Crisi del Golfo? (2)

100 milioni di consumatori per essere indipendenti.

E' mai possibile che il crollo attuale degli "anelli deboli" del capitalismo internazionale sia visto come "l'inaugurazione" di un periodo nuovo, mentre all'opposto non è che l'effetto di un'instabilità e di un caos economici perduranti da decenni? Se è vero com'è vero che questo dopoguerra si può definire come "l'età dell'incertezza", non è forse perchè sono saltati uno dopo l'altro i meccanismi per porre riparo alle difficoltà di accumulazione? E' mai possibile per dei rivoluzionari essere trent'anni indietro rispetto, poniamo, a un borghesissimo Galbraith (quello dell' "Età dell'incertezza") (48) o a una qualsiasi rivista economica? La minacciata guerra del Golfo non inaugura un bel niente, essa è lo sbocco naturale di uno scontro annunciato da tempo tra i maggiori capitalismi, scontro nel quale i minori e più deboli sono saltati per aria. Scontro che preannuncia importanti ulteriori sviluppi, ma non svolta qualitativa in un mondo che, come abbiamo ricordato con la Sinistra, assiste da due guerre mondiali e una quarantennale carneficina "pacifica", alla marcia degli Stati Uniti nell'aggressione all'Europa e al Giappone. Lenin ci insegna che neanche il salto alla fase imperialistica rappresenta un salto qualitativo per il capitalismo.

Sentite come stanno stretti i confini dell'attuale capitalismo agli addetti ai lavori europei e come d'istinto avvertano la minaccia del capitalismo più forte anche se mascherano i loro timori con la necessità della reciproca integrazione:

"Il clangore di armi nel deserto mediorientale non è che una reminiscenza di altre ostilità nelle ultime decadi... Il molto dibattuto concetto di 'fine della storia' che ha così agitato le comunità accademiche europee e americane un anno fa, risulta essere stato un funerale prematuro più che l'inizio di un nuovo, idealizzato mondo. Le attuali tensioni internazionali ci ricordano in modo forse più realistico quanto l'era di pace desiderata ardentemente sia più che altro una nozione dei paesi sviluppati. Essa riflette l'egoistica ambizione di costruire una vita prosperosa per sè stessi. L'armonia fra le superpotenze è, naturalmente, un passo avanti, ma non è la 'fine della storia': altrove nel mondo l'equilibrio è precario come sempre... L'attenzione è rivolta all'Iraq mentre le forze sommate del business internazionale e della memoria sanguinosa dello stesso passato europeo, stanno accelerando l'integrazione dell'Europa... La spinta sotterranea per accorciare i tempi è la consapevolezza, attraverso gli scambi, che le economie minori d'Europa non possono fronteggiare da sole la competizione con Giappone e USA. Gli economisti affermano che un mercato interno di 100 milioni di consumatori è il minimo necessario per garantire l'indipendenza nell'economia globale odierna" (49).

Non è questa la premessa per la ricerca dello "spazio vitale" con ogni mezzo? Almeno 100 milioni di consumatori per rimanere un paese capitalistico indipendente! Nell'epoca in cui saltano gli ottimismi borghesi sull'eternità del capitale, in cui la teoria marxista degli inceppamenti all'accumulazione dovuti alla caduta del saggio di profitto diviene palese, in cui si impone prepotentemente la correttezza storica della teoria della rendita, non dovrebbe essere permesso per dei veri marxisti, rimasticare semplicemente luoghi comuni sul fatto che "solo la lotta di classe può opporsi alla guerra e alla miseria crescente" o "trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria" (50).

Dovrebbe essere evidente, per dei veri marxisti, che si deve cercare il filo conduttore che permetta di capire non solo ciò che sta succedendo, ma quali siano le migliori premesse per una ripresa di questa tanto declamata lotta di classe. Come se la stessa fosse nello stato in cui è per qualche evento astrologico e non per motivi profondamente economici, per esempio il fatto che, come ricorda Lenin, sulla classe operaia cadono da molti anni le briciole e le succulente gocce di grasso dalla gozzoviglia che si celebra alle spalle di un mondo rapinato.

Un mercato integrato di cento milioni di consumatori, con relativa area monetaria, oggi lo possiedono solo due paesi, USA e Giappone, ma uno ha un'economia ancora tre volte superiore all'altro e non ha nessuna intenzione di mollare quella posizione perchè sa che sarebbe la sua fine.

Una torta da tremila miliardi di dollari.

Mentre erano in corso i preparativi di guerra nel Golfo, erano anche in corso le riunioni del cosiddetto Uruguay Round per gli accordi sul commercio internazionale (GATT). Sono saltati, falliti. Ma certo che in questa situazione saltano le possibilità di accordo. Man mano che si acuisce la consapevolezza di interessi contrastanti, il commercio e la finanza rifuggono ogni agreement. Il fallimento dell'ennesimo Round del GATT dimostra semplicemente che i maggiori imperialismi hanno già da tempo stabilito quali sono i loro punti di forza per superare la barriera dei 100 milioni di consumatori: il Giappone vuole la sua vecchia "area di co-prosperità asiatica", cavallo di battaglia dell'imperialismo giapponese degli anni precedenti la II Guerra Mondiale. La Germania, e con essa "l'Europa delle patrie", vuole il vecchio "Lebensraum" naturale, cioè l'ossigeno economico dell'Est (mettiamoci pure, come "spazio vitale", anche il "Mare Nostrum" per l'Italietta), mentre gli Stati Uniti, la cui "dottrina Monroe" ormai va stretta da quasi un secolo, vogliono l'intero globo terracqueo. La musica si ripete, ma è molto più dirompente di una volta anche se la sistemazione degli schieramenti richiede per ora tutto un apparato di fumisterie diplomatiche rigorosamente ipocrite. Non tarderà il tempo in cui cadranno le maschere: oggi è in gioco una torta internazionale da 3.000 miliardi di dollari, l'appetito tradizionale per i mercati esteri si somma alle difficoltà interne, e ognuno vuole la fetta più grossa, anzi, possibilmente tutta la torta (51). Alleanze apparenti (Europa) contrastano con politiche reali in contraddizione tra loro (Inghilterra e Germania), mentre il Giappone come sempre tende a controllare la sua storica area, senza la quale ogni confronto militare con lo storico nemico sarebbe suicida. Quale altro significato potrebbe avere il superattivismo politico e commerciale giapponese in Oriente negli ultimi mesi se non quello di dare corpo allo spontaneo crearsi di una solida area dello Yen autonoma da interferenze e difendibile da attacchi altrui? (52).

Da parte nostra affermiamo che sarebbe auspicabile una sconfitta degli Stati Uniti come fatto acceleratore della tendenza in atto, sia per quanto riguarda la decomposizione generale della società borghese verso livelli di disgregazione che la rendano vulnerabile, sia per quanto riguarda il crescere del potenziale rivoluzionario anticapitalistico, che può anche non essere di segno esclusivamente proletario, cioè può coinvolgere altre forze sociali, altre classi oltre al proletariato puro, ma che ha bisogno di essere indirizzato dall'esperienza storica rivoluzionaria del proletariato e del suo partito.

Tuttavia, dato che non è possibile una sconfitta militare classica, vista l'esuberanza economica e militare che può essere rivitalizzata da una vera guerra, un logoramento contro coalizioni avverse che insabbino la potenza americana in una via senza uscita, con relativo crollo del fronte interno come nel caso del Vietnam, può essere positivo lo stesso. In questo caso i membri delle coalizioni sarebbero portati per loro natura a scontrarsi ulteriormente fra loro, facilitando l'insorgere di spinte rivoluzionarie che anticipino la guerra mondiale, come auspicato dalla Sinistra, e la stronchino sul nascere.

E, comunque sia, anche se le ostilità non dovessero scoppiare, è già un fatto enorme che la regione sia sconvolta da una presenza così massiccia di truppe estranee a quella società. Qualunque sbocco abbia la crisi militare, la regione avrà subito un cambiamento irreversibile e positivo, nonostante le analisi sballate di troppi che si definiscono marxisti.

Borghesie inconseguenti.

Fortunatamente proprio gli avvenimenti del Golfo hanno provato che il cauto ottimismo da noi professato sulla vitalità della nostra corrente non è campato in aria. A causa certamente della crisi economico-militare che ha polarizzato l'attenzione dei compagni più sensibili ai temi della Sinistra, abbiamo avuto un riscontro inconsueto alle lettere. Il nostro lavoro non è mai un lavoro personale: se ci è concesso di allargare organicamente il terreno di elaborazione e di verifica di ciò che produciamo, non possiamo che rallegrarcene, per "andare avanti", accidenti (53).

