizzazioni sindacali, ha creato se stesso come forte partito politico, ha creato le cooperative, le mutue, gli organismi di resistenza e di difesa del proletariato", ma non si è posto la meta della "conquista rivoluzionaria del potere", e se, interprete di ciò che il partito era e solo poteva essere in un'altra epoca, Claudio Treves dice: 'Dopo la guerra ci siamo trovati in questa terribile tragedia: dall'una parte, la borghesia che non sa più tenere il potere, dall'altra il proletariato che non sa ancora prenderlo; ed è in questa parentesi che egli vede e pone l'orrore dei nostri tempi', noi, facendoci interpreti di ciò che i tempi chiedono ai rivoluzionari, rispondiamo: 'No, la tragedia, l'orrore dei tempi nostri è che la borghesia non era più capace di tenere il potere, e il proletariato che ne sarebbe stato capace non aveva gli organismi e gli strumenti adatti perché questa sua capacità potesse entrare in azione'".

Ebbene, sono questi strumenti - primo fra tutti il Partito - che la rivoluzione russa ha dimostrato necessari e, insieme, storicamente possibili. Non si tratta di imitarne pedissequamente il modello, ma di farne propri gli insegnamenti: "Si accetta la rivoluzione russa accettandone le forme, i metodi e gli scopi", appunto ciò che, di fatto e per principio, i "compagni della concentrazione" respingono. La "divisione" è dunque un fatto compiuto, ed è assurdo pretendere che possa sanarla la formula della libertà nel pensiero e della disciplina nell'azione:

"La disciplina può essere applicata soltanto in un Partito coeso e compatto - e il Partito comunista, attraverso la selezione, attraverso la revisione, attraverso la candidatura, potrà diventarlo […] Quando il Partito si sarà dato questa compattezza di organizzazione, allora veramente potrà servire la disciplina, questa legge superiore di convivenza civile in un partito. Ma la disciplina non può essere applicata fra diseguali, e nessuna direzione, sia pure bolscevica, potrà imporre ai riformisti di stare sottomessi a ciò che non vogliono lealmente accettare, e che non possono accettare" (10).

Demolito il castello di riserve, critiche e obiezioni circa l'operato dell'Internazionale, e dimostrato che "la scissione nel Partito non porterà la scissione nell'organizzazione sindacale" con argomenti che vertono sia sulla natura e i compiti del sindacato, sia sulla tattica comunista, che "non mira a spezzare gli organismi [immediati] ma a conquistarli" mediante "la costituzione di gruppi comunisti nei sindacati, nelle aziende, nelle fabbriche", Terracini ribadisce che l'accettazione dei 21 punti implica "nello stesso tempo e senza ulteriori parole" l'esclusione dei riformisti, compito che il Congresso non può scaricare dalle proprie spalle demandandolo alla Direzione,

"appunto perché esso non deve ridursi ad una sanzione individuale o personale, sulla quale possono valere apprezzamenti particolari dei membri della Direzione; e appunto perché l'esclusione è l'atto solenne, doloroso ma necessario, con cui il Partito comunista crea la sua prima base, non la Direzione del Partito, organo esecutivo, ma il Congresso nazionale, solenne assemblea di tutto il Partito di classe del proletariato italiano, deve ciò esaminare e deliberare".

Da tale dilemma non si sfugge:

"Voi vedete bene che non ci sono ponti, voi vedete bene che non ci sono mezze misure, voi vedete che la frazione comunista, spiegando con le parole che io vi ho detto quale è l'atteggiamento che i comunisti italiani debbono assumere di fronte alla III Internazionale, non fa che ribadire quello che è il concetto espresso dalla mozione di Imola, la quale ha avuto un merito solo, un solo grande merito, quello di porre immediatamente le basi della propria azione, del proprio sviluppo, del proprio organismo, il che sta ad indicare se non altro che essa ha ferma coscienza di fare qualche cosa di giovevole e su cui quindi non si può transigere".

L'oratore lancia qui non, al modo degli opportunisti, l'ennesimo... ponte, ma l'appello già formulato da Mosca, prendendo in parola gli unitari per metterli con le spalle al muro:

"Io sono convinto che se i compagni unitari accettano i 21 punti di Mosca in questa forma resteranno con noi, io sono convinto che nessuno più dei compagni comunisti ne avrà gioia, perché l'adesione alla III Internazionale, la disciplina internazionale, non ha come sottinteso la inimicizia nazionale, ma ha un culmine più alto e supremo che è l'organizzazione internazionale dei lavoratori, cui devono tendere e in cui confluire i proletari di tutti i paesi, uniti fra loro attraverso le frontiere, ma anche all'interno delle frontiere.

La III Internazionale supera tutte le divisioni, la III Internazionale vuole colmare tutte le lacune, la III Internazionale dice ai compagni socialisti italiani: siate disciplinati alle deliberazioni che voi stessi avete voluto, e sarete realmente il primo esercito della rivoluzione mondiale".

Sempre acuti, gli storici vedono in queste parole il segno di un contrasto di fondo con la Frazione comunista astensionista e, in particolare, con Bordiga. In realtà, qui non solo non v'è nessun cedimento di fronte agli unitari; non v'è che la riaffermazione dei punti programmatici sia della Mozione di Imola, sia delle Condizioni di ammissione. E basta rileggere l'articolo Verso il Partito comunista riprodotto nel capitolo III, e lo stesso successivo discorso di Bordiga, per constatare che, da parte nostra, nulla si prevedeva di lasciare intentato (salvo, appunto, un cedimento sui punti fissi di Mosca) per ottenere l'incondizionata adesione ad essi della maggioranza dei delegati massimalisti. È anche vero che, appena Terracini ebbe finito il suo discorso, Baratono si precipitò a dichiarare "a nome [?!] della frazione unitaria" che questa non intendeva "affatto sottrarre al Congresso nazionale la sua legittima e giusta funzione" ed era decisa a "interpretare [bontà sua!] i deliberati di Mosca applicando il ventesimo punto, il quale vuol dire che nello stesso Congresso coloro che non aderiranno ai 21 punti saranno per questo soltanto dichiarati esclusi dal Partito socialista". Ma i colloqui svoltisi parallelamente alle sedute plenarie fra la delegazione del Comintern e i massimi esponenti del PSI confermarono che questo non era "affatto" il loro "intendimento" e che, in tali condizioni (d'altronde previste non soltanto da noi), l'ago della bilancia si spostava verso l'altra ipotesi: quella di una rottura provocata senza esitazioni, anche se in posizione di minoranza, dalla frazione comunista.

In questa prospettiva, il discorso tenuto due giorni dopo da Amadeo Bordiga, e di cui diamo solo qualche brano, il resoconto stenografico essendo spesso impreciso, sconnesso e oscuro, e rendendo a volte necessarie delle correzioni o revisioni, allargò e approfondì i temi dottrinari appena accennati dal suo predecessore, dimostrando che il bivio fra le "due anime del socialismo" era in realtà il bivio - tracciato non da scelte di individui o da velleità di gruppi, ma da un corso storico obiettivo di natura internazionale svoltosi sull'arco di più decenni - fra rivoluzione proletaria verso il comunismo e riforme graduali verso la conservazione dell'ordine borghese. Il punto di vista della Frazione era ormai noto all'insieme del Partito, le tesi fondamentali ne erano già state esposte da Terracini: era tempo di affrontare la questione da un angolo più vasto, partendo dalla considerazione di quello che era stato il processo degenerativo della II Internazionale ("giacché è da questo punto che occorre prendere le mosse") su scala mondiale. Sulla falsariga dei primi capitoli della Relazione, il discorso ritraccia quindi il percorso seguito dai partiti della II Internazionale, nell'atto stesso in cui "il capitalismo e la società borghese elaboravano nel proprio seno... degli elementi di equilibrio alle condizioni della loro crisi, le anti-tossine che ogni organismo elabora per combattere le tossine che ne minano l'esistenza".

Così, nella II Internazionale, il movimento proletario andava sempre più abbandonando la caratteristica che l'aveva contraddistinto alle origini, quella cioè d'essere il "coefficiente decisivo del rovesciamento del capitalismo", per assumere la veste di "coefficiente di equilibrio e di conservazione del regime borghese", adattandosi al "meccanismo democratico proprio del sistema capitalistico" e rinunciando a combatterne l'ideologia.

"Orbene, questo movimento revisionista era caratterizzato da una dottrina e da una teoria che la storia ha dimostrato fallaci. La concezione marxista, pessimistica, catastrofica, rivoluzionaria, che diceva non esser possibile uscire pacificamente dal meccanismo dell'attuale società ed evitare che la contraddizione del capitalismo conducesse ad una suprema battaglia rivoluzionaria fra le classi, questa previsione storica era sostituita dall'altra previsione che il mondo capitalista si sarebbe gradualmente, lentamente, ma sicuramente modificato, accettando le iniezioni di socialismo che si andavano facendo nelle diverse sue strutture fino a trasformarsi, senza bisogno di questo urto supremo, senza bisogno di questo conflitto, di questa catastrofe, a poco a poco, nella società socialista, nella società basata sulla socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio".

L'oratore mise quindi in evidenza come la guerra avesse segnato la definitiva bancarotta del tentativo di sostituire all'autentica concezione marxista il mito di graduali conquiste (fino a quella del... potere!) entro l'ordine borghese, che si trattava dunque di salvare pur nella bufera di un conflitto armato esteso a tutta l'Europa e a quasi tutto il resto del mondo. Sarebbe stata possibile, allo scoppio o almeno nel corso di quest'ultima, una ripresa di coscienza del movimento proletario con conseguente ritorno ai principi e alla prassi del marxismo rivoluzionario operaio? No, perché, come insegna il marxismo stesso, "non è la coscienza o il pensiero che dirigono la storia, ma sono forze più complesse e più profonde":

"Ecco anche perché, quando parliamo del fenomeno che sono qui a trattarvi, seppure lo vogliamo dire - in mancanza del termine migliore che forse si troverà in qualunque lingua - fenomeno di opportunismo, non intendiamo dare una definizione di ordine etico e individuale: intendiamo parlare di un fenomeno superiore ad ogni volontà di coloro che erano alla testa del movimento proletario alla vigilia della guerra".

Chiusa la parentesi bellica, il bivio tuttavia si ripresenta: da un lato, la tesi della III Internazionale secondo cui "la situazione ereditata dalla guerra degli Stati borghese deve essere volta alla guerra rivoluzionaria fra le classi in tutto il mondo"; dall'altro, la ricaduta nell'insidia del revisionismo riformista e democratico che, nella sua veste rossa, non si limita a predicare il vangelo delle riforme in un periodo di "pacifica convivenza fra le classi" ma lo fa in pieno periodo rivoluzionario. Errore o colpa di individui? No, ennesima prova che non si può, nella realtà sociale, mettere e tenere in moto un dato meccanismo e pretendere nello stesso tempo di poterne, un bel giorno, invertire "su comando" la rotta.

"Senza proseguire questa analisi in tutti i suoi dettagli, noi ritroviamo il fenomeno dinanzi alla situazione del dopo-guerra. Graziadei e Terracini vi hanno detto qual è la interpretazione comunista della situazione del dopo-guerra. Quale è la tesi fondamentale della III Internazionale? È questa: la situazione ereditata dalla guerra degli Stati borghesi deve essere volta alla guerra rivoluzionaria fra le classi in tutto il mondo. E, compagni, anche all'indomani della guerra i residui del vecchio errore determinarono una situazione analoga. Noi vediamo, dinanzi a questa situazione, che mentre i comunisti marxisti proclamano la necessità di indirizzare il moto proletario al programma massimo che finalmente si riavvicina alla prospettiva della storia, che finalmente è tangibile, che finalmente in alcuni paesi è realizzato, e cioè il risultato supremo ed unico della conquista del potere politico, punto di partenza della rivoluzione proletaria, mentre dunque a sinistra il marxismo comunista afferma col pensiero e con l'azione questa verità, il vecchio errore ed il vecchio metodo sussistono ancora in tutto il mondo, in tutti i paesi, ed affermano che, malgrado la terribile catastrofe della guerra, malgrado che essa abbia per sempre condannato e disonorato il meccanismo socialdemocratico, tuttavia siamo ancora, come allora, dinnanzi ad un periodo di graduale evoluzione, di successive conquiste, di risultati parziali, e negano la tattica che, ritornando finalmente alla concezione originaria del marxismo rivoluzionario, dice al proletariato di lottare soltanto per la conquista del potere, e che solo servendosene per spezzare l'apparato statale borghese, la sua polizia, il suo esercito, i suoi parlamenti, esso potrà foggiare il nuovo apparato statale, l'apparato dei Consigli proletari".

Perfino in Russia, dove, mentre una soluzione democratica poteva ancora - in teoria - giustificarsi, il proletariato si era spinto al di là di questo limite mostrando che la rivoluzione proletaria era non solo possibile, ma necessaria, si assistette "con perfetta analogia" allo "stesso fenomeno del movimento riformista":

"Dinanzi al momento supremo in cui ormai il proletariato, poggiando sul nuovo istituto, impadronendosi delle armi che l'esercito e la marina avevano nelle loro mani, ingaggiava la battaglia suprema per la conquista del potere, il menscevismo non disse: 'Le mie teorie falliscono; quello che credevo impossibile nella Russia di oggi e invece realtà imminente di domani, perché già il proletariato è in piedi, infiammato dalla parola d'ordine della conquista del potere'. Esso non lo disse perché queste conversioni non sono possibili, perché aveva nelle sue mani una struttura, un meccanismo che doveva seguitare a girare come aveva girato fino allora, funzionando a fianco di Kerensky e Martov, seguitando ad esplicare la sua prassi di collaborazione borghese. E quando Lenin si levò di fronte a Kerensky, i menscevichi non scelsero, ma andarono con Kerensky e con la causa della borghesia contro la causa della rivoluzione".

Che però l'alternativa: dittatura borghese o dittatura proletaria, sia posta oggi dalla storia mondiale; che, contro ogni illusione riformista, la classe operaia possa conquistare il potere solo spezzando la macchina statale borghese, e non possa gestirlo in collaborazione non diciamo con partiti borghesi, ma neppure con partiti socialdemocratici, è dimostrato tanto dalle rivoluzioni comuniste vittoriose, come in Russia, o vinte, come in Ungheria e Baviera, quanto dagli stessi esperimenti di governo riformista, dove la violenza e la dittatura sono state largamente usate per reprimere i moti insurrezionali proletari e soffocarli nel sangue:

"Ecco dunque, compagni, le due alternative che la storia mondiale oggi presenta: o dittatura borghese, o dittatura proletaria. Ma qui viene la funzione della scuola intermedia, che dice 'avanti' ai proletari, ma senza dittatura e senza violenza. La sua funzione è segnata nella storia al di là della volontà e della coscienza, ed è la funzione di essere l'ultimo gerente della dittatura borghese contro la rivoluzione proletaria. Quindi, compagni, noi abbiamo cercato, più che di ricordare i casi in antitesi, di stabilire quali siano i sintomi preventivi di questo pericolo, il quale è nelle file, anche oggi, del movimento proletario. Abbiamo cercato di vederne i caratteri perché […], oggi che si ricostituisce un nuovo ordigno di lotta e di riscossa del proletariato, bisogna ricostruirlo con criteri antitetici ed opposti; bisogna evitare che possa correre il rischio di ridiventare un meccanismo di conservazione e di equilibrio capitalistico anziché arma ben temprata che nel pugno del gigante proletario serva a superare le ultime resistenze del mondo attuale.

Il problema, compagni, dinanzi al quale l'Internazionale Comunista s'è trovata, è che, nel disgregarsi dei vecchi Partiti della II Internazionale, nella impossibilità per essi di riprendere il loro compito di prima della guerra, perché troppo clamorosamente erano stati disonorati dinanzi alla grande massa proletaria, si verificava il fatto che taluni di questi Partiti cercavano di entrare nella III Internazionale e, verso il principio dell'anno scorso, in parecchi congressi alcuni Partiti sostanzialmente socialdemocratici abbandonarono la II Internazionale riservandosi di entrare nella III. Dinanzi a questo grave problema, il Comitato esecutivo della Internazionale Comunista ha convocato il Congresso di Mosca. Si trattava di identificare questo pericolo, di vedere quali ne sono i caratteri, di assodare quali sono le norme con cui si possa guardarsene, di fare la diagnosi e trovare la cura della malattia opportunista che minaccia di incancrenire il movimento proletario, che minaccia di penetrare nelle stesse file della nuova Internazionale […]. E, attraverso il materiale di critica che il pensiero comunista marxista le ha predisposto non da oggi, ma da prima della guerra, dalle note polemiche di allora fra la sinistra rivoluzionaria e la destra riformista, da tutto questo materiale si sono tratte le prime basi per l'identificazione del pericolo riformista".

