Quale rivoluzione in Iran? (9)
I comunisti e la soluzione rivoluzionaria dei problemi sociali arretrati

Il programma dei Fedayin iraniani o i limiti del democratismo

Il proletariato, non avendo nella lotta sociale "nulla da perdere oltre alle sue catene", è spinto naturalmente a simpatizzare con i partiti più estremisti che ci siano. Perciò la presa del partito proletario sul movimento sociale è condizionata dallo scontro teorico e pratico con i partiti dell'opposizione democratica, soprattutto quelli che, come nell'Iran, avanzano contro il governo sorto dalle giornate di febbraio, rivendicazioni interessanti il proletariato, e per giunta, chiamano a "proseguire la rivoluzione", se occorre armi alla mano.

E' ancora indubbiamente troppo presto per un'esatta valutazione della natura e delle potenzialità della miriade di gruppi iraniani. Alla luce di quanto se ne può ricavare dalla stampa borghese, sembra tuttavia che i partiti dell'opposizione "democratica" costituiscano un tessuto più o meno continuo, che va dai gruppi parlamentari e costituzionali ai gruppi guerriglieri, per tacere dei maoisti e dei trotzkisti, e che si suddividano in due filoni: uno religioso, che parte dai gruppi vicini agli ayatollah cosiddetti progressisti per giungere fin al Moudjahidin; l'altro, laico, che collega la sinistra del fronte nazionale e il fronte democratico ai Fedayin, il che non gli impedisce di avere dei punti di contatto coi mullah. Questo dualismo sembra riflettere, grosso modo, la distinzione fra la piccola borghesia classica, più vicina al Bazar ed alla "tradizione", e i ceti medi legati agli sviluppi del capitale internazionale, quindi più "modernisti" e "occidentalizzati", con grande ira dell'integralismo sciita.

E' attraverso questi due filoni che si raggiunge e si influenza il proletariato.

Dal nostro punto di vista, la tendenza più interessante è quella dei Fedayin (Fedayin Khalq o Fedayin del popolo, più esattamente Organizzazione dei Guerriglieri Fedayin del Popolo Iraniano, OGFPI) che si colloca all'ala estrema del filone laico, si professa "marxista-leninista" ma rifiuta l'obbedienza a Pechino e a Mosca e possiede una tradizione di lotta armata contro il regime, che le assicura l'effettiva simpatia della popolazione. Naturalmente, essa ha partecipato all'insurrezione di febbraio e si è rifiutata e si rifiuta di deporre le armi all'appello di Khomeini, il che la espone in modo particolare agli attacchi delle milizie islamiche e di altri "guardiani della rivoluzione", i quali, a metà agosto, si sono impadroniti della sua sede.

Certo, la rivoluzione borghese non va vista come un fenomeno istantaneo, ma come un processo più o meno lungo in cui lo Stato borghese si modella e le diverse classi e sottoclassi borghesi assolvono - bene o male, qui poco importa - il loro compito storico: come, in Francia, dopo la rivoluzione del 1798, la borghesia ebbe ancora bisogno di "supplementi di rivoluzione" nel 1830, nel 1848, nel 1870, benché ogni volta il proletariato tentasse di approfittare degli avvenimenti per fare valere i propri interessi, e perfino di prendere il potere, assumendosi esso stesso i compiti che la borghesia non aveva ancora assolto.

Questo corso storico, può tuttavia notevolmente abbreviarsi, soprattutto per le borghesie che arrivano in ritardo. E' quanto Marx ed Engels speravano che accadesse nella Germania "arretrata" del 1848, dove vide la luce la tattica della rivoluzione in permanenza, o doppia, collegata alla rivoluzione proletaria "pura" attesa in Francia e in Inghilterra; e dove, in assenza di vittoria proletaria, la borghesia aveva per missione di attuare nuove "riforme" storicamente progressive. Se questa tattica fallì in Europa nel 1848, ebbe in parte successo nel 1917 in Russia, dove, sullo slancio di una rivoluzione borghese in ritardo, il proletariato bruciò le tappe storiche per impadronirsi del potere, assolvere compiti economicamente borghesi all'interno, e diffondere all' "estero" la rivoluzione proletaria, che sola avrebbe permesso, grazie all'ipercapitalistica macchina produttiva d'Europa, di attaccare finalmente in Russia i rapporti di produzione borghesi e di passare al socialismo. La seconda parte della prospettiva non si realizzò, lasciando la Russia isolata. Il partito proletario non ebbe la forza di opporsi alle forze congiunte del nemico, il che provocò il regresso dello Stato russo da cittadella proletaria a comune "stato nazionale", insomma a Stato capitalista e borghese, condannando la rivoluzione russa ad abbandonare ogni sogno di rivoluzione doppia per non rimanere, in ultima analisi, dopo dieci anni di poderosi sconvolgimenti rivoluzionari, nulla più che una rivoluzione semplice.

