30. Dieci anni (2)

Critiche balorde e dilettantesche

Non esiste curva discendente del capitalismo. La sua dinamica è in continua ascesa, è questa la sua contraddizione mortale. Non c'è nessuna possibilità di frenare lo sviluppo delle forze produttive perché ogni capitalista se ne frega se ammodernando la fabbrica si abbassa il saggio di profitto generale: a lui basta che temporaneamente il suo guadagno aumenti con l'aumento della scala della produzione, vendendo a prezzo medio le merci che gli costano meno di quel prezzo e sentendosi più che soddisfatto anche quando dovesse rinunciare ad un certo tasso in cambio di una massa del profitto aumentata. La sua ossessione è il cosiddetto costo del lavoro e fa di tutto per abbassarlo, senza badare se così facendo si frega da solo abbassando ciò che egli stesso chiama "propensione marginale al consumo", o facendo aumentare la disoccupazione oltre i limiti che considera "fisiologici".

L'ascesa delle forze produttive della società ha un immediato riflesso sui rapporti di classe. L'apparato liberal-democratico deve lasciare il posto alle più moderne forme di fascismo proprio perché al di sopra dei capitalisti singoli il sistema nel suo insieme non tollera più l'iniziativa individuale generalizzata. La forza lavoro deve essere disciplinata in questo quadro e i sindacati devono essere il tramite del consenso sociale in un patto che il proletariato sarà costretto a rompere.

E' curioso notare che al primo apparire del nostro Quaderno, le critiche sono state di segno opposto. Siamo stati accusati di aderire sia alla teoria del crollo del capitalismo che a quella del superimperialismo. Nel primo caso avremmo teorizzato che la continua ascesa delle forze produttive e la continua caduta del saggio di profitto avrebbe distrutto il capitalismo. Nel secondo caso avremmo teorizzato che gli espedienti keynesiani e la cronicizzazione della crisi ne avrebbero permesso la sopravvivenza eterna.

Non è colpa nostra se Marx era "crollista" e prevedeva la fine del capitalismo a causa dell'insolubilità storica delle sue contraddizioni. Non è neppure colpa nostra se Amadeo era "superimperialista" nel dimostrare che "Il cadavere ancora cammina". Sia Marx che Bordiga non hanno certo dimenticato il ruolo della rivoluzione e non sono certo in conflitto fra loro. Ma per carità, non risponderemo a queste balordaggini; vogliamo solo spiegare com'è difficile lavorare in un ambiente dove l'approssimazione e il dilettantismo fanno dire cose del genere. Non sarà forse che le contraddizioni del capitalismo ultramaturo hanno anche un riflesso, oltre che sulla sovrastruttura borghese, sulla classe operaia, sui partiti opportunisti e anche sull'area internazionalista e dintorni?

Conseguenze sindacali del capitalismo maturo

Abbiamo già affrontato il problema del processo irreversibile di integrazione degli apparati sindacali nella politica dello Stato. Il problema è fondamentale per capire con quale atteggiamento noi andiamo a fare lavoro sindacale, dove se ne presenta l'occasione. E' evidente che non c'è nessuna possibilità di rovesciare la situazione. Se noi colleghiamo l'attuale natura dei sindacati alla maturità del capitalismo, alla necessità, quindi, di un patto sociale permanente che il fascismo chiamava corporativismo, non possiamo pretendere che i sindacati ritornino alla loro natura dell'epoca della democrazia liberale. E' in fondo lo stesso discorso che abbiamo fatto per il partito: se esso esplode per via della fondamentale incoerenza tra l'impianto teorico della Sinistra (maturato con l'epoca imperialista, con il capitalismo modernissimo, con il fascismo, con la degenerazione dell'Internazionale) e il vecchio armamentario del centralismo democratico, della disciplina formale, delle gerarchie ecc., è inutile pretendere di far rivivere simile partito, è bene che sia morto.

Non è una contraddizione essere attivi in campo sindacale dopo aver sostenuto ciò che abbiamo sostenuto. Noi attualmente (episodi marginali dal punto di vista quantitativo, si capisce) siamo impegnati in lotte sindacali all'interno della logica sindacale corporativa borghese. Il problema sta tutto nel capire quale sia questa logica e non farla propria, denunciarla. Siamo anche iscritti ai sindacati, non è uno scandalo, è una tangente che bisogna pagare per accedere alle assemblee, alle riunioni ecc. E' inutile e deviante chiamare a raccolta gli operai per la fondazione di altri sindacati. Chi ci ha provato ha subìto cocenti sconfitte. Non perché non sia riuscito a organizzare dei gruppi dissidenti, ma perché alla fine questi nuovi organismi non si sono mossi in una logica diversa da quella delle confederazioni ufficiali.

Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un ragionamento logico invece che ad una analisi della dinamica dialettica dei fatti nel tempo. Se il sindacato è asservito alla borghesia allora io ne faccio un altro che non sia asservito. Manca nella costruzione la semplice domanda: ma non sarà per caso successo che ragioni materiali da cui non si può prescindere hanno portato i sindacati ad esaurire la loro funzione originaria? E siamo sicuri che questa funzione sia ripetibile nel tempo soltanto per via di un po' di propaganda e di volontà di organizzazione?