Il discorso mostra quindi, sulla base di argomenti tipici del revisionismo, come esso sia intrinsecamente volontarista e contingentista, contrappone al suo localismo le tesi non "russe" ma eminentemente internazionaliste del Comintern e smaschera la vacuità e l'ipocrisia degli argomenti addotti per respingere la soluzione rivoluzionaria della crisi capitalistica, dichiarata impossibile nel 1914 perché "l'economia era troppo florida" ed ora perché la macchina economica e politica è "troppo sconquassata per prenderne possesso".

L'oratore passa poi ad esaminare la famosa teoria delle "diverse condizioni ambientali":

"Nessuno di noi sostiene che la rivoluzione possa essere atto dello stesso istante in tutti i paesi. Ma veniamo alla questione delle differenze nazionali che Marx ha affermato e che nella III Internazionale noi, suoi gregari modestissimi, non ci sogniamo di negare. Il II Congresso della III Internazionale sapeva molto bene dell'esistenza di questo problema delle differenze ambientali, ma non ne ha concluso l'assoluta autonomia dei Partiti nazionali. Ha ammesso una certa autonomia. Voi avete citato anche questo, è vero. Ma vediamo in qual modo le risoluzioni del II Congresso di Mosca si applicano al problema della direzione di insieme dell'azione internazionale proletaria e della differenza di esigenze che essa può presentare in un paese anziché in un altro.

Due ordini di tesi ci ha dato il Congresso di Mosca: tesi sulle condizioni di ammissione, che devono appunto garantire che non entri nella III Internazionale alcun Partito opportunistico, non comunista; tesi sui compiti principali dell'Internazionale Comunista. E in queste seconde tesi - e ne esiste una serie per ciascun paese - sono vagliate le differenti condizioni dei diversi paesi. È nelle prime tesi che non i russi, ma tutti i comunisti di tutti i paesi, hanno voluto scrivere […] in modo forse non perfettissimo - secondo me non perfetto, perché si sarebbe dovuti essere ancora più aspri - quanto vi era di internazionale nel processo di organizzazione del nuovo movimento, quanto deve servire dovunque a differenziare le forze che vengono sulla piattaforma del comunismo marxista da quelle invece che restano, più o meno velate, nella cerchia dell'antico terreno socialdemocratico e della II Internazionale.

E allora noi affermiamo che il supremo consesso internazionale ha non solo il diritto di stabilire queste formule, che vigono e devono vigere senza eccezione per tutti i paesi, ma ha anche il diritto d'occuparsi della situazione di un solo paese e poter dire - ad esempio - che l'Internazionale pensa che in Inghilterra si debba agire in un dato modo. Così stabilito, non è perciò esatto dire che le speciali situazioni dei diversi paesi non siano state considerate [...]. Come, per l'Inghilterra, il Congresso ha riconosciuto il bisogno di adattare le tesi pur rimanendo nei deliberati della III Internazionale, così per l'Italia ha fatto qualcosa partitamente. La 17a tesi sulle condizioni di ammissione, mentre non esclude che vengano anche in Italia, come dovunque, applicate integralmente le 21 condizioni - in quanto voi non troverete in nessuna tesi speciale e nazionale qualcosa che contraddica le 21 condizioni: se questa contraddizione si fosse constatata allora quella tesi si doveva cancellare, perché non era al suo posto -, consente l'applicazione di esse secondo le esigenze di questo o quel Partito, senza però togliere le condizioni indispensabili per tutti i Partiti […].

Ma vi è anche un altro interessante argomento, di carattere sentimentale, con cui si contrasta l'accettazione delle 21 condizioni. Si è dovunque formata una corrente che dice: 'Accettiamole; però nel paese nostro non possiamo applicarle perché vi sono condizioni speciali'. Ciò è stato affermato in Italia, in Francia, in Svizzera, in Germania, in Inghilterra. Se si accettasse questo principio, le 21 condizioni non sarebbero applicate in nessun paese del mondo.

Si dice ancora: le 21 condizioni corrispondono alle condizioni della Russia. Non è vero. Fanno tesoro dell'esperienza russa, e non credo che vi sia alcuno così cieco da negare il valore dell'esperienza russa nel giudizio internazionale della lotta proletaria, salvo accettarlo o non accettarlo. Ma le 21 condizioni non servono per la Russia. La Russia è l'unico paese in cui non servono perché là il pericolo dell'opportunismo è superato. Se leggete una qualunque delle 21 condizioni, vi accorgerete subito che quasi tutte non si possono applicare al Partito comunista russo. Dove si dice, per esempio, che si deve fare l'azione illegale, non è che lo si dica per la Russia, perché là esiste la legalità proletaria e soviettista e l'azione illegale non ha più ragion d'essere. Dove si dice che si devono combattere i bund riformisti, sindacali, non è per la Russia che lo si dice. Dove si dice che si deve andare nei parlamenti anche se saremo costretti ad andarci con la corda al collo, non è per la Russia che lo si dice, perché là parlamenti non ce ne sono più, come io auguro che avvenga anche qui prima delle prossime elezioni. Voi vedete, dunque, che le 21 condizioni non rispondono alle particolari circostanze russe".

In breve, tutti gli argomenti sulla differenza di condizioni si riducono ad uno dei tanti sofismi costruiti per poter concludere: "La rivoluzione sì, la dittatura sì, tutto quel che volete; ma non adesso, non in questo luogo; domani, altrove".

Segue la dimostrazione che il ciclo del PSI non è stato sostanzialmente diverso, malgrado le ripetute proclamazioni di intransigenza e di classismo, da quello dei partiti "fratelli" della II Internazionale, e che i successi ottenuti in passato dalla corrente di sinistra non hanno impedito alla vecchia macchina parlamentare ed elettorale del partito di seguire il suo corso e, di conseguenza, al riformismo di continuare a svolgere la sua funzione, imbevendo della sua ideologia e della sua prassi tutto il PSI:

"Attraverso questo processo, il Partito è oggi quello che era alla vigilia della guerra: il miglior Partito della II Internazionale, ma non ancora un Partito della III Internazionale, non ancora un Partito maturo per l'esplicazione di quel tracciato rivoluzionario che solo secondo la dottrina nostra comunista e l'esperienza storica del mondo intero, può condurre il proletariato al processo rivoluzionario.

Una voce: Vi vedremo all'opera!

Bordiga: Verrò poi anche a questo. Ma noi diciamo intanto che questo Partito, appunto perché prima della guerra aveva scritto delle pagine in senso marxista, doveva trovare, come ha trovato, nonostante molte difficoltà, in una sua corrente di sinistra la coscienza e la capacità di elaborare anche qui le conclusioni in senso rivoluzionario che altrove sono state elaborate o si vanno elaborando. E noi crediamo che in tale tracciato della nostra via non è soltanto il monito, e tanto meno la imposizione che può venire dall'estero, ma è la stessa forza dei nostri precedenti, è la nostra esperienza, che ci sovviene nel costruire appunto queste nostre conclusioni. Bisogna intendere che se era marxista e se era rivoluzionario, alla vigilia della guerra, dire: 'intransigenza, niente blocco elettorale politico, niente blocco elettorale amministrativo, niente collaborazione, niente massoneria', oggi intransigenza vuol dire qualcosa di più. Se ieri collaborazione di classe voleva dire ministri socialisti in un regio ministero, oggi collaborazione di classe vuoi dire ministero socialista sovrapposto alla struttura statale dell'oppressione borghese. Se ieri intransigenza voleva dire buttar fuori chi voleva andare al Governo e mettersi la feluca del regio servitore, oggi intransigenza vuol dire liberarsi da chiunque non comprende che la lotta deve essere per la conquista integrale, rivoluzionaria del potere da parte del proletariato, secondo le previsioni e la dottrina di Marx.

Quindi, o compagni, è questo lo sviluppo che il Partito deve compiere. Ora voi mi direte: l'ha compiuto a Bologna. Ha accettato il programma massimalista, ha aderito alla III Internazionale, ha scritto queste tesi sulla sua tessera. Ma dopo abbiamo avuto un periodo, oggi sfruttato da coloro che allora si dichiararono disciplinati al programma massimalista, e che adesso sono felici di dire alla maggioranza di allora, non più di oggi: 'Ebbene questo vostro programma massimalista ha fallito', ed è un'altra disciplina che essi vi offrono, la disciplina di chi tace aspettando la bancarotta del programma a cui aveva messo la firma.

Voi ci dite - è un'obiezione che io raccolgo en passant - che questo nostro attaccamento alla applicazione in Italia dell'esperienza comunista è qui fuori posto, che questa nostra idolatria per la violenza, che altrove, sotto altri climi, sotto altri cieli si è verificata, è una conseguenza della mentalità di guerra; che fra noi ci sono i socialisti di guerra. Ebbene, o compagni, dopo aver ricordato che, senza fare paragoni, tra noi vi sono dei vecchi e dei giovani che ricordiamo nell'ora della vigilia della guerra sempre uguali a se stessi, senza nessuna esitazione dinanzi all'insidia socialpatriottica, e che molti di quei giovani sarebbero oggi tra noi se la guerra stessa non li avesse sacrificati alla causa della borghesia, mentre io rivendico ciò che ci allaccia al passato di questo Partito ed anche a quelli che a noi hanno appreso, uomini che oggi sono sull'altra sponda, mentre io rivendico questo, voglio anche dire che il fenomeno, che deve essere considerato obiettivamente, del socialista di guerra, a me piace raffrontarlo con quello del socialista della parentesi di guerra, del socialista che non ha bestemmiato perché ha taciuto, del socialista che, quando invece di essere duecentocinquantamila eravamo nelle tessere ventimila e nella pratica poche centinaia, non ha detto nulla, ma che poi, passata la bufera è venuto a dire: 'Siamo stati contro la guerra', ed è andato nei comizi elettorali ad avvalersene.

Molte voci: Ce ne sono anche tra voi!

Bordiga: Sì, o compagni, ve ne saranno anche tra noi, di questi socialisti della parentesi di guerra, non lo escludo, non lo discuto, io non confronto due tendenze, io confronto due stati d'animo e due genesi dell'attitudine rivoluzionaria, e dico che io, che socialista di guerra non sono stato mai, preferisco quei giovani che, attraverso l'esperienza tratta dall'infamia capitalistica e dall'essere stati inviati al fratricidio sui fronti della battaglia borghese, sono tornati con la nuova fede nella guerra per la rivoluzione...".

L'analisi non sarebbe tuttavia completa se non si spingesse fino a rilevare lo stretto legame fra gli argomenti della destra e quelli del centro, e la funzione di salvataggio del riformismo svolta da quest'ultimo al coperto della "teoria dell'unità", la critica della quale offre all'oratore l'occasione per sviluppare, fra l'altro, il concetto che gli organismi intermedi possono bensì essere i fortilizi della rivoluzione, ma solo nelle mani di un partito rivoluzionario di classe:

"E chiudiamo anche questa parentesi. Ora, nello svolgersi di questo Congresso, l'analisi di una tendenza è stata già fatta. Il compagno Terracini l'ha fatta con argomenti sufficienti perché io vi debba ritornare. Egli vi ha dimostrato con l'evidenza più schiacciante come il pericolo socialdemocratico si raffiguri nella destra di questo Partito. Io voglio andare oltre, io devo, con ogni sincerità, andare oltre.

Dal momento che a questa dimostrazione nulla ha risposto, e forse per la stessa ragione nulla poteva rispondere, l'oratore del Centro, bisogna concludere - e qui nulla dico che possa menomare l'onestà e la coscienza di alcuno - che il pericolo che altrove rappresenta il movimento di destra per la III Internazionale, in questo Convegno va raffigurato nella tendenza del centro, attraverso gli argomenti che essa ha adoperato, che essa ha portato a questa tribuna, e che io domando, al di sopra delle persone, sul terreno delle idee, di potere qui rapidamente, prima di concludere, analizzare e discutere.

Gli oratori della tendenza di centro hanno qui svolto il loro pensiero. Sostanzialmente che cosa hanno detto? Dicono: 'Sì, siamo, per esempio, per la dittatura, siamo per la violenza'; ma, mentre a Bologna l'adesione era incondizionata, era entusiastica e sembrava che si dicesse: 'Datecene una dose di più, di dittatura, la prenderemo; datecene una dose di più, di violenza, la prenderemo', oggi l'oratore unitario naviga tra gli argomenti come a Bologna navigava l'oratore della destra, che diceva: 'Dittatura sì, in questo senso, con questa significazione, con quest'altra restrizione; violenza, sì, ma fino a questo punto, dopo questa premessa'.

E io vi domando, giacché non voglio discutere questo argomento in sé: perché questa preoccupazione? quale é il pericolo? Credete veramente che questa massa proletaria sia troppo pronta a far valere esageratamente il suo peso sul proprio avversario, vi preoccupate quindi che essa graviti un po' troppo sull'avversario che oggi la calpesta? Ora, questa vostra preoccupazione, questa vostra attenuazione delle nostre tesi di Bologna non può avere altra ragione ed altra spiegazione se non questa, che certo voi non darete, ma che io qui do ed affermo: la necessità di diminuire la distanza da quell'estrema destra che a Bologna, insieme a noi, avete combattuto. Quindi il vostro argomento sostanziale viene a cadere.

Né voglio parlare del concetto della disciplina, che riportate qui, e che effettivamente a Bologna trovò il consentimento della maggioranza del Partito. Io ritengo, noi riteniamo, per le ragioni già dette, che le esperienze di questo periodo siano sufficienti a condannare il meccanismo della disciplina così come voi lo intendete, e che consiste nel sovrapporre un programma rivoluzionario ad un meccanismo non rivoluzionario, nel dare una bandiera rivoluzionaria ad un esercito non rivoluzionario, onde quando irridete alla nullità ed alla sterilità della ideologia rivoluzionaria, quando vi mostrate soddisfatti allorché potete constatare uno scacco del metodo rivoluzionario, voi irridete, voi condannate un metodo che non è il nostro, che è il vostro, che è perfettamente opposto a quello che noi sosteniamo, perché gli insuccessi del massimalismo italiano sono gli insuccessi non del massimalismo in sé, ma di quel vostro massimalismo che ha voluto tenere nel suo seno i rappresentanti della corrente di destra [...].

E vengo al concetto dell'unità, dove appare la nuova formula, la nuova tesi, il nuovo processo rivoluzionario che, al di là dello schema marxista, al di là delle tesi della Terza Internazionale, dovrebbe realizzarsi in Italia. La nuova affermazione, cioè, che alla rivoluzione il proletariato italiano ci va con questo Partito, con tutte le sue conquiste, con tutti i fortilizi di cui abbiamo preso possesso, cioè la Lega delle Cooperative, le rappresentanze elettive dei Comuni, delle Province e del Parlamento, in quanto tutto ciò costituisce già un apparato di potere nelle mani della classe operaia. Ecco una tesi che definisce chiaramente la corrente che la III Internazionale non vuole avere nel suo seno, perché questa tesi è squisitamente riformistica. Noi invece, con la tattica di Mosca, affermiamo che questi fortilizi, questi Comuni, questi seggi parlamentari, queste Cooperative, queste Leghe possono essere i fortilizi della rivoluzione, ma non lo sono per definizione, bensì solamente perché sono nelle mani di un Partito proletario: essi possono essere altrettanti buoni fortilizi della controrivoluzione nelle mani di un Partito socialdemocratico, nelle mani di un Partito che non sia per la frattura decisiva che caratterizza il sorgere della III Internazionale. Il più delle volte non sono nulla, ma molto facilmente rispondono più alla seconda che alla prima funzione, servono più alla conversione che non all'elevazione. Ed allora si tratta di vedere se questi organismi che il Partito possiede sono coefficienti che possano essere […] utilizzati per la causa della rivoluzione. Perché? Perché - affermazione stranissima - tutto ciò costituisce un apparato di potere in mano al Partito: il Partito socialista italiano sarebbe uno Stato nello Stato, un istituto contro l'istituto della borghesia, una eccezione stranissima all'antitesi che la storia ha scritto: 'tutto il potere ai borghesi o tutto il potere ai proletari'.

Noi non solo siamo con la tattica di Mosca di fronte a questa eresia, ma siamo con Marx il quale diceva che al proletariato le sue organizzazioni, i suoi fortilizi non servono per dargli un patrimonio, perché, finché di fronte al potere esso è l'eterno diseredato, sono solo delle punte per costituire la forza per l'ulteriore battaglia rivoluzionaria, nella quale battaglia rivoluzionaria il proletariato non ha da perdere altro che le sue catene, mentre ha un mondo da guadagnare. E molte volte questo ingranaggio e questa struttura, questi che a volte sembrano, per definizione, dei fortilizi, sono invece proprio le catene, le più sottili ma le più tenaci, che il proletariato deve spezzare per andare alla conquista del mondo".