Un compagno, a commento favorevole del nostro lavoro precedente (Lett. 23) e in critica ad altre letture, ci scrive che dovrebbe essere benvenuto per i marxisti un Saddam Hussein che faccia sul serio contro i regimi antistorici dell'area e contro gli Stati Uniti. Però, aggiunge subito, è difficile per Hussein "fare sul serio" perchè scatenerebbe forze che non ha nessun interesse a scatenare, cioè la violenza delle masse oppresse del medio oriente.

Noi crediamo che la borghesia irachena abbia tutte le intenzioni serie che sono compatibili con la sua particolare natura. Ma è questa natura che le impedisce, come osserva giustamente il compagno, di "fare sul serio". Non è mica una borghesia rivoluzionaria.

Il fatto è che non è più possibile per la borghesia essere non solo rivoluzionaria ma neppure conseguente fino in fondo contro i residui delle vecchie società in nessuna parte del mondo. Ciò, naturalmente, ha implicazioni anche per quanto concerne le attitudini della borghesia palestinese, curda, armena o ... ucraina nei loro moti di ribellione contro le cause della mancanza di libertà e di indipendenza. Precisamente, la borghesia potrebbe avviare una lotta conseguente contro l'oppressione esterna o contro i residui delle società antiche, solo scatenando le forze del proletariato e delle masse oppresse, ma ciò non le è possibile perchè, nell'epoca delle condizioni materiali per una rivoluzione proletaria, sarebbe travolta essa stessa.

Nella lettera precedente, che era la registrazione di un intervento verbale, si accennava solo di sfuggita al rammarico per la impossibilità dell'Egitto di svolgere il ruolo trainante che la storia gli aveva assegnato all'inizio del suo divenire nazionale. Questo ruolo era stato impedito da due fattori principali: primo, l'intervento delle potenze europee nell'epoca dell'ascesa borghese e, secondo, il declino della potenzialità rivoluzionaria di questa classe, ormai internazionalmente impegnata nella difesa conservatrice del proprio potere.

Vale la pena ora di riprendere questo discorso per sottolineare ciò che Saddam Hussein non può fare, nemmeno se si incarnasse Maometto in persona e, invece che in sogno, lo spingesse a poderose pedate verso la Jihad antimperialista. Indubbiamente il dittatore e la borghesia che rappresenta hanno contribuito a creare un bel trambusto, ma occorre che le correnti storiche passino nel posto adatto perchè ci possa essere davvero quel salto in avanti che sarebbe, se non l'unione degli arabi, almeno la ripartizione della rendita petrolifera in un contesto geopolitico comprendente la maggior parte delle popolazioni ora tagliate fuori. Quel salto che avrebbe anche come conseguenza di togliere le riserve al controllo dell'imperialismo angloamericano.

Dobbiamo dimostrare, però, che questa è l'epoca in cui certe correnti non passano più tra i due grandi fiumi che videro l'alba della civiltà.

Può "fare sul serio" Saddam Hussein?

La storia non scorre invano: a parte "l'alba della civiltà", è passata per sempre anche la "fiorita primavera del capitale", attraverso la quale i paesi giunti per ultimi alla sua accumulazione non sono passati.

Solo l'Egitto, nella regione, c'è passato. Ma gli ultimi fatti hanno dimostrato che la sua indipendenza dipende dagli alimenti e dagli aiuti che riceve dall'estero, specialmente dagli Stati Uniti.

Ricapitoliamo alcuni fatti: il 2 agosto l'Iraq invade il Kuwait. Nei giorni successivi l'Egitto propone un vertice arabo di nuovo a Gedda per risolvere la questione "fra arabi". L'Arabia Saudita accetta subito e anche altri paesi si accodano. La monarchia di Riyad evita per quasi una settimana di annunciare alla televisione e alla radio l'occupazione irachena. Si profila un piano per risarcire l'Iraq del danno subito a causa della politica petrolifera degli emirati e specificamente del Kuwait. Il piano prevede anche uno sbocco sul mare per Bagdad in cambio del ritiro delle truppe. L'Egitto è il migliore alleato dell'Iraq, ma anche dipendente dagli Stati Uniti per cibo, dollari e armi. Il 5 agosto gli USA dichiarano di intervenire, il 6 viene abbandonato il progetto per il vertice arabo a Gedda e il governo dell'Arabia Saudita comunica finalmente alla popolazione che il Kuwait è stato invaso. L'8 agosto inizia il ponte aereo americano e sbarcano le prime truppe dell' 82a.

Lo sbarco aviotrasportato non faceva che concludere un wargame, un gioco simulato di guerra che il Pentagono cullava da quarant'anni, da quando in piena guerra fredda cercava di subentrare all'imperialismo inglese e invece si vedeva scalzato dall'URSS.

La guerra del '56 aveva schierato l'Egitto, cui erano stati negati i dollari per il suo sviluppo a causa del "non allineamento", dalla parte dove non c'era Israele. Lo stato ebraico era appena stato abbandonato dall'Inghilterra e adottato dagli USA, quindi i fatti portarono alla diga di Assuan e alla ventennale collaborazione con i russi. Dove c'era l'Egitto c'erano gli Arabi: Siria e Iraq seguirono, il nerbo della "Nazione Araba" ricevette aiuti e armi. Se agli Stati Uniti rimasero l'Arabia Saudita e la Persia non araba dello scià, alle "Sette Sorelle" del petrolio rimase la maggior parte dei campi petroliferi. Ci vollero vent'anni perchè la situazione si rovesciasse. Dopo la guerra del Kippur l'Egitto ebbe la sua vittoria parziale e quindi il riscatto "morale", ma la guerra non portò il pane. Scoppiò tre anni dopo la rivolta operaia e contadina per la fame, vi furono centinaia di morti mentre la popolazione assaltava i forni e i depositi di armi, un segnale allarmante per la coalizione controrivoluzionaria mondiale. Arrivarono insieme la pace, i dollari, il pane e le armi. Sadat dovette andare a Gerusalemme a prenotare la pallottola islamica che l'avrebbe ammazzato. Ma chi ha l'Egitto ha il Medio Oriente, come ben seppe chi l'ha avuto o perduto: dagli Ittiti ai Romani, da Federico di Svevia alla Quinta Crociata al Rommel di El Alamein, dallo scontro Francia-Inghilterra a cavallo del 1800, alla battaglia USA-URSS per la sua conquista nel dopoguerra. Oggi l'Egitto non può fare a meno di grano e dollari, ma l'America deve stare attenta, ha un alleato la cui storia di lotta e di autonomia è in grado di far saltare i piani al più smaliziato capo di Stato Maggiore.

In trentotto mesi a cavallo tra '700 e '800 l'Egitto, dalla Battaglia delle Piramidi allo sbarco di Abukir, fu obbligato dall'occupazione francese a saltare dalla stagnazione asiatica al fermento capitalistico. Un intervento esterno, quindi, di tipo militare in entrambi i casi e in concorrenza alla dominazione straniera di un terzo elemento, l'Impero Ottomano. Una vera rivoluzione, che la degenerata potenza imperialista odierna non si sogna neppure tra la Coca Cola a ettolitri, le mamme spedite via satellite nei radiotelefoni da campo e i superbordelli navali a discreta distanza dalle severe leggi del Profeta.

L'Inghilterra, cosciente dell'importanza del crocevia internazionale egiziano, era subentrata militarmente ai francesi sostenendo i Mamelucchi, nemici degli invasori appena cacciati, ma anche dei Turchi dominanti. L'Egitto, a far la cronistoria, sembrerebbe semplicemente terreno di passaggio di eserciti contrapposti. Ma furono proprio essi, con la loro logistica, la loro organizzazione, la loro amministrazione, che incisero profondamente sulla società egiziana e la trasformarono. La "non interferenza" di un esercito occupante è una contraddizione in termini, ma almeno allora non veniva teorizzata.

Fortunatamente per l'Egitto di allora l'interferenza ci fu e fu duratura e pesante. Il contingente turco-albanese era quello che più aveva imparato dalla guerra contro i Francesi e riuscì a cacciare il vicerè turco. Un ufficiale di questo esercito, Mehemet-Alì, ne divenne comandante e quando gli Ulema sollevarono la popolazione contro i Mamelucchi, egli si schierò dalla parte delle forze nazionali che lo nominarono vicerè. Quando gli Inglesi ritornarono, Mehemet-Alì, forte dell'appoggio della popolazione, li sconfisse costringendoli al reimbarco.

Costantinopoli riconoscente confermò Ali come vicerè, ciò che gli permise di dedicarsi alla costruzione di un paese moderno sulla base dell'esperienza francese, a partire dalla organizzazione di un esercito di tipo europeo. Altri tempi: il generale Westmoreland in Vietnam riuscì a trasformare Saigon in un moderno casino: non proviamo a immaginare di cosa sarebbe capace il duro Schwarzkopf a Riyad o Gedda.

Altro che indifferenza. Fra Turchi, Inglesi, Francesi, Mamelucchi o nuove forze egiziane ci schieriamo per la nazione egiziana borghese nascente. Ma qui è facile, siamo al tempo dell'ascesa rivoluzionaria della borghesia, durante la quale il proletariato combatte a fianco di essa contro la dominazione straniera o per la costituzione di sè stesso in classe o l'una cosa e l'altra.

Non sappiamo quale fosse la consistenza proletaria in Egitto prima del 1848, immaginiamo qualche nucleo nelle principali città, specie nelle manifatture militari, e soprattutto una qualche forma di bracciantato nelle campagne. Ciò non toglie nulla al carattere diverso che poteva avere l'espansione egiziana da quella eventuale odierna di qualunque paese della zona in grado di farlo. E comunque sia, quando la borghesia odierna riesce a distruggere vecchie forme sociali con il suo intervento, anche se in forme particolarmente odiose e rivoltanti, ciò rappresenta un taglio con il passato che può permettere a più fresche forze sociali di prendere il sopravvento.

Lotta contro le vecchie classi ed espansione.

Quando le forze sociali della reazione si opposero alla modernizzazione dell'Egitto, Mehemet-Alì semplicemente le eliminò invitandone i 500 capi ad un convegno di riconciliazione e facendoli massacrare dalle truppe fedeli. Tipico esempio di "terrore" applicato, esente dalle ipocrisie cui ci abitua una società che agisce poi mille volte peggio. Detestabile violenza? Non era certo preferibile che i Bey e gli Ulema facessero il contrario.

Anche Hussein e il suo governo applicano il terrore. Ma c'è una differenza. Le vittime sono oscuri oppositori, iscritti al Partito Comunista Iracheno, appartenenti alla minoranza curda, ex alleati di governi caduti in disgrazia. In ogni caso non "terrore rivoluzionario" ma routine poliziesca, niente a che vedere con l'opposizione rivoluzionaria al risorgere di antiche remore sociali che in Iraq forse non esistono più.

D'altra parte è meglio Hussein con le sue industrie, le sue scuole laiche e il vino nelle vetrine che non un qualsiasi oscurantista tagliatore di mani e lapidatore di adultere con i suoi petrodollari nelle banche angloamericane e sudditi mantenuti a vegetare sulle spalle di milioni di schiavi salariati "stranieri".

Nonostante l'Iraq abbia condotto una guerra di contenimento dell'Iran con i soldi degli attuali nemici, la dialettica storica non permette di classificarlo semplicemente nè come "mercenario dell'imperialismo" nè (ora) imperialista a sua volta. Anzi, l'ambiguo rapporto con gli Stati Uniti rivelato anche dal famoso episodio con l'ambasciatrice Glaspie poco prima dell'attacco, dimostra come l'Iraq oscilli fra la sua propria necessità di espansione e l'impossibilità di scavalcare i limiti imposti dalla gendarmeria mondiale imperialistica (54). Per fare la Guerra Santa ci vogliono truppe che ci credono senza far conto esclusivamente sul paradiso.

Quando la setta oscurantista Wahabbita s'impadronì militarmente dell'Arabia, Mehemet-Alì attacco le città sante dell'Islam e le liberò con Gedda (1812), diventando sì campione dell'Islam, ma allargando enormemente i traffici egiziani verso le carovaniere orientali. Checchè ne dicano gli Americani, Saddam Hussein non poteva essere così pazzo da "liberare" l'Arabia disperdendo su un territorio immenso una logistica appena sufficiente per andare nel piccolo Kuwait. E, dato che la forza propulsiva dell'Islam non ha più la carica del periodo della costituzione degli stati nazionali, la borghesia irachena deve limitarsi a una rispolverata dei temi religiosi a uso e consumo di masse che non hanno nessuna voglia di precipitare in una guerra per essa. Con ciò, fa un passo indietro rispetto al suo stesso modo di governare, laico e modernizzante, se non - per cause di forza maggiore - moderno.

L'Egitto si sviluppò con tecnici ed esperti militari europei, ebbe bisogno di espandersi e conquistò il resto della Penisola Arabica ai Wahabbiti inglobando il Mar Rosso come mare interno, ottima via d'acqua per le merci da e per il Medio Oriente. Nel giro di un altro anno un esercito moderno conquisterà le carovaniere verso il Sud e controllerà il Nilo fino al suo corso superiore nel Sudan, dove verrà fondata Khartum come città commerciale. Certo, interverranno poi le potenze europee a ridimensionare l'espansione egiziana, ma intanto è dimostrato che, nei fatti, un tempo è stato possibile per la borghesia nascente "fare sul serio".

Dicono che Saddam Hussein ami fare dei confronti fra sè stesso e i grandi personaggi della storia antica mesopotamica, anche con monumenti alla propria persona. Ma non è questo un misero surrogato che nasconde l'impotenza reale nella realizzazione di sogni espansionistici? Mehemet Alì aveva costituito un vero e proprio staff internazionale per costruire l'Egitto moderno. Il governo di Bagdad, tra una repressione e l'altra per salvaguardare i clan del villaggio originario di Tikriti, manovra (ed è manovrato da) una massa mercenaria di specialisti e di tecnici accorsi per vendere alla rinfusa secondo le modalità piratesche del marketing moderno, cosa che non ha nulla a che vedere con la "costruzione".

Un'espansione impedita nei fatti.

Tolta l'Arabia Saudita, caposaldo reazionario la cui capitale sposteremmo volentieri a Bagdad come al Cairo, l'Iraq non ha effettive possibilità di espansione, anche se non vi fosse la tutela mondiale delle potenze imperialistiche. L'Iran e la Turchia sono nazioni a sè, cioè di storia, popolazione e lingua non semitica. La Siria ha una sua specificità nazionale e peraltro tende a una sua propria espansione. Gli Emirati non confinano. La Giordania non è una nazione ma confina con Israele...

Anche la geografia è contro un Saddam Hussein che "faccia sul serio".

Solo la propaganda americana fa ora apparire ciò che non è, compreso l'attacco all'Iran, pianificato e condotto come operazione limitata nello spazio e nel tempo, fallito negli obiettivi e costato un'esagerazione, in vittime e danni. Bagdad dice di aver vinto la guerra. Errore: è un consorzio internazionale che l'ha vinta, con 90 miliardi di dollari in armi e l'utilizzo di carne da cannone irachena. Alla borghesia di Bagdad rimane il piccolo Kuwait, ex provincia, abitato da popolazione eterogenea, ricco in petrolio e denaro, facile da occupare, difficile da far passare come povera vittima, probabilmente oggetto di transazione con gli Stati Uniti per mettere in piedi l'operazione "Desert Shield". Non è molto per un "Hitler mediorientale" che ha scoperto dopo il misfatto la morale americana sull'intangibilità alquanto relativa delle frontiere e dei sacri diritti.

L'Egitto invece non si fermò nella sua espansione ed ebbe la possibilità di sfidare sia Costantinopoli che le grandi potenze. Esso proclamò l'indipendenza dalla Turchia e con una spedizione militare conquistò Palestina, Libano e Siria, penetrando entro i confini turchi. Per ben due volte (1833 e 1840) l'Egitto fu fermato dalle potenze europee mentre era in procinto di abbattere la potenza turca. Consentire al ridimensionamento dell'impero ottomano era conveniente, ma vedere nascere una potenza più moderna era intollerabile. Il danno storico per il Medio Oriente è paragonabile a quello che seguì la ritirata di Napoleone dalla Russia per l'Europa.

Non possiamo essere contrari all'espansione nazionale come se fosse un male di per sè. E' certo che se l'Egitto avesse potuto mantenere almeno le pianure fertili dell'Alto Nilo, avrebbe avuto uno sviluppo economico non ipotecato dalla sua tragica mancanza di terra fertile, mentre una potenza che si estendesse addirittura dalla Libia alla Siria o alla Turchia, dal Mediterraneo all'Africa Nera, avrebbe potuto precipitare il dominio dell'impero ottomano un mezzo secolo prima di quanto effettivamente avvenne con tutte le conseguenze immaginabili per quanto riguarda la formazione di un proletariato moderno nell'area.