Chiediamoci perché lo Stato non utilizzi forme particolari, sue, di controllo sociale. Perché ha bisogno proprio dei sindacati? Ma è chiaro: solo il sindacato ha quella presenza capillare che permette di assolvere al compito. Non solo. Il vero effetto del corporativismo è quello di controllare anche i capitalisti. Solo il sindacato ha una presenza capillare nelle fabbriche ed ha la possibilità di controllare che cosa vi succede. Pensate a questo fenomeno interessantissimo sancito da diverse leggi dello Stato: nelle situazioni di crisi, fallimenti, cassa integrazione, mobilità ecc., la firma degli accordi è richiesta al capitalista e al Consiglio di fabbrica, e al sindacato confederale solo in mancanza della rappresentanza interna. Mentre per quanto riguarda la contrattazione il Consiglio di fabbrica non è neppure considerato. Questo significa, per esempio, che quando lo Stato riceve la domanda di cassa integrazione non si fida né del capitalista che la presenta, né del sindacalista confederale. E' il consiglio di fabbrica che può aiutare lo Stato a capire se c'è una truffa ai suoi danni o no. Quando fra non molto saranno approvate le nuove rappresentanze sindacali di fabbrica, esse avranno sicuramente voce in capitolo in qualche livello della contrattazione (15). Ciò significa che il processo va avanti e che i sindacati, divenuti ormai delle specie di ministeri con tanto di uffici, segreterie, sportelli per il pubblico ecc., avranno le loro appendici per giungere fino ai più reconditi recessi delle fabbrichette che sfuggono al controllo dello Stato.

Non si tratta semplicemente per lo Stato (attenzione a questo aspetto che è di un'importanza enorme, questo è il fascismo applicato) e il padrone di mettersi d'accordo col sindacato per fare una certa politica; viene coinvolta la classe operaia direttamente attraverso i suoi organismi di base. Lo Stato non si fida più perché il capitalismo privato è la generalizzazione della truffa nei suoi confronti.

Questo intreccio infernale non può essere modificato ma dovrà essere spazzato via da un'ondata di violenza anticapitalista. Non vi sono soluzioni sindacali alla questione sindacale. Sarebbe però una follìa se, solo per questo, abdicassimo al lavoro sindacale. Le ragioni si trovano in vari testi e non è il caso di riassumerle, basti tener presente che il conflitto sul terreno immediato tra capitalista e operaio è la base materiale del conflitto fra la classe dei capitalisti e quella degli operai e che, come dice Marx, se gli operai rinunciano alla difesa quotidiana, non possono intraprendere nessun movimento più grande. Importava qui mettere in risalto i vari piani in cui si applica il concetto di lavoro sulla dinamica materiale dei fatti, che riteniamo sia uno dei maggiori insegnamenti della nostra corrente.

La struttura del nostro lavoro è quindi improntata alla continuazione del lavoro passato. Il lavoro è un dato continuo e tutto ciò che abbiamo scritto è scaturito da riunioni, incontri, discussioni, studio, insomma, una routine che, funzionante più o meno bene, ha coinvolto collettivamente i compagni.

Tanto plusvalore, tanto parassitismo

Mettiamo a disposizione di tutti questi risultati che possono apparire piccoli in confronto al tempo occorso, ma che secondo noi hanno la loro importanza. Si tratta di una base sulla quale dovrà innestarsi il lavoro di altri compagni, quella nuova generazione di rivoluzionari senza la quale il partito non potrà esistere. Si tratta di una dinamica interna nostra che è stata innescata e corrisponde alla dinamica dei rapporti di produzione e dei riflessi che questi rapporti hanno sugli individui. Se la maturazione del capitalismo non conosce soste, anche i rapporti di classe in un certo senso devono maturare. Probabilmente è ancora da capire fino in fondo il significato materiale di questa famosa apatia delle masse. C'è da chiedersi se si tratta veramente di apatia o di un rifiuto positivo di vecchi arnesi democratici. Lo stesso edonismo becero che va per la maggiore potrebbe essere l'avvisaglia di un rifiuto della religione del lavoro coatto, che santifica l'uomo e tutto il resto. Proveremo fra poco ad affrontare il problema e cercheremo di capire se tutto ciò rappresenta in qualche modo una maturazione anche dei rapporti di classe.

Se vi fossero compagni diffidenti che si chiedono quale sia la matrice di quanto andiamo dicendo, la risposta è semplice. Nel Terzo libro del Capitale Marx afferma che, con l'ascesa della forza produttiva della società, una parte sempre maggiore del plusvalore viene accaparrato dalla rendita. Più cresce la civiltà di un paese, egli dice, più gigantesco diventa il tributo che la società paga in forma di soprapprofitto ai proprietari immobiliari. Usiamo non a caso il termine immobiliari. Marx usa il termine grandi proprietari fondiari. Il capitolo in cui è trattato l'argomento è quasi interamente di Engels con correzioni di Kautsky, perché Marx l'aveva lasciato incompleto. L'osservazione sul tributo che la società paga alla rendita è senz'altro di Marx, perché essa è già presente in parti precedenti e viene ripresa in seguito. Ma Engels la mitiga con una frase che suona così: "Questo succede finché i terreni conservano le loro caratteristiche riguardo la concorrenza". Engels mitiga l'osservazione di Marx dicendo che, se questo tributo spiega la vitalità incredibile del latifondista, la storia si incarica di ridimensionarlo per via delle grandi quantità di terra vergine scoperte in America e delle immense steppe dell'Asia che verranno messe a coltura.