Da tutto ciò si conferma che esistono in realtà, nel Partito, due ali "che si schierano per principio una con la II Internazionale, l'altra con la III, e che nettamente si separano".

La conclusione viene quindi da sé: non basta "accettare" i 21 punti, occorre tradurli in atto amputando il partito dalla frazione di concentrazione socialista. Se questa decisione non sarà presa dalla maggioranza del partito - e da tutto il discorso e soprattutto dalla sua denunzia del Centro, è chiaro che l'oratore non si aspetta che venga presa -, a prenderla sarà la sua ala sinistra, cosciente - per il fatto di collegarsi ad una lunga tradizione di lotta contro il revisionismo e di schierarsi sul fronte della III Internazionale - di rappresentare "una forza collettiva che non sparirà come una piccola frazione, come una diserzione di pochi militi, ma vivrà e agirà come il nucleo intorno al quale verrà domani il grande esercito della rivoluzione proletaria", quali che siano le divergenze di valutazione sui singoli problemi fra coloro che la compongono, tutti decisi a combattere la stessa battaglia.

"Voi, compagni, ci obiettate: 'Ve ne andrete, abbiamo visto altri andarsene, i sindacalisti, gli anarchici, abbiamo visto altre sfrondature... Ve ne andrete come altri se ne sono andati...'. Ristabiliamo i pronomi alloro posto e vi calmerete. Voi dite a noi 'secessionisti': 'Ve ne andrete e finirete dove altri hanno finito, perché la bandiera della lotta di classe è rimasta a questo vecchio tradizionale Partito socialista che attraverso i suoi urti di tendenza è rimasto finora all'avanguardia dell'azione del proletariato italiano, voi siete piccoli gruppi di gente, di illusi, di arrabbiati o maniaci della violenza che andate e che subirete la stessa sorte degli altri...'. Se questo avverrà, ebbene, noi, o compagni, vi diciamo che vi sono due ragioni che ci differenziano da tutte le scissioni fino ad oggi avvenute. Vi è la ragione che noi rivendichiamo, e voi avete ancora la possibilità di venire a confutare questi argomenti di dottrina e di metodo, noi rivendichiamo la nostra linea di principio, la nostra linea storica con quella sinistra marxista che nel Partito socialista italiano con onore, prima che altrove, seppe combattere i riformisti. Noi ci sentiamo eredi di quell'insegnamento che venne da uomini al cui fianco abbiamo compiuto i primi passi e che oggi non sono più con noi. Noi, se dovremo andarcene, vi porteremo via l'onore del vostro passato, o compagni!

E vi è un'altra ragione. Io ringrazio tutta l'assemblea di avermi fatto esporre concetti anche aspri senza interrompermi, mentre io forse ho interrotto gli altri. Dunque, o compagni, vi è un'altra ragione che dobbiamo invocare per difenderci da questa previsione, che mi auguro da tutti sia fatta con dolore, ed è quella che è stata già detta (non è certo un motivo demagogico che porto qui, perché a me pare di non aver parlato nel modo con cui si parla quando si vuole acchiappare dei voti incerti) ed è quella che noi andiamo con la III Internazionale. La III Internazionale non è la cosa perfetta che si dice, la III Internazionale si può criticare nei suoi Comitati, nei suoi Congressi, poiché ovunque si possono trovare debolezze e miserie, ma voi, compagni, non dovete dimenticare che vi è qualcosa che resta al di sopra di qualunque critica che possa colpire un dettaglio di questa organizzazione formidabile, di questa costruzione colossale che si aderge all'orizzonte della storia e dinanzi alla quale tremano, condannate alla decisiva sconfitta, tutte le forze del passato. Vi sarà dell'autoritarismo, del difetto tecnico di funzione, degli esecutori che mancano, tutto voglio concedere, ma credete proprio che queste piccole cose possano svalutare un fatto storico così grandioso? Quelle parole che allora piovvero come fredde ed inascoltate tesi teoriche, quell'affermazione della unione del proletariato di tutti i paesi per la sua rivoluzione e per la sua dittatura, e non solo per la tesi fredda della semplice socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, comune persino ai rinnegati di Amsterdam, sono la base di una dottrina che oggi è stata sparsa da pochi illuminati in ogni paese del mondo. Uomini proletari, lavoratori sfruttati di tutte le razze, di tutti i colori, si organizzano e si costituiscono con mille difetti, ma con una idea che sicuramente ci dice che si tratta di una costruzione definitiva della storia. Essi costituiscono così questo ingranaggio di lotta, questo esercito della rivoluzione mondiale. Credete voi, che dinanzi ad una cosa così grande, vi siano i piccoli errori che possono far ritrarre chicchessia che non sia un avversario di principio? Che possano far esitare chicchessia quando si deve scegliere se stare con la III Internazionale, il che vuole dire nella III Internazionale, come vuole la III Internazionale, per andarsene invece, purtroppo per allontanarsi, purtroppo per rimanere estraneo a questo sommovimento di pensiero, di critica, di discussione, di azione, di sacrificio e di battaglia? E quindi, o compagni, queste due ragioni - se il nostro pensiero non erra - queste due ragioni ci confortano che noi non falliremo allo scopo.

Voi ci domandate: 'Cosa volete fare?'. Lo abbiamo detto. Il nostro pensiero nella dottrina, nel metodo, nella tattica, nella azione è quello delle tesi di Mosca. Il pensiero di ognuno di noi può differire da qualcuna di queste indicazioni, ma noi le eseguiremo tutti concordi perché crediamo che la disciplina internazionale sia condizione indispensabile per il successo proletario. Vi possono essere fra noi deboli, incapaci, incompleti, possono esservi fra noi dei dissensi: Gramsci può essere su una falsa strada, può seguire una tesi erronea quando io sono su quella vera, ma tutti lottiamo ugualmente per l'ultimo risultato, tutti facciamo lo sforzo che costituisce un programma, un metodo. Noi sappiamo di essere una forza collettiva che non sparirà come una piccola frazione, come una diserzione di pochi militi. Vi è un grande esercito che sarà invece il nucleo attorno a cui verrà domani il grande esercito della rivoluzione proletaria del mondo.

Ed allora la vostra previsione, condensata nella vostra domanda, non è, perché non può essere, un augurio. [...] Se augurio può esserci e mi auguro che ancora esista questo minimum di coerenza fra coloro che sono forse insieme per l'ultima volta - è quello che noi facciamo, è il nostro augurio cioè di consacrare tutte le nostre forze e di consacrare tutta la nostra opera contro le mille difficoltà, numerosissime, che si frapporranno al raggiungimento della nostra meta, e di essere insieme per combattere tutti, senza eccezione e senza esclusione di colpi, gli avversari della rivoluzione, nel cammino che ci attende verso i cimenti supremi, verso l'ultima lotta, verso la Repubblica dei Soviet in Italia!".

I discorsi di Amadeo Bordiga da un lato e di Filippo Turati dall'altro chiusero, in pratica, la discussione in sede di Congresso (11): il punto di rottura era ormai toccato, e l'intervento conclusivo di Kabakčev si limitò a dare sanzione formale all'accaduto. Era la mattina del 20 gennaio, quando, constatato in base allo svolgimento del dibattito il rifiuto serratiano di "cacciare il riformismo dal Partito come tendenza, come teoria, come frazione", il rappresentante dell'IC dichiarò a nome di quest'ultima "che essa deve rimanere ferma nella sua intransigenza e che quindi tutte le frazioni che non in tendono accettare le tesi dell'Internazionale, sono escluse dalla Internazionale Comunista", presentando subito dopo una dichiarazione scritta sua e di Ràkosi, redatta d'accordo con i rappresentanti della Frazione di Imola e autorizzata ufficialmente da Mosca (12), in cui, alla luce della tragica esperienza della Repubblica ungherese dei consigli, si ribadiva la necessità di un taglio netto non solo con i riformisti, ma con quella corrente di centro che si ostinava a proclamare compatibile la loro permanenza nel partito sia con i principi sulla cui base era sorta la III Internazionale, sia con le esigenze della lotta per la conquista rivoluzionaria del potere. La dichiarazione concludeva:

"L'unità del Partito è una formula equivoca: essa vuol dire unità tra comunisti e nemici del comunismo. Per questa unità non vi è posto nelle file della Terza Internazionale. Chi vuol restare nella Internazionale comunista non può che schierarsi contro i riformisti, dalla parte dei comunisti di tutto il mondo, stretti sul terreno delle decisioni inviolabili del loro Congresso mondiale.

Vi ripetiamo quindi che l'Internazionale comunista respinge ogni risoluzione che non sia quella che vi impone la frazione comunista e che noi sottoscriviamo perché siamo convinti che solo con la stretta unione dei comunisti di tutto il mondo si potrà abbattere il potere del capitalismo, ed instaurare, sulla terra tutta, il regime del comunismo".

Chiuso il dibattito e fissata per la mattina del 21, la votazione diede i seguenti risultati: Votanti 172.487, astenuti 981, Mozione di Firenze 98.028, Mozione di Imola 58.783, Mozione di Reggio Emilia 14.695 (13).

Appena reso noto l'esito del voto, Bordiga prese la parola annunciando:

"La Frazione comunista dichiara che, pur essendo indiscutibile che la propria mozione e in minoranza, la votazione, per il modo con cui è proceduta e per il mancato funzionamento della Commissione per la verifica dei poteri, non dà nessuna garanzia di regolarità (14).

La Frazione Comunista dichiara che la maggioranza del Congresso, col suo voto, si è posta fuori della Terza Internazionale comunista. I delegati che hanno votato la mozione della Frazione comunista abbandonano la sala e sono convocati alle 11 al Teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito comunista, sezione italiana della III Internazionale".

I comunisti - registra il Resoconto - escono quindi dalla sala cantando l'Internazionale e si dirigono verso il Teatro S. Marco per costituirsi in partito e tenere il loro I congresso, approvando il progetto di Statuto, eleggendo i Comitati Esecutivo e Centrale, il Comitato sindacale provvisorio, e risolvendo i primi e più urgenti problemi organizzativi.

Pochi giorni dopo, a Firenze, la Federazione giovanile socialista, riunita a congresso nazionale dal 29 al 31 gennaio, riconfermava la propria adesione all'Internazionale e, in seguito al congresso di Livorno, decideva a schiacciante maggioranza di aderire al PCd'I. Situazione capovolta, rispetto al congresso del partito "adulto": sono qui gli unitari che lasciano, o meglio sono costretti a lasciare, la sala in cui si svolgono i lavori, e la neo-costituita Federazione giovanile comunista si mette senza indugio al lavoro in base ai punti formulati nella mozione originariamente presentata al congresso, e così concepiti (cfr. il testo completo della mozione ne L'Ordine Nuovo dell'1/II):

  1. Contribuire attivamente alla propaganda dei principi e delle idee comuniste con un intensa azione in mezzo a tutte le categorie del proletariato industriale e agricolo, allo scopo di chiarire sempre più alla coscienza dei lavoratori le direttive del programma comunista anche nella loro differenziazione dalle altre scuole, socialdemocratiche e pseudo socialiste-rivoluzionarie da una parte, e sindacaliste-anarchiche dall'altra;
  2. Contribuire con tutte le forze nostre al lavoro di organizzazione del proletariato in leghe e sindacati d'industria, allo scopo di creare sempre più forti e agguerriti organismi sindacali che, diretti dal P.C., rafforzino la lotta rivoluzionaria contro gli ordinamenti borghesi;
  3. Occuparsi in particolar modo dei giovani lavoratori apprendisti, in ordine alle speciali condizioni in cui svolgesi l'apprendissaggio nelle varie categorie organizzate, muovendo dalla tutela dei loro speciali interessi per condurli sul campo della lotta rivoluzionaria per il comunismo;
  4. Svolgere una intensa azione antimilitarista, intesa alla demolizione degli organismi di difesa armata dello Stato borghese, e di preparazione del proletariato alla costituzione delle proprie milizie rivoluzionarie, evitando ogni propaganda dei falsi e superati concetti pacifisti;
  5. Dare incondizionato appoggio a tutte quelle forme di attività che il P.C. adotterà come mezzi tattici intesi a conseguire la migliore preparazione del proletariato per le finalità ultime della rivoluzione comunista;
  6. Svolgere un'azione sistematica per l'elevazione intellettuale e morale del proletariato, anche nel presente regime, combattendo tutte le forme ideologiche, religiose, filosofiche e politiche borghesi, attraverso scuole di cultura, biblioteche, circoli di studio ecc., una vasta opera di educazione e di istruzione, ispirata ai principi comunisti ed alle necessità rivoluzionarie per la conquista del potere;
  7. Promuovere e curare la formazione di gruppi di infanzia proletaria;
  8. Attenersi, verso il P.C., a quei rapporti e a quella disciplina che sono stabiliti dagli Statuti dell'I.C. e dell'Internazionale della Gioventù".

Oltre 47.000 giovani iscritti su 53.314 passarono al PCd'I, contro 6.000 (secondo altre fonti, circa 10.000) rimasti al PSI. Le cifre saranno largamente ridimensionate (come del resto quelle degli iscritti al Partito) nel corso del 1921; resta, tuttavia indiscusso il massiccio apporto dei giovani, in armonia con una lunga tradizione di battaglia, alla nascita del nuovo organismo.

5. - Ancora per poco nel campo di Agramante

Prima di lasciare alloro destino i "trionfatori" di Livorno, è bene osservare che la vera palma della vittoria nelle successive riunioni toccò non agli "unitari" ma ai riformisti. Non solo, sebbene avessero votato una mozione distinta, questi ebbero il loro posto nel tronco sopravvissuto del PSI (15), ma, quando Baratono ricordò a Turati e C. che accettare la tessera del 1921 significava impegnarsi non ad una disciplina passiva, ma alla disciplina che solo è possibile in un "partito di azione", una disciplina attiva implicante, "col consenso pieno dell'animo vostro, l'accettazione del programma rivoluzionario" della maggioranza, la risposta di Turati fu: poiché "noi siamo all'inizio di un nuovo lavoro" che potremo tanto meglio svolgere, in quanto l'accaduto qui a Livorno "ci rende più interi, più liberi nelle nostre vedute e nella nostra azione", non è il caso di prendere "precise deliberazioni", ovvero impegni; troviamo piuttosto "la linea media in cui tutte le forze utili siano utilizzate in tutta libertà" nel segno di una "unione che non sia né umiliazione, né compressione". Nel clima di "fiducia reciproca" cosi instaurato, a Serrati non costò nulla ribattere a un delegato minore, secondo il quale "le dichiarazioni fatte dal compagno Turati" erano "abbastanza elastiche", che poiché quest'ultimo aveva escluso la possibilità di nuovi "infortuni sul lavoro", bisognava, pur sorvegliandolo, dargli credito, né proporre e ottenere per voto unanime una "deroga temporanea" all'articolo dello Statuto (da lui un tempo difeso "coi pugni e coi denti") che proclamava "l'incompatibilità per i deputati di far parte della Direzione"; bisognava, infine, dichiarare che il congresso, lungi dall'essere stato "un passo a destra", era stato "un passo a sinistra". E aggiunse subito dopo, per ribadire la tesi di una... redenzione materialisticamente determinata del riformismo:

"la nostra volontà è di trascinare verso sinistra tutti quanti, perché verso sinistra non vanno le volontà degli uomini, ma la necessità dei fatti. Voi, compagni di destra, dovete essere con noi anche se non volete, perché con noi sono le masse, con noi sono i tempi, con noi è la rivoluzione".

Nello stesso clima, si poté approvare all'unanimità l'ordine del giorno Bentivoglio (presentato nella convinzione che "il rappresentante dell'Esecutivo abbia parlato qui per mandato della frazione comunista, e abbia dimenticato completamente che parlava ad un Partito il quale aveva diritto al più ampio credito da parte della III Internazionale per tutta l'azione svolta nel passato"), in cui il XVII Congresso del PSI protestava "contro la dichiarazione di esclusione emessa nei suoi riguardi [...] sulla base di un dissenso di valutazione ambientale e contingente [!!] che poteva e doveva essere eliminato con opera di amichevole chiarimento" e rimetteva al prossimo Congresso di Mosca "la discussione della controversia, impegnandosi fin d'ora ad accettarne e applicarne la decisione" (16). Centro e destra erano dunque unanimi nell'accettare "senza alcuna riserva [!!] i principi e il metodo" del Comintern, e nel chiedere perciò di esservi tutti riammessi!

Ma trasferiamoci "in più spirabil aere", cioè al Teatro San Marco.