Personalmente Alì non era un borghese, era un pascià che governava con mano pesante. Ma il suo governo agì come rappresentante della moderna borghesia. Tollerava il commercio di schiavi africani, ma intanto istituiva un catasto della terra spazzando via la proprietà feudale. I risultati, anche senza il petrolio e con mezzi infinitamente inferiori a quelli di cui dispone oggi Bagdad, furono in proporzione di molto superiori. Stabilito il controllo sulle vie commerciali, venne varato il progetto di una moderna amministrazione (1837). Dighe, canali, tessiture, agricoltura moderna, porti, scuole, servizio sanitario permisero l'avvio di una ammirevole industrializzazione, base, più tardi, per le ferrovie e l'opera ciclopica del Canale. Nella sua primavera il capitale sapeva e poteva utilizzarsi al massimo rendimento.

Erano gettate per sempre le basi di un crocevia fra Europa, Africa e Oriente, da cui non si potrà prescindere per le nuove sistemazioni, con o senza rivoluzione. Il paese chiave è l'Egitto, e non solo perchè le cannoniere dell'imperialismo devono passare per il canale di Suez.

Il "generale" Engels e le determinazioni geostoriche.

Torniamo un momento alla "nostra" questione militare, ricordata nella lettera precedente. Parliamo molto dell'Egitto parlando dell'Iraq e del Golfo perchè esso rappresenta per il mondo arabo un po' quello che la Germania rappresenta per l'Europa. Se come marxisti abbiamo assimilato bene ciò che il "generale" Engels ci ha spiegato nei suoi scritti per quanto riguarda le determinazioni "geostoriche" negli sviluppi degli scontri, dobbiamo capire che in Medio Oriente è determinante ciò che fa l'Egitto più di quanto non lo sia ciò che fa l'Iraq o gli altri paesi.

In altri termini: i maggiori paesi dell'area possono prendere iniziative politiche e militari in grado di turbare momentaneamente gli equilibri stabiliti, ma nessun evento può essere storicamente significativo senza che l'Egitto sia coinvolto e senza che il suo peso specifico influenzi tali equilibri. Ciò non dipende dagli uomini che lo governano, ma dalle condizioni materiali in cui si è sviluppata la sua storia. Si può affermare anche l'inverso ed è altrettanto valido: qualora l'Egitto diventasse protagonista soggettivo di eventi importanti, ciò significherebbe che sono maturi cambiamenti nell'area mediorientale.

L'Iraq ha la tendenza propagandistica di presentarsi come nazione guida del mondo arabo (è nella dottrina del partito al governo) e ha più forza per sostenere simile intento che non la Siria, per non parlare della Libia, che hanno la stessa "vocazione". Ma nessun capo iracheno o governo o partito potrà intraprendere una realistica campagna unitaria del tipo di quella che ha potuto intraprendere l'Egitto nel passato. E neppure sarà più possibile per l'Iraq riscattare l'eredità nasseriana contemporanea, perchè quel fenomeno, benchè inficiato da azioni e ideali contraddittori, ha avuto un'importanza anti-imperialistica solo in quanto collocato nella più generale lotta dei popoli coloniali per la loro liberazione e oggi quel contesto non c'è più.

Per quanto occorra sempre andar cauti con i paragoni storici, non si può fare a meno di ricordare che, quando l'Egitto fu invaso nel 1956 dalla coalizione imperialista, esso non solo potè conservare il Canale di Suez, oggetto della contesa con l'Inghilterra, ma potè rintuzzare la Francia intervenuta contro il sostegno egiziano ai ribelli algerini, potè denunciare la funzione imperialistica di Israele e soprattutto potè mobilitare le masse povere dell'Egitto nello sforzo di modernizzazione, a cominciare dalla riforma agraria, tentativo di distruggere una volta per sempre la millenaria schiavitù del fellah.

Non abbiamo mai avuto simpatia per tali movimenti nazionalistici, ma non si può essere indifferenti al fatto che per la terza volta (Alì, Orabi, Nasser) l'Egitto tentava l'ondata di modernizzazione e veniva schiacciato da coalizioni imperialistiche perchè diventava troppo potente. L'Iraq non ha potuto svolgere la stessa funzione nella storia e quindi ha avuto un rapporto con l'imperialismo del tutto diverso. Infatti non è lì il punto cruciale di passaggio delle correnti storiche moderne, anche se l'Iraq fa parte di quella "Mezzaluna fertile" la cui storia complessiva non può essere ignorata nel valutare gli assetti nazionali dell'area. Ma è un fatto che, mentre l'Egitto conquistava la sua indipendenza e attaccava l'ex oppressore contestandone l'egemonia, l'Iraq si dimostrava refrattario anche alla non certo progressista amministrazione ottomana, che non era mai riuscita a spezzare l'antica struttura tribale.

L'Iraq, anche dal punto di vista dell'accumulazione, nonostante il petrolio, è rimasto indietro rispetto all'Egitto: 22 miliardi di dollari di Prodotto Lordo contro 43 (1985); è vero che la popolazione (18.000.000 contro 50) incide molto sul prodotto pro capite, ma è anche vero che l'intera popolazione egiziana dispone solo di 2,5 milioni di ettari coltivabili contro 5,5 milioni di quella dell'Iraq e non ha il petrolio.

La penosa chiusura dell'epoca delle lotte di liberazione.

Quando l'Egitto attaccò Israele nel Sinai, dimostrò ancora una volta la sua capacità di azione autonoma nella tendenza al suo proprio spazio vitale. Dimostrò di avere la capacità politica e militare di assestare un colpo durissimo alla leggendaria invincibilità di Israele, dovuta più che altro alla impossibilità di durata delle guerre per intervento automatico dei tutori imperialisti.

La faticosa (e politicamente dolorosa) riconquista dei territori perduti, per l'Egitto significava l'isolamento di fronte al finto radicalismo arabo, ma significava anche, in generale, la sanzione della fine di un'epoca.

Finiva cioè nettamente la commistione fra rivoluzione nazionale e compiti più avanzati della rivoluzione proletaria nelle aree in cui i "compiti democratici" avevano avuto senso fino a molto tardi.

Si chiudeva (malamente, con compromessi vergognosi, sotto la guida di una borghesia oligarchica infiacchita dalla ricchezza e capeggiata dall'ambiguo Sadat) l'epoca delle rivoluzioni anticoloniali e si collocava una volta per sempre anche la questione palestinese nei suoi corretti limiti storici: la trattativa di pace con il "nemico del popolo arabo" toglieva ogni sacralità nazionale rivoluzionaria alla questione palestinese, chiariva che Israele non era uno stato colonialista di tipo particolare, ma uno strumento particolare dell'imperialismo mondiale, tutt'altro che coloniale.

E i Palestinesi ne erano vittime come tutte le altre, curde, armene, berbere o negre.

Si chiariva che la questione dei popoli oppressi, la loro liberazione, rientrava nel più generale movimento di emancipazione della classe operaia, nella rivoluzione internazionale ed era morta per sempre ogni possibilità di alleanza tra proletari e borghesi nelle lotte di liberazione perchè non sarebbero più state possibili le lotte di liberazione, cioè quella fase particolare che sta fra la rivoluzione borghese antifeudale e la rivoluzione proletaria.

L'Egitto con la sua storia tormentata, ed è significativo che non si siano prestati altri paesi a simile dimostrazione, ha permesso di chiarire nei fatti ciò che la teoria marxista già aveva chiarito. Un taglio netto, brutale, indispensabile, gravido di insegnamenti che purtroppo non sono stati recepiti fino in fondo neppure tra i marxisti.

Ecco perchè oggi più che mai non possiamo pretendere che la borghesia, nemmeno quella delle nazioni "povere", oppure oppresse e senza terra, nell'epoca della sua decadenza a mero elemento conservatore del suo dominio, sia conseguente come nell'epoca della sua ascesa. Riesca per esempio a fare una riforma agraria in grado di rivoluzionare completamente i vecchi rapporti di produzione, o riesca a condurre una battaglia nazionale contro l'imperialismo con tutti i crismi del nazionalismo rivoluzionario (magistrale anticipazione in Lenin, Due Tattiche.

Essa ci facilita il compito alla denuncia, ma nulla più. Siamo noi a dover trarre le conclusioni dal suo atteggiamento, e ben poco ci serve sapere se esattamente Hussein ha avuto via libera tramite l'ambasciatore degli Stati Uniti dopo un accordo, o se questi ultimi hanno pianificato l'invasione dopo un inganno, oppure ancora se invece vi si sono fatti coinvolgere di buon grado.

Radici materiali degli interessi nazionale arabi.

L'Iraq si pone come campione della causa panaraba, ma i suoi leader devono agire all'interno della logica delle "nazioni". Non si sognano neppure di spiegare che "unità araba" significherebbe "fare sul serio" alla maniera di Mehemet Alì. A parte il fatto che sfidare gli Stati Uniti oggi rappresenterebbe un'impresa molto più ardua che sfidare allora Inghilterra, Turchia e Francia messe insieme, l'elemento sostanziale che manca è la ragione concreta che offra una tensione rivoluzionaria nazionale alle masse sfruttate.

Manca per la semplice ragione che i paesi arabi più importanti hanno esaurito da tempo tale tensione raggiungendo bene o male un assetto territoriale in cui una relativa omogeneità di popolazione, lingua ecc. ha permesso lo sviluppo di politiche autonome. Essi sono in concorrenza tra loro per l'egemonia nelle rispettive aree di influenza e la tendenza all'unità è solo propaganda. Il tentativo più serio, quello nasseriano con la R.A.U. è fallito una volta per tutte; le velleità libiche sono rimaste nei discorsi di Gheddafi.

Le frange sfuggite per calcolo imperialistico all'inglobamento nei paesi importanti, si caratterizzano per una politica del tutto opportunistica, legata a interessi locali o venali.

Che il panarabismo sia una chimera è dimostrato anche dal punto di vista materiale, cioè dalla distribuzione delle risorse e quindi della ricchezza nell'area di lingua araba. Queste cifre sono importanti anche nel valutare le conseguenze di frontiere tracciate appositamente in modo arbitrario dall'ex colonialismo. Nel suo insieme il mondo arabo è creditore verso il sistema bancario internazionale per 462 miliardi di dollari (670 miliardi di averi all'estero contro 208 miliardi di debito). Ma scorporando le cifre vediamo che l'intero credito riguarda sei paesi con meno di 10 milioni di abitanti, mentre l'intero debito è a carico dei restanti paesi con 190 milioni di abitanti.

Un debito di 208 miliardi di dollari rappresenta il 181% delle intere esportazioni di tutto il mondo arabo, petrolio compreso, ma i paesi possessori dell'eccedenza non investono nel mondo arabo che il 7% dei loro investimenti all'estero (55).

Le basi materiali della distribuzione degli interessi nazionali della zona, incrociati con quelli dei vari imperialismi, dimostrano che la crociata di Saddam soffre di contraddizioni insuperabili, cioè è un bluff.

Così come al tempo dell'aiuto americano all'Iraq per la guerra all'Iran gli interessi dei vari paesi erano per la sconfitta del Komeinismo, gli interessi odierni legano tra loro i paesi che hanno un interesse vitale all'aumento del prezzo del petrolio, USA e URSS in primo luogo, ma anche lo stesso Iraq con i suoi enormi debiti di guerra e gli altri produttori. La causa panaraba si scontra con questa realtà economica e geografica, al di là della demagogia di Bagdad: la divisione sta nella ricchezza del sottosuolo e nelle alleanze oggettive che questa produce.

L'Iraq ha il petrolio, ma non si può considerare un paese ricco, come l'altronde non è ricca l'Algeria. Quindi l'Iraq non può svolgere certamente un ruolo come quello dell'Arabia Saudita, ricco gendarme che, mentre protegge i suoi interessi, difende in modo del tutto naturale anche quelli americani. La potenza sociale della relativa modernità coniugata ai bisogni della nazione irachena, non può essere collegata alla dirompente carica sociale della estrema povertà altrui, come vorrebbe Hussein, fuori da un contesto rivoluzionario.Il bisogno nazionale di espansione si scontrerebbe immediatamente contro i bisogni di altre nazioni come Siria o Egitto. Semmai, ed è importante sottolinearlo, potrebbe funzionare l'inverso: solo la potenza sociale di un paese relativamente sviluppato e popolato potrebbe sopperire alle carenze dei paesi ricchissimi ma spopolati nello svolgimento di una funzione controrivoluzionaria per conto dell'imperialismo maggiore. Certo che in questo caso la faccenda sarebbe complicata dagli autonomi interessi delle nazioni mediorientali, ma il potente tutore avrebbe argomenti per intimidire eventuali avversari. Non aveva questo ruolo l'Iran di Pahlevi più dell'Arabia Saudita?

Gli Stati Uniti tenevano molto all'Iran dello Scià in funzione di robusto gendarme. Più che a Israele. C'erano 60.000 americani nell'apparato economico militare di Teheran, c'era il petrolio, l'industria, 36 milioni di abitanti. E armamenti di prima qualità a mucchi. L'Iran era una potenza prima che le masse oppresse insorgessero e buttassero fuori tutti i "cani imperialisti" a legnate, infischiandosene delle complicate tecnologie di chi teneva la superiorità in cielo e in mare.

Controrivoluzione in cerca di truppe.

Chi metterà a disposizione dell'imperialismo americano una forza controrivoluzionaria pari a quella dell'Iran di Pahlevi? L'Egitto non si presta, le monarchie non sono adatte, l'Iraq è il nemico. Si comincia a capire perchè ci sia "bisogno" di tanti uomini e di tanti mezzi in proprio. Nei fatti, lo Zio Sam è a corto di alleati nel difendere gli interessi che sempre più non riesce a far condividere agli amici tradizionali, nel difendere il muro di classe che divide ricchi da poveri, arabi da arabi, oppressi da oppressi, proletari da proletari.

I boys americani sono andati a difendere tutto questo in prima persona per mancanza di agenti fidati, come erano dovuti andar soli in Corea e in Vietnam a difendere il "Mondo Libero".

Ecco contro quale nemico dovrebbe combattere il panarabismo se avesse un senso rivoluzionario. Nessun movimento nazionalista potrà incidere più di tanto su questa realtà a meno che i 190 milioni non si scaglino come un sol uomo contro l'intreccio imperialistico e, con i loro compagni proletari dell'Occidente, lo facciano saltare. Ma questa cosa ha un altro nome.

Anche se l'ondata anti-imperialista che è cresciuta a un livello maggiore che ai tempi di Nasser (56) dovesse montare ulteriormente presso le popolazioni, nessun governo avrebbe il coraggio di utilizzarla fino in fondo: com'è facile per il politicume infrangere esso stesso i "sacri principi" ai quali vuol far sottostare gli altri, così gli è difficile capire che le "Guerre Sante" sono tali solo se sollevano la parte decisiva dei "popoli" e la scagliano in una guerra che costringa il nemico a disperdersi talmente da non poter conseguire la superiorità militare in nessun punto, costringendolo a infrangere i capisaldi delle sue dottrine classiche di guerra.

E anche l'appello dell'Iraq ai "poveri" del mondo suona opportunistico e stonato. E' nelle metropoli del Capitale che si decidono le sorti di milioni di indigenti. E' là che risiedono il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, gli unici organismi in grado di indirizzare i flussi internazionali degli investimenti e dei prestiti. E anche quando dei paesi in via di sviluppo avessero capitali propri da investire in paesi della loro area, non potrebbero fare a meno di "passare attraverso l'intermediazione delle istituzioni centrali del sistema capitalistico contribuendo così a rafforzare la loro dominazione sia sui surplus finanziari che sui paesi dove questi s'investono". Questo vale anche e soprattutto per i surplus petroliferi destinati ai "fondi per lo sviluppo" del mondo arabo (57).

Che possono fare popolazioni alla fame se non rinunciare semplicemente al petrolio? Ci sono 41 paesi nel mondo che non arrivano a un reddito pro-capite di 200 dollari l'anno contro i 15.000 dell'area OCSE. Sono 400 milioni di persone legate per il 75% all'agricoltura, ma che non riescono a raggiungere l'autosufficienza alimentare (58). Non è una beffa invitarle a venirsi a prendere il petrolio gratis? Con che cosa, di grazia, contro la panoplia elettronicoblindata dell'imperialismo di guardia? E a quale rivoluzione chiamarli? A quella islamica ?

Palestinesi ingannati.

Se non può agire conseguentemente per l'unità del popolo arabo, quale prospettiva può offrire l'Iraq al popolo palestinese, incatenato a una sorte ben più intricata di problemi da risolvere accumulati nel tempo?