Engels commette un peccato veniale nei confronti di Marx. La questione non è semplicemente storica e non riguarda semplicemente la quantità di terra disponibile. Nel lavoro sull'accumulazione del Capitale abbiamo formalizzato la dimostrazione marxista che la teoria della rendita deriva dalla natura del capitalismo il quale evolve verso il monopolio in tutti i campi. La ripartizione del plusvalore in profitto d'impresa e rendita (certo, anche in interesse) ha come fondamento storico la proprietà e quindi il monopolio del suolo, ma a questo punto dello sviluppo del capitalismo, la teoria della rendita si dispiega in tutta la sua potenza: essa non descrive tanto un rapporto di proprietà, quanto un meccanismo indispensabile all'accumulazione. La rendita agraria propriamente detta si doveva tradurre in rendita immobiliare in senso lato. Non si spiegano altrimenti certe città americane con relativamente pochi abitanti, circondate da un'infinità di terra, dove si vedono distese di case unifamiliari intorno ad un centro con un mazzo di grattacieli.

Morte del Capitale e confronto con il futuro

Le casette unifamiliari portano via profitto al capitalista sotto forma di salario necessario all'affitto o al mutuo (a questo proposito Engels è magistrale in La questione delle abitazioni) e i grattacieli portano via profitto sotto forma di spese inutili ma inevitabili: il capitalista ha già i suoi grattacapi ad anticipare il capitale per la produzione, figuriamoci se lo anticipa (a trenta o cinquant'anni) per uffici improduttivi. Sia nel caso delle abitazioni che in quello degli uffici, la ripartizione del plusvalore favorisce la rendita e questo, contrariamente a quanto sembrava prevedere Engels, è un fenomeno in continuo aumento.

Volendo quantificare il fenomeno per quel che riguarda l'Italia, possiamo moltiplicare un affitto, o un mutuo, o un ammortamento medio per una trentina di milioni di prime e seconde abitazioni, uffici e attività varie e troveremo una cifra piuttosto superiore che inferiore al 20% dell'intero prodotto nazionale lordo. Come si vede si tratta di una enormità.

Dall'altro lato si sono sviluppati fenomeni ancora più importanti come estensione e come peso economico e sociale, ad esempio il credito (quindi la finanza), il commercio mondiale, l'intervento diretto del capitale internazionale sulle singole società nazionali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale).

Punto fermo, dunque, su Il Capitale di Marx, ma soprattutto sui testi che la nostra corrente ne ha ricavato per continuare il suo lavoro, come la serie sulla questione agraria (Mai la merce sfamerà l'uomo), o quella sul capitalismo del welfare (Vulcano della produzione o palude del mercato?), o quella del superamento del capitalismo da parte del capitalismo stesso (Proprietà e Capitale). Questi testi, cui se ne aggiungono altri non meno importanti come La rivoluzione anticapitalistica occidentale oppure Il programma immediato della rivoluzione proletaria e il fondamentale studio su Scienza economica marxista come programma rivoluzionario rappresentano un tutto organico che, nella relazione sull'accumulazione, abbiamo implicitamente ricordato dicendo che ormai siamo al punto in cui si deve pensare alla fase di transizione, durante la quale il potere proletario ha il compito di conoscere i fenomeni nella loro maturità per intervenire e modificarli. Si fa scienza quando i parametri del fenomeno studiato sono applicabili a piacimento sugli altri fenomeni della stessa natura e si raggiungono dei risultati perfettamente previsti. Si fa scienza quando, riproducendo ad arte il fenomeno naturale, si raggiungono gli stessi risultati.

Il passaggio del potere dalla borghesia al proletariato è il fatto traumatico e catastrofico, ma la struttura economica e sociale cambia lentamente secondo leggi che devono essere conosciute e controllabili. Quando facciamo questi discorsi in fondo non facciamo che affermare la necessità di ritornare ad una epistemologia del futuro, così come è sviluppata in Marx, quando per spiegare la società capitalistica egli deve fare il confronto con la possibile assenza delle categorie capitalistiche.

Il comunismo non "verrà", è già presente

Occorre da parte vostra uno sforzo per cogliere questi aspetti in tutta la loro importanza. Dopo la sconfitta della borghesia esisterà per un certo periodo ancora il lavoro salariato, lo scambio, il denaro, la merce. Tutto ciò si estinguerà e si estinguerà pure lo Stato, e va bene, le formulette le sappiamo a memoria. Ma ciò che non abbiamo indagato a sufficienza (tenetevi forte) è l'effetto che questa scomparsa futura ha oggi sulle classi e sulla società. Il proletariato, con il suo partito, asseconderà e guiderà, nella fase transitoria, tendenze che sono già presenti oggi. Ecco perché diventa essenziale spingere la nostra osservazione ad un livello superiore per capire meglio la cosiddetta attualità. Bisogna capire che effetto ha sulle cose di oggi il movimento in corso che porterà alla scomparsa del capitalismo, quale effetto ha sulle classi, sull'economia mondiale, sul divenire di quella rivoluzione che avrà il compito di portare a termine il lavoro della vecchia talpa. Perché di questo si tratta, se abbiamo ben letto i libri. La rivoluzione non avrà tanto compiti "costruttivi" quanto "distruttivi". Essa dovrà distruggere tutti gli ostacoli che impediscono il vero e pieno dispiegamento delle forze oggi schiacciate dalla società borghese. La rivoluzione come fatto politico non inventa nulla, libera dalle catene, come afferma Marx, le forze responsabili del salto qualitativo; esse non debbono apparire dal nulla, sono già presenti e non fanno che aumentare di importanza. Questo è l'argomento principe della Sinistra, contenuto in Proprietà e Capitale e in Scienza economica marxista come programma rivoluzionario, tanto per citare due soli testi (16). Argomento fondamentale che non poteva ancora essere fatto proprio né dai russi né dai tedeschi al tempo di Lenin; i primi non ancora giunti al capitalismo, i secondi immersi in un capitalismo giovane in cui si scontravano classi ancora nel vigore della loro crescita.

