26. La Guerra del Golfo e le sue conseguenze (1)

I killer professionali hanno vinto. Il nemico non è portato in catene all'Urbe per il trionfo, ma didatticamente mostrato in ginocchio dietro le lame affilate di quello che una volta era il filo "spinato". Le telecamere insistono sulle mani tese verso il pane. La macchina da guerra è ferma in attesa che la Guardia Repubblicana irachena compia il suo servizio "civile". L'Iraq si spinge in profondità nel tunnel in cui è stato costretto mentre milioni di profughi cercano scampo in soluzioni che sono state promesse ma che non esistono. L'indice Dow Jones a Wall Street raggiunge il massimo storico di tremila punti: il wargame, la guerra-gioco, stimola surrogati di accumulazione industriale, la fiducia in valori di carta sottolinea il bisogno di guerra vera, di distruzioni vere, non nel deserto, ma nell'aggrovogliato accumulo di manufatti di cui si ricopre buona parte del globo "civile", là dove c'è tanto da distruggere. Si sparava ancora e i commessi viaggiatori telefonavano già in ditta lamentando l'esiguità del business. Al diavolo le bombe intelligenti che distruggono solo il bersaglio.

Il presidente Bush annuncia che entra in vigore il Nuovo Ordine Mondiale.

Una strada imboccata da molto tempo.

Le potenze uscite vincitrici dalla guerra del '15-18 avevano suddiviso i resti dell'impero ottomano preoccupandosi ben poco di far passare le frontiere lungo le suddivisioni nazionali naturali: oggi quelle frontiere tornano a servire.

Mentre il disegno generale delle carte geografiche procedeva tra gli equilibri cercati a tavolino fra le grandi potenze, le zone del petrolio venivano affidate a oscure dinastie regnanti su esigue popolazioni. Così, mentre il tracciato delle frontiere avveniva senza preoccuparsi troppo dei "fattori" di razza, lingua e storia dei popoli, il disegno inglese delle possibilità di controllo delle fonti di energia procedeva rispettando minuziosamente un criterio quasi senza eccezioni: aree popolose e con storia senza disponibilità di petrolio; aree petrolifere allora conosciute affidate a poche controllabili tribù del deserto. Sarà un caso: mentre scriviamo i Curdi sono fatti sloggiare dalle loro terre e proprio su quelle terre si trova buona parte dei pozzi petroliferi iracheni. Al Sud, dove si trova l'altra parte dei pozzi, permane l'occupazione militare.

L'America, unica potenza uscita sul serio vincitrice dalla Seconda Guerra Mondiale, continuò la tradizione dei suoi predecessori non tanto ritagliando territori, ma creando condizioni politiche di controllo. Dopo aver annunciato al mondo di qual fatta sarebbe stata la sua politica mediorientale con la creazione dello stato di Israele (1948), avanzò come un bulldozer nella delicata costruzione diplomatica degli alleati. Dapprima con l'organizzazione del colpo di stato in Iran contro i nazionalisti (1953) ma anche contro l'Inghilterra, poi con l'attacco israeliano all'Egitto che servì più che altro a preparare la sconfessione e il blocco dello sbarco anglo-francese che seguì a Suez (1956). Infine con lo sbarco in Libano (1958) col quale si tagliarono fuori definitivamente i francesi dall'area.

Ovviamente non tutte le ciambelle riuscirono col buco. L'Egitto tentò di percorrere una strada indipendente e l'Iran si sollevò in armi contro il "Satana imperialista". Ma la strategia americana era su una strada obbligata, quella che portava all'urto concorrenziale con i suoi ex nemici e che avrebbe portato gli Stati Uniti a sfruttare più o meno coscientemente l'arma del petrolio per ben tre volte. A occupare militarmente l'area creando le condizioni per una presenza permanente.

La realtà potrebbe essere diversa dai piani.

Gli Stati Uniti hanno ottenuto ciò che volevano, ma la loro presenza militare sconvolge i già precari equilibri aprendo la prospettiva di scontri ancora più gravi. Non si era ancora disperso il fumo della battaglia che già nascevano preoccupazioni per potenzialità di rivolta che potrebbero dimostrarsi peggiori della caduta del Rais. La Turchia teme l'acuirsi dell'insopprimibile problema curdo, l'Iran sciita ha lo stesso problema più quello degli sciiti iracheni che rappresentano quasi la metà della popolazione. Le città sante sciite sono in Iraq.

Due milioni di profughi al Nord, non si sa quanti al Sud, più la repressione, più l'interventismo straniero. L'arco della disperazione, della miseria e della rabbia si allarga in un contesto mondiale in sfacelo. Si precisa sempre di più la via per una reale emancipazione dei "dannati della terra": fine delle soluzioni intermedie tra la rivoluzione borghese e quella proletaria, scontro sempre più chiaro tra imperialismo e masse espropriate di tutto. Ma anche fine dialetticamente positiva delle illusioni delle aristocrazie operaie: non insisteremo mai abbastanza nel sottolineare che il decadimento generale della capacità di accumulazione si ripercuote inevitabilmente sui popoli e sulle classi provocando un marasma sociale ben difficilmente arginabile. Rivoluzione, guerra o degenerazione sociale fino a quando non cadrà comunque il presente modo di produzione, non ci sono altre vie.

Maneggiare gli schemi in quanto tali.

Questa che è appena finita è certamente una delle guerre più strane che ci sia capitato di commentare. Per l'analisi scientifica di un fenomeno possiamo fare a meno di conoscere i fatti minuti e le impressioni personali dei protagonisti. Certo però che all'interno del fenomeno generale "guerra" questa volta si sono svolti fatti inspiegabili, anche tenendo conto della disinformazione calcolata.