Nelle transazioni con esiti più o meno militari tra borghesie all'interno degli schieramenti imperialistici, chi resta fregato è sempre l'oggetto della transazione. Quando poi si tratti di popolo cui sia negato di farsi le proprie ragioni a suon di cannonate la fregatura diventa particolarmente tragica.

Che cosa vuol dire patteggiare collegando l'invasione del Kuwait alla questione palestinese? Ritirarsi dalle terre e dai pozzi occupati in cambio di una patria per i Palestinesi? E dove, in Iraq? Oppure in Giordania, magari concordando una spartizione con Israele? O nello stesso stato di Israele concordando il riconoscimento reciproco dei territori occupati? O distruggendo lo stato di Israele e rovesciando le parti tra Israeliani e Palestinesi?

Insomma, che cosa può offrire l'Iraq come "nazione" alla "nazione" palestinese? Niente di realistico. Nel momento in cui Bagdad chiama le masse oppresse alla lotta antimperialista, in esse deve confondere senza distinzioni le masse palestinesi in quanto tali e farle lottare per gli interessi iracheni. Perchè quel tipo di lotta antimperialista non sarebbe altro che lotta per l'espansione della politica nazionale irachena.

Se fosse possibile guarderemmo con interesse alla scomparsa delle monarchie in un allargamento della repubblica mesopotamica, ma non ci sogneremmo mai di illudere i Palestinesi sul fatto che questo sia una soluzione per i loro problemi nazionali. Si veda come l'Iraq tratta i Curdi e si immagini quale Settembre Nero sarebbe in grado di pianificare la borghesia irachena per i Palestinesi.

Questa è la dimensione dell'ennesimo tradimento dell'OLP guidata da Arafat: mai e poi mai i Palestinesi devono affidare le loro sorti a chi li adopera per fini suoi.

D'altra parte la borghesia palestinese è ben integrata nei vari paesi arabi, ne costituisce parte del nerbo centrale della finanza e del commercio, è ricchissima e ben lontana dal preoccuparsi dei "fratelli" schiacciati dal sionismo. La fine dell'oppressione dei Palestinesi senza "patria", come la fine dell'oppressione di tutte le nazionalità perseguitate, può giungere soltanto in uno sconvolgimento rivoluzionario di tutta l'area. In questo caso la "patria" cesserebbe di essere un problema. Questa è la prospettiva per cui si deve lottare, non mettersi al servizio di questo o quel "protettore" del momento come carne da cannone a basso prezzo.

La battaglia di Amman, finita purtroppo nei massacri di Settembre Nero, aveva dato un primo segno della via da seguire, incendiando i quartieri proletari e sottoproletari della capitale hashemita, diffondendosi ovunque ci fosse un campo di concentramento ed echeggiando anche all'interno della stessa Israele.

Un'Intifadah internazionale, ci vuole, a cominciare dalle metropoli, ma non per Saddam Hussein e chi rappresenta, nè per lo squallido Arafat, bensì per l'avanzare della rivoluzione. E se accettiamo questo punto di vista, cioè quello del maturare di condizioni che favoriscano l'Intifadah mondiale che vada dalle fabbriche di Detroit alle mostruose concentrazioni giapponesi, è auspicabile il precipitare degli eventi verso la più vasta unificazione possibile dei territori. Ben venga la Grande Israele, la Grande Siria, il Grande Egitto, la Grande Arabia, qualsiasi Grande Sconvolgimento che sia in grado di unificare la rabbia e l'odio dei 190 milioni di arabi e scatenarli in un turbine sociale verso la rivoluzione con altre centinaia di milioni di proletari di tutti i paesi!

Non siamo così ipocriti da paventare lutti, distruzioni e sofferenze per questa rivoluzione possibile quando siamo spettatori ogni giorno dell'allungarsi del catalogo disumano delle 125 guerre e dei 22 milioni di morti per niente, cioè per la sola, inutile, pestifera sopravvivenza del Capitale, in grado non solo di stroncare le vite attuali, ma anche quelle future, attraverso la distruzione dell'ambiente in cui dovranno vivere.

Soldati per la rivoluzione.

E non mancano in loco i potenziali soldati della rivoluzione.

All'inizio degli anni '70, 650.000 arabi lavoravano in Medio Oriente fuori dal loro paese. Dieci anni fa erano già 3.700.000. Essi mandavano a casa in rimesse una buona parte del prodotto lordo del loro paese d'origine: 10% per l'Egitto, il 28% per la Giordania. Oggi solo in Iraq ci sono (c'erano) circa due milioni di lavoratori provenienti dall'estero, palestinesi, egiziani (800.000), pachistani, coreani eccetera. In Kuwait ce ne sono 700.000 di fronte a una popolazione locale di meno di un milione. In Arabia Saudita ci sono quattro milioni e mezzo di immigrati precari su una popolazione di dieci e altri due milioni e mezzo sparsi nel resto del Medio Oriente, escluso l'Iran. Sono quasi dieci milioni di persone che, tolti i tecnici e i funzionari, rappresentano bene il potenziale d'incremento del proletariato dovuto al solo sfruttamento del petrolio. Si può immaginare quale sviluppo avrebbe l'area se venissero spazzate via le reminiscenze tribali e, sull'onda di avvenimenti traumatici, potesse prendere l'avvio un rimescolamento sociale e un minimo di industrializzazione e di avvio dell'agricoltura. Per esempio, la dipendenza alimentare è terribile: i paesi arabi importavano per 2,5 miliardi di dollari in alimenti nel 1970 e ne hanno importati per 25 miliardi nel 1989; cioè, con il 4% della popolazione, importano il 20% degli alimenti esportati da altri paesi (59).

Indubbiamente l'invasione del Kuwait è stata una buona mossa, se non altro perchè, con l'aria che tirava, come dice Amadeo a proposito dei sofismi su attaccanti e attaccati, "il più debole se non è fesso attacca per primo". Ci riferiamo alla montatura che stava nascendo sulla pericolosità della potenza militare irachena, disoccupata e non smobilitata dopo la guerra con l'Iran, con tanto di corollario fantastico su supercannoni e armi atomiche, vettori antimissilistici inesistenti e gas terrificanti. Se l'Iraq sospettava una manovra contro il suo territorio, è nella logica di questi rapporti di forza acquisire posizioni che possono essere usate in un negoziato imposto.

I piani segreti delle cancellerie hanno il loro corso e noi non vi possiamo accedere. Quel che è certo è che la controinvasione americana è stata tempestiva in modo sospetto.

Ora, di fronte a un nemico del calibro di quello americano, o si fa appello a tutte le forze esistenti o si soccombe miseramente. Il Vietnam ha vinto non tanto perchè avesse alle spalle l'aiuto con il contagocce dei potenti tutori, ma perchè ha impegnato nella guerra tutte le risorse e tutte le energie possibili, e soprattutto perchè, di fronte alla determinazione vietnamita, ha ceduto il fronte interno americano.

Non conosciamo la strategia di Saddam Hussein e dello Stato Maggiore americano, ma al di là delle chiacchiere e delle singole volontà degli attori di questo dramma, l'unica possibilità di farla franca di fronte allo spiegamento di forze americano sarebbe quella di sollevare i milioni di sfruttati proletari immigrati e unirli agli altri milioni di oppressi contro i loro governi, scagliarli come una forza unica contro il nemico, disperdendone la capacità di azione e insabbiandolo in una via senza uscita. L'America non sopporterebbe più i tempi lunghi come quelli vietnamiti.

Ma nessuna forza borghese inconseguente riuscirà mai ad avere questa determinazione e questo carisma di fronte ai milioni di sfruttati, autoctoni e stranieri. Che può offrire l'Iraq per indirizzare questa immensa forza potenziale? Quale tipo di emancipazione dalle miserie quotidiane? Quale interesse materiale potrebbe scatenare lo slancio antimperialista?

Le masse sfruttate registrano, se non individualmente collettivamente, le contraddizioni di chi vorrebbe spingerle a conquiste incoerenti. Marx dice a proposito dell'Inghilterra e dell'Irlanda che nessun popolo può dirsi veramente libero se contribuisce a tenerne soggiogato un altro. La memoria collettiva delle masse oppresse chiamate alla lotta da Saddam Hussein in nome dell'unità araba ha registrato indelebilmente le reiterate azioni di guerra contro il popolo curdo e la repressione interna contro ogni forma di lotta di classe. E i Palestinesi ricordano certamente come sono stati trattati dai vari governi arabi quando orgogliosamente hanno cercato di imporre con le armi ciò che a parole gli era sempre stato promesso.