Nel testo sullo sciupìo capitalistico Amadeo si sofferma su di un punto molte volte ricordato: la bestialità di questo modo di produzione, non sta tanto nella suddivisione del "valore aggiunto" in salario e plusvalore, quindi nel "furto" di questo plusvalore. Il calcolo dello spreco di questa società porta ad un rapporto decine di volte superiore. Oggi sarebbe ridicolo tornare a discutere su nuovi programmi di Gotha. E' vero che il panorama politico si è liberato dallo stalinismo che pure era tornato indietro rispetto ai socialisti dell'Ottocento criticati da Marx. Ma è anche vero che serpeggia tra i "sinistri" una concezione sindacalcomunista non troppo dissimile sia dallo stalinismo che dal socialismo ottocentesco, rivendicativo, moralista, pieno d'indignazione contro lo "sfruttamento" ecc. Pensiamo per un momento alle teorie dell'offensiva capitalistica contro il proletariato, che abbiamo criticato in chiusura della nostra Lettera Il 18 Brumaio del partito che non c'è.

Queste e altre simili teorizzazioni che ricordano la rivendicazione del "frutto indiminuito del lavoro" ammazzano la teoria marxista come e peggio dello stalinismo classico perché riducono la grandiosa costruzione di Marx ad un movimento rivendicativo, sindacalisteggiante, moralistico. Il partito rivoluzionario deve fare ben altro che lanciare proclami per la difesa di un qualcosa che sarebbe dovuto ai proletari per diritto. Marx nei manoscritti giovanili distruggeva già questa concezione giuridica della lotta di classe. E insieme distruggeva tutto il comunismo primitivo, rozzo, che pretende il livellamento, la distribuzione del maltolto. Questo non è comunismo, è invidia generalizzata, è, ripetuta nel 1993, immondizia metropolitana, concime che non serve neppure più a fertilizzare polemiche come quelle di un tempo, da cui scaturirono magnifici frutti rivoluzionari come l'Antidühring o Il rinnegato Kautsky.

Ma come: la Sinistra continua il lavoro di Marx dimostrando che il Capitale si è spersonalizzato al massimo, che il capitalismo di stato è la dominazione del Capitale su questo e non viceversa, che i capitalisti individuali sono espropriati in massa, che c'è Capitale senza capitalisti e ci sono capitalisti senza Capitale, che addirittura nella società attuale il capitalismo già non esiste più (niente paura, spieghiamo subito in che senso), e noi ci dovremmo "confrontare" con la squallida realtà di una politica-politica che sbraita il suo rivendicazionismo verso "masse" che da rivendicare non hanno proprio più nulla? (17).

Le rivoluzioni non si fanno, si dirigono

Occorre che i deboli in dialettica si allaccino le cinture di sicurezza. Nel lavoro sullo sciupìo citato, Amadeo mette un capitoletto intitolato "Il capitalismo non esiste". Perché il capitalista, invece di godere e pappare, è costretto ad accumulare "virtuosamente"? Non solo per la banale ragione che non può mangiare caviale a tonnellate o avere più di quanto possa fisicamente vedere e toccare. Ma per una ragione che il testo definisce "tecnica": egli non solo deve accantonare capitale per i cicli produttivi; non solo deve anticipare capitale per far funzionare le sue fabbriche; deve soprattutto allargare la sua individuale potenza produttiva per non essere buttato fuori dal gioco dai suoi concorrenti, insomma, per non essere espropriato. Non è la rivoluzione proletaria occidentale che esproprierà i capitalisti, essi si sono già espropriati da soli, ma questa storia dell'esproprio li obbliga a vivere con una spada di Damocle sul cranio, a macchinizzare, a chiedere soldi alle banche, a creare un mondo sempre più finanziarizzato dove il capitalista conta sempre più come il due di briscola e dove il proletario, rincretinito da una vita senza senso, è sempre più slegato non solo dal ciclo produttivo in quanto disoccupato, ma dalla dipendenza sociale che lo legava al Capitale. Se cade il legame dell'operaio con il Capitale, se cade nello stesso tempo il legame tra il Capitale e il capitalista, se si dimostra che la molla storica del capitalismo non è l'interesse personale ma l'impersonale esigenza del Capitale di crescere con il plusvalore, "allora resta dimostrata la necessità della morte del capitalismo e quindi la sua scientifica non esistenza potenziale dichiarata da Marx" (18).