Ciò ha un risvolto teorico importante: come già si era visto nel caso del Vietnam, sempre più la guerra diventa un fatto automatico e sempre più, quindi, produce episodi dall'apparenza insensata, episodi che non si collocano in nessuno schema "ragionevole" dell'osservatore.

L'insensatezza nella guerra moderna cambia natura. Non si tratta più del misto di idiozia personale e tattica fuori tempo che portarono a noti massacri con risultati tattici irrilevanti durante tutte le guerre, ma piuttosto di un meccanismo inesorabile che obbliga gli uomini a seguire una macchina bellica che sembra andare per conto suo. "Corea è il mondo", dicevamo nel 1950 mentre "su un piccolo spazio si condensava tutto l'arroventato potenziale esplosivo di un contrasto mondiale"; infatti si manifestava un crescendo, fino alla minaccia atomica, vera "traduzione in forma spettacolare e violenta della crisi permanente di una società in putrefazione".

Durante la guerra attuale, con tutta naturalezza si parlava di giustificato ricorso alle atomiche in caso di impiego di armi chimiche da parte irachena. Piccole atomiche tattiche o bombe al neutrone, mai sperimentate sul campo di battaglia. Che occasione magnifica.

Lo schema generale marxista vede la guerra dell'epoca capitalistica come un elemento risolutore (provvisorio) delle contraddizioni che derivano dalla legge della caduta del saggio di profitto. Proprio la guerra, insieme con altre cause, ci fa dire che la caduta del saggio è "tendenziale".

Il meccanismo è semplice. Siccome capitale costante e forza lavoro sono gli elementi che contribuiscono con il loro aumento ad abbassare il saggio di profitto, la loro distruzione massiccia contribuisce a farlo rialzare. La guerra non è solo la continuazione della politica con altri mezzi, ma anche e soprattutto la continuazione dell'economia.

Questo è uno schema e come tale va maneggiato. Sbaglia chi vede la guerra come manovra cosciente dell'imperialismo contro la rivoluzione proletaria.

La gendarmeria internazionale controrivoluzionaria è un fatto reale ed anche reale è la preparazione di alcuni suoi reparti alla prevenzione. La C.I.A. avrà certamente una buona parte dei suoi duecentomila addetti dediti alla bisogna, ma è il comportamento oggettivamente controrivoluzionario di tutti i rapporti sociali imperialistici ad essere più efficace di tutte le polizie segrete del mondo.

E' dunque molto improbabile che il generale Schwarzkopf, comandante delle forze alleate nel deserto, si sia alzato la mattina dell'attacco e abbia esclamato: adesso andiamo ad innalzare il tasso di accumulazione e a far sbollire certe idee ai rivoluzionari con un bel bombardamento sul capitale costante e relativo ammazzamento di forza lavoro.

Battute a parte, le cose sono più complicate e dobbiamo affrontarle in maniera diversa, cioè materialistica. Neghiamo che la borghesia abbia la capacità di affrontare in modo globale il problema della controrivoluzione pianificando le azioni necessarie.

La guerra è un bisogno oggettivo come abbiamo visto, ma questo non significa che sia un bisogno di Bush, di Baker o di qualche settore della classe capitalistica, a parte l'interesse immediato dei fabbricanti di armi. Il business della guerra non sta tanto nella produzione dell'armamentario quanto nel sistema militare che controlla il mondo, in pace o in guerra guerreggiata. Quindi la faccenda va vista da un altro punto di vista.

Gli Stati Uniti sono in crisi e hanno bisogno di controllare il flusso di capitali che gli permettono di sopravvivere. Questo flusso viene da tre fonti principali: Germania, Giappone e petrodollari. Inoltre, o proprio per questo, hanno un grave problema di indebitamento, di sbilancio commerciale cioè un problema di concorrenza sui mercati mondiali. Un enorme mercato si può aprire nell'Est europeo, ma vi detterà legge la Germania. Da anni gli osservatori economici puntano la loro attenzione sull'importanza sempre maggiore dell'area del Pacifico, ma qui detterà legge il Giappone. La Russia può essere un pozzo senza fondo per capitali in esuberanza, ma già si preannunciano azioni incrociate di Europa e Giappone. In genere l'Europa sta diventando l'interlocutore privilegiato di molti paesi sottosviluppati dopo l'indebitamento massiccio con le banche americane tramite il FMI e la Banca Mondiale. Cresce anche l'interscambio con il mondo arabo, con petrolio o senza.

Ce n'è da vendere per mobilitare forze di guerra.

La guerra non è utilizzabile a comando.

Da dieci anni e più gli Stati Uniti provano una specie di politica post-keynesiana che va sotto il nome di "reaganomics" ma non riescono, di fronte alla crisi, a venirne fuori. La ragione l'abbiamo individuata in osservazioni che furono già di Engels e di Trotzky, nonchè in molto del lavoro della Sinistra: la droga rappresentata dal rastrellamento di capitali da parte dello stato e riversati sull'economia. Prima si rastrella all'interno, poi all'estero, poi si gratta il barile dove si può, ma alla fine ci si accorge che il mondo è finito, è una palla in mezzo allo spazio e colonizzare gli altri pianeti richiederebbe qualcosa di più che un'aggiornata Compagnia delle Indie. Inoltre ci sono gli imperialismi concorrenti.