La rivoluzione iraniana è una rivoluzione tipo 1789, o tipo febbraio 1917, visto che l'assenza del proletariato non consente di prevedere nell'immediato un Ottobre vittorioso? Nella Francia del XVIII secolo, la lotta opponeva prima di tutto la borghesia, con le masse popolari delle città e delle campagne al suo fianco, alla nobiltà e al clero, che si appoggiavano sulla monarchia. Nella Russia dell'inizio del secolo, la grande battaglia sociale doveva scatenarsi fra il contadiname e il feudalesimo in via di trasformazione borghese, mentre il compito del proletariato era di condurre la battaglia fino in fondo, cioè in modo radicale; la guerra imperialista diede all'antagonismo tra proletariato e capitalismo un peso maggiore di quello previsto in origine, e fece della rivoluzione proletaria in Russia il colpo d'avvio della rivoluzione comunista mondiale.

Analizzando la situazione dell'Iran nel 1978, noi abbiamo constatato che, in conseguenza della "rivoluzione bianca" condotta dallo Stato con l'aiuto dell'imperialismo, il peso politico della vecchia classe dei proprietari fondiari di tipo feudale si era praticamente fuso con quello di un'alta borghesia affaristica e corrotta che godeva del diritto di disporre a suo piacere dello Stato, in contropartita dei privilegi petroliferi, militari e anche politici concessi all'imperialismo, creando così, dal punto di vista dei rapporti tra le frazioni borghesi, una situazione intermedia fra quella sotto la monarchia di luglio, e quella sotto l'Impero in Francia.

Abbiamo inoltre constatato che la proletarizzazione della popolazione era incomparabilmente più sviluppata che nella Russia del 1917, e che la classe operaia era assai più numerosa, anche se -fattore non trascurabile- le condizioni storiche generali l'hanno confinata in un terribile ritardo politico.

Abbiamo infine potuto dimostrare che le cause profonde dell'instabilità della classe operaia e delle masse proletarizzate iraniane derivano non solo dalla mancanza di sviluppo capitalistico e dal peso dei residui dei vecchi rapporti sociali, ma anche e soprattutto dal fatto che la società intera è stata travolta in una accumulazione allargata del capitale in cui le giovani industrie si trovano necessariamente svantaggiate a causa della concorrenza delle metropoli imperialistiche, che tende ad emarginare l'industria e ancor più l'agricoltura locali. Queste particolari condizioni storiche, soprattutto nell'ora in cui la crisi mondiale ciclica del capitalismo si ripercuote con effetti ancor più pesanti sui paesi periferici, rendono particolarmente insopportabile il persistere dei vecchi rapporti sociali e politici, e in specie i privilegi politici dell'imperialismo, il peso economico esorbitante della Corte, e le leggi sanguinarie tipiche di un'accumulazione primitiva realizzata sotto il tallone dell'imperialismo e poggiante, sia nei campi che nelle fabbriche, sulle vecchie forme del "dispotismo asiatico".

Ma queste condizioni storiche hanno fatto dello Stato uno strumento per certi aspetti potentemente moderno e centralizzato, in relativo anticipo sullo sviluppo sociale della classe borghese. Questa anche se spinta, malgrado la sua congenita debolezza e sotto la pressione della classe operaia, delle masse plebee e delle frazioni della piccola borghesia a scontrarsi con i privilegi politici dell'imperialismo, appare assai più come sua complice sociale che come sua concorrente economica; ha bisogno di questa macchina statale per far fronte alle classi oppresse e soprattutto al proletariato che si sviluppa assai più rapidamente e su base ben più vasta.

E' per questa ragione che l'insurrezione popolare - che ha permesso alle masse sfruttate di trarre il maggior profitto possibile dalle tragiche condizioni storiche e politiche esistenti - era l'incubo delle classi dominanti. E queste si sono sforzate di ridurne al minimo la portata e di garantire ad ogni costo la continuità dell'apparato amministrativo e repressivo dello Stato, appena appena ricoperto di una vernice popolare; le masse operaie e contadine, così come le minoranze nazionali, soprattutto curda, araba e turco-tatara, hanno già potuto sentirne dolorosamente gli effetti sulla propria pelle.

Tutto ciò conferma che i resti del vecchio dispotismo non possono essere radicalmente eliminati se non con la distruzione dello Stato borghese attuale, sulle cui rovine non si tratta di costruire uno Stato nazionale più moderno e più democratico, bensì la dittatura di classe del proletariato, cioè della sola classe che possa ormai fare andare avanti la storia. Questa prospettiva discende in linea ancor più diretta dalle esigenze del movimento sociale degli ultimi anni, in cui una formidabile ondata operaia è sorta con rivendicazioni immediate economiche e politiche che purtroppo le condizioni economiche e politiche prevalenti hanno permesso di subordinare alla lotta democratica.

Un governo come quello Khomeini-Bazargan ha pur dovuto fare, almeno in un primo tempo, alcune concessioni economiche a questo movimento; ma se esse erano e sono suscettibili di scatenare il Bazar contro la classe operaia, non sono affatto tali da calmare quest'ultima, che subisce sempre o più gli attacchi dello Stato, ansioso di limitare una misera ma duramente conquistata libertà di movimento; e i colpi convergenti del clero sciita e delle milizie islamiche. Anche se, all'immediato, il movimento operaio dovesse essere schiacciato dal peso dell'avversario, storicamente esso non può che rialzarsi e ingigantire, finendo per rompere il fronte della solidarietà nazionale e religiosa.

Uno dei tratti caratteristici dell'Iran è che, in un paese situato nel cuore di un'area geografica sottoposta a profondi sconvolgimenti rivoluzionari, l'esplosione sociale prodotta dalle esigenze di una rivoluzione antifeudale ha potuto essere ritardata dall'azione congiunta di un terrore sanguinario e di una corruzione petroliera inaudita fino al momento in cui, da una parte, la rivoluzione borghese operata dall'alto ha già trasformato a sufficienza la società, e, dall'altra, i sintomi di radicalizzazione del movimento delle masse proletarizzate, e in primo luogo della classe operaia, sono già divenuti abbastanza chiari perché la borghesia, e, dietro di essa la piccola borghesia e forse gli stessi contadini medi, abbiano esaurito l'essenziale delle loro capacità di far avanzare la storia.

Sotto questo profilo, è d'altronde significativo che i gruppi estremisti e guerriglieri iraniani abbiano fatte le loro armi politiche nell'ambiente di un OLP che, dopo aver tradito il movimento delle masse palestino-giordane tramite Al Fatah, dal 1976 si è fatta, in tutte le sue componenti, l'agente del disarmo politico e fisico delle masse in rivolta nel Libano e, oggi, il pilastro della restaurazione dello Stato-bidone libanese, controrivoluzionario se  mai ce ne sono.

La rivoluzione iraniana è al limite fra due epoche. Arriva troppo tardi per rappresentare un vero "supplemento di rivoluzione" borghese. Ma, nello stesso tempo, arriva troppo presto perché la classe operaia sia in grado di collegare l'esigenza immediata della liquidazione dei vecchi resti feudal-imperialistici alla soluzione del nuovo antagonismo che oppone il proletariato e, alle sue spalle, le masse proletarizzate delle città e delle campagne, in collegamento con la classe operaia internazionale, al capitale, alla borghesia nazionale, all'ordine costituito locale dell'imperialismo.

Di qui l'impressione di un enorme spreco di energie sociali che i tragici avvenimenti dell'Iran non possono suggerire: la profondità della controrivoluzione staliniana costringe la classe operaia a pagare terribilmente caro ogni pollice di terreno conquistato, il più piccolo barlume di lezione appresa nell'urto della viva lotta. Malgrado tutto, però, la classe dovrà rinascere rivoluzionaria.