Ritorniamo un momento sui nostri passi. Poniamo la questione del lavoro militante, dell'organizzazione, del partito, nella luce di ciò che è appena stato detto. Diventa chiaro che certi atteggiamenti che andavano bene a cavallo dei due secoli oggi non sono più scientificamente accettabili. La propaganda contro i ricchi, un certo modo di intendere lo sfruttamento, la rivoluzione intesa come una serie predeterminata di azioni che si devono compiere al momento giusto (una specie di colpo di Stato proletario), il comunismo inteso come paradiso proletario da raggiungere, la dittatura del proletariato come nemesi della classe vittoriosa: sono tutti aspetti che, già poco ortodossi nel passato, oggi devono essere banditi.

Non si fanno né le rivoluzioni né i partiti, questo ci ha insegnato la Sinistra. Si dirigono sia le rivoluzioni che i partiti, perché si tratta di agire su fenomeni che vengono posti all'ordine del giorno dai fatti materiali, non inventati. E non si "costruisce" il comunismo, anche se nella propaganda di un Lenin troviamo questa parola. Si orientano e dirigono le forze in grado di abbattere il capitalismo nel senso di spezzare le catene che impediscono il dispiegamento del comunismo.

La rivoluzione e l'organizzazione sono risultati dell'azione di forze attuali sulle classi, su tutte le classi. Queste forze non devono essere costruite o, peggio ancora, create da un partito che si sviluppa "prima", che "prepara" la rivoluzione come si dovesse organizzare un meeting. I confini anagrafici tra le classi sono indefiniti e intorno alle due principali si costituiscono i blocchi contrapposti soltanto quando, all'interno della popolazione, si polarizzano in modo estremo gli interessi, rendendo inevitabile lo scontro sociale. In questa situazione, una classe cerca di difendere l'ordine esistente, l'altra di sovvertirlo. Così facendo quest'ultima agisce non più in difesa di un interesse particolare, ma generale. La possibilità della rivoluzione non si costruisce, essa è il risultato del contrasto fra lo sviluppo del capitalismo e le conseguenze di ciò su tutto il tessuto sociale, nessuna classe esclusa.

Questo è un punto importante perché la classe proletaria a questo grado dello sviluppo diventa rappresentante degli interessi di tutte le classi schiacciate dal capitalismo. A suo tempo la borghesia, come ricorda Marx, rappresentò gli interessi di tutta la società umana. Il proletariato oggi è l'ultima classe a rappresentare gli interessi della società umana nel suo insieme. La critica dell'economia politica in Marx non era mai fine a sé stessa. Si trattava di dimostrare come i meccanismi della società borghese avessero un riflesso sui rapporti di classe. Il saggio di plusvalore ci indica il grado di sfruttamento della forza lavoro, ma anche l'aumento nel tempo della forza produttiva sociale. Se al saggio di plusvalore aggiungiamo al denominatore il capitale costante abbiamo il grado di impossibilità del capitalismo di sopravvivere, cioè la legge della caduta del saggio di profitto (19). Oggi più che mai dobbiamo sentire questo problema. Il nostro lavoro sull'economia non è disgiunto dal lavoro sui rapporti sociali. L'economia va studiata come base che genera le esigenze a livello sovrastrutturale, quindi come base che genera l'atteggiamento delle classi e degli Stati. Vale a dire che trattiamo l'attualità come la trattò Amadeo nei suoi articoli "Sul Filo del Tempo", senza mai perdere di vista cosa c'è dietro, sia materialmente che cronologicamente.

Lo spasmo sincronico

Nell'ottica della dinamica già ricordata, il corso economico del capitalismo è quindi ciclico per quanto riguarda le crisi, ma è assolutamente irreversibile per quanto riguarda la maturità del modo di produzione. Ma allora sono anche irreversibili i rapporti fra le classi, nel senso che lo Stato deve rimanere accentrato e totalitario, mentre deve per forza organizzare il consenso sociale e la collaborazione di classe. Abbiamo più volte fatto il discorso sul significato che per noi ha la parola "fascismo" e abbiamo anche visto cosa significa per esempio l'organizzazione del consenso sociale attraverso i rapporti sindacali nei paesi moderni. Ma, classicamente, al pubblico risultano più visibili i rapporti capitalistici riflessi nei rapporti fra Stati. Più visibili vuol dire più immediatamente percepibili, sia per la grande spettacolarità che hanno gli avvenimenti internazionali, sia per il rumore sociale che le guerre producono.

Diminuiti i margini per i meccanismi del Capitale, si assiste all'interno dei vari paesi all'adozione di misure sempre più rigide di controllo monetario e di comando dell'economia, mentre all'esterno si intensificano episodi militari apparentemente incomprensibili o giustificati solo con grancassa pubblicitaria dietro la quale si intravvede poca sostanza politica. Da intendere come sostanza politica tradizionale.

Concorrenza spietata, prima di tutto. All'interno dei vari paesi lo sbocco della libera concorrenza è la rovina dei più deboli da parte dei più forti, quindi il risultato del liberismo di mercato è il monopolio. Per quanto paradossale possa apparire, l'intervento dello Stato per garantire la libera concorrenza non ha nulla di "liberista", ma rappresenta il rimedio "dirigista" agli effetti perversi proprio della libera concorrenza.