Tassello dopo tassello, la guerra si prepara a partire dalle sue premesse economiche e i singoli individui che governano, a meno di non essere marxisti, perdono il bandolo della matassa, non sono consapevoli, alla fin fine, di intraprendere guerre che hanno anche come risultato di dimostrarci quali siano i meccanismi di funzionamento del capitale. I marxisti hanno sempre affermato che l'economia capitalistica è un'economia cieca il cui fine è quello di produrre quel famoso delta-C di Marx, ovvero una certa quantità di capitale maggiorato alla fine di ogni ciclo. Perciò le azioni dei capitalisti sono tese ad ottenere un risultato immediato, anche contro gli uffici studi che pianificano azioni spesso irrealizzabili.

Se non fossero obbligati ad agire così (e così agiscono perchè così agisce il capitale), i borghesi avrebbero la possibilità di mettere in atto dei correttivi e quindi il capitalismo non sarebbe per nulla un modo di produzione transitorio, bensì eterno.

I piani d'invasione diligentemente applicati da "Orso" Schwarzkopf sono piani che risalgono agli anni '70 ed erano messi a punto per rispondere ad un altro eventuale embargo petrolifero, quindi a proteggere il mondo occidentale da un aumento dei prezzi. Paradossalmente, mentre questi piani venivano perfezionati, l'intera società americana agiva per approfittare dell'aumento dei prezzi del petrolio dovuto all'embargo, dato che produceva per sè, ne commercializzava di altre aree e ne vendeva parecchio ai suoi concorrenti (1).

Andare a scoprire quanto ci fosse di ipocrisia in questo comportamento e quanto ci fosse di avanzamento inesorabile di esigenze materiali, è un esercizio irrilevante.

La questione però è importante. Se la guerra fosse uno strumento utilizzabile a comando allo scopo di risollevare le sorti dell'economia e di bloccare le possibilità rivoluzionarie della classe proletaria, dovremmo ammettere che la borghesia avrebbe trovato il modo di rimanere al suo posto per sempre.

Invece è vero il contrario. Sappiamo - a meno di non buttare a mare tutto - che questa società è assolutamente transitoria e che sarà soppiantata da un altro tipo di società, come nello svolgersi di un fenomeno della natura dall'andamento catastrofico. La borghesia scatena le sue guerre imperialiste per ottenere certo dei risultati. Infatti mai come questa volta i ragionieri della guerra si sono affannati a fare i preventivi di quanto comporterà la ricostruzione. La borghesia si coalizza certamente di fronte al pericolo della rivoluzione e reprime duramente anche per meno. Ma nella guerra sono trascinati tutti, borghesi e proletari, nonchè il mondo variegato delle mezze classi e delle non-classi. La guerra non è uno strumento utilizzabile a comando: ci si arriva quando tutte le altre vie sono precluse. E in genere sono i capi pacifisti a scatenarle, cercando il nemico adatto che li "costringa" per essere legittimati.

Come abbiamo già detto in un nostro volantino, questa guerra è stata diversa da quelle che la hanno preceduta fino al '45, perchè non ha più soltanto avuto l'aspetto di guerra per il controllo delle zone di influenza, ma ha avuto in sè tutti i germi della guerra mondiale. E' scaturita innanzitutto da una crisi economica che si profila come insuperabile, almeno da parte degli Stati Uniti. Si è presentata esteriormente come crociata di liberazione, ma è stata in effetti l'occupazione militare di un'area fonte di materie prime, quindi ha ricalcato perfettamente quelle per lo "spazio vitale".

Per la prima volta dal 1945, gli Stati Uniti ricorrono alla guerra non per aggiudicarsi o strappare al "nemico" russo zone d'influenza politica e militare nella logica dei blocchi, bensì allo scopo di sottrarre terreno in campo economico e politico ai suoi stessi alleati tradizionali di blocco, dimostratisi nei fatti i vecchi concorrenti combattuti nell'Ultima Guerra Mondiale.

Una guerra come si deve.

Com'è stata classica questa guerra tecnologica. Per la fortuna dei benpensanti e per l'alimentazione delle loro chiacchiere c'è sempre un aggressore e un aggredito, un pericolo pubblico e un riparatore di torti, masse sofferenti per colpa dei tiranni e aiuti generosi quando "arrivano i nostri".

Le cose stanno diversamente e la dialettica della storia si incarica di mandarci il solito messaggio marxista: se i capitalisti non fanno nulla per togliersi dai guai, gli salta la macchina dell'accumulazione; se fanno qualcosa, gli salta ancora di più. E perchè mai il capitalismo è vivo e vegeto? Chiede l'avvocato del diavolo. Risposta della Sinistra (tenersi forte): il capitalismo ha dimostrato la sua non-esistenza potenziale da almeno un secolo, non è per nulla vivo e vegeto, ma "un cadavere che ancora cammina" per incidente storico. Uno zombie tenuto in stato vegetativo dal sacrificio immane di miliardi di uomini cui una grande sconfitta sociale impedisce di confrontare il loro stato con ciò che potrebbe essere se il capitalismo non ci fosse più.

Contro le forze dell'imperialismo era ovviamente preferibile che vincessero le emergenti borghesie arabe, ma abbiamo dimostrato più volte che esse non potevano fare sul serio per il fatto che non esistono le condizioni favorevoli alla mobilitazione e all'indirizzo di energie sufficienti allo scopo.

La sconfitta della coalizione imperialista avrebbe comportato due serie di conseguenze: in primo luogo l'esplodere dei conflitti più o meno latenti impliciti nella coalizione stessa; inoltre lo sviluppo capitalistico di un'area che ha grande disponibilità di capitale da rendita ma che lo usa solo al 7 per cento in investimento per sviluppo produttivo nell'intero mondo arabo, con la stragrande maggioranza della popolazione relegata in condizioni precapitalistiche.