E' quindi radicalmente sbagliata la pretesa di chiudere gli avvenimenti storici di cui le "giornate di febbraio" segnano il punto di avvio in una banale prospettiva democratica e antimperialistica, anche se l'immediato ci presenta solo quello strano aborto che è la "rivoluzione islamica": le forze che si sono messe in movimento sotto quest'apparenza triviale e mostruosa e gli antagonismi che vi maturano spingono infatti verso un avvenire ben diverso e promettente.

Che si sia ancora molto  lontani da uno sbocco proletario della tragedia che si svolge sotto i nostri occhi, è incontestabile. Ma solo i teorici della rivoluzione immediata, solo chi sostituisce la rivoluzione, che è un fatto materialmente determinato, con un atto di volontà, possono immaginarsi che ciò condanni la nostra prospettiva. In ogni caso il solo modo per preparare questo sbocco è di far valere nelle lotte presenti il bisogno dell'indipendenza di classe più assoluta e della rigorosa e decisa opposizione allo Stato, e a tutti i governi presenti e futuri, ai quali non si può stappare la minima concessione se non con la forza.

Come dovunque, il proletariato non potrà aspirare alla conquista del potere se non dopo una lunga preparazione di partito, che permette di raccogliere intorno al programma comunista l'avanguardia proletaria emersa dalla serie di battaglie sociali che non mancheranno di prodursi, e nel corso delle quali si delineeranno nettamente i bisogni politici, immediati e storici, propri della classe operaia. Le crisi politiche, come l'attuale, saranno proficue per i proletariato solo a patto che in ognuna di queste crisi esso avanzi le sue rivendicazioni specifiche e ne approfitti per assicurarsi nello scontro con le diverse classi e sottoclassi borghesi e con lo Stato la più vasta libertà di movimento, al fine di rafforzare i propri organismi di lotta immediata e il proprio partito, e, attraverso questa successine di battaglie, agguerrirsi e preparare così le condizioni della finale vittoria.

Anche se questo esito è oggi lontano, ci sembra che stiano maturando condizioni più favorevoli che in passato per avvicinarsi. Prima di tutto, perché la profonda crisi sociale e politica che l'Iran attraversa è troppo legata alla crisi internazionale del capitalismo per non ingrossare ancor più le file delle masse operaie e le masse della popolazione immersa in una miseria che non può trovare sbocco se non nella distruzione del capitalismo. In secondo luogo, perché la classe operaia resta la sola classe storica in grado non solo di lottare per questa prospettiva, ma di risolvere in modo rivoluzionario tutti i problemi politici più immediati, e che il ciclo di lotte ora apertosi renderà sempre più chiari. Infine, perché la classe operaia iraniana, come quella di tutto il Medio Oriente, per la sua posizione nel processo produttivo (si pensi all'arma del petrolio, che è, in definitiva, nelle sue mani) e per il peso del doppio e triplo sfruttamento che grava sulle sue spalle, è condannata a porre la sua lotta in una prospettiva internazionale e a cercare l'aiuto del proletariato dei grandi centri imperialistici; reciprocamente, Quest'ultimo non può che trarre beneficio dagli slanci di rivolta del giovane proletariato del Medio Oriente, e sarà costretto a cercare il suo appoggio nella lotta comune.

Tutte queste condizioni potranno essere capitalizzate al più presto, purché, nella vita del partito comunista e nel suo sviluppo internazionale, si presti la massima attenzione ai problemi teorici, storici, politici e tattici di fronte ai quali si trovano poste le masse proletarie di queste regioni nella loro coraggiosa e tremendamente difficile lotta contro il mostro dell'imperialismo mondiale.

Disponiamo purtroppo di pochi documenti, che però bastano a dare un'idea dell'orientamento di questa organizzazione. Il suo Progetto minimo contiene delle rivendicazioni teoricamente comuni a tutte le classi, (come l'abolizione dei privilegi della Corte e dell'imperialismo, le rivendicazioni delle libertà politiche di riunione, manifestazione, associazione, stampa, abolizione delle discriminazioni legate al sesso, alla nazionalità e alla religione) tutte rivendicazioni che in quanto "democratiche" vale a dire interclassiste, interessano particolarmente la classe operaia e al cui conseguimento è legata la sua libertà di movimento e il rafforzamento delle sue file.