Tutti gli Stati che, anche se sono del cosiddetto Terzo Mondo, hanno un'economia di tipo moderno, statale, monetaria, prendono provvedimenti della stessa natura. Le economie si mettono in sincronia, tendono ad essere in crisi tutte assieme, tendono ad avere bisogno tutte insieme di esportazioni, tendono tutte a frenare l'inflazione con manovre sui tassi ecc.

Questa sincronia, che non era così significativa al tempo di Lenin, provoca dei fatti reali importanti, come l'intensificarsi della guerra commerciale nel momento in cui si giura di evitarla, o lo scoppio della guerra guerreggiata al fine di bloccare pericolosi concorrenti. Per ora non sul territorio di questi ultimi, ma attraverso interposte aree e popolazioni, come sta succedendo in Yugoslavia e in Somalia, come è successo nel Golfo. Ritorna prepotente il problema dello "spazio vitale", non più e non ancora inteso come terreno di possibile conquista con la fanteria, bensì come zona in cui si possano applicare le strategie del marketing nazionale. La guerra non viene al momento utilizzata come strumento diretto di occupazione militare o di difesa, ma come elemento essenziale per creare (per sé) o limitare (ad altri) aree di mercato.

Da questo punto di vista l'italietta non sarebbe seconda a nessuno, se solo non fosse così sgangherata dal punto di vista politico-militare. Il capitalismo italiano ha robuste spinte imperialistiche, solo che non riesce mai, ed è una costante storica, a esprimere un governo imperialisticamente decente. Questo handicap gli ha impedito di intervenire con forza nella crisi balcanica, anche se, comunque, non è rimasto inattivo. Quando (e se) l'Italia riuscirà a superare l'attuale crisi con un governo più accentrato e con una economia più sotto controllo, siamo sicuri che metterà il suo peso sulla bilancia dei vari imperialismi a confronto in questo momento. Anche perché con il crollo dell'Est europeo è crollato uno schema militare che sopravviveva a sé stesso senza più legami con i fatti economici reali, attuali. Come abbiamo sempre detto, l'Italia è un pontile aggettato sul Mediterraneo e poteva stare nel trattato del Nord Atlantico più o meno come ci stava la Turchia, cioè perché così serviva agli americani. Il profondo influsso che l'integrazione del mercato mondiale ha avuto sugli schieramenti imperialistici non dovrà essere sottovalutato. I grandi avvenimenti sono già successi tutti: crollo del Muro di Berlino, collasso dell'URSS, isolamento di un'unica potenza mondiale americana che, in mancanza di dualismo, stenta a darsi un nemico che non sia il Mondo al completo.

Retorica delle superpotenze nemiche

Ma il bello deve ancora venire, anche se gli sconquassi già visti non sono per niente trascurabili. E qui bisogna dire che qualche piccola previsione l'abbiamo fatta anche noi. Quando tutti credevano ancora che il dualismo mondiale fosse cristallizzato per sempre nella tenzone USA-URSS con tanto di supermissili e guerre stellari, noi predicammo nel deserto che tutta quella ferraglia cosmica non sarebbe servita a nulla perché all'occorrenza l'uomo spaziale si sarebbe dovuto trasformare in un fantaccino terrestre. L'equilibrio del terrore si sarebbe trasformato in un terrore dell'equilibrio, per cui gli imperialismi avrebbero dovuto sgomitare in luoghi stretti, magari finendo per fare a fucilate, in ben definiti territori per far valere la propria legge (20). Già si era vista la lezione del Vietnam, ma si era ancora alle due opposte crociate partigiane, come aveva paventato la Sinistra, e le cose non erano così chiare. Si era sempre al dualismo USA-URSS, anche se per interposta carne da cannone.

Oggi questo dualismo non c'è più. Ma come è successo che è sparito? Non si sarebbe potuto capire prima se non si fosse basata la propria osservazione o analisi sulla dinamica dell'economia mondiale, sui fatti reali che provocano l'urto storico fra nazioni che si fanno la guerra vera. L'urto storico fra interessi imperialistici non era più da tempo fra USA e URSS; non solo sarebbe maturata l'epoca di Gorbaciov, ma sarebbe sparito ogni contenzioso tra i due colossi.

Nove anni fa, ognuno può andare a leggere, dicemmo: "Chi non si lascia sviare da tavoli ginevrini, giri di valzer diplomatici, guerre stellari holliwoodiane e bipolarismo di maniera, vede bene che non sono le merci moscovite a invadere il mercato di zio Sam. Vede bene che la stragrande maggioranza delle truppe d'occupazione americane non 'difendono' la Turchia o la Norvegia ma sono irremovibili da Germania e Giappone, i principali concorrenti. Inutile stare a far indovinelli sul futuro, ma sbaglia certamente chi non ponesse la terza eventuale guerra mondiale nella traiettoria delle due precedenti, a ulteriore dimostrazione che, appiattendosi il diagramma (21), anche i grandi sconvolgimenti di fronti (rispetto alle due guerre) caratteristici del passato oggi non sono più all'ordine del giorno. Anche nelle manifestazioni guerresche il mondo capitalistico non ha vie d'uscita ma strade segnate: la contrapposizione USA-URSS è un prodotto dell'ultima guerra, ma non è su di essa che si basa il reale sviluppo futuro dei rapporti interimperialistici.