La semplificazione della carta geografica locale sarebbe stato un beneficio immenso, ma non era possibile a meno di una sollevazione generale di gran parte della popolazione. Questo le borghesie non l'hanno voluto e potuto realizzare e le masse arabe non hanno avuto la forza di imporre.

Hanno vinto, anzi, stravinto sul piano militare, gli Stati Uniti. Ciò comporta una prospettiva che in parte abbiamo analizzato e che ora si profila in tutta chiarezza. Ci saranno delle conseguenze anche a breve. Infatti a tamburo battente si sta preparando un periodo di nuovi conflitti. Iraq è il mondo.

La guerra ha percorso i classici canali proprio per l'impossibilità di uno sbocco catastrofico, cioè di rottura con lo statu quo precedente. C'è stata per esempio la classicissima "continuazione della politica con altri mezzi".

Sul piano iracheno, la determinazione sempre più marcata ad assumere un ruolo chiave nel mondo arabo ha portato all'insofferenza verso la politica cieca degli Emirati e dell'Arabia Saudita, di qui l'attacco, previa consultazione con i potentati occidentali. Ma la politica di potenza locale ha portato anche al voltafaccia degli Stati Uniti, da una parte timorosi di veder sconvolgere un equilibrio basato sulla triade piuttosto instabile Israele-Egitto-Arabia Saudita, dall'altra felicissimi di vedere all'orizzonte la possibilità di attuare piani coltivati per anni e mai potuti attuare.

Quindi, sul piano più generale, il bisogno di espansione iracheno ha facilitato la vecchia politica americana tendente al controllo del Medio Oriente, aprendo un contenzioso direttamente con gli Stati Uniti. E' continuata "con altri mezzi" la politica irachena di conquista della guida del mondo arabo, ma anche la politica americana quarantennale di interferenza nelle questioni "arabe".

Nel 1975 era stato reso pubblico un documento del Congressional Research Service intitolato "Oil Fields as Military Objectives (Campi Petroliferi come Obiettivi Militari)" in cui si sosteneva, citando la legge sui poteri in tempo di guerra, la Carta dell'ONU e la risoluzione dello stesso organismo sul non-intervento, l'illegalità di un eventuale attacco per la conquista dei pozzi di petrolio (2).

Evidentemente qualcuno tendeva invece a dimostrarne la legalità. Sono sempre esistiti piani americani di intervento in Medio Oriente almeno da quando gli Stati Uniti hanno soppiantato l'Inghilterra come potenza mondiale. Ma prima del crollo del bastione iraniano, i piani passavano attraverso le azioni dell'esercito dello Scià. Nella dottrina militare iraniana e nel tipo di armamento adottato, era implicita la tendenza al controllo sul Golfo Persico attraverso l'occupazione delle isole e dei territori affacciati sullo stretto. I documenti non fanno che sottolineare battaglie politiche rese obsolete dalla violenza sociale della rivolta sciita e sfociate poi nell'utilizzo dell'arma petrolifera secondo un copione che abbiamo analizzato nella lettera precedente.

E' stato classico anche l'inizio delle ostilità. E' tradizione degli Stati Uniti entrare in guerra dopo che la grancassa propagandistica ne abbia dimostrato la necessità morale. E la necessità è stata cucinata in modo inappuntabile dagli esperti.

L'Iraq è stato messo in un vicolo cieco dal quale non poteva uscire.

Il più debole, se non è fesso, attacca.

E' vero che una borghesia meno miope avrebbe dovuto sapere in anticipo di che pasta è fatto l'imperialismo americano, ma è anche vero che sui problemi locali immediati c'erano delle affinità fra gli interessi americani e quelli iracheni. L'Iraq è stato trascinato alla guerra proprio perchè queste affinità immediate non gli hanno permesso di vedere che ad un orizzonte più largo la politica americana puntava a un intervento diretto.

Non siamo disposti a credere a una borghesia irachena suicida che non conosce nè i propri limiti militari nè i vantaggi dell'avversario. Tanto più che le bastava leggere i testi che lo stesso avversario andava pubblicando da anni. Come questo: "...i paesi meglio attrezzati per l'intervento (la conquista militare dei campi petroliferi, ndr.) sono anche quelli verosimilmente destinati a soffrire meno di ogni altro o non soffrire affatto le conseguenze letali del diniego delle forniture petrolifere arabe. Naturalmente, per rimanere legalmente giustificabile, un intervento dovrebbe essere seguito dall'attuazione che rispecchi le differenti intensità della dipendenza petrolifera (...) in condizioni normali, la più probabile potenza interventista, gli Stati Uniti, importa dai produttori arabi soltanto una frazione del suo fabbisogno. (Per quanto riguarda la fattibilità) nell'insieme, le forze armate locali sono puramente e semplicemente incapaci di far funzionare i loro potenti e perfezionati armamenti senza l'assistenza quotidiana di tecnici (...) La verità è che nessuno degli stati della regione possiede forze armate efficienti e ciò per ragioni così basilari da fornire a una forza d'intervento una virtuale garanzia d'immunità" (3).

L'eroe Schwarzkopf e' servito. Il messaggio viene nientedimeno che dal superesperto consigliere di Bush in questioni militari. I boys, lo si è visto, non hanno rischiato una cicca. Ma su questo torneremo dopo.