Saddam Hussein si è convertito sulla via della Mecca e avrà pure sognato il Profeta, ma non potrà certamente spingersi sino a fomentare forze che travolgerebbero per prima cosa la classe che egli rappresenta e tutto il suo mondo.

Imperialismi su fronti opposti.

L'Egitto, radiato e ritornato recentemente nella Lega Araba, era, come dicevamo, l'alleato più saldo dell'Iraq durante la guerra con l'Iran, fu l'organizzatore della prima conferenza di Gedda per tentare di risolvere diplomaticamente la questione kuwaitiana, l'ideatore della seconda organizzata e abortita, e fu il primo paese arabo a mandare truppe e mezzi sul confine tra l'Arabia Saudita e l'Iraq. A chi lo accusava per questo di essere un fantoccio degli imperialisti, Mubarak rispondeva: "Abbiamo i nostri propri interessi e non siamo controllati da nessuno. Abbiamo buone relazioni con l'America, con l'URSS, con l'Europa, con l'Est, con il continente africano e anche con il Mondo Arabo. L'Egitto è l'Egitto. L'Egitto non sarà mai un fantoccio per nessuno, e chi parla così lo sa benissimo" (60).

Non è il 1956, i fatti militari non sono comparabili e Mubarak non è Nasser, ma l'orgogliosa risposta ha avuto un risvolto pratico di conferma della politica di questo paese, ricattato con l'arma vigliacca del pane, ma non reso servile: l'Egitto è stato il primo a rifiutare la soluzione militare della crisi, coerente con l'impostazione iniziale. Quindi manda i suoi 30.000 uomini con 300 carri armati veramente per ragioni sue proprie. A cominciare dall'abbuono del suo debito militare con gli USA, 7 miliardi di dollari e il promesso recupero dei 2,2 miliardi di dollari in rimesse degli emigrati, perduti con il rientro dei lavoratori egiziani dall'Iraq e dal Kuwait. Ma soprattutto perchè consapevole del suo ruolo: tutto diventa più complicato per chiunque con l'Egitto come avversario e l'Egitto vuole la soluzione negoziata.

Non c'è motivo di credere che gli altri paesi siano invece andati per ragioni altrui. Tra l'altro, in tutto l'Occidente interventista, gli operatori economici "hanno già perso il loro sangue freddo. Emotivi, si affollano in preda al panico (presso i governi) e, infragilendo le democrazie occidentali, fanno il gioco dell'avversario... forma moderna di ciò che un tempo si chiamava tradimento" (61).

La Francia, pur inviando 5.000 uomini e 200 carri armati, è stato il secondo paese dopo l'Egitto a rifiutare ufficialmente l'opzione militare. "Soluzione araba", dice Mitterrand, e Giscard d'Estaing di rincalzo: "la coalizione anti-irachena esploderebbe non appena fossero aperte le ostilità".

Germania e Giappone si sono limitati a promettere di "regolare su fattura" dopo aver versato un misero anticipo; però il Giappone, che acquista il 70% del suo petrolio nel Medioriente, con notevole tempismo pochi giorni prima della crisi ha diversificato i suoi acquisti di petrolio passando all'Iran una richiesta di 4,5 milioni di barili a un prezzo di poco superiore a quello corrente di allora. E comunque, anche se consapevole di fare una politica energetica costosa e rischiosa, da anni il Giappone finanzia approvvigionamenti di gas naturale soprattutto in Indonesia, Malaysia e Brunei, sua zona di influenza. Tokio importa e commercializza il 70% mondiale di questa fonte di energia. Non occorrono prese di posizione ufficiali per capire da che parte stanno i due paesi citati: significa semplicemente che scuciranno solo se i loro interessi non saranno troppo colpiti. Insomma, una specie di deterrente contro l'impennata poliziesca americana.

Come dire: abbiamo capito benissimo che questa volta la guerra non ti fa da sfogo all'economia; se ci danneggi te la paghi e te la fai da solo. "Trascinandosi il suo bilancio militare l'economia USA partiva perdente nella corsa che la opponeva all'Europa e al Giappone. Dopo la crisi del Golfo, l'apparato militare americano si è improvvisamente trovato rivalorizzato" (62). Perfetto. L'enorme apparato bellico americano ha una funzione economica e politica: questo lo si sapeva da sempre. Ma senza la possibilità di esprimere il suo "valore d'uso", è semplicemente una palla al piede per l'economia, e se ne avvantaggiano i concorrenti che non ce l'hanno. Se tutti pagassero senza fare tante storie e rigassero dritto come hanno sempre fatto finchè gli conveniva, la rivalorizzazione della macchina militare americana sarebbe cosa fatta. Ma noi crediamo che in questo momento stiano giocando forze, coscienti o meno, che tendono a sfruttare il declino americano, cercando però di agire in sordina in modo da non scatenare le difese dell'America. Un gioco sul filo del rasoio perchè, come abbiamo già detto, chi sarà il successore? E come saranno neutralizzate le difese dell'America, ancora strapotenti nonostante il declino?

Intanto la lista delle defezioni continua. L'Italietta si allinea a questo tipo di partecipazione vigile: pur annunciando l'aumento di uomini e mezzi, non li farà intervenire in caso di conflitto; la Siria, con 15.200 soldati e 300 carri di cui è annunciato l'aumento, non attaccherà, anzi, in caso di coinvolgimento di Israele si schiererà dall'altra parte. Ultimo il Marocco, 2.000 soldati, si dissocia dall'ipotesi bellica, mentre la Corea, che aveva promesso soldi, è a quota zero con il suo versamento.

L'Iraq non se ne andrà con le preghiere. Se gli interventisti intervenuti non sono d'accordo per piegare militarmente l'Iraq, c'è da chiedersi che cosa andati a fare con tutti quegli eserciti. La risposta l'ha già data Mubarak: per interessi loro propri, cioè per impedire agli americani di conquistare con la guerra il controllo diretto delle risorse energetiche.

Ma, come abbiamo già visto, gli Stati Uniti hanno estremo bisogno di controllare il capitale costante dei loro concorrenti per abbassarne il saggio di profitto, dato che non possono stimolare l'accumulazione alzando il proprio.

Il declino della potenza americana si osserva in un risvolto economico che, pur tenuto in secondo piano nel generale commentario giornalistico, è importantissimo: per la prima volta nella loro storia, gli Stati Uniti affrontano una guerra che si profila recessiva invece che propulsiva nei confronti della loro economia. Il conto presentato da Bush agli "alleati" non è affatto una prova di forza ma di debolezza. Se in questa situazione i maggiori concorrenti degli Stati Uniti si limitano a controllarne le mosse per tentare di non rimanere danneggiati dalla sfacciata invasione dell'Arabia, è solo perchè non si sentono ancora sicuri di muoversi mentre il gigante ha il fiato grosso: sanno benissimo che è in grado di menar colpi mortali, perchè in fondo rimane pur sempre la più grande potenza economica e militare.

Ma si accalcano intorno al grande malato con gli stessi elevati sentimenti di un avido parentado in attesa dell'apertura del testamento, pronti a scannarsi per l'eredità succosa dell'impero del dollaro.

Un milione di soldati americani.

Cosa possono fare per impedire di venire strangolati con una corda che sono chiamati a pagare in contanti e in petrodollari? Solo la massima partecipazione di truppe non-americane può impedire che quelle americane siano soverchianti e in grado di attaccare da sole.

La nostra è un'ipotesi che cerca di spiegare con i fatti ciò che succede di inspiegabile sul terreno dei comunicati e delle dichiarazioni. Il fatto è: quante forze occorrono per non fare la guerra?

La tecnologia demente del capitalismo decomposto ha dato cattiva prova e la sopravvivenza dei mezzi militari è assolutamente inadeguata per l'attacco massiccio a un nemico trincerato nel deserto e abbastanza bene armato. D'altra parte a questa tecnologia si accompagna una truppa combattente che non è in grado di sopportare l'impegno necessario in una guerra come quella che si profilerebbe. Ecco allora che si mette in moto un meccanismo strano: i 60.000 soldati iniziali non bastavano e bisognò raggiungere il numero prefissato di 250.000 che tutti ritenevano esagerato. Mentre scriviamo ci sono 378.000 soldati americani e circa 113.000 di altri paesi, più 150.000 sulle frontiere di Siria e Turchia. Fa più di 600.000 uomini con 4368 carri armati e 1.380 aerei di tutti i tipi e Bush ne ha chiesti altri 200.000 per scatenare "da 2000 a 3000 bombardamenti al giorno" (63).

Su "Time" leggiamo: "Era soltanto un brandello di informazione che filtrava attraverso l'anello di sicurezza che circonda l'enclave segreta dello Stato Maggiore USA. Ma una volta libero, esso devastò il vecchio establishement di Washington (quello che si ricorda del Vietnam Ndr). Si trattava del fatto che, per cacciare Saddam Hussein dal Kuwait, per invadere, contenere e neutralizzare definitivamente l'Iraq come minaccia militare, occorrerebbero un milione di soldati americani... Ciò che una sussurrata informazione parziale mostrava era che gli Stati Uniti non hanno altri piani per districarsi dalle sabbie mobili di una determinata e durevole aggressione irachena" (64).

Peggio che in Vietnam. Non che gli Americani non abbiano la forza per vincere qualsiasi guerra (nel caso essa scoppi l'Iraq consumerebbe ben presto le sue armi se rimanesse senza tutori esterni), ma non hanno la forza di combatterla se il costo è sproporzionato ai risultati immediati. Se ne sono dovuti andare da Beirut perchè il costo umano sarebbe stato troppo alto; possono essere padroni del cielo e del mare, ma quando si tratta di combattere casa per casa non ce la fanno. Al Kuwait come Stalingrado, è un'immagine che gli americani non sopportano. Non per motivi morali. Per conti da bottega.

La superpotenza ragiona in termini di economia capitalistica, non le si addice il combattimento per ragioni ideali. La borghesia più potente del mondo può mandare un milione di uomini per salvaguardare i suoi interessi futuri, ma il suo apparato sociale risponde in termini immediati: iscrive a partita doppia morti e conquiste giorno per giorno, vuole il risultato "cash and carry". Quante Beirut possono nascere tra il Golfo e i due storici fiumi?

Nè l'Europa, nè il Giappone possono permettere un Vietnam tra i pozzi di petrolio, ne uscirebbero soffocati comunque. Potrebbe sembrare che allora debbano proprio combatterla questa guerra maledetta e farla finita. Ma sarebbero i perdenti, insieme all'Iraq, perchè solo con il loro contributo gli Stati Uniti possono stabilirsi permanentemente sulle più ricche riserve petrolifere mondiali ed essere padroni del prezzo.

Yamani dice che di petrolio ce n'è tanto. Con la crisi che avanza nel mondo il petrolio potrebbe scendere a 8-9 dollari al barile dopo la crisi del Golfo. Propone un sistema di controllo sui 18 dollari per far contenti tutti. Sarà. Nello stesso tempo propone un ritorno sulla scena delle grandi Major, le compagnie. Farle partecipare ai profitti per farle investire nell'estrazione e nella ricerca. I produttori potrebbero passare in parte alla raffinazione, ai semilavorati della petrolchimica. Ci vorrebbe un accordo, anche militare, "tra le forze amiche, soprattutto gli americani, e i produttori di petrolio". Ci siamo. "Dobbiamo separare politica e petrolio. Ma come fare? Si possono stabilire delle basi militari nella zona. Però..." (65). Ecco il piano dello sceicco, per 25 anni ministro del petrolio d'Arabia. Però ci sarebbero le "ingiustizie" da affrontare ed eliminare. Bene. Shamir è sistemato e i Palestinesi anche. Con magari un milione di soldati americani a mantenere la pace e le Compagnie a fare i prezzi con il permesso dei titolari della Rendita. Un bel programma, non c'è che dire (66), e comunque l'unico in grado di dare una spiegazione razionale a ciò che sta succedendo o si sta cercando di far succedere.

La Rendita è una brutta bestia. La teoria sulla Rendita dice che il monopolio sul terreno permette al possessore di incamerare quanto plusvalore altrui gli aggrada, se il mondo non può fare a meno di ciò che cresce su quel terreno. Il plusvalore di tipo capitalistico lo produce solo e unicamente il lavoro dei salariati. Precisamente Marx dice: "Quanto più capitale si investe nel suolo, quanto maggiore è lo sviluppo della civiltà in un paese, tanto più è gigantesco il tributo che la società versa sotto forma di sovrapprofitto ai grandi proprietari fondiari" (67).

Il petrolio, senza il capitale per cercarlo, trasportarlo, raffinarlo e utilizzarlo, non è che un deposito fossile negli strati geologici della Terra. Gran parte della capacità di prospezione, trasporto e utilizzo passa attraverso le grandi Compagnie di cui parla Yamani. Sono tutte americane tranne due. Se il Medio Oriente cade stabilmente in mano all'America, sarebbe un altro passo avanti per quella che è la più "clamorosa impresa di aggressione, di invasione, di oppressione, e di schiavizzamento di tutta la storia" (68). Prima di tutto per la classe operaia internazionale dalla quale proviene il plusvalore-profitto-rendita.

No, come si vede, non possiamo per nulla essere indifferenti rispetto ai possibili esiti di questo scontro.

* * *

Questa lettera è stata terminata alla fine di novembre e aggiornata il 7 dicembre del '90, tra l'altro con l'intervista a Yamani che capita come il classico cacio sui maccheroni.

Nel frattempo è scattato l'ultimatum per il 15 gennaio. Parallelamente si avanzano profferte di dialogo con strascichi grotteschi intorno alle date degli incontri fra Baker e Aziz. Autorevoli esponenti militari affermano che le truppe americane non sarebbero pronte per la data fissata, ma solo verso febbraio o marzo (dipende dalle versioni). La Casa Bianca smentisce e fa la voce grossa, mentre Bagdad mostra di prepararsi alla guerra.

In questo clima surreale i soldati americani sono saliti a 431.000 e altre due portaerei si sono aggiunte, con una quantità di altri mezzi, mentre è sempre più difficile far finta di niente con il problema di Israele che reclama una sua funzione nella ricerca di un "equo" sbocco militare. Insomma, niente di realmente nuovo da aggiungere alla lettera.

Note

(48) J. K. Galbraith, L'età dell'incetezza, Mondadori 1977. Galbraith afferma senza mezze misure che le politiche keynesiane hanno salvato il capitalismo. L'incertezza deriva dal fatto che dopo di esse non è più possibile escogitare nuovi espedienti per continuare il salvataggio. Ma questo va letto piuttosto fra le righe.

(49) International Management, ottobre 1990, "Hostilities in the Middle East have pushed Europe off the front pages, but the pace of change has not slowed".

(50) Quest'abitudine alle giaculatorie marxiste è piuttosto diffusa e non ne siamo stati del tutto esenti come partito quando esso esisteva. Poniamo pure che siano formulazioni corrette, ma perbacco, appiccicate qua e là per dovere liturgico non hanno senso!

(51) Cfr. Mondo Economico, 01.02.1990.

(52) Id., 25.08.1990, "Perestrojka gialla con la regia del Giappone".

(53) In questo momento la corrispondenza è assai importante per noi. Ringraziamo i compagni che hanno scritto e invitiamo tutti a farlo più spesso.

(54) Cfr: La Stampa, 19.10.1990, "Saddam: perché farò la guerra".

(55) Cfr: Le Monde Diplomatique, settembre 1990, "La dette arabe, 208 milliards de dollars".

(56) Cfr. Nesweek, 20.08.1990.

(57) Le Monde Diplomatique, settembre 1990, "L'effondrement d'un ordre archaïque".

(58) Cfr. Mondo Economico, 08.09.1990.

(59) Fonti varie: Time, Le Monde Diplomatique, La Repubblica.

(60) Time, 10.09, 1990, "An urgent call to negotiate".

(61) Le Monde Diplomatique, settembre 1990, "Guerres saintes".

(62) Id., novembre 1990, "Les dividendes de l'opération Bouclier du Désert" e Mondo Economico, 15.09.1990, "La crisi non abita a Tokio", "Gas liquido, un tesoro da cercare ovunque".

(63) La Repubblica, 27.10.1990, "Bush raddoppia i marines nel Golfo; Time, 10.12.1990, "If war begins".

(64) Time, 12.11.1990, "The lessons of history".

(65) Il Venerdì (La Repubblica), 07.12.1990, "La pace del Barile sia con noi".

(66) Id.

(67) Karl Marx, Il Capitale, Libro Terzo, XLIII-II, ed. UTET, pag. 894.

(68) Prometeo n. 13, agosto 1949, "Aggressione all'Europa".

Lettere ai compagni