Caratteristica sia dell'imperialismo che delle fasi meno mature che lo precedettero, è di riprodurre ed estendere i rapporti capitalistici man mano che la loro influenza si allarga a più paesi e vi si radica. Quando si giunge a parlare di capitale finanziario, di sovrapproduzione, di sovrappopolazione relativa, di imperialismo, insomma si sottintende una rete di rapporti economici altamente sviluppati e quindi una determinata vastità di nessi a livello mondiale, una economia mondiale che soggiace nel suo insieme alle leggi generali del capitalismo, alla sua fase suprema e non a quella di singole aree rimaste indietro nello sviluppo. In questo contesto la politica russa è costretta a seguire quella degli altri paesi che realmente si contrappongono sul piano economico".

"L'ha detto Bordiga!"

Certamente potrebbe esserci guerra tra Stati anche per motivi diversi da quelli della pura concorrenza. Ma bisogna distinguere, non tutti gli Stati hanno la stessa importanza. Tra Stati della natura e dell'importanza dell'URSS e degli USA c'è una situazione complementare più che di concorrenza. La prima è una potenza continentale essenzialmente terrestre suo malgrado, la seconda una potenza globale che controlla aria, terra e mare per vocazione centenaria. L'URSS ha due spine su fianchi opposti, fianchi che, dal confine polacco a Vladivostock, si possono collegare tra loro solo con dieci giorni di ferrovia. Queste spine sono la Germania e il Giappone. Questi due paesi sono anche i maggiori concorrenti degli Stati Uniti. Per ragioni geostoriche l'URSS avverte più forte il contrasto con Germania e Giappone che con gli Stati Uniti, quindi la vera tensione in uno scenario di guerra "calda" è ancora quello della Seconda Guerra Mondiale.

Fummo accusati di non essere "ortodossi", perché affermazioni come le nostre non erano mai state fatte dalla Sinistra. Era vero. In alcuni testi del dopoguerra si parlava ancora di possibile guerra tra USA e URSS. Vediamo di capirci qualcosa. Nel 1947 o '48, data degli articoli, la tensione militare tra i due paesi era altissima. Nel '45 tra gli americani la paura di una espansione dell'alleato "bolscevico" era così radicata che il generale Bradley dovette bloccare, letteralmente tirandolo per gli stracci, il suo collega Patton. Questi non aveva capito che a Yalta si era fatto un certo discorsetto e voleva marciare a tappe forzate fino in Cecoslovacchia per togliere ai "rossi", ormai sfiancati dalla guerra, tutto quel territorio. D'altra parte in Oriente i russi aiutavano i cinesi nella guerra civile contro Chang e li avrebbero aiutati ancora fino alle scaramucce per Formosa e nella Guerra di Corea. Tutto questo rumoreggiare di guerra "locale" era accompagnato da forsennate campagne propagandistiche, vere e proprie crociate contrapposte che echeggiavano un pericolo effettivo di guerra generale, basta ricordare che nello Stato Maggiore Americano vi era chi suggeriva di atomizzare Pechino come Hiroshima. Ancora la Guerra del Vietnam vedeva USA e URSS come potenze belligeranti per interposta persona; ma solo nei primi anni, perché il profilarsi della sconfitta americana, soprattutto sul piano interno, poneva fine a un'epoca. Nel 1983 tutto ciò non esisteva più, e i nostri critici facevano un cattivo servizio all'analisi marxista ripetendo come pappagalli ciò che avevano mal digerito su un periodo ormai tramontato. La capacità di discernere fra gli "invarianti" storici ed economici e le situazioni che invece rappresentano il portato contingente di scontri attuali, deriva dal maneggio sicuro degli strumenti teorici applicati alla realtà.

C'è bisogno di ricordare che quel tipo di errore è ricordato nei sacri testi? Il problema posto da Prometeo, la nostra rivista del dopoguerra, era marxisticamente ben posto. Ora abbiamo la verifica sperimentale che, sullo stesso problema, pronunciandoci in maniera totalmente inversa, avevamo ben posto il problema anche noi. Non è un lavoro difficile. Su testi successivi, ricordiamo Deretano di piombo, cervello marxista e Ben altra offa si attende, già si diceva che la contrapposizione USA-URSS era provvisoria. L'economia avrebbe messo a posto le cose. Non bastava, per entrare nelle grazie di Zio Sam, togliere Stalin dal mausoleo. Bisognava togliere anche Lenin. Allora sarebbero cadute le cortine di ferro. Ma provvisoriamente. Proprio perché sullo stesso piano, ormai "amici", USA e URSS sarebbero diventati veri concorrenti, e allora l'inimicizia sarebbe maturata su ben altre basi. Non è difficile, veramente. Perché non bisogna solo leggere i giornali, né solo i sacri testi: bisogna, con un po' di sale, affrontare dialetticamente i problemi e soprattutto vederli in movimento attraverso una storia in cui i rapporti di produzione non sono sempre allo stesso grado di sviluppo e così i rapporti di classe e quelli fra Stati. Questo intendiamo quando parliamo di approccio dinamico ai problemi. Può darsi che si tratti di una formula imperfetta. Bene, siamo qui per cercare di perfezionare la nostra capacità di rappresentare un patrimonio immenso, nessuno ha mai detto che è un'impresa facile.