Classicamente, quindi, il più debole ha attaccato. Per utilizzare il Kuwait come merce di scambio; o per attirare la panoplia tecnologica sul deserto invece che a Bagdad; oppure ancora per prendere semplicemente tempo in una trattativa per il solito "ritiro senza condizioni" che immancabilmente sarebbe seguito.

Altrettanto classicamente gli Stati Uniti hanno attaccato Bagdad e le città irachene distruggendo sistematicamente le retrovie per garantirsi ancora di più quella immunità che già sapevano di avere.

La tecnologia offre servizi apprezzabili, sia qualitativi sia quantitativi, nella distruzione e nel massacro, ma alla fine il compito di conquistare il terreno deve essere affidato alla fanteria. Che sia appiedata o corazzata o elitrasportata o paracadutata, deve sempre essere una forza umana a prendere e tenere il terreno "bonificato" dalla tecnologia (4).

Alla fine, il Kuwait è stato liberato (o rioccupato, dipende) con una manovra a tenaglia, da manuale. Le truppe si sono attestate e hanno seguito con "preoccupazione" le vicende interne irachene, badando a fare in modo che l'insurrezione popolare non sconvolgesse troppo i piani della Casa Bianca, abbattendo gli aerei che non servono a nulla contro le sommosse, ma lasciando svolazzare gli elicotteri che invece sono utilissimi.

Come in tutte le guerre dai risvolti sociali, masse di persone si sono spostate creando il problema di centinaia di migliaia di profughi, sciiti e curdi. Il comportamento delle truppe d'occupazione americane ha accentuato, se non contribuito a creare, il problema. Le questioni connesse ai profughi con questioni di nazionalità in sospeso e raccolti in campi di concentramento, improvvisamente si raddoppiano e coprono un'area che va dal Libano allo Shatt el Arab. Con il controllo straniero sul proprio territorio, con la pressione di milioni di profughi bloccati dagli avversari alle frontiere, con lo spettro di una interminabile "questione curda" esasperata al Nord e una "questione sciita" al Sud su zone franche aperte ad ogni imbroglio di tipo libanese, l'Iraq si avvia a non essere più una nazione.

Una sconfitta non solo militare.

La borghesia irachena ha condotto prima la crisi e poi la guerra secondo sua natura. Essa è il prodotto delle costruzioni nazionali volute dall'imperialismo e non del fermento rivoluzionario che sta alla base di un salto sociale o di una lotta contro lo straniero. Non poteva quindi non rimanere vittima di un legame con i metodi del suo padre storico, l'imperialismo, appunto.

Intanto si era legata ad esso in mille modi. Non che potesse fingere di svilupparsi in un mondo senza imperialismo, ma ne aveva accettato tutte le funzioni fino a svolgerne due che le sono state fatali: l'oppressione interna di un popolo e la guerra di contenimento, all'esterno, contro forze arretrate fin che si vuole ma oggettivamente antimperialiste.

Da un punto di vista immediato, la reazione alla macchina bellica americana che si metteva inesorabilmente in moto è stata di fermezza e di intransigenza. Apparentemente anche la risposta militare ha avuto una sua logica nel preparare una serie di difese che costringessero l'avversario a valutare alte perdite sul terreno e a scaricare la sua potenza senza distruggere completamente la struttura organizzativa e produttiva della nazione.

Ma l'esito dello scontro non poteva dipendere da fattori giocati sullo stesso terreno dell'imperialismo. La sconfitta dell'Iraq è la sconfitta dell'incapacità delle borghesie emergenti di andare fino in fondo alle questioni che riguardano la loro indipendenza.

L'esercito di una grande potenza ha buon gioco concentrando la sua tremenda macchina distruttiva su un punto determinato e l'Iraq ha facilitato con la sua politica tale concentrazione. Senza andare a scomodare tesi rivoluzionarie, vi sono risposte anche borghesi al problema. Per esempio, con la distribuzione delle armi alla popolazione e con una preparazione adeguata la piccola Svizzera e la debole Yugoslavia calcolano che per l'invasione del loro territorio sia necessario un tale numero di uomini con tali perdite da costituire un deterrente per qualunque invasore in confronto alla posta in gioco. Al di là dell'effettiva applicazione nei paesi citati, il principio è importante: non si fa mai la guerra sul terreno dell'avversario.

In altro contesto, l'armamento di masse umane in Iran ha costituito un deterrente efficacissimo contro tentativi d'intervento. In più l'Iran della "rivoluzione islamica" non ha solo minacciato di estendere la guerra, ma l'ha estesa fuori del suo territorio, colpendo l'avversario in casa sua, infischiandosene della morale occidentale e della manipolazione dei media.

Messa con le spalle al muro la borghesia irachena non ha avuto il coraggio nè di armare masse di cui non si fidava, nè di portare la guerra fuori di casa dove sarebbe saltata ogni prospettiva diplomatica, attaccando, come deve fare sempre chi è più debole. Spazzare le basi alleate in via di formazione, puntare sui Luoghi Santi dell'Islam. Guai se l'Armata Rossa, in condizioni di estrema inferiorità, con la carestia che stava producendo 15 milioni di morti, accerchiata da cinque armate bianche e dagli imperialisti che le aiutavano, non avesse attaccato lasciando il tempo all'avversario di stringere la morsa. E poi, senza fermarsi, puntare disperatamente ad un collegamento con l'Occidente, portando la guerra in Polonia, fino alle porte di Varsavia.

Quando è chiaro che il risultato sarebbe comunque uno scontro impari, "costa" di meno anticipare le mosse dell'avversario (5).

La borghesia irachena non ha avuto nemmeno il coraggio di tenere le migliaia di ostaggi, neppure quando è apparso chiaro che non sarebbe servito a niente liberarli.

Ma come si può generalizzare la guerra antimperialista incominciando a pensarla quando l'imperialismo attacca? Come si può immaginare di sconfiggere la macchina bellica americana mettendosi nell'ottica ristretta di un gruppo di potere particolare?

Per fare una guerra nientemeno che all'imperialismo le armi devono essere adatte all'importanza del nemico, del teatro e della posta in gioco. E non si tratta solo dell'hardware, della ferramenta, ma soprattutto del bagaglio politico, del retroterra storico e sociale, della maturazione di un programma adatto sulla base dello sviluppo di forze reali: popolazione, risorse, aggancio con le esigenze delle masse sfruttate e oppresse che non hanno nulla da perdere e sarebbero disposte ad appoggiare fino in fondo una vera ondata di lotta contro le cause della loro oppressione. Guai ad una supposta avanguardia rivoluzionaria che facesse il calcolo delle proprie forze nella partita contando semplicemente i pezzi sulla scacchiera.

La demagogia di Saddam Hussein chiamava alla Guerra Santa, ma non sono state armate nè ideologicamente, nè fisicamente le popolazioni che pure da anni sono materialmente predisposte a scendere in campo, l'hanno fatto generosamente contro le polizie e gli eserciti dei loro stati lasciando migliaia di morti, nè sono stati toccati governi che pure avevano la possibilità di cadere se il contesto fosse stato veramente quello di una mobilitazione generale antimperialista.

Pur secondari, anche i mezzi materiali per organizzare il sostegno ad una politica veramente sentita non mancano certo ad uno stato che spende cifre colossali in armamenti assurdi, guerre e opere celebrative inutili. Prima della guerra con l'Iran Bagdad aveva un'eccedenza di 30 miliardi di dollari; dopo, aveva un debito di 80 miliardi e un altro centinaio di miliardi è il costo approssimativo di quella appena finita, senza contare i danni di cui non abbiamo cifre (per confronto: 330 miliardi di dollari il calcolo dei danni subìti dal Kuwait (6)) . Non si fa la storia con i "se", ma un governo veramente rivoluzionario avrebbe usato diversamente le sue munizioni.

Quattro milioni di proletari stranieri sul proprio territorio, sei milioni di palestinesi traditi da tutti, venti milioni di curdi separati e oppressi, milioni e milioni di arabi che non hanno nulla da perdere se non la miseria e la fame: potrebbe sì o no un governo rivoluzionario legare a sè e alle sorti della rivoluzione una simile materia esplosiva prima di tutto con i fatti?

La demagogia deriva dalla velleità delle parole quando i fatti stessi si incaricano di negarle: Saddam Hussein e coloro che rappresenta non sono in grado di chiamare seriamente le masse arabe e non arabe alla Jihad perchè gli interessi di Bagdad sono troppo intrecciati con quelli dei paesi imperialisti. Per fare la Guerra Santa occorre l'odio mortale per un nemico da affrontare in una battaglia senza quartiere, ma è la Guerra Santa che seleziona i suoi capi, non sono i capi che stabiliscono a tavolino di lanciarla.

Materiale collegamento tra sfruttati.

La Guerra Santa non conosce diplomazia, eppure tra Bagdad, ONU, Washington e capitali di mezzo mondo, la diplomazia ha rappresentato il 90% dello scontro. La diplomazia trionfa quando ci sono interessi da mediare, la Guerra Santa non può conoscere mediazioni, se non altro perchè in questo caso è mutuata dalla Dottrina ed è una precisa prescrizione: lottare nella via di Dio, un dovere come la preghiera, l'elemosina e l'astensione dagli eccessi. Ma è la dottrina di un'epopea grandiosa che ha polverizzato la società primitiva dei nomadi del deserto insieme con i resti del mondo classico antico portandoli ad una finissima civiltà, non può essere adattata a strumento televisivo per la politica becera del mondo capitalistico.

Nelle tesi sulla questione nazionale e coloniale approvate al II Congresso dell'I.C. si dice chiaramente che all'epoca (1920) la situazione mondiale non avrebbe permesso alle nazioni dipendenti e deboli che una sola via di salvezza: la federazione con le repubbliche sovietiche (7).

La questione di principio non decade neppure oggi, anche se non esiste una federazione rivoluzionaria di repubbliche cui chiedere adesione. Al di là della federazione, resta il fatto che peggio di allora non c'è via di scampo per le nazioni dipendenti e deboli al di fuori della via rivoluzionaria. Resta il fatto che per intraprendere una conseguente lotta contro l'imperialismo non basta avere la forza e il numero della massa, ma anche un programma coerente che preveda l'unione, nel nostro caso araba (8), e il superamento di debolezza e dipendenza con la cancellazione della geografia voluta dall'imperialismo.

Esiste oggi una reale possibilità che l'Iraq o un altro paese arabo compiano questo salto? Abbiamo affermato di no, nella lettera precedente, prima che la guerra scoppiasse, rilevando una istruttiva differenza tra paesi e situazioni storiche non confrontabili, tra l'Iraq odierno e l'Egitto nel periodo della sua ascesa rivoluzionaria borghese.

C'è un legame molto stretto fra lo stato del movimento delle masse povere del mondo e quello delle masse proletarie delle metropoli. Prima ancora che di un legame politico (nel senso di livello di lotta di classe) si tratta di un legame materiale, economico. Finchè il proletariato occidentale parteciperà direttamente o indirettamente allo sfruttamento delle risorse e del lavoro del mondo non metropolitano, sarà ben difficile che intraprenda la via rivoluzionaria.