6. - Il PCd'I: nascita e primi sviluppi

Il tratto distintivo della scissione di Livorno da quella di Tours e dalla unificazione di Ralle (per non parlare dei Congressi costitutivi di altre sezioni nazionali dell'IC) non è - lo si sarà capito - l'esistenza di un'omogeneità ideologica totale fra gli esponenti del nuovo partito. Se tale fosse stato allora, o se si pensasse che debba essere in futuro, il requisito obbligatorio del partito di classe alla sua nascita, avrebbero avuto ragione gli "unitari" di contestarne il possesso ai delegati della frazione di Imola, provenienti da gruppi eterogenei per formazione teorica, per tradizione politica e organizzativa, per modo di concepire lo stesso fine ultimo della società comunista e le vie e i modi del suo conseguimento, e avrebbero ragione domani le vestali del partito "puro", cioè nato da un ceppo unico conservatosi intatto attraverso ogni vicissitudine, di respingere per principio qualunque contaminazione con frammenti di gruppi dalle origini spurie.

Si può, certamente, speculare a posteriori sulla possibilità teorica che nel '21 la frattura avvenisse più a sinistra. Ma non è solo vero che la nostra corrente accettò che così non fosse (17); è vero che, a meno di condividere la tesi dei "compagni torinesi" secondo cui la Frazione astensionista avrebbe dovuto essa stessa convertirsi in PCd'I, anche in quell'ipotesi estrema un margine sia pure ristretto di disomogeneità sarebbe rimasto. Quello che invece si produsse - caso unico in Occidente - fin dal periodo preparatorio del Congresso non fu soltanto il fatto che le divergenze di formazione teorica e di orientamento politico non impedirono ai gruppi confluiti nella Frazione di adottare una piattaforma unica, non soggetta a patteggiamenti, non accolta con riserve, non discordante qua o là dalle tesi di Mosca, applicata in blocco in una azione di proselitismo e propaganda svolta alla luce del sole, quindi vincolante sia all'interno dell'organizzazione, sia di fronte alle masse. Fu anche il fatto che sin da allora la presenza del nucleo "astensionista" sorto su quella base, cresciuto a quella scuola e disciplinatosi, in un periodo non lungo in assoluto ma denso di manifestazioni di vita attiva, ad uno "stile di lavoro" coerente con quell'impostazione generale, dunque antitetico al modo di lavoro degli stessi raggruppamenti da cui proveniva il grosso dei nuovi iscritti, permise di inquadrare capacità, tendenze, abitudini mentali e pratiche assai diverse, ponendole al servizio di un'unica linea di azione, rigorosamente osservata in vista di ben precisi obiettivi vicini e lontani perché riconosciuta rispondente alle superiori esigenze della lotta rivoluzionaria.

In un partito nato su queste fondamenta, divenne perciò inconcepibile, quale che fosse la forma mentis di singoli dirigenti, non diciamo soltanto l'esistenza e tolleranza di correnti con organi propri e con idee e programmi notoriamente difformi da quelli propri del partito stesso e del Comintern, come invece accadde fin dall'inizio nel PCF, ma neppure la libertà occasionalmente riconosciuta a singoli militanti di assumere pubblicamente posizioni personali, come nel VKPD subito dopo la sua fondazione - e diciamo inconcepibile per sottolineare che si trattò di un fenomeno di autodisciplina liberamente e naturalmente riconosciuta ed osservata, una disciplina non formale, non esteriore, non burocratica ma - come da allora si cominciò a dire - organica, per il semplice fatto che nessuno si sarebbe mai più sognato di appartenere a un gruppo, a una corrente o ad una frazione a sé. Divenne anzi naturale e spontaneo che il partito agisse come un tutto unico, presentasse ai proletari un solo volto, desse ai problemi via via sorti risposte uniformi, e si organizzasse sulla base di un inquadramento che scioccamente si usa definire militare e che era semplicemente lo stesso in tutti i suoi punti, cosicché, se sbavature si producevano, il fatto di correggerle non comportava, malgrado il persistere di inerzie del passato, traumi rovinosi.

Nel 1923-24 Gramsci spiegherà questa compattezza dei quadri dirigenti del partito col dominio della "vigorosa personalità" di Bordiga; ma un simile fattore personale (di cui siamo lungi dall'escludere il peso) in tanto poté agire nel senso e coi risultati già detti, in quanto si esercitò su una linea di costanza e impersonalità di impostazione teorica e programmatica ed in funzione del massimo rigore possibile nell'inquadramento del lavoro collettivo. Appunto nella sintesi di questi due termini consiste quell'"arte della direzione", che rende possibile un grado quasi perfetto di omogeneizzazione anche dell'eterogeneo (come avvenne in altissima misura, nel quinquennio successivo all'Ottobre, per il partito bolscevico, anch'esso formatosi riplasmando gruppi e individui di formazione diversissima, e come appunto avvenne per il PCd'I durante il suo primo biennio di vita): essa non cade dal cielo, è una conquista. In ciò va del resto ravvisato un altro degli insegnamenti di Livorno (18), ed è il punto dal quale si deve partire per comprendere appieno le caratteristiche distintive del partito di classe nella situazione di allora.

Il partito la cui costituzione, la mattina del 21 gennaio a Livorno, venne annunciata da Fortichiari a nome del CC della Frazione comunista (19), e con il saluto e la ratifica del rappresentante dell'Internazionale, era composto in stragrande maggioranza da militanti della sinistra massimalista (20), comunque affluiti al PSI nel biennio postbellico; e tale composizione non poteva non riflettersi nei suoi organi direttivi. Che in questi organi la "corrente bordighiana" si fosse assicurato il predominio - lo ripetiamo - è falso: sui 15 membri del CC, solo 4 (Bordiga, Grieco, Parodi, Tarsia) e sui 5 del CE (formato da Bordiga, Fortichiari, Grieco, Repossi, Terracini) solo 2 (Bordiga e Grieco) provenivano infatti direttamente dalla Frazione comunista astensionista. È esatto, invece, che entrambi gli organi si mossero da allora secondo una linea di azione e un metodo di lavoro che, in mancanza di altro aggettivo, possiamo soltanto definire "bordighiani". Quando perciò, nella seduta a porte chiuse fra il sottocomitato del PCF in materia di politica generale e la delegazione del Comintern al Congresso di Marsiglia, il 27 dicembre 1921, Bordiga spiegò che "in Italia non esiste un segretario generale, ma il nucleo direttivo essenziale consta di cinque persone intercambiabili che assicurano al partito una continuità nel lavoro di tutti i giorni" (21), le sue parole non rispecchiavano soltanto un criterio organizzativo essenziale, consistente non già nella pretesa che tutti i membri del CE possedessero identiche capacità e svolgessero uguali compiti (22) ma nel fatto che tutti lavoravano in base a un solo metodo ed agli stessi presupposti programmatici e tattici, ognuno perciò potendo e dovendo considerarsi come il portavoce dell'insieme; esprimeva anche la certezza politica che, non esistendo garanzie assolute contro l'errore o l'improvvisazione spericolata del singolo (23), entrambi avrebbero trovato il necessario correttivo nella costanza e omogeneità della linea generale del Partito.

Fedele agli impegni presi, alla prima riunione del Comitato centrale tenutasi la stessa sera Amadeo Bordiga presentò l'ordine del giorno votato il giorno prima dall'assemblea dei delegati della Frazione comunista astensionista, secondo cui,

"considerato che la Frazione si era costituita per la soluzione del problema storico della costituzione del Partito comunista in Italia attraverso la lotta contro le tendenze opportuniste e riformiste; riconoscendo che questo problema è stato risolto dall'esito del congresso di Livorno; affermando che la questione della tattica parlamentare dei comunisti, come è stata affacciata e sostenuta nel campo internazionale dalla Frazione con un contributo di critiche che conserva il suo valore nella elaborazione dell'azione e del metodo comunista, deve ritenersi risoluta nel campo dell'azione dalle deliberazioni del II Congresso dell'Internazionale comunista; affermando che nel Partito comunista non è consentita la presenza di frazioni autonome, ma deve vigere la più stretta omogeneità e disciplina", l'assemblea deliberava "lo scioglimento della Frazione".

Resta il fatto che proprio sulla base dei principi e dei metodi da essa difesi in una lunga battaglia, e in conformità ad una linea di azione e a metodi di lavoro che solo ad essa dovevano il fatto d'essere propagandati e applicati in Italia, nel biennio successivo il Partito si mosse senza che mai si adombrasse l'ipotesi di una via diversa da percorrere; si mosse, al contrario, nella diffusa convinzione che la via fosse una, appunto quella centralmente stabilita.

Per gli storici à la page, ogni episodio di vita interna del partito (di qualunque partito) deve sia avere una spiegazione "esoterica" (in questo caso, o i già citati fattori personali, o le "manovre" più o meno sotterranee di Tizio piuttosto che di Caio, ecc.), sia averne una banalmente profana: eccoli quindi "spiegare" i caratteri di rigida centralizzazione, di stretta disciplina, di inquadramento gerarchico ispirato alla coscienza di appartenere ad un esercito rivoluzionario internazionale, di unità non formale ma reale nella teoria e nella pratica, che distinguevano il giovane PCd'I, col fatto supplementare d'essere nato e cresciuto sotto i colpi dell'offensiva fascista e nello sforzo di rintuzzarla - proprio loro che sogliono accusare la direzione "bordighiana" di aver sottovalutato la minaccia e, peggio ancora, la realtà del fascismo. La verità è che se, com'è ovvio, lo scatenarsi di una reazione in camicia nera della cui ferocia caddero vittime nei mesi immediatamente successivi alcuni fra i migliori militanti del partito, pose fin dall'inizio con urgenza il problema di un'organizzazione disciplinata, centralizzata e di tipo tendenzialmente militare, è altrettanto vero che, per la nostra corrente, il fascismo giungeva come forma apertamente dichiarata della dittatura borghese a rincalzo della sua mascheratura democratica; lungi dall'imporre un "cambiamento di programma" anche in materia di organizzazione, la sua comparsa non faceva quindi che rendere più esplicito il nesso indissolubile fra ruolo dirigente del partito rispetto alla classe e centralismo della sua struttura, fra rigore nella dottrina e rigore nell'azione pratica e nell'organizzazione; ne era la conferma, non la causa. Allo stesso titolo, si potrebbe sostenere che la struttura rigorosamente "piramidale" del partito di allora rispondesse all'esigenza di "guarire" il grosso dei militanti di origine massimalista dalle tare ereditarie di una tale genealogia - dal lassismo e dal federalismo in materia di organizzazione, dal pressappochismo in materia di teoria, e dall'assenza di principi in materia di tattica. Il che è vero; ma era solo una conferma che nulla più dell'aderenza ai principi marxisti di cui il II Congresso di Mosca aveva fatto la base stessa dell'adesione al Comintern (24) poteva consentire di risolvere gli assillanti problemi della azione rivoluzionaria. Così, in altri termini, sarebbe nato il partito di Livorno anche se quelle due condizioni storiche non fossero state presenti; ad esigerlo era una questione di principio, non una valutazione contingente.

D'altra parte, se nel 1924 perfino la minoranza di destra del PCd'I riconobbe alla pur esecrata direzione di sinistra 1921-1922, fra i pochi meriti che si degnò di attribuirle, quello della "creazione di un 'costume' politico nettamente diverso da quello del partito che avevamo lasciato", per avere "ispirato ai compagni un senso veramente comunista dei loro doveri dì militanti" (25), è perché tale "costume" era stato fatto valere con estrema determinazione al vertice non meno che alla base, dando "dall'alto" a tutto il partito un esempio forse unico in Europa di coerenza nelle prese di posizione programmatiche, di continuità nell'azione, di disciplina organizzativa, di estraneità alle manovre personali e di gruppo, e al morbo antico del carrierismo (26), che rendeva vincolanti ma non oppressivi gli obblighi (e, se necessario, gli ordini) emananti da una struttura che pur non temeva d'essere e dichiararsi gerarchica, e trasparenti i rapporti interni in una rete di partito dalle maglie pur così strette.

In un simile organismo veniva da sé, non era affatto scandaloso (né sarebbe oggi lecito ravvisarvi un segno precorritore dello... stalinismo), che l'effettiva direzione del partito fosse assicurata non da un organo macchinoso e tendenzialmente parlamentare come il francese comité directeur o la tedesca Zentrale, ma da un Esecutivo ristretto, agile, di lavoro, a tempo pieno, investito della più completa e quindi illimitata responsabilità politica - salvo risponderne al Comitato Centrale e, se necessario, all'IC come istanze supreme (27).

"L'interpretazione e l'esecuzione dei principi accettati nei congressi sono sempre di competenza del CE del Partito", dichiara perciò l'art. 48 dello Statuto approvato a Livorno, precisando che il CE assume la direzione dell'organo centrale comunista, nomina e "può sostituire in qualunque momento i redattori dei quotidiani del Partito e degli organi federali e di tutti gli altri organi politici di organismi dipendenti dal PC", tiene sotto il suo controllo e la sua guida l'Esecutivo della Federazione giovanile e sotto la sua diretta dipendenza i CE delle Federazioni provinciali del partito (la nomina dei cui segretari è valida solo dietro sua conferma) e "può sciogliere in qualunque momento le sezioni del Partito per motivi disciplinari e politici", mentre gli "spetta la direzione del lavoro parlamentare sia in relazione all'attività del Gruppo" (che è di sua nomina) "sia a quella dei suoi componenti" (art. 47, 51, 36, 33, 67, 62). È insomma il vero organo centrale di lavoro (in senso prima di tutto politico) del partito: è quindi sotto la sua direzione che l'art. 3 delle "disposizioni transitorie" votate a Livorno la sera del 21 gennaio stabilì che si procedesse "alla revisione della composizione di tutte le cariche elettive del Partito nei comuni, nelle province e nel parlamento, con facoltà di sciogliere tali organismi"; è da esso che tale articolo statuì che fosse controllata e diretta permanentemente l'attività degli organi che invece si sarebbero conservati.

Partito giovane diretto da giovani militanti (28), il PC di Livorno condiziona l'accettazione del nuovo iscritto all'"adesione incondizionata al programma, nonché all'osservanza dello Statuto e alla più rigorosa disciplina verso i deliberati del Partito e dell'Internazionale comunista"; se non proviene da una sezione giovanile, lo sottopone a un periodo di candidatura di 6 mesi, durante il quale "non può coprire cariche, ma ha tutti gli obblighi di tutti gli altri iscritti" e deve fornire garanzie pratiche di "fedeltà e spirito di disciplina"; dall'iscritto esige l'osservanza, pena severi provvedimenti, di ben precisi doveri - sia verso la sezione (29) ed il partito, nell'intera gamma delle sue attività, sia verso la classe, nel dovere, per esempio, di "aderire alle rispettive organizzazioni professionali e sindacali" e di far parte dei gruppi comunisti in esse costituiti. La prospettiva di una verifica e quindi di una possibile revisione dei suoi quadri a breve distanza di tempo dalla loro formazione non solo non lo spaventa né lo umilia, ma gli appare iscritta nella normalità del processo di sviluppo della milizia rivoluzionaria nelle condizioni storiche date:

"Il nostro è un piccolo partito - scriveva A. Bordiga nell'articolo Il nostro Partito apparso ne Il Comunista del 7/IV. - Non tutti coloro che erano in un primo tempo incerti sulla attività e sulle nostre attitudini hanno creduto di passare nelle nostre file, e sono rimasti fuori dal nostro e dal Partito socialista. Ciò è stato un bene. Altri ne allontaneremo in occasione della prima revisione, per la quale daremo a giorni le norme (30). I compagni buoni e fedeli saranno incoraggiati dalla nostra serietà. È ben difficile trovare un partito che - nel momento stesso in cui si organizza - compie amputazioni e revisioni. Soltanto i comunisti possono compiere atti del genere sul proprio organismo: essi non hanno alcuna aspirazione effimera, aborriscono le molte, le troppe adesioni: hanno bisogno di vagliare attentamente le qualità di quanti intendono iscriversi nelle file rivoluzionarie [...] Poiché il nostro partito non è reclutato col sistema della coercizione, chi non si sente di fare tutto quanto il partito vuole che si faccia, può liberamente e subito allontanarsi da noi. Ma coloro che accettano di rimanervi firmano, entrando nel Partito comunista, la dichiarazione di rinuncia a molte libertà [...] Poiché gli avvenimenti urgono e la nostra preparazione deve affrettarsi, non è ammissibile che i comunisti perdano un solo minuto nell'opera di consolidamento delle proprie file. Vogliamo avere la sicurezza che nessuno mancherà al proprio dovere qualora il partito esiga sacrifici e rinunce. L'elemento che compone le nostre file, per il novanta per cento di operai, conforta la nostra speranza che il PC darà al proletariato la sensazione di essere il vero e solo partito della classe lavoratrice. I compagni e specialmente i capi meditino le responsabilità enormi che assumono in quest'ora, e dalle quali non possono né devono rifuggire. Siamo nella guerra guerreggia, ed anche per noi e per i nostri militi vige un codice di guerra".