Ma se questo documento pone rivendicazioni riguardanti l'insieme degli strati popolari, solo un paragrafo invece riguarda le rivendicazioni specificamente operaie: il progetto si pronuncia per: "l'annullamento di tutte le leggi anti-operaie e anti-democratiche, la dissoluzione di tutte le organizzazioni falsificate e anti-operaie,(il riconoscimento ufficiale) di autentici consigli operai". E' chiaro che queste rivendicazioni sono di grande interesse per la classe operaia, ma il proletariato ha altre rivendicazioni immediate, in particolare quelle economiche.

Si può ricordare che il Programma minimo del Partito Bolscevico, che si proclamava immediatamente "partito operaio", corrispondeva, come dichiarava Lenin, a quelle di una rivoluzione anti-feudale e borghese, e non ancora economicamente socialista, anche se il proletariato, nel prenderne la testa, doveva farne una rivoluzione proletaria con dei caratteri politici autenticamente comunisti; tuttavia un buon terzo delle rivendicazioni riguardano le rivendicazioni economiche e, in primo luogo, "la limitazione della giornata lavorativa ad 8 ore per gli operai salariati". La poca importanza che dà il Progetto minimo alle rivendicazioni specificamente operaie è dunque un buon indice del carattere democratico, popolare e non proletario del programma dei Fedayin.

Ciò è interamente confermato dalla parte agraria del Progetto minimo. Quest'ultimo rivendica anzitutto: "l'annullamento dei debiti e degli impegni monetari degli operai, dei contadini, degli artigiani e degli impiegati verso le banche e gli uffici governativi". Si afferma inoltre che: "Le società agrarie per azioni, quelle agrario-industriali e altre imprese simili devono essere immediatamente affidate ai rispettivi dipendenti e ai contadini. Le terre che sono state usurpate dal regime dello Scià devono essere, senza condizioni, restituite ai contadini. Noi vogliamo una vera Riforma Agraria Democratica".

Sorvoliamo sulla gestione delle società da parte dei dipendenti e dei contadini, che è nella concezione marxista una misura transitoria utile nella direzione della centralizzazione dell'economia da parte dello Stato proletario, ma che si rivela essere una menzogna e una trappola finché lo Stato resta borghese. La "soppressione dei debiti e degli impegni" è una rivendicazione del più alto interesse dato che la famosa "rivoluzione bianca" ha "liberato" i contadini dai feudali, facendo pagare ai contadini la proprietà della terra che essi avevano sempre coltivato, al punto che una buona parte delle famiglie contadine è ancora almeno per due anni costretta a pagare sostanziosi canoni allo Stato. Quanto al "recupero delle terre usurpate" anche se questa rivendicazione corrisponde a una tendenza reale del contadiname e ha una innegabile portata rivoluzionaria, essa si mostrerà assai insufficiente per il proletariato: infatti, secondo le statistiche ufficiali del 1960, vale a dire alla vigilia della riforma agraria, il 26,3% delle famiglie di contadini possedevano meno di 1 ha (esattamente 493.000 su 1.877.000) e il 65,2% meno di 5 ha ( cioè 1.233.000 famiglie); se a ciò si aggiunge altre al milione di salariati agricoli permanenti, una massa fluttuante di un buon milione di contadini senza terra ciclicamente sbattuti fuori e richiamati dal mercato del lavoro agricolo e dall'edilizia nelle città, ma che la crisi ha dovuto far rifluire in buona parte verso le campagne, si vede che la massa della popolazione contadina e semi-contadina, il semi-proletariato e il contadiname povero non sono in ultima analisi toccati così essenzialmente da una tale rivendicazione come lo è il contadiname medio e soprattutto ricco, anche se le magre terre delle numerose famiglie povere sono state incorporate di forza nel settore cooperative dell'agricoltura di Stato dopo il 1974.

La rivendicazione centrale del partito proletario in materia agraria è quella della nazionalizzazione della terra. Questa rivendicazione non è per niente socialista in se, essa è perfettamente compatibile con il capitalismo, ma rappresenta la più radicale rivendicazione antifeudale dal punto di vista borghese.

D'altra parte è certo che nell'Iran di oggi, solo questa nazionalizzazione permetterebbe  di farla finita coi resti di feudalesimo dove essi esistono ancora e di esaltare l'energia rivoluzionaria delle masse contadine povere e dei contadini senza terra che se abbandonati alla loro triste sorte, potrebbero sicuramente vedere le loro energie canalizzate e volatilizzate in conflitti puramente nazionali e religiosi.

Questa "dimenticanza" degli interessi delle grandi masse contadine, o più esattamente, la loro subordinazione a quelli del "contadiname in generale" che non è niente altro che il contadiname in ricco, appare chiaramente nel passo seguente: "per impedire e compensare la miseria dei contadini, bisogna attuare dei provvedimenti urgenti per sostenere i prodotti agricoli interni e per impedire l'importazione di prodotti similari".

E' un fatto che la politica agraria del vecchio regime dopo il 1974 è consistita nell'importare in modo massiccio il grano allo scopo di mantenere un'approvvigionamento a buon mercato della massa dei salariati, cosa che ha avuto l'effetto di mettere in difficoltà una buona parte del contadiname ricco e medio, che era stato all'inizio il vero beneficiario della "rivoluzione bianca" nelle campagne.

Senza dubbio non si può impedire a una situazione così catastrofica, a un governo, qualunque esso sia, di limitare le importazioni, almeno al fine di evitare un tracollo economico totale. E' chiaro tuttavia che una tale misura non toccherebbe che in modo irrilevante il contadiname povero e i contadini senza terra i quali hanno poco o praticamente niente da vendere sul mercato e se questa misura ha per effetto immediato la diminuzione del potere d'acquisto dei salari operai, non potrebbe proteggere le masse contadine povere e senza terra dalla rovina e dalla miseria, assolutamente inevitabili nell'ambito del capitalismo. Mai il proletariato potrà dunque fare una tale promessa ai contadini: al massimo potrà promettere loro che un governo proletario farà tutto il possibile per evitargli almeno la miseria e le sofferenze provocate dal passaggio dalla vecchia agricoltura alla nuova a dal suo spostamento verso l'industria.

E' proprio una caratteristica del democratismo e del socialismo piccolo-borghese di insistere sulle rivendicazioni comuni a tutte le classi e particolarmente su quelle comuni alla piccola borghesia e al proletariato e di metterle in primo piano come ha magistralmente dimostrato Engels. a detrimento delle rivendicazioni specificamente operaie.

Il proletariato non nega da parte sua che certe rivendicazioni siano comuni a più classi, ma immediatamente avanza le rivendicazioni sue proprie e, solo dopo, avanza le rivendicazioni che interessano più classi,  e ciò lo fa non dal punto di vista del "popolo in generale" - che è quello della piccola borghesia - ma dal suo punto di vista di classe.

Nei confronti del contadiname, che il proletariato non confonde affatto con la piccola borghesia urbana, alla quale esso attribuisce diverse potenzialità storiche non solo nella lotta contro il vecchio regime, ma anche nella lotta contro lo Stato borghese, esso prima di tutto si interessa - per non parlare del proletariato agricolo che considera naturalmente facente parte della sua stessa classe - alla massa dei contadini poveri e senza terra, vale a dire alla semi-proletariato rurale.

Queste considerazioni sono insufficienti a dimostrare che il programma dei Fedayin si pone da un punto di vista diametralmente opposto: esso pretende di mettere avanti a tutto gli interessi del "popolo" ma, poiché quest'ultimo è diviso in classi, non fa che idealizzare l'interesse del piccolo borghese a scapito delle masse operaie, plebee e contadine povere.

(da Il Programma Comunista nn. 1 e 2, gennaio 1980)

Note

[1] Progetto minimo, del 14-2 1979.

[2] Progetto minimo, punto 5e.

[3] Lenin, Progetto di Programma del Partito socialdemocratico di Russia, 1902, Opere Complete, vol. VI, pag. 23. Neppure una rivendicazione economica nel programma dei Fedayin, mentre il rapporto dei salariati dell'agricoltura e dell'industria sulla popolazione totale è tra 5 e 7 volte più grande nell'Iran del 1979 che nella Russia del 1902.

[4] Progetto minimo, punto 5f.

[5] Progetto minimo, punto 5g.

[6] Progetto minimo, punto 5h.

[7] La famosa legge del 1974 su "I poli di sviluppo in agricoltura" prevede la liquidazione delle aziende con ... meno di 20 anni.

[8] Cfr. Engels, La questione delle abitazioni.

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