Ed è quasi impossibile, a meno di un miracolo politico, che rinasca autonomamente tra masse semiproletarie e contadine diseredate il programma politico rivoluzionario in grado di spingere forze sociali a compiti di sconvolgimento di grande portata anche di segno non comunista.

Senza l'apporto di questo programma, che ha avuto la sua culla nel centro dell'Europa e che di qui ripartirà, nessuna ribellione contro l'imperialismo potrà ricevere quell'indirizzo, quell'"impronta", come diceva Lenin, in grado di far superare l'inconseguenza della borghesia, mettendo la stessa classe borghese in condizioni di non nuocere, sotto la pressione del proletariato e dei senza-riserve insorti.

Però possono essere le masse povere a tirare violentemente la tovaglia della tavola imbandita dalla quale cadono le famigerate briciole sul proletariato occidentale e dargli lo scrollone salutare. E questa potrebbe essere una soluzione reale in grado di far maturare il legame economico in legame politico. Allora le potenzialità oggi sprecate sarebbero attuate.

Bombe intelligenti e bombardamento dell'intelligenza.

Non si può fare la guerra antimperialista quando per le armi si dipende dall'imperialismo, esattamente come non si può sviluppare il proprio capitalismo basandosi solo sugli "aiuti" del capitalismo più forte. Com'è noto gli "aiuti" capitalistici aiutano chi li fa e non chi li riceve.

In genere il mercato delle armi non è sensibile alle definizioni amico-nemico. Si vende di tutto a tutti, basta che paghino. Ma un conto è vendere e un conto è mettere l'acquirente in grado di usare al meglio ciò che ha comprato.

In ultima istanza il venditore conosce meglio dell'acquirente il funzionamento e l'eventuale antidoto all'arma venduta. D'altra parte chi compra armi è perchè non è in grado di farsele e questo va contro un principio basilare: non può fare una guerra seria chi non abbia le fabbriche di armi che lavorano a pieno ritmo per alimentare il consumo. Per i semplici compratori la guerra finisce quando finisce il magazzino o quando il venditore chiude il rubinetto.

Le cosiddette armi intelligenti sono il prodotto della degenerata tecnologia occidentale e servono più che altro a frullare la fantasia del pubblico televisivo.

La definizione originale, quando nacquero le PGM, Precision Guided Munition, fu la seguente: "un proiettile guidato la cui probabilità di fare centro alla massima gittata contro un carro, una nave, un radar, un ponte o un aereo è superiore al 50% quando non vi sia opposizione" (9).

Ai nostri giorni, nella guerra del Golfo, sembra che la precisione sia aumentata di molto. Da quando le PGM sono entrate in produzione normale ed è stata scritta la definizione riportata (1975), ci devono essere stati dei progressi, ma non si sa se l'alta media riscontrata in Iraq (80-90%) sia dovuta al fatto che la maggior parte degli obiettivi era ferma e di notevoli dimensioni. Rimane ben valida, però, la parte finale del discorso: "quando non vi sia opposizione".

La contraerea irachena ha fatto quel che ha potuto contro il gigantesco sbarramento di contromisure elettroniche messo in atto dai wargamers alleati. Dopodichè non c'è stato niente di entusiasmante per i boys nel colpire i bersagli quando sotto non c'era nulla che rendesse il servizio; era come andare al tirassegno.

Eppure si è visto come i media hanno inventato la leggenda dei pochi piloti abbattuti nei primi giorni, tumefatti più che dagli schiaffoni iracheni dall'ovvio fatto di essere abbattuti mediante esplosione ed essersi salvati mediante altra esplosione sotto il seggiolino, nonchè dall'impatto a diverse centinaia di kilometri all'ora con l'aria circostante.

Centodiecimila missioni sono una bella cifra, ma resta l'impressione che i piloti, nonostante i radar avversari accecati, preferissero scantonare anche la poca artiglieria tradizionale e lasciassero perdere la precisione: il rapporto missioni/bersagli centrati è bassissimo se nel conto si mettono le missioni tradizionali e quelle contro le basi missilistiche presumibilmente mobili o protette. Quasi quarantamila missioni, un terzo del totale, per fermare dei missili non guidati che avevano più un effetto televisivo che pratico. 83 missili con traiettoria fissa al limite della gittata, mentre gli americani ne hanno lanciati 284 (Cruise notoriamente supersofisticati e, naturalmente, intelligenti, in grado di essere programmati per un volo a bassa quota fin sopra il bersaglio, vale a dire ponti, centrali, edifici militari e... fabbriche di latte in polvere) (10).

Gli stupidi Scud e le bombe cervellone sono serviti più che altro a bombardare i cervelli delle masse sonnecchianti fino a tarda notte davanti ad uno spettacolo che non convinceva neppure i lattanti, insulto ai morti e alle sofferenze, escluse per via tecnologica dal flusso delle normali emozioni.

Meraviglioso disfattismo.

Le armi intelligenti hanno uno svantaggio primario: costano a volte più del bersaglio che devono distruggere, "non possono essere prodotte in massa" (11). Devono esserci dei bersagli ad alto valore concentrato, altrimenti non conviene usarle. In Iraq, dopo che le infrastrutture sono state distrutte nel giro di una settimana, la truppa ha dovuto essere bombardata a classico tappeto o, se si preferisce, a "saturazione".

Mentre le bombe intelligenti provocano un "danno collaterale" nel 10-20% dei casi, la saturazione operata dalle superfortezze volanti B52 deve essere valutata con altri criteri: siccome provoca la triturazione sistematica e voluta di tutto ciò che capita nel corridoio percorso, l'effetto è ottimale in ogni caso. Da ciò si deduce che le bombe intelligenti sono un pessimo affare e che il vecchio B52 risponde meglio alle "specifiche" capitalistiche: grande distruzione pur che sia, ma a poco prezzo (12).

Ad ogni modo, terminata la fase di "ammorbidimento" in cui sono stati gettati 2.790 aerei (110.000 missioni), 1.620 elicotteri, 210 navi (7 portaerei), 3.000 cannoni e 3.650 carri armati con un totale di 88.500 tonnellate di bombe, i 740.000 uomini della coalizione di 33 paesi hanno coraggiosamente attaccato il pericoloso nemico sbaragliandolo in 91 ore di operazioni terrestri (13).

Secondo le fonti ufficiali, le operazioni alleate hanno provocato la messa fuori combattimento di 250.000 soldati iracheni (di cui 80.000 prigionieri). I civili uccisi in Iraq sarebbero 20.000. Caduti alleati in combattimento, 162.

Un bel rendimento, non c'è che dire.

Senonchè sappiamo che i soldati iracheni presenti in Kuwait erano 540.000, che in Iraq ce n'erano altrettanti e che gli 80.000 prigionieri erano quasi tutti della riserva, ragazzi e anziani che si sono consegnati spontaneamente all'arrivo delle truppe alleate. Morti, feriti e dispersi militari iracheni sarebbero quindi 170.000: di fronte alla potenza sviluppata prima e durante l'attacco c'è da credere a un miracolo militare.

La realtà è diversa. Le cifre e i resoconti dei primi giornalisti ammessi in Kuwait dimostrano che l'esercito iracheno si era già ritirato quando l'attacco "glorioso" è incominciato. Sotto l'incalzare di un fuoco simile il miracolo è la ritirata di centinaia di migliaia di soldati. Meglio di Rommel e della sua ritirata-capolavoro dopo El Alamein.

Il fatto è che gli alleati se la facevano sotto e gli iracheni non avevano nessuna voglia di combattere e morire per niente.

Così non è stata distrutta la potenza militare dell'Iraq. Essa non poggiava su macchine, ma su uomini consapevoli della guerra che stavano vivendo più dei loro capi.

Giornalisti fantasiosi hanno osservato che c'erano centinaia di carri armati e veicoli di ogni genere abbandonati e non distrutti, quasi che fossero state usate le famose bombe al neutrone che ammazzano attraverso l'acciaio lasciando le cose intatte. Altra arma poco conveniente per le bisogna capitalistiche.

Giornalisti meno fantasiosi hanno osservato milioni di impronte di scarponi formanti interminabili piste verso i confini iracheni. Probabilmente dirette lontano dai pretoriani di Hussein, segno tangibile di meraviglioso disfattismo applicato contro la propria borghesia. Abbandonata la ferraglia e presumibilmente imbracciato stretto il fucile nel caso che la Guardia Repubblicana avesse qualcosa da ridire, i proletari, i contadini e i senza classe iracheni hanno preservato con rabbia le forze e la vita per altre battaglie.

Non sappiamo che cosa sia esattamente successo dopo, possiamo solo dedurre dai fatti precedenti perchè siano scoppiati focolai di guerra civile, perchè centinaia di migliaia di persone si siano improvvisamente messe in moto verso luoghi ritenuti più sicuri.

Note

(1) Ne vendeva 76,65 milioni di barili, di cui 36,5 milioni a Europa e Giappone, nel 1975. International Institute for Strategic Studies, Adelphi papers n. 136, "Oil and security", pag. 18.

(2) E. N. Luttwak, Strategia della Vittoria, Rizzoli 1988, pag. 353.

(3) Ivi, pag. 353 - 355.

(4) Cfr. "Marxismo e questione militare", in Il Programma Comunista, n. 23 del 1961 e segg. Cfr. anche il nostro Guerre stellari e fantaccini terrrestri.

(5) La parola d'ordine della "difesa della patria" è reazionaria, specie in epoca imperialistica, quando la "patria" del maggiore imperialismo è ormai il mondo intero. Cfr. sull' "offensivismo" dei rivoluzionari: "Lode dell'aggressore" in Battaglia comunista n. 4 del 1951.

(6) Rivista Italiana Difesa, maggio 1991, "Guerra del Golfo, vincitori e vinti".

(7) Cfr. Storia della Sinistra Comunista, Ed. Progr. Com., Vol. II pag. 714.

(8) L'unione araba non può che essere di carattere rivoluzionario. L'unione nazionalista è impossibile, e non solo per la presenza dell'imperialismo ma per cause oggettive. Cfr. "Le cause storiche del separatismo arabo" in Il Programma Comunista n. 6 del 1958.

(9) IISS, Adelphi Papers n 180, "Precision-Guided Weapons", pag. 1.

(10) Cfr. R.I.D. art. cit. e suppl. al n. 3 del 1991, "La guerra degli Scud".

(11) Id., pag. 4.

(12) Ogni guerra incomincia con le armi e i metodi con cui è finita l'ultima. Il cinico modello delle guerre locali ha importanza elevatissima per il collaudo di armi e sistemi, tanto che in esse più spesso di quanto non si creda vengono pianificate operazioni apposite per le prove "dal vivo".

(13) R.I.D. art. cit.

Lettere ai compagni