I compiti che il Partito doveva affrontare apparivano enormi, ma era parere concorde che tanto più e tanto meglio si sarebbe riusciti a portarli a termine, quanto più si fosse rimasti ligi ai criteri che avevano presieduto alla costituzione del nuovo organismo, cercando di attingere da una condizione di isolamento iniziale, coraggiosamente accettata come inevitabile, un motivo non di debolezza ma di forza. I proletari - ricorderà spesso all'Internazionale la nostra corrente - ci giudicano da come agiamo, non da ciò che dichiariamo di voler perseguire agendo in modo o ad essi incomprensibile o discordante dalle nostre proclamazioni d'ogni giorno: era essenziale che i proletari trovassero nel partito "nuovo" qualcosa di assai più, e di assai diverso, da un'edizione riveduta del partito "vecchio".

Bisognava gettarsi alle spalle il passato, non accettando di rimettere in causa la scissione: perciò i gruppi già aderenti alla Frazione comunista ricevettero subito a Livorno la direttiva di costituirsi nel più breve tempo possibile in sezioni del PCd'I, e di funzionare come tali, evitando ogni convocazione plenaria del partito socialista, fosse pure motivata con la richiesta di una relazione sui lavori del congresso da parte dei delegati comunisti, e additando agli altri iscritti al PSI dichiaratisi per l'Internazionale e per la sua sezione italiana la via dell'adesione alla sezione territoriale locale, maggioritaria o minoritaria che fosse, del PC.

La scissione doveva essere presentata, e apparire chiaramente in ogni episodio anche minimo dell'azione di partito, come un fatto irrevocabile - perché "non voluto o provocato, per inconfessabili motivi, o per fanatici traviamenti, da piccoli gruppi di uomini" (31): e non bastava spiegarlo con le parole del Manifesto ai lavoratori d'Italia del 30/I nei 36 comizi tenuti in tutta Italia il 20/II per gli scopi indicati dal Proclama ad essi relativo (32); bisognava dimostrarlo in pratica soprattutto nei settori più delicati dell'attività e dell'intervento organizzato del partito, come, tanto per fare un esempio, quello delle amministrazioni locali, dove fu subito disposto: 1) che non si illudessero i proletari circa la possibilità di servirsene come strumenti di conquista del potere, anziché come puri e semplici mezzi per impedire alla classe borghese di rafforzare i propri privilegi, 2) che si evitasse la formazione e permanenza in carica di giunte e deputazioni miste di comunisti, socialisti ed altri, rendendo così chiaro a tutti che "il principio dell'intransigenza e dell'anticollaborazione vige sia di fronte al PSI che a tutti gli altri partiti, perché sia da questi che da quello il PCI si differenzia nel programma, nella valutazione della situazione storica, e nelle risoluzioni delle situazioni contingenti" (33).

Era urgente metter ordine nella delicatissima materia dei collegamenti internazionali (come si fece con l'omonimo comunicato del 13/III) reagendo al malcostume tradizionale nelle sezioni del PSI di accordare credito e accoglienza a chiunque vantasse credenziali moscovite o, non disponendone, desse prove concrete di dimestichezza col movimento internazionale (salvo accorgersi, sempre in ritardo, che si trattava di un commis voyageur di se stesso, di un ficcanaso e mettimale, di un agente provocatore ecc.) e statuendo che "tutto quanto riguarda le relazioni e comunicazioni con l'IC e con i Partiti comunisti dell'estero deve svolgersi esclusivamente tramite il CE del PCd'I" e che chiunque si spacciasse per rappresentante di un'organizzazione, internazionale o nazionale, comunista "senza essersi prima posto in rapporto col CE del PCd'I ed essere da questo accreditato, deve essere considerato come elemento sospetto e rigorosamente diffidato" (34).

Di fronte allo scatenarsi dell'offensiva fascista, bisognava preparare i proletari alla consapevolezza della inevitabilità del contrattacco borghese in camicia nera, senza per questo, al modo dei socialdemocratici, indulgere in piagnistei sulla violenza cinicamente messa in opera o sulla legge e la giustizia calpestate, e ridar loro fiducia in se stessi mostrando la necessità e insieme la possibilità di affrontare il nemico sul suo stesso terreno, senza per questo cadere nella faciloneria ammantata di retorica dei massimalisti. Vedremo nell'ultimo capitolo come il problema fu affrontato dal partito nei mesi successivi, ma val la pena di sottolineare la doppia direttiva che esso ricevette sin dal febbraio: evitare, "fino a quando ciò sarà possibile, e in senso relativo", di "farsi trascinare ad azioni separate, nelle quali, senza una specifica organizzazione, il proletariato sarà il solo ad essere colpito; ma apprestare armi e strumenti" per far fronte anche ad attacchi isolati e periferici e, in dati casi, prenderne l'iniziativa. "Economia di sforzi, dunque", ma, come condizione preventiva, "organizzazione solida e disciplina di ferro" (35).

"La nuova organizzazione di lotta del proletariato italiano, distinguendosi per la saldezza del legame internazionale, doveva sempre più foggiarsi in modo da evitare i perniciosi e tradizionalistici difetti di superficialità, di disordine, di personalismo, fatali al vecchio partito, e con nuovi criteri di serietà, di fredda ponderazione e insieme di dedizione senza limiti di tutti i singoli militanti alla causa comune" (36).

Vigeva nel PSI una tradizione inveterata di autonomia decisionale delle sezioni in tema di manovre tattiche, che serviva di provvidenziale copertura a pateracchi fra partiti, magari conclusi con le migliori intenzioni e sempre giustificati come iniziative intese o a dare risonanza e guadagnare simpatia al partito o ad assicurare la difesa della classe e delle sue istituzioni. Per il PCd'I non esistevano motivi assoluti e indiscriminati per escludere accordi limitati e temporanei con partiti politici "operai", a condizione che vi si addivenisse, se ritenuto opportuno, per obiettivi, con modalità ed entro limiti stabiliti centralmente, mai a giudizio ed arbitrio della sezione interessata, e privilegiando in ogni caso le organizzazioni economiche del proletariato. Senza pregiudizio di ulteriori precisazioni (di cui avremo modo di parlare), un comunicato del 20/III sui Rapporti con altri partiti e correnti politiche stabilì (e la sua opportunità venne sottolineata sia da episodi significativi della guerra di classe immediatamente successivi, sia da eventi politici di rilievo come le elezioni generali di maggio):

"Le Federazioni provinciali e le Sezioni del Partito comunista sono avvertite che in via di massima, e senza speciale precedente autorizzazione del CE, non debbono addivenire ad intese con altri partiti e correnti politiche (repubblicani, socialisti, sindacalisti anarchici) per azioni comuni permanenti o momentanee, quali comizi, manifestazioni, pubblicazione di manifesti o numeri unici, costituzione di comitati di studio, di propaganda, di agitazione per il caro vita, la disoccupazione, contro la reazione, per le vittime politiche e simili, conquista e direzione di istituzioni svariate di assistenza, cultura, beneficenza, ecc. ecc.

Con ciò non s'intende stabilire che ogni accordo di tal genere sia incompatibile, ma solo assicurarsi che non ne vengano stipulati se non entro i limiti, per le finalità e con le modalità che la centrale del Partito eventualmente stabilirà e comunicherà nei casi specifici, per evitare azioni slegate e decentrate (37).

Con ciò non si esclude nemmeno l'intervento dei comunisti nelle manifestazioni la cui iniziativa risale ad altri partiti, per recarvi la parola ed esporre il programma preciso del partito, allo scopo di provocare e diffondere il consenso delle masse coi nostri specifici principii e metodi.

Queste disposizioni non riguardano i rapporti con gli organismi sindacali, che verranno disciplinati da altre apposite comunicazioni dell'Esecutivo.

Per l'assistenza economica legale alle vittime politiche possono costituirsi comitati misti, ma è raccomandabile demandarne la nomina agli organismi sindacali (Camere del Lavoro), sempre dandone notizia al CE".

In una circolare della metà di febbraio, preso atto del fervore con cui procedeva il lavoro di organizzazione interna del partito, il CE ebbe a scrivere: "È necessario che questo splendido fiorire di centri comunisti non resti senza ordine e senza guida; occorre stringere senza ritardo tutte le forze in una fitta rete di legami reciproci, in modo che non uno sforzo vada perso e resti ignorato" (38). Nel giro di poco più di un mese un Esecutivo che disponeva di scarsi mezzi economici e di poche braccia, ma che possedeva in compenso doti eccezionali di energia e dinamismo ed era appoggiato dal fervore e dall'entusiasmo di una base composta per il 98% di operai, poté dire di aver completato nelle grandi linee il processo di costituzione su scala nazionale (39) delle federazioni, delle sezioni, dei gruppi sindacali di fabbrica, dei circoli comunisti (40); aveva fatto della sua sede di Milano (dove, col 30/I, cominciò ad uscire bisettimanalmente Il Comunista) il fulcro di un'intensa attività di collegamento, coordinamento, orientamento del lavoro di irradiazione nella classe; dava impulso a un efficiente Comitato centrale sindacale e ad un primo embrione di Ufficio centrale femminile; vegliava sulla rigorosa applicazione della tattica del "parlamentarismo rivoluzionario" da parte del Gruppo parlamentare (18 deputati avevano dato a Livorno la loro adesione al partito) e dei membri di giunte o consigli comunali e provinciali; liquidava le pendenze finanziarie col PSI evitando strascichi fastidiosi e polemiche irritanti, e, mentre uscivano regolarmente come grandi quotidiani L'Ordine Nuovo a Torino e Il Lavoratore a Trieste, gettava le basi della pubblicazione mensile de La rassegna comunista e del controllo su una serie di mensili o bimensili di provincia, chiamati ad assicurare un alto grado di penetrazione della propaganda e delle parole d'ordine comuniste nelle aree più importanti del movimento proletario italiano e a mettere il centro in più diretto e permanente contatto coi problemi anche locali e quotidiani della classe.

Ad allora risale quella che nel biennio successivo sarà la fisionomia caratteristica dell'insieme del partito, con tutto ciò che essa comportava oltre che di positivo, anche di relativamente negativo. Che, alla prova dei fatti, il numero degli iscritti risultasse inferiore a quello dei voti raccolti a Livorno, cosicché alla fine dell'anno superava di poco i 43.000 (il calo fu ancora più forte nella Federazione giovanile, quasi dimezzatasi nel corso del '21) (41) non deve meravigliare: il fenomeno di militanti dichiaratisi per il comunismo nell'imminenza del Congresso, ma presi da perplessità a scissione avvenuta, è riscontrabile anche nei partiti francese e tedesco e, in grado assai più elevato, nei monconi residui di partiti socialisti, rispetto ai quali d'altra parte i quadri delle sezioni nazionali dell'IC mostrarono ben altre capacità di resistenza alla pressione di fattori esterni (come, in Italia, l'offensiva delle forze legali ed extralegali di repressione borghese): più che di indebolimento, o di rarefazione degli effettivi, si trattò di una dura selezione al banco di prova delle pesanti richieste fatte dal partito ai suoi militanti. Se quindi la constatazione dell'esistenza del fenomeno, e di quelli, ad esso collegati, di cui diremo subito, non dette mai luogo a recriminazioni o ripensamenti, essi posero al partito il compito, ch'esso affrontò subito con grande decisione, di colmare i vuoti e superare gli ostacoli creati dalla situazione oggettiva; nessuno si sognò mai di idealizzarli, anche se ci si sforzò di valorizzarne i lati positivi. Del resto, la difficoltà sia di "sfondare" nelle roccaforti delle grandi organizzazioni economiche e delle categorie operaie relativamente più avvantaggiate, sia di ottenere l'appoggio e il consenso di frange piccolo-borghesi, in specie intellettuali, e contadine, confermava il giudizio sulle peculiari resistenze che l'ambiente storico e sociale dell'Europa altamente capitalistica offriva all'attacco proletario e che, secondo la nostra corrente, imponevano una tattica insieme più rigida e chiusa sul piano politico ed estremamente agile e aperta alla comprensione delle esigenze dei vari strati sociali sul piano rivendicativo.

La forte componente operaia rappresentava per il partito una valida garanzia di serietà, compattezza e militantismo, ma non contribuiva a risolvere, anzi aggravava, le difficoltà derivanti dalla penuria di forze disponibili sul piano sia della propaganda orale e scritta (giornalisti, oratori), sia dell'organizzazione (funzionari a tempo pieno ecc.). Presente dovunque sul territorio nazionale, il Partito era tuttavia concentrato per oltre l'89% degli iscritti in Piemonte, Venezia Giulia, Emilia, Lombardia, Toscana, Liguria, Marche (42): dovrà consolidarsi in queste roccaforti di origine (e farlo nelle condizioni sempre più difficili create dallo scatenarsi della reazione) prima di avviarsi se non alla conquista del Mezzogiorno, alla sua graduale penetrazione, così come, del resto, potrà solo in seguito e marginalmente attirare nelle proprie file una rappresentanza non irrilevante di piccoli e piccolissimi contadini, senza per questo travestirsi da partito "nazionale", erede e prosecutore del Risorgimento ecc., anzi applicando fedelmente le tesi rigorosamente marxiste del II Congresso in materia agraria (43). Distintosi fin dall'inizio da tutti i PC dell'Europa occidentale per volume e incisività di interventi nelle lotte rivendicative, il Partito si estese rapidamente soltanto in seno a categorie operaie e federazioni di mestiere molto combattive, ma relativamente secondarie, come quella dei lavoranti in legno - tanto continuavano ad essere forti tra le grandi masse la presa degli organizzatori di professione della CGL e il prestigio del vecchio partito; fenomeno del resto parallelo a quello della più rapida penetrazione in provincia che nei capiluoghi, nelle piccole e medie città più che nelle grandi (44), e spiegabile con il peso materiale di inerzie sociali e politiche e di fattori ritardanti di natura economica contro i quali si trattava di combattere invece di prenderli come dati di fatto insuperabili. Scarsa era infine la percentuale delle donne, aspetto specifico di una "realtà italiana" alla cui nefasta influenza il partito reagì fin dall'inizio, dando largo spazio nella sua stampa ai problemi della donna proletaria e forte impulso alla costituzione di gruppi femminili entro le sezioni, con rappresentanza, se possibile, - come era stato stabilito a Livorno, all'atto della costituzione del Partito - nei comitati federali e sezionali.

Omogeneità di indirizzo, fermezza di direzione, rigore di orientamenti tattici e di criteri organizzativi: queste, che per gli storici di scuderia sarebbero le caratteristiche distintive di un partito settario ed "elitistico", immobile nella gelosa salvaguardia della propria unicità, si dimostrarono invece (ma questo, per il marxismo, non ha bisogno di controprove) i presupposti e gli strumenti di una politica di energica iniziativa nei confronti della classe, le cui manifestazioni non seguirono a distanza il processo di strutturazione organizzativa del partito ma lo accompagnarono fin dai primi giorni, alimentandolo nell'atto di nutrirsene - un partito di azione rivoluzionaria come il III congresso chiederà a tutte le sezioni nazionali dell'IC di diventare.

Una fitta successione di convegni degli organizzatori comunisti, di assemblee nelle principali Camere del Lavoro e nelle Federazioni di mestiere nelle quali il partito era forte, di appelli del CS comunista ai proletari organizzati e di articoli di chiarificazione ed indirizzo, precedette l'intervento al V congresso della CGL, X della Resistenza, tenutosi a Livorno dal 26/II al 3/III, cui il PCd'I partecipò in forze non con l'"illusione puerile di ottenere un successo di qualsiasi genere, ma con animo di esporre in modo evidente il proprio punto di vista e richiamare su di esso l'attenzione delle masse e di tutti quelli che hanno occhi per vedere e imparzialità di mente per giudicare" (45). Il problema non era soltanto di controbattere l'accusa dei riformisti e dei centristi, secondo cui la tattica dei comunisti consisteva nel "foggiare a loro immagine e somiglianza sindacati di minoranza", mostrando come essa mirasse invece a "penetrare e conquistare i sindacati che ci sono, nei quali è la grande maggioranza operaia, da cui non si può straniarsi, nella quale occorre lavorare per strapparla all'influenza degli attuali capi riformisti" (46) - tutto il contrario, dunque, di quanto predicavano i tribunisti olandesi o il KAPD. Il problema era altresì - come fecero in sede di congresso Repossi e Tasca, Vota e Azzario - di contrapporre al tentativo dei capi confederali di ridurre le questioni sul tappeto a semplici problemi tecnici e organizzativi, l'esigenza di una svolta radicale nell'impostazione dell'attività rivendicativa, non - beninteso - nel senso di negare o sottovalutare le lotte e le rivendicazioni immediate dei lavoratori, ma in quello di orientarle e dirigerle in funzione della preparazione delle masse all'assalto rivoluzionario, di spezzare a questo scopo i ceppi del patto di alleanza col PSI, e di aderire senza riserve all'Internazionale dei Sindacati rossi rompendo ogni legame con Amsterdam. Si trattava nello stesso tempo di mettere in risalto la necessità di un cambiamento non meno radicale nella struttura delle organizzazioni sindacali, che rendesse possibili una più intensa vita interna, una più diretta partecipazione degli iscritti ai dibattiti e alle decisioni di interesse politico collettivo, un più stretto controllo degli organizzatori da parte degli organizzati - non in nome di una "maggior democrazia", ma nella convinzione che su questa base sarebbe stata assai più agevole la conquista degli organismi di "resistenza operaia" alla causa della rivoluzione.

Le linee direttrici dell'intervento comunista al congresso confederale furono esposte con particolare chiarezza nell'articolo di A. Bordiga su La battaglia comunista per il congresso della Confederazione del Lavoro, apparso sul nr. IV, 10/II/1921, de Il Comunista e da noi riprodotto in appendice al capitolo (47), al quale perciò rimandiamo. Mentre, d'altro lato, non erano direttamente i riformisti, ma i massimalisti, a formulare la mozione Bensi di approvazione (punto primo) dell'operato dei dirigenti socialdemocratici (48) e le due mozioni Ramella a favore (punto secondo) di "sempre più saldi rapporti fra PSI e CGL" e di "adesione incondizionata all'iniziativa per la creazione dell'Internazionale dei sindacati rossi, coll'impegno [a proposito di... adesione incondizionata!] di conservare comunque i rapporti della CGL con il PSI e purché venga riconosciuto per l'Italia il principio dell'unità sindacale confederale [che nessuno, in campo comunista, metteva in discussione]", oltre che di "distacco dall'Internazionale dei sindacati di Amsterdam in seguito ai [e si voleva dire: dopo aver preso conoscenza dei, e valutata l'opportunità di aderire ai] deliberati che saranno presi al Congresso sindacale di Mosca", la mozione presentata dai comunisti (unica, ma separabile in due parti, come infatti avvenne in conformità all'ordine dei lavori) poneva in modo tagliente l'insieme dei problemi resi scottanti dalla situazione interna ed internazionale:

Mozione comunista al Congresso di Livorno della CGL

"Il Congresso della Confederazione generale del Lavoro, dopo discussione in merito ai rapporti internazionali ed ai rapporti col partito proletario, considerato:

che la situazione determinata in tutto il mondo capitalistico dalla grande guerra del 1914-1918 non può risolversi che nella lotta rivoluzionaria del proletariato di tutti i paesi contro la borghesia, per strapparle la direzione della società;

che la struttura e i metodi dei vecchi organismi proletari, sia sindacali che politici, dinanzi ai problemi della guerra e del dopoguerra, si sono rivelati inadatti alla lotta per la emancipazione delle masse, degenerando nella larvata od aperta collaborazione con la classe dominante;

che dalla situazione e dalle esperienze rivoluzionarie determinate dalla guerra son sorte le direttive per la riorganizzazione del movimento proletario mondiale, coll'organizzarsi della nuova Internazionale comunista;

che l'unica via che può condurre all'emancipazione dei lavoratori dal giogo del salariato è quella tracciata nel programma e nei metodi dell'internazionale comunista, attraverso il rovesciamento violento del potere borghese e l'instaurazione della dittatura proletaria nel regime dei Consigli dei lavoratori, che attuerà la demolizione del sistema economico del capitalismo e la costruzione della nuova economia comunista;

che strumento principale della lotta proletaria per realizzare questi obiettivi è il partito politico di classe, il partito comunista, che in ogni paese costituisce la sezione della terza Internazionale;

che i sindacali operai, volti dalla politica socialdemocratica dei dirigenti riformisti e piccolo-borghesi ad una pratica antirivoluzionaria di collaborazione di classe, possono e devono essere fattori importantissimi dell'opera rivoluzionaria, quando ne sia radicalmente rinnovata la struttura, la funzione, la direttiva, strappandoli al dominio della burocrazia dei funzionari attuali;

che la tattica che la terza Internazionale adotta per conseguire tali obiettivi esclude e condanna l'uscita delle minoranze rivoluzionarie dalle fila dei sindacati diretti da riformisti, ma prescrive ad esse di lavorare e lottare dall'interno, con la propaganda dei principi comunisti, con la critica incessante all'opera dei capi, con l'organizzazione d'una rete di gruppi comunisti nelle aziende e nei sindacati strettamente collegata al Partito comunista, allo scopo di conquistare a questo la direzione del movimento sindacale e dell'insieme dell'azione di classe del proletariato;

riconosce indispensabile la creazione, al fianco dell'Internazionale comunista di Mosca, di un'internazionale di sindacati rivoluzionari; finalità raggiungibile solo con l'uscita delle confederazioni sindacali conquistate da comunisti dall'Internazionale sindacale gialla di Amsterdam, organismo nel quale si perpetuano i metodi disfattisti della seconda Internazionale, e attraverso il quale gli agenti dissimulati della borghesia, e di quella sua organizzazione di brigantaggio che si chiama la Lega delle nazioni, tendono a conservare un influsso sulle grandi masse proletarie;

ritiene che queste confederazioni sindacali nazionali, ed anche le minoranze comuniste organizzate nel seno dei sindacati riformisti, debbano aderire all'Internazionale sindacale rossa di Mosca, che a lato dell'Internazionale politica raccoglie tutti gli organismi sindacali che sono per la lotta rivoluzionaria contro la borghesia.

Per conseguenza il Congresso delibera che la Confederazione generale del lavoro italiana:

  1. si distacchi dall'Internazionale sindacale di Amsterdam;
  2. rompa il patto di alleanza col Partito socialista italiano, sia perché tale patto è ispirato a superati criteri tattici socialdemocratici, sia perché il partito stesso è fuori dalla terza Internazionale;
  3. aderisca incondizionatamente all'Internazionale sindacale di Mosca, e partecipi al suo imminente Congresso mondiale per sostenervi le direttive sindacali sopra richiamate, ossia quelle contenute nelle tesi sulla questione sindacale approvate dal secondo Congresso mondiale dell'Internazionale comunista;
  4. ispiri a queste direttive i suoi rapporti col Partito comunista d'Italia, unica sezione italiana della terza Internazionale, riconoscendo in esso l'organismo cui spetta la direzione dell'azione di classe del proletariato italiano".

Ora è notevole che, nonostante il breve tempo concesso alla preparazione delle assise e malgrado gli assurdi criteri seguiti nel calcolo dei voti - per federazioni e per camere del lavoro -, sui due punti all'ordine del giorno le votazioni dettero i seguenti risultati: Punto I, Camere del Lavoro, Mozione socialista 598.241 voti, Mozione comunista 293.428, astenuti 17.371; Federazione di mestiere, Moz. soc. 836.932, Moz. com. 139.130, astenuti 4.815; Punto II, Camere del Lavoro, Moz. soc. 556.608, Moz. com. 287.966, astenuti 6.000; Federazioni di mestiere, Moz. soc. 797.618, Moz. com. 130.499, ast. 15.347, dove mette conto di osservare non solo il notevole successo ottenuto dai comunisti, malgrado tutti gli ostacoli della procedura e della situazione, ma anche il fatto di averlo conseguito in particolare là dove, come nelle CdL, erano maggiormente possibili i dibattiti politici e la rappresentanza proporzionale delle diverse correnti, invece che là dove, come nelle Federazioni di mestiere, era difficile se non addirittura impossibile l'affermarsi di una tendenza in contrasto con quella della burocrazia dominante. (A buon diritto, quindi, la Relazione del Comitato centrale al II Congresso nazionale del PCd'I, Roma, 20-24 marzo 1922, osserverà: "Bisogna ricordare che, per disposizione degli statuti confederali, tanto le Camere del Lavoro, quanto le Federazioni di mestiere votano al congresso solo per la metà dei propri iscritti, e ciò perché nelle votazioni il numero degli organizzati non appaia raddoppiato. [...] Per una valutazione più rispondente alla realtà, le forze comuniste esistenti in seno alla CGL si devono calcolare esclusivamente sulla base delle cifre delle Camere del Lavoro, secondo le quali 586.856 lavoratori si sono affermati sulle direttive comuniste" contro 1.155.549 ligi alle direttive non tanto socialiste in genere, quanto più propriamente confederali).

L'intervento segnò l'inizio di un'aspra battaglia all'interno della CGL, le cui tappe successive saranno i Consigli nazionali confederali del 22-25 aprile a Milano e dei primi di novembre a Verona, e della intensa attività svolta all'interno e all'esterno delle confederazioni (CGL e USI) sia per l'unità sindacale, sia per una risposta d'insieme del proletariato italiano all'offensiva condotta su tutti i fronti dal padronato. In vista di ciò, il 4 marzo, una nuova riunione di organizzatori comunisti provvide a completare il Comitato centrale Sindacale, provvisoriamente costituito a Livorno, con segretario Luigi Repossi (il CS, di cui entrarono a far parte anche due lavoratori della terra) tanto per il coordinamento della propaganda e dell'agitazione, quanto per la "preparazione delle modifiche statutarie" da proporre al successivo Consiglio nazionale CGL. Se si pensa alle resistenze opposte dal PCF ad una azione sistematica in seno ai sindacati, ed alla sua ritrosia ad invadere il campo delle organizzazioni economiche (che era poi un modo di tenersi libere le mani per privilegiare il lavoro… in parlamento o nei comuni), o alla costante oscillazione del VKPD fra un miope minimalismo ed un "offensivismo" spinto all'assurdo, non si può non riconoscere che qui ci si trova, per cosi dire, in un mondo affatto diverso - forse meno spettacolare dal punto di vista immediato, certo più solido e realistico a scadenza lontana.

Un aspetto minore, ma non privo d'interesse, della battaglia condotta fin dall'inizio dal PCd'I in direzione della conquista delle grandi masse fu l'intensa azione svolta all'interno sia della Lega Inquilini, sia della Lega Proletaria Mutilati e Reduci di Guerra. Fondata nel 1919, questa aveva subito aderito all'IC con altre organizzazioni analoghe di diversi paesi, senza che ciò impedisse a riformisti e massimalisti di assumerne il controllo e limitarne l'attività alla difesa delle rivendicazioni economiche degli ex-combattenti. Fin dapprincipio, i comunisti capirono invece quale importanza agli effetti della preparazione militare del proletariato un simile organismo avrebbe potuto assumere (49). Un appello ai "comunisti iscritti alla Lega Proletaria", apparso ne Il Comunista del 20/II tracciò cosi il programma che i gruppi comunisti in seno alla Lega si disponevano ad agitare:

"1) Stretta subordinazione della Lega Proletaria al PC, unica ed esclusiva sezione in Italia dell'Internazionale comunista, alla quale la Lega Proletaria aveva dato la sua entusiastica adesione sia dall'anno scorso; 2) azione energica della Lega Proletaria per sviluppare l'azione del Bureau International degli ex-combattenti […]; 3) allargamento delle basi della Lega si da comprendere tutti gli ex-militari e i militari, senza alcuna distinzione; 4) propaganda risoluta e tenace per far comprendere agli ex-militari la necessità assoluta di prepararsi a diventare i combattenti dell'esercito rivoluzionario contro le malsane degenerazioni della vigliaccheria socialpacifista" (50).

Basti per ora aggiungere che della Lega il PCd'I seppe fare nel biennio successivo una delle roccaforti della sua opera di penetrazione negli organismi intermedi e nelle file del proletariato, reagendo da un lato alle infiltrazioni socialpacifiste e dall'altro alle tendenze alla neutralità politica, anche se non riuscì a metterla al servizio, sul piano immediato, dell'autodifesa proletaria né, in una prospettiva più vasta, della preparazione dell'"inquadramento della guardia rossa per la guerra civile".

Il lavoro di organizzazione del nuovo partito non doveva, d'altra parte, andare a scapito di un'opera paziente di chiarificazione teorica. Questa era, anzi, tanto più necessaria (come troppo spesso non si capì neppure allora; figurarsi oggi!) in quanto in una larga fascia di compagni di recente affiliazione persistevano i pregiudizi, le incertezze e le ambiguità derivanti dal passato massimalista, quando poi l'adesione per istinto alla III Internazionale, più che per convinzione al PCd'I, non comportava un certo grado di assimilazione in via soltanto approssimativa dei fondamenti del comunismo.

A questo compito di indirizzo e chiarimento teorico, sempre rivolto come necessaria conseguenza alla preparazione pratica dei militanti, sono soprattutto destinati gli articoli di A. Bordiga (51) che pubblichiamo in appendice. Il primo (La funzione della socialdemocrazia in Italia) prende di mira l'illusione che un governo socialdemocratico possa rappresentare un anello intermedio fra il regime borghese e la rivoluzione e la dittatura proletarie, e la tesi da essa derivante che debbano i comunisti favorirne se non addirittura appoggiarne l'avvento. La risposta è che, come dimostrano le tragiche esperienze tedesca, ungherese e bavarese, l'ascesa al potere della socialdemocrazia non solo non rappresenta un ponte obbligatorio verso la rivoluzione, ma costituisce un'estrema risorsa di conservazione del regime capitalistico - come tale non aliena dal farsi carico della repressione violenta e sanguinosa delle masse in rivolta -, e che, quindi, al suo avvento occorre prepararsi in assoluta indipendenza politica ed organizzativa, se non si ha ancora la forza, come sarebbe di gran lunga preferibile, di impedirne il funesto esperimento abbattendo, insieme ai lacchè della borghesia, il suo stesso Stato.

La serie successiva (Il problema del potere; L'andata al potere; L'uso della violenza) è diretta contro quella varietà tutta "italiana" di socialdemocratici (in pratica, l'enorme maggioranza dei riformisti) che crede di aver le carte in regola col marxismo solo perché maneggia i concetti di lotta di classe, di intransigenza politica, di andata al potere senza partecipazione borghese, mentre a nulla valgono tali proclamazioni se non le completa il riconoscimento che "il potere dello Stato resta di fatto nelle mani della borghesia fin quando sono in piedi gli istituti parlamentari ed esecutivi dello Stato attuale"; il riconoscimento quindi della necessità ineluttabile di abbatterli con la violenza rivoluzionaria e sostituirli con gli istituti (di segno opposto) della dittatura proletaria. È nello stesso tempo controbattuta la tesi massimalista che, mentre riconosce a parole la necessità del ricorso alla violenza, ne rinvia l'impiego alle condizioni sedicentemente favorevoli che si presenteranno nell'ora x o y e così preclude al proletariato e al suo partito la possibilità di prepararsi, anche nella situazione peggiore, all'assalto necessariamente violento o dell'avversario alle loro proprie istituzioni, o di essi stessi al nemico e ai suoi istituti statali.

V'è infine (articolo La chiave delle diffamazioni del bolscevismo *) una prima risposta alle principali varianti della propaganda diffamatrice della rivoluzione russa svolta in generale dai socialdemocratici e, in specie, da coloro che, all'epoca del II Congresso mondiale, erano andati "in missione" nella Repubblica dei Soviet tornandone carichi di "argomenti" a sostegno della via pacifica, graduale, antirivoluzionaria e antidittatoriale, al socialismo. Vi si dimostra che mai nel programma dei comunisti ha trovato posto la tesi secondo cui la forma politica istituita dal proletariato in seguito alla conquista del potere si baserà su un principio astratto di eguaglianza (al contrario, è sempre stato detto che sarà un regime di diseguaglianza, perché di classe), o che l'obiettivo al quale tende la dittatura proletaria in economia si riassuma nella gestione delle aziende ad opera dei rispettivi consigli di operai ed in funzione delle loro esigenze, anziché ad opera del potere statale centrale e in funzione degli interessi generali della collettività, o che l'"eguaglianza delle condizioni materiali degli uomini" possa essere raggiunta, e, viceversa, le tare proprie del modo di produzione capitalistico - la corruzione, la speculazione e via dicendo - possano essere eliminate, dalla sera alla mattina o... per decreto. Vi si dimostra quindi che le critiche basate sull'assenza di simili "realizzazioni" nella Russia rivoluzionaria si basano, nell'ipotesi più benevola, sull'ignoranza dell'abc del comunismo marxista e, nella peggiore, su una completa malafede.

L'alto livello degli articoli di impostazione teorico-programmatica, e di polemica generale con i partiti avversi, che non si perdono mai nel mondo della pura astrazione ma si collegano sempre a problemi scottanti e a viventi esperienze della lotta di classe, non deve far credere che la stampa di partito fosse di tono essenzialmente "dottrinario": al contrario, essa aveva un carattere marcatamente di battaglia, si nutriva di un contatto molto stretto con gli sviluppi della situazione della classe operaia, di un costante riferimento alle questioni ardenti dello scontro anche fisico con la classe avversa in Italia e nel mondo, di un'informazione dettagliata sulle vicissitudini del movimento proletario in genere e del partito in specie, e di una vigile attenzione ai problemi organizzativi e alla loro soluzione in tutti i campi d'intervento e disciplinamento delle forze comuniste. E lo diciamo non perché sentiamo il bisogno di "giustificare" il partito di allora e "lavarlo" da quello che solo i superopportunisti di oggi possono considerare un'onta - l'importanza centrale attribuita alle questioni di principio -, ma perché ignorare quanto sopra significherebbe sfigurarne il volto.