Schemi e astrazione: norme d'uso

Nella seconda parte del Quaderno n. 1 che per la sua impostazione matematica ci attirò le ire di tanti compagni (e ne abbiamo già preso un altro antipasto in fase di discussione del Quaderno sull'accumulazione) dicemmo che "la contraddizione contro cui urta il processo di accumulazione ad un certo stadio di sviluppo delle forze produttive viene proiettata interamente nella sfera dei rapporti di classe". Quando nella relazione precedente si è detto che certe formule si traducono in fatti reali, si è ribadito semplicemente ciò che avevamo scritto allora. L'abbiamo ricordato: il saggio di plusvalore è un rapporto di classe. Con l'aggiunta del capitale costante al denominatore abbiamo la "traiettoria e catastrofe" di un modo di produzione. La guerra scoppia quando non vi sono più margini per intervenire su queste variabili. Ed è anche chiaro, guardando la formuletta, che non c'è niente di meglio della guerra per produrre una variazione consistente in queste variabili. Il plusvalore sale vertiginosamente per il balzo produttivo, il blocco dei salari e i prezzi incontrollati delle commesse militari; sale quindi il numeratore. Al denominatore eliminiamo (nel senso di uccidere) in primo luogo la sovrappopolazione relativa. Vero è che essa fa concorrenza al salariato, ma se non c'è il pericolo dell'aumento dei salari, la guerra è un buon affare. In secondo luogo bombardiamo il secondo elemento, il capitale costante, in modo da garantirci una succulenta ricostruzione postbellica, magari con un auspicabile patto del lavoro.

Sale il numeratore, si abbassa il denominatore, il saggio di profitto vola alle stelle. Ed effettivamente è successo così. Questo schemino si potrebbe ripetere a proposito della guerra del Golfo, tanto per fare un esempio. Al di là degli schieramenti più o meno appassionati, al di là del pasticcio televisivo che è potuto giungere agli occhi del povero cittadino frastornato, la domanda cui prodest, a chi giova?, rivolta con sotto gli occhi la nostra elementare formuletta dà già una bozza di risposta, perché il capitalismo ha la frenesia di abbassare il costo del capitale costante e il petrolio è capitale costante per eccellenza. Ma se io americano ho il petrolio in casa, è chiaro che mi interessa un aumento del prezzo di quello che il mio concorrente deve acquistare. E' dal 1973 che gli USA ripetono questo scherzo ai tedeschi e ai giapponesi. Ma a parte queste estreme schematizzazioni (su cui non abbiamo nessuna paura di operare perché le trattiamo come tali), le leggi marxiste ci danno una risposta complessiva sull'andamento del cosiddetto corso dell'imperialismo da cui abbiamo preso le mosse per questa panoramica generale.

La schematizzazione, prima forma di astrazione per viaggiare nella nostra dinamica verso successive approssimazioni del reale, ci aiuta a capire quali sono i punti fermi e quali siano invece le variazioni nel tempo. Se proprio volessimo dar ragione a coloro che teorizzano il cambiamento dai tempi di Marx, diremmo che è vero, tutto è cambiato, tranne i meccanismi fondamentali del modo di produzione capitalistico. Se invece volessimo dar ragione a coloro che affermano non sia cambiato niente e che basti leggere la bibbia di Don Carlo per seguire la retta via, diremmo che è vero, non è cambiato nulla, tranne alcuni aspetti sovrastrutturali del tutto secondari rispetto ai fondamentali meccanismi capitalistici.

Determinismo dei fatti sociali

Ma non siamo d'accordo né con gli uni né con gli altri. Ci siamo trovati in sintonia con i compagni francesi quando dicevano che occorre dare un taglio netto con il passato recente. Non perché non ne vogliamo più sapere. Non bruceremo le montagne di corrispondenza e di documenti che questo passato ha lasciato dietro di sé. Tagliare con il passato significa per noi e per tutti i compagni lavorare con altri metodi e anche con altri rapporti al nostro interno. Per far questo dobbiamo collegarci sia ad un passato più lontano, sia al futuro. Uno dei modi per farlo è non essere d'accordo né con i teorizzatori del "tutto è cambiato", né con quelli del "niente è cambiato". Quando ci sono state le manifestazioni contro i sindacati nel settembre del '92, ci siamo chiesti da dove sbucava quella rabbia, come era cresciuta quella tensione mai vista, com'era possibile che da un momento all'altro si manifestasse una violenza che non aveva riscontro neppure nei più violenti scontri del passato. Bisogna risalire al 1962, ai fatti di Piazza Statuto, per ricordare qualcosa di simile (22). Quando c'è stata la Guerra del Golfo ci sono state un paio di manifestazioni male organizzate, in cui la gente smarrita ci strappava letteralmente i volantini dalle mani e ci correva dietro per dirci che era giusto quel che avevamo scritto. Erano cattolici e pidiessini, autonomi e pensionati, in altri momenti avrebbero guardato la firma e si sarebbero espressi su quella piuttosto che sul contenuto del volantino. Poi tutto è finito, naturalmente. Ci vuole altro per innescare il processo vero di polarizzazione dei cervelli. Ma l'abbiamo visto che è possibile, l'abbiamo toccato con mano come nei momenti migliori dello scontