Presentazione

Gli anni Settanta sono quelli della disfatta definitiva del capitalismo occidentale. Esso già sopravviveva a sé stesso non solo come modo di produzione transitorio che ha fatto il suo tempo, ma come penoso intralcio anche alla modernizzazione di intere aree del mondo.

Nell'incertezza per un futuro sempre più nero, si moltiplicavano gli esorcismi affidati al nuovo oracolo che era il computer, allora appena uscito dalla sua infanzia. Invece di ammettere che la scienza economica borghese era una non-scienza e aveva fallito, si affidava l'analisi a un tecnologismo beota, fatto di serie statistiche manipolate fino a ottenere i risultati sperati.

In questo grado si aggravava un fenomeno perfettamente previsto dal marxismo: l'esuberanza relativa di capitali che, non trovando via d'uscita nella valorizzazione industriale, si buttavano nella gigantesca speculazione internazionale.

Era inevitabile che la rendita ne approfittasse e facesse in un modo o nell'altro la sua parte, trasformando il monopolio dell'accesso al suolo nella via obbligata per la rapina di plusvalore.

Ma non fiorisce nessun plusvalore nelle viscere dei deserti petroliferi, a differenza che nei campi arati, dove almeno, se non si vuol tener conto del lavoro umano, si applica, come dice Quesnay, "il lavoro di Dio", il sole, l'acqua e la fertilità della natura.

Così negli anni Settanta l'immensa "ricchezza" trasferita dai consumatori metropolitani di materie prime minerali e vegetali, prime tra tutte il petrolio e derivati, ai paesi produttori, non rimane nei paesi d'origine, ma si trasferisce nelle metropoli attraverso le banche, le armi e le opere che gli imperialisti costruiscono fuori casa.

L'equivalente di circa venti milioni di barili al giorno, sette miliardi di barili nel decennio, più di cento miliardi di dollari, tanto per fare un esempio, l'equivalente di sette piani Marshall finiscono alla rendita la quale a sua volta finanzia la sopravvivenza del capitalismo asfittico.

Ma c'è una differenza se suddividiamo i singoli imperialismi tra quelli che non hanno materie prime e quelli che invece ne producono in proprio. Europa e Giappone sono importatori netti, gli Stati Uniti no. Questi ultimi posseggono grandi estensioni di terra agraria, carbone, petrolio, legname, metalli. Inoltre controllano la monocoltura di buon a parte dei paesi dell'America Latina, commercializzano il petrolio altrui.

Controllano attraverso il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale il flusso dei capitali internazionali verso chi li richiede, controllano attraverso il loro sistema bancario interno buona parte del credito estero.

Gli Stati Uniti, mentre perdono la loro importanza nell'industria e nel commercio, mantengono inalterata la loro importanza di controllo dell'economia mondiale. Alla fine, veri rentiers globali, dagli anni Settanta pilotano la ricchezza mondiale a casa loro.

Sono gli anni dell'inflazione e della stagnazione, della crisi, dell' "austerità", come venne chiamata, della disoccupazione, dell'instabilità politica. Ma anche della guerra del Kippur e della pianificazione della sopravvivenza americana, i veri anni di nascita del "Nuovo Ordine Mondiale".

Gli anni Ottanta sono la conseguenza di quelli precedenti. Esplode la finanza per l'indigestione di capitale che non trova un'industria florida ad assorbirlo, ma un mondo di affaristi pronti a farlo circolare nell'illusione che da questo movimento spunti valore.

Ballano i tassi d'interesse e quelli di cambio, si suddividono i rischi di prestiti selvaggi e di operazioni al limite della stessa legalità borghese in rivoli sparsi per il mondo, nell'illusione di veder sparire il titolo originario che rivendicherà di essere onorato.

Il boom della "nuova finanza" crea altra finanza per partenogenesi. Vi si buttano non solo le banche, ma i privati, le industrie, gli enti pubblici, le associazioni di invalidi, le università, persino i sindacati. Il mercato diventa il dio del giorno e fissa il prezzo di tutto: titoli senza speranza, titoli perpetui, azioni emesse su altre azioni, per titoli a tasso fisso con scadenza trentennale e per titoli indicizzati ad ogni settimana, infine titoli pattume che tutti chiamano con il loro nome ma che vengono comprati a valanga.

Per ogni pezzo di carta la "legge" della domanda e dell'offerta fissa il "valore" e con questo valore i governi finanziano i loro deficit.

Qualcuno l'ha chiamata "rivoluzione finanziaria" e, anche se il termine "rivoluzione" non c'entra, qualcosa è effettivamente cambiato. I metodi tradizionali per accaparrarsi quello che Marx chiamava "il capitale che si rende libero nella società" stanno scomparendo insieme con la specializzazione che divideva banche d'investimento, banche commerciali, agenti di cambio, consulenti e agenti di borsa. Pochi grandi gruppi sostituiranno le società di intermediazione e, sui terminali collegati in reti mondiali, gli operatori potranno scambiare direttamente, internazionalmente e anonimamente di tutto, in tempo reale, senza venire in contatto con la personalità giuridica o individuale dell'interlocutore.

Le barriere che si frapponevano ancora alla libera circolazione dei capitali si assottigliano bombardate dai capitali stessi e si assottigliano i distinguo che ancora sopravvivono fra paesi dell'Est e dell'Ovest, capitalisti tutti, integrati come non mai in un'economia planetaria.

Grandiosa affermazione del marxismo: vediamo il denaro che internazionalmente perde sempre più la sua funzione di mezzo per lo scambio e sempre più diventa capitale "in sé", abbandonando la rete produttiva e decretando un altro passo verso la sua scomparsa.

Circolando più velocemente, il capitale sembra moltiplicarsi, e in effetti moltiplica le sue applicazioni, offrendo una parvenza di disponibilità. Basterebbe accedervi, per coloro che non ne dispongono, ed ecco che si aprirebbero le porte dello sviluppo.

Interi continenti pagano questa ubriacatura firmando cambiali che ipotecano il futuro della loro forza lavoro e quindi trasferendo il plusvalore estorto alla loro classe operaia nelle banche metropolitane. L'illusione non dura, il cosiddetto aiuto serve a finanziare l'esportazione delle metropoli, interi paesi sono cancellati come società civili.

In questo clima feroce si impone prepotente il capitalista d'assalto che gioca miliardi di dollari manovrando fusioni, e si impone una nuova figura sociale, quella dello yuppie, cinico, incosciente fino al limite della follia, arso dall'avidità di guadagno, frenetico nel manovrare capitali che passano veloci ai semafori rossi del buonsenso, capace di gestire indifferentemente sia la transazione di debiti svalutati del Perù o del Senegal, sia imbrogliatissime fusioni di aziende. Il cosiddetto takeover gonfia enormemente il valore nominale di attività esistenti, ma non approda all'utilizzo pratico del denaro.

Esso circola ingigantendo e l'obiettivo è di farne circolare il più possibile in meno tempo possibile in modo che una parte rimanga incollata alle dita dell'operatore. Questi, incapace di fare di due giorni uno, quindi sniffatore di cocaina per tenersi sull'onda, dimentica presto, in buona o mala fede, le poche regole che gli hanno insegnato i vecchi ragionieri.

Ma i nodi del boom "reaganiano" durano poco. Essi vengono al pettine guarda caso poco prima del crollo del Muro di Berlino e le stratosfere raggiunte dall'imbecillità conoscono una fitta pioggia di meteore cadenti.

Saltano per primi i paesi che eufemisticamente vengono ancora chiamati in via di sviluppo. Poi saltano quelli della seconda fascia, quelli dell'Est europeo confermando con questo di essere una delle ruote del carro capitalista, argomento da sempre delle nostre battaglie.

Era ora. Il crollo del Muro di Berlino scatena quella che noi aspettavamo da tempo e che chiamammo "la grande confessione", l'integrazione senza veli del mercato capitalistico, la caduta dei falsi miti, a dire il vero ormai superirranciditi, il capitombolo delle statue dai loro piedestalli, la drammatica verifica dell'incapacità capitalistica di soddisfare con i consumi i bisogni umani.

Il crollo del falso comunismo è incominciato all'Ovest.

Nel testo che presentiamo si dimostra che l'immensa area del Comecon non poteva reggere alla dinamica dei capitali e delle merci nell'epoca tardo - imperialistica. Il meccanismo del crollo è lo stesso che ha provocato il marasma economico negli altri paesi meno protetti del cosiddetto Sud. La sovrastruttura politica, ormai storicamente bacata, è caduta come una mela marcia. I suoi operatori, coccolati dall'Occidente e odiati dai proletari che tirano la cinghia, non sono i curatori fallimentari di un comunismo mai esistito ma i sistematori pragmatici di un dato di fatto ormai consolidato: nella pachidermica economia russa ormai si scambia in dollari per il 30% del valore delle transazioni come nella semicolonia latinoamericana, vero indice di globalizzazione dell'economia, con buona pace di Stalin e dei suoi epigoni.

Sono testi che riprendono, nei primi due casi, conferenze pubbliche e, nel terzo caso, una riunione interna sulla situazione del sistema bancario americano. Erano circolati sotto forma di "Lettera ai compagni", rispettivamente le numero 21, 22 e 25; le riproponiamo con la sola eliminazione di una parte della lettera 22, tesa a spiegare ad un uditorio eterogeneo la nostra discendenza dalla Sinistra Comunista e non inerente al tema del Quaderno.

Torino dicembre 1991.

Prima di copertina
Il crollo del falso comunismo è incominciato all'Ovest

Quaderni di n+1.

L'unificazione del mercato mondiale e la crisi di accumulazione iniziata negli Stati Uniti hanno fatto saltare i classici anelli deboli.

Indice del volume

Il crollo del falso comunismo è incominciato all'Ovest