Neppure l'ombra di una nube turbava in quei giorni i rapporti fra questo partito e Mosca. Il 23/I, da Milano, il CC aveva diretto all'Internazionale il seguente messaggio (52):

"Cari compagni,

presumiamo che debbano esservi giunte le prime notizie di quanto si è svolto al congresso di Livorno del PSI.

Dopo un dibattito vivacissimo, nel quale ancora una volta è stato dimostrato che la destra del partito era contro tutti i principi del comunismo e della Terza Internazionale, e che il centro sotto il nome di Frazione comunista unitaria faceva causa comune con la destra, e per conseguenza respingeva apertamente le decisioni e le condizioni del II Congresso dell'Internazionale; dopo continue manifestazioni da parte di queste due tendenze contro la politica dell'IC e contro i vostri stessi rappresentanti, la mozione proposta dalla nostra Frazione e da voi accettata ed appoggiata veniva respinta, pur avendo raccolto una lusinghiera votazione. Dinanzi a tale situazione, dopo avere dichiarato che la maggioranza del Congresso, col suo voto, erasi posta fuori dell'IC, i delegati comunisti si sono allontanati e, riunitisi a parte, tra il più grande entusiasmo hanno dichiarato costituito il Partito comunista d'Italia, Sezione dell'Internazionale comunista.

A nome dei delegati comunisti convenuti a Livorno, a nome dei 60.000 compagni da loro rappresentati, a nome delle masse proletarie che già si stringono intorno a noi, inviamo come primo atto del nuovo Partito un saluto vibrante di fede e di volontà comunista a voi, compagni del CE, quali rappresentanti dei lavoratori comunisti del mondo intero, per attestarvi il vincolo di solidarietà e di disciplina col quale i comunisti italiani si stringono oggi nell'Internazionale comunista.

Salutiamo nello stesso tempo il glorioso proletariato della Russia dei Soviet, avanguardia della rivoluzione mondiale.

Viva la Repubblica universale dei Soviet!

Viva la Internazionale comunista!"

In data 25/I/1921, il CE dell'Internazionale rispose con un radiogramma, curiosamente reso di pubblica ragione dall'agenzia "Stefani" prima che giungesse alla sede centrale del partito. Vi si leggeva:

"Al Partito comunista italiano, e ai compagni Bombacci, Bordiga, Terracini e altri.

Il CE dell'IC espone la sua profonda solidarietà e vi invia i suoi saluti fraterni. Il vostro Partito è l'unico accettato dall'Internazionale comunista in Italia. Noi siamo profondamente persuasi che gli operai coscienti del vostro Paese passeranno di giorno in giorno dalla vostra parte. La unità di Serrati e della sua frazione con la frazione riformista avversaria della rivoluzione proletaria mostrerà a ciascuno di essi che la frazione italiana degli unitari centristi è più vicina agli elementi borghesi riformisti che non ai comunisti proletari. Tutta l'IC trarrà da questo fatto la conclusione inevitabile.

State saldi, compagni, poiché in questo momento tutte le forze borghesi e i loro innumerevoli agenti si concentrano contro il vostro Partito. I lavoratori comunisti di tutto il mondo sono con voi. L'avvenire sarà vostro, e non di coloro che, sotto una forma o l'altra, vogliono intendersela con la borghesia, essendone intermediari i riformisti.

Viva il Partito comunista d'Italia!

Viva il proletariato italiano!"

In un breve commento, dopo aver rilevato come il messaggio smentisse tutte le voci di dissenso fra l'IC e i comunisti italiani, Il Comunista scriveva:

"Da Mosca, capitale gloriosa della rivoluzione, l'organo supremo e centrale dell'immenso esercito proletario in lotta per il comunismo, mentre conferma che noi siamo gli interpreti del suo pensiero e i soldati della sua azione, ricorda contro quali e quanti nemici dobbiamo lottare, e ci conferma che i lavoratori comunisti di tutto il mondo sono con noi.

È per essere degni di loro che noi dobbiamo, alla lotta contro gli innumeri nemici, saper consacrare tutte le forze nostre, riuscendo ad abbattere tutti gli ostacoli, a superare tutte le difficoltà. È questo punto del messaggio di Mosca che ci pare nell'ora presente di dover richiamare più vivamente a tutti i nostri compagni, ricordando loro come, se quel messaggio ci conferma luminosamente di essere sulla buona via, ancora ci resti da compiere la parte più aspra e difficile del nostro cammino. E ripetiamo con incrollabile fede quanto affermano i compagni di Mosca: l'avvenire sarà nostro e non d'altri, perché l'avvenire è del comunismo e della rivoluzione".

In questo spirito, fuori di ogni retorica, il Partito cominciava la sua dura battaglia.

Note

(1) Le citazioni sono tratte dal già citato Resoconto...

(2) Cfr. Kabakčev, op. cit., p. 52.

(3) I due discorsi di Kabakčev, all'inizio e alla fine dei lavori, vennero frequentemente interrotti dalla maggioranza nello spirito sia di quel "patriottismo socialista italiano" contro cui si era scagliato Graziadei (egli era lo "straniero" venuto ad occuparsi dei fatti "altrui"!), sia dell'insofferenza non solo per l'"occhio di Mosca", ma per qualunque occhio in generale, specie se di un organo centrale ed internazionale, incline per essenza alla prevaricazione nei confronti della "base". Baratono poteva chiedersi, ascoltando il rappresentante del Comintern, se la "mano di ferro" calata sul Congresso "fosse la morsa della tenaglia, fosse il ferro di un aratro che dividendo feconda, fosse la necessaria imposizione di un organo superiore al quale tutti ci dobbiamo subordinare, e quindi, la reazione di molti compagni fosse semplicemente il vecchio ordine che si ribelli al nuovo"; la maggioranza dei massimalisti avrebbe risposto (come egli stesso nel corso del dibattito) che non era nulla di tutto ciò, ma il pugno di ferro del caporale di turno operante al servizio del generalissimo di turno ("Papaciov! Papaciov!", si gridò da una platea inviperita).

(4) Si veda a questo proposito la nota 55 del II capitolo.

(5) Il discorso qui trasuda una codardia che, nella situazione verso la quale il proletariato si stava avviando, non è esagerato chiamare tragica: "guardate il fenomeno del fascismo, che non dipende dal fatto che gli altri abbiano più valore, più coraggio dei nostri compagni, ma dal fatto che si sa che, sparando, sono poi assolti, mentre la nostra condizione è ben diversa, perché, se si porta una rivoltella, siamo messi in prigione". Occhio, dunque: circoliamo… disarmati!

(6) I relatori per la Sinistra non vollero polemizzare su questi "scampoli" di tradizione serratiana; lo si era già fatto in sede precongressuale e lo si farà in seguito, per es. in un efficace articolo di G. Sanna, intitolato L'alibi francese e uscito nel n. III, 6/II/1921, de Il Comunista; farlo durante il congresso avrebbe voluto dire abbassarne il tono. Riferendo di un articolo di Varine (pseudonimo di Boris Souvarine), in polemica con Serrati, a proposito dell'accettazione nel PCF di un ex-socialsciovinista come Cachin, un collaboratore anonimo osserva che, in casi del genere, sarebbe stato forse preferibile attenersi a un doppio criterio di giudizio sulla personalità dei candidati all'iscrizione - quello relativo al presente e quello relativo al passato - anziché, come aveva fatto l'Esecutivo moscovita, alla constatazione dell'atteggiamento attuale del personaggio in questione; quello che però non si poteva ammettere in nessun caso era che, come solevano i massimalisti, ci si servisse dei veri o presunti meriti passati di oppositori alla guerra per coprire le colpe presenti di alleati ai peggiori riformisti, senza contare che la sanatoria applicata a Cachin e Co. non solo non implicava la minima rinuncia ai principi contenuti nelle Tesi del II Congresso, ma ne presupponeva l'integrale affermazione.

(7) "Forse non ve ne avvedete - esclama a un certo punto, rivolto ai massimalisti -, ma voi correte verso di noi con la velocità di un treno lampo!". Come non dargli ragione?

(8) Ovvero "del miracolo, della violenza fisica, esterna verso le altre classi, interna verso una parte del partito, della violenza fisica e della violenza morale". Ed ecco per contrapposto "il socialismo vero, immortale, invincibile, inesorabile, che può essere minoranza oggi, maggioranza domani, ma che salva il Partito, che conduce la classe, che tesse la sua tela ogni giorno e compie quella dura e tenace fatica di cui parlava Engels [...], che non fa miracoli, che non si culla nelle illusioni delle cose precipitate, che crea oggi una cooperativa, domani fa un sindacato di resistenza, posdomani si occupa della cultura operaia senza la quale non usciremo mai da questi dolorosi anfratti, che si impossessa dei comuni, del parlamento, di tutti gli organi, a poco a poco, giorno per giorno, che crea lo Stato di domani e gli uomini capaci di manovrare il timone. Sempre vincitori in un momento, sempre vincitori alla fine".

(9) Questo si chiama parlar chiaro. E Serrati avrebbe voluto lasciar fare ai riformisti un ultimo esperimento ancora!

(10) Turati darà all'invito serratiano ad accettare la suddetta formula questa elegante risposta (cfr. il Resoconto, p. 325): Noi evoluzionisti siamo i primi a dimostrare senso di disciplina nell'azione con "l'appartarci quando non possiamo cooperare" senza per questo tagliare la strada al Partito; ma quando, come noi, si ha davanti la prospettiva di una "rivoluzione che procede per lente conquiste, che dura dei decenni", capirete bene che "questa massima dev'essere accettata con molta considerazione"; pazienza rinunciare "alla parola e al pensiero (non alla solidarietà ad una determinata azione nel momento che volge)" per un giorno o per un mese; ma farlo per anni significa castrarsi; pardon, "rinnegare se stessi"!

(11) Possiamo quindi sorvolare sui discorsi di Bombacci e Gennari, sulla dichiarazione di confluenza nel voto a favore della mozione unitaria fatta da Lazzari, e su altri interventi minori.

(12) Cfr. per il primo punto l'intervista di U. Terracini all'Ordine Nuovo, 25/I/1921, e, per il secondo, il discorso di Ràkosi al III Congresso dell'I.C. (Protokoll etc., cit., p. 329).

(13) Rettificando un errore di calcolo, il Martinelli (Il PCd'I. 1921-1926. Politica e organizzazione, op. cit., p. 140 e segg.) porta i voti per i comunisti a 59.095, per gli unitari a 95.069, per i concentrazionisti a 14.858. Si noti pure che i votanti risultarono 169.020 contro un totale di 216.387 iscritti al PSI al momento del Congresso: è quindi probabile che i rappresentati di oltre 40.000 soci non abbiano espresso il loro voto abbandonando la sala prima delle votazioni.

(14) Tali irregolarità risultavano, precisa una lettera del CE comunista firmata R. Grieco all'Avanti! del 30/I, "dal confronto dei registri regolarmente tenuti dalla Frazione comunista, nei quali figuravano le cifre effettive di tutti i gruppi aderenti e rappresentati al Congresso, con l'esito della votazione, oltre che da quanto riferirono i fiduciari della Frazione nei diversi seggi e da quanto fu anche talvolta ammesso dai compagni di altre frazioni".

(15) Baratono poté dichiarare a proposito dei comunisti: "le ultime parole di Amadeo Bordiga non ci permettono, decorosamente, di rimpiangere la loro presenza". Dopo tutto, per l'esimio professore di filosofia, la loro posizione "che assolutamente nega" equivaleva ad una forma di "ascetismo cerebrale". Alla destra, invece ("nemico" che... non fugge), vennero fatti ponti d'oro!

(16) La mozione Bentivoglio sarà poi discussa (ma il ricorso, per il momento, sarà respinto) al III Congresso dell'I.C., in giugno.

(17) Si potrà obiettare che lo accettò per disciplina verso Mosca. Ma ciò è vero relativamente al grado in cui la scissione si operò "sul fianco sinistro", non al criterio generale seguito nel corso del processo di scissione, che implicava necessariamente l'accettazione di un minimo di "rischio calcolato" nel senso di una non perfetta concordanza fra le parti. Del resto, che la Sinistra non pensasse di "costruire" il partito per semplice "espansione a macchia d'olio" è provato dal suo modo di atteggiarsi, prima ancora del II Congresso, di fronte a gruppi coi quali tuttavia era in polemica aperta, come "l'Ordine Nuovo", ciononostante invitato come qualcosa più che un "osservatore" alla Conferenza nazionale di maggio, o come il KAPD di cui essa non escludeva (cfr. il II volume della Storia della Sinistra comunista, pp. 541-546) il ritorno in seno al partito tedesco esattamente come l'Esecutivo del Comintern tenterà poi di fare in modo che avvenisse.

(18) Se ci è permessa una formula inedita, potremmo dire che, se il partito è sempre una minoranza, e solo come tale è organo e non semplice parte, della classe, per la sua formazione è necessaria una minoranza nella minoranza, un nucleo ristretto che consenta all'organo di funzionare nel modo più omogeneo e quindi più efficace. Nel PCd'I 1921 questo concetto generale trovò la sua estrinsecazione formale nel fatto - contraddittorio in linea puramente logica - che fu proprio la frazione astensionista il solo gruppo organizzato a non sciogliersi prima della costituzione del partito.

(19) La formula suonò: "L'assemblea dei delegati della Frazione Comunista dichiara costituito il Partito comunista d'Italia, Sezione dell'Internazionale Comunista, e passa a discutere l'organizzazione interna del Partito".

(20) Checché, retrospettivamente, possano dire gli storici, ad essa appartenevano, a parte Gramsci e qualche suo collaboratore diretto, anche i rappresentanti più in vista del "gruppo" dell'"Ordine Nuovo", i Terracini, i Togliatti, i Tasca ecc.

(21) Dai verbali della riunione, riprodotti in versione inglese in The Comintern: Historical Highlights, cit., p. 337.

(22) Ufficialmente, a Bordiga era affidata l'impostazione politica generale, a Grieco l'organizzazione, a Terracini la stampa e propaganda, a Repossi l'attività sindacale, a Fortichiari l'"ufficio primo" preposto all'organizzazione illegale del Partito. È ovvio che un Bordiga il quale, secondo Gramsci, aveva capacità di lavoro per quattro, poteva anche disciplinare il lavoro di tutta l'équipe nei diversi settori, senza che mai sorgessero questioni di... competenza e senza che venisse meno un senso di solidarietà e cameratismo di cui nemmeno i più accaniti avversari della nostra corrente poterono negare l'esistenza, e che è cosi raro in partiti dalla struttura severamente "gerarchica".

(23) Vedremo nel successivo volume come al III congresso mondiale la delegazione italiana sia stata responsabile, almeno in parte, di "una stonatura" che la nostra corrente attribuì "alla grande facilità di improvvisare di uno degli attuali [siamo nel 1925!] centristi, che farà bene a prendersene finalmente la responsabilità" (cfr. Il pericolo opportunista e l'Internazionale, ne L'Unità del 30/IX/1925. Ma si veda anche il paragr. 4 della parte III delle Tesi di Lione, riprodotte nel volumetto In difesa della continuità del programma comunista, ediz. Il programma comunista, Milano, 1970, p. 116). Si trattava di U. Terracini: inutile dire che la responsabilità degli "errori in senso infantilista" allora commessi, il futuro presidente dell'Assemblea costituente post-fascista non se la prese mai.

(24) P. Spriano scrive che la "sezione italiana dell'IC uniformò rapidamente la sua struttura organizzativa al modello di partito comunista elaborato dal II Congresso del Komintern" (Storia del Partito comunista italiano, vol. I, op. cit., 1967, p. 167). Ma il II Congresso non aveva "elaborato" nessun "modello"; aveva fissato le basi di principio sulle quali, coerentemente alla dottrina marxista, dovevano sorgere le sezioni nazionali dell'IC. In ciò risiedevano la forza e la vitalità delle sue Tesi.

(25) Così il punto 30 dello Schema di tesi della minoranza del CC del PCd'I, redatto in vista della conferenza nazionale di Como e pubblicato ne Lo Stato operaio, nr. 6 del 15/V/l924.

(26) Meditino i militanti di oggi, a questo proposito, la lettera di A. Bordiga a E. Ambrogi del 16/IX/1922, riprodotta in Mettewie-Morelli, Lettres et documents d'Ersilio Ambrogi, in Annali Feltrinelli 1977, pp. 193-194. Non v'è in essa ombra di retorica: i "capi" di allora dimostrarono veramente di appartenere al tipo di uomini che "ai posti di dirigenza del partito - senza voler qui fare del sentimentalismo e posare a cavalieri dell'ideale - ci stanno per lavorare sul serio e austeramente [corsivi nostri] e ad ogni istante si sentono pronti a rientrare nell'ombra di un posto di gregario e a riprendere il lavoro in altro campo per procacciarsi i mezzi occorrenti al modesto loro tenore di vita", non avendo "necessità di essere inchiodati alle loro cariche" e non soffocando "se tolti all'insidiosa atmosfera della notorietà e della autorità".

(27) Non è certo un caso che nel dicembre 1921 l'Internazionale abbia delegato Bordiga e Walecki, membri di due partiti estranei alle tradizioni anticentralistiche del famoso "comunismo occidentale", a erudire i massimi dirigenti del PCF (nella già ricordata riunione di Marsiglia) circa l'elementare verità che - come disse il primo, ma il secondo ribadì gli stessi concetti - "le decisioni serie possono essere prese soltanto in una cerchia ristretta. Bisogna lasciarle a quattro, cinque o sei compagni che godano la fiducia del partito", non commettendo, sotto pretesto di impedire la nascita di un "centralismo oligarchico" (come pretendevano sia il comité directeur parigino, sia la potente Federazione della Senna) "l'errore di sminuire il ruolo di questi compagni confinandolo all'esame di questioni minori. Naturalmente il petit bureau deve comparire avanti il comité directeur ad intervalli regolari, per riceverne un programma e delle direttive generali di lavoro e per rendere conto della sua azione; ma, fra l'una e l'altra seduta del comité, deve avere gli stessi poteri di quest'ultimo - maggiori, anzi, in realtà, perché composto di specialisti che si dedicano interamente al partito". E ancora: "Perfino nel corso di una settimana, possono sorgere problemi che esigono decisioni immediate. Il petit bureau deve essere senza riserve competente a prendere tali decisioni, di cui dovrà poi rendere conto". Una delle "lezioni del fascismo" in Italia era che "se il partito deve essere un esercito in lotta contro la borghesia, riunire un vasto comitato risulta impossibile". E se, come andava predicando Rappoport, fosse stato vero che, quando si trattava del compito di dirigere l'insieme del partito, in più si era, meglio lo si poteva assolvere, perché, allora, non essere in duecentoquaranta, anziché in ventiquattro? (Verbali citati, pp. 336 e 343).

(28) Anche questo è un prodotto del peculiare modo di costituzione del PCd'I, non riscontrabile infatti nella stessa misura né nel PCF, né nel VKPD. L'età media dei componenti il CC è di 36 anni; quella dei componenti il CE, di 32: a Livorno Bordiga non ha ancora 32 anni, Grieco ne ha 28, Terracini 26, solo Fortichiari e Repossi 39. (Cfr. Martinelli, Il gruppo dirigente nazionale [...], 1921/1943, in Il PCI - Struttura e storia dell'organizzazione, 1921/1979, in Annali Feltrinelli 1981, Milano 1982, pp. 364-366).

(29) Nel '21, come in tutte le sezioni nazionali dell'IC, base del partito è la sezione territoriale, che la nostra corrente, senza idealizzarla (giacché "la rivoluzione non è questione di forme di organizzazione"), considerò sempre come la più aderente alla natura e alla funzione del partito di classe. Poiché questo "è l'organo che sintetizza e unifica le spinte individuali e di gruppi provocate dalla lotta di classe", è ovvio che "il tipo" della sua organizzazione debba "essere capace di porsi al di sopra delle particolari categorie e perciò raccogliere in sintesi gli elementi che provengono dai proletari delle diverse categorie, dai contadini, dai disertori della classe borghese ecc." (La piattaforma della sinistra, L'Unità del 7/VII/1925). Organo subordinato alla sezione e invece il gruppo comunista di fabbrica o di sindacato - già previsti nella Relazione Bordiga-Terracini -, sua longa manus nel posto di lavoro o nell'organizzazione economica. Mente dunque sapendo di mentire lo Spriano, quando scrive (op. cit., I, p. 170) che nel partito del '21 "non esiste una organizzazione per cellule, sul luogo di lavoro" e quindi (p. 119) manca "il legame tra partito e classe necessario nei luoghi di produzione". Il problema per noi non era di respingere il "gruppo" o, come si disse poi, "la cellula" (si ricordi che i gruppi comunisti furono nel '21-22 dei centri attivissimi di irradiazione delle parole d'ordine del partito), ma di non chiudere nell'orizzonte forzatamente limitato e settoriale del luogo di lavoro la base stessa del partito e di non trasformare un organo subordinato in organo primario, elevandolo per giunta a modello e garanzia di "bolscevizzazione". Si sarà notato inoltre come il "gruppo comunista" di fabbrica o di sindacato figuri già, esattamente con i caratteri e la funzione assegnatigli poi nel '21, sia nel Manifesto-Programma, sia nella Mozione della Frazione comunista del PSI.

(30) Le norme (Prima revisione degli iscritti) vennero emanate il 27/V. Le commissioni di controllo istituite in ogni sezione dovevano presentare ai CE sezionali un elenco completo degli iscritti effettivi, annotando quali "per dimostrata scarsa attività data al partito o per scarsa disciplina o per dubbia fedeltà non siano ritenuti degni di rimanere nel partito"; gli elenchi, vagliati dalle commissioni di controllo, approvati o modificati dai CE sezionali e da questi rimessi ai CE federali per ulteriore esame e giudizio, sarebbero stati definitivamente approvati dal CE del Partito, il quale confidava "che i compagni coopereranno a questa prima purificazione delle file comuniste, dando in tal modo una prova di forza e di conquistata coscienza rivoluzionaria". L'operazione si concluse in novembre con un numero limitato di radiazioni: ne riparleremo nel IV volume.

(31) Da Primo commento (sulla scissione) in Il Comunista, nr. I del 30/I.

(32) Dei due testi riproduciamo in appendice il secondo, perché il primo svolge, in sostanza, gli stessi temi della Relazione al congresso di Livorno. (Cfr. comunque il volumetto Manifesti ed altri documenti politici, edito dal PCd'I, Roma, 1922, ora in reprint Feltrinelli). La manifestazione del 20/II "per la propaganda e la stampa comunista" servì anche come verifica della disciplina e della efficienza organizzativa del partito un mese dopo la sua costituzione. Un comunicato del CE apparso il 27/II col titolo Ammaestramenti, pur giudicandone "soddisfacente l'organizzazione", non esitò a denunciare senza falsi pudori "alcune manchevolezze di compagni e di organi del partito" (benché dovute più che altro a scarso "allenamento") e a dare l'elenco nominativo di coloro che, qualunque posizione occupassero nella gerarchia interna, avevano mancato all'appello. Un altro comunicato, apparso ne Il Comunista del 10/II, combatteva l'abitudine radicata nel vecchio partito di permettere a chicchessia di presentarsi "in pubblici comizi, riunioni, assemblee a parlare con un'autoinvestitura di rappresentanza" del partito stesso. Precisato che mentre "a tutti coloro che sono nelle nostre fila è aperto il campo immenso e fertile della propaganda spicciola [...] solo i riconosciuti effettivamente idonei al compito di volgarizzatori dei nostri principi devono parlare in nome e per delega dell'organizzazione", esso avvertiva: "Il CE avrà cura di preavvisare con un normale anticipo i compagni propagandisti quando intende valersi della loro opera: essi non potranno accampare impedimenti alle disposizioni che loro pervengano, se non di carattere gravissimo e inderogabile".

(33) Tattica nelle amministrazioni locali, comunicato del CE ne Il Comunista del 24/II. La direttiva era di dimettersi dove e quando si fosse in minoranza nelle giunte o deputazioni, e di provocare invece le dimissioni degli assessori socialisti dove e quando si fosse in maggioranza. Sull'argomento, cfr. anche I comunisti nel parlamento e nei comuni, ne Il Comunista del 17/II, dove si riprendono sviluppandole le tesi del II congresso mondiale.

(34) Si precisava inoltre che "l'IC e il PCd'I riconoscono e sostengono soltanto il periodico e i giornali autorizzati dal CE del PCd'I come organi ufficiali del partito in Italia. Ogni altra pubblicazione, qualunque ne sia il titolo e l'indirizzo, non ha nulla in comune con l'IC e con la sua sezione italiana". Non era soltanto Serrati, infatti, a pubblicare riviste, periodici, testi, opuscoli, ecc. fregiandosi della etichetta della III Internazionale.

(35) Da Che cosa è il fascismo? ne Il Comunista del 3/II. Sull'origine e il significato storico del fascismo, e sulla risposta proletaria e comunista alla sua offensiva, si leggano gli articoli apparsi in ogni numero de Il Comunista (per es., il 3, il 6, il 17 febbr. e il 3, il 6, il 10 marzo).

(36) Postille alle tesi della Sinistra, in Stato operaio, nr. XVII del 22/V/1924.

(37) Un caso tipico (e, a quanto ci risulta, unico) di "pateracchio" concluso localmente a scopo di "difesa dalla reazione" fu la costituzione ad Imola - in occasione di una scorreria fascista - di un "fronte unico" coi socialdemocratici, accompagnato dal lancio in suo nome di un manifesto "ispirato a criteri che non sono quelli seguiti dal PC, mentre l'amministrazione socialista locale lanciava altro manifesto dettato, malgrado il 'fronte unico' coi comunisti, da quei criteri pacifisti e addormentatori che il PC rimprovera ai socialdemocratici come opera di disfattismo proletario". Con grande scandalo dei "comunisti" di oggi, il 9/VI il CE deplorò che "una Sezione diretta da vecchi e provati compagni" avesse preso tale decisione contro precisi e pubblici deliberati del partito, invitandola ad "attenersi alle direttive e alla disciplina di partito quali sono tracciate dagli organi competenti col consenso unanime di tutti i comunisti".

(38) Comunicati del CE, ne L'Ordine Nuovo del 17/II.

(39) Una vertenza a sé riguardò il caso delle sezioni di nazionalità e lingua italiana in Svizzera che, pur avendo votato in maggioranza per la mozione comunista a Livorno, esitavano a tradurre in atto la scissione e continuavano perciò ad essere organizzate in forma mista. La cosa era ovviamente inaccettabile per il PCd'I e dette luogo ad energiche diffide da parte di quest'ultimo (cfr. l'Appello del CE ai compagni della Svizzera, lanciato sotto il titolo Contro certe deviazioni e apparso ne Il Comunista del 6/III). Il problema generale dell'inquadramento organizzativo dei comunisti emigrati e profughi (per l'assistenza ai quali vennero poi date minute disposizioni in aprile-maggio) era ancora aperto all'epoca del III congresso; fu poi risolto stabilendo che le sezioni estere dei diversi partiti dovessero confluire nella sezione locale dell'IC, con facoltà per quest'ultima di consentire la costituzione nel suo seno di un gruppo di lingua madre.

(40) Lo Statuto dei circoli rionali e dei circoli educativi comunisti apparve il 9/VI ne Il Comunista. Quanto ai gruppi comunisti, vedremo come, nel corso del 1921, ne vennero sempre meglio precisati sia i compiti che la composizione: già in marzo, tuttavia, una comunicazione del Comitato Centrale Sindacale (cfr. Ordine Nuovo del 11/III/1921) precisava: "I gruppi si comporranno dei compagni iscritti al Partito comunista e alla Federazione giovanile comunista, che ne saranno i membri effettivi. I gruppi manterranno inoltre un cordiale allacciamento e contatto con gli elementi simpatizzanti coll'indirizzo comunista". Essi dovranno sorgere "in ogni azienda dotata di unità ben definita" e in seno alle leghe professionali di ciascuna località, e dar prova "della massima sensibilità nel portare nella massa dei loro compagni le risultanze del lavoro di partito: propaganda comunista, comunicazione delle norme di azione deliberate dagli organi del partito in situazioni speciali, attitudine di fronte alla burocrazia sindacale dirigente, ecc." funzionando inoltre "come rete di inquadramento delle masse per ogni forma di azione collettiva".

(41) Gli iscritti alla FGC nel '21 erano - si legge in un testo del '22 - "25.000 regolarmente forniti di tessera, oltre ad altri 10.000 fra candidati, iscritti ai circoli rionali ed ai circoli di cultura comunisti. In complesso 35.000 giovani, che costituiscono una ricca riserva di energie e di attività per il nostro movimento". Si noti che molte ottime sezioni giovanili si erano ormai trasformate in sezioni del partito. Il Mezzogiorno e le isole non contavano più di 3.525 iscritti sul totale.

(42) Cfr. A. De Clementis, Radiografia del Partito dopo la scissione di Livorno, nei citati Annali Feltrinelli 1981, pp. 906-907.

(43) La serie di articoli La questione agraria - elementi marxisti del problema, fondamentale per l'orientamento del lavoro in questo campo, cominciò ad uscire ne Il Comunista a partire dal 29/V/1921, e fu poi pubblicata in volumetto.

(44) Alla fine del '21, quando gli iscritti erano 42.956 in 1200 sezioni, se ne contavano 3.858 a Torino ma 3.338 a Novara; 2.314 a Milano ma 2.672 a Forlì e 2.147 a Ravenna (la stessa Firenze superava Milano con 2.505 iscritti); 1.516 a Genova, ma 1.130 a Cremona.

(45) Da La Combattività dei comunisti, ne L'Ordine Nuovo, 27/II/1921. Per uno dei convegni degli organizzatori comunisti, tenutosi il 4 e 5 febbr. a Milano, sempre in vista del congresso confederale di Livorno, cfr. il riassunto dei lavori ne Il Comunista del 10/II.

(46) Da Il problema sindacale, in Il Comunista, nr. I, 30/I/1921.

(47) Ma si vedano pure, Verso il congresso confederale e I gruppi comunisti e il patto di alleanza, di U. Terracini, nei nr. 2 e 4, 3 e 10 febbraio, de Il Comunista. Nel secondo dei due articoli è vigorosamente denunciato il carattere controrivoluzionario dell'antico "patto" che regolava, come un trattato fra potenze sovrane, i rapporti fra partito e organizzazione sindacale. Cfr. inoltre l'Appello del Comitato sindacale comunista apparso ne L'Ordine Nuovo dell'11/II, che ribadisce le linee dorsali dell'intervento dei delegati del PCd'I al Congresso.

(48) Il presentatore dichiarò durante il dibattito di essere il portavoce di una "opposizione ragionata": in realtà la sua mozione si limitò a fare "alcune riserve su particolari attività confederali" (non precisando quali), approvando però "il complesso dell'opera svolta" dalla CGL malgrado "gli scarsi mezzi a disposizione", prendendo atto "dell'enorme sviluppo conseguito" e ritenendo che "una sempre più forte [sic!] accentuazione della sua azione sul terreno della lotta di classe ed una più adeguata riorganizzazione tecnica" avrebbero servito "a renderla più forte e rispettata".

(49) Si vedano in particolare gli articoli di R. Grieco (I reduci di guerra) e di C. Seassaro (L'educazione militare) ne Il Comunista del 20/II e 3/III, dove gli scopi economici della Lega sono bensì rivendicati, ma si indica come suo scopo precipuo "l'opera di educazione militare del proletariato… nel senso di preparazione spirituale e tecnica del proletariato all'adempimento del suo più alto, più arduo e più nobile dovere verso la Rivoluzione e verso l'umanità: il dovere militare rivoluzionario", e si polemizza sia contro la propaganda pacifista dei socialdemocratici, sia contro la tesi anarchica della diserzione, mentre si tratta di "rimanere nell'esercito con le orecchie e gli occhi ben aperti, apprendere a maneggiare le armi, imparare quanto più è possibile di arte e scienza militare".

(50) Un più vasto e articolato programma sarà presentato al congresso nazionale della Lega (18-21/IX/1921): lo si legge nel numero 5/VI de Il Comunista.

(51) All'organo centrale del partito danno un'intensa collaborazione anche Terracini, Grieco, Arcuno, Seassaro, occasionalmente Repossi, Gennari, Scoccimarro, e non c'è aspetto e problema del movimento operaio e comunista nazionale ed internazionale che non vi sia affrontato.

(52) Cfr. Il Comunista, 6/II/1921.

* Si tratta della conclusione del Rapporto confederale sui Sindacati in Russia, apparsa nel nr. VIII del 26 febbraio 1921 di Battaglie sindacali col titolo: Statizzazione dei sindacati o sindacalizzazione dello Stato?. Per una rimessa a punto generale delle questioni trattate in questo articolo e relative in particolare al programma economico della dittatura proletaria nelle sue diverse fasi, cfr. il nostro Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, ediz. il Programma comunista, Milano 1976, pp. 1-481.

Archivio storico 1952 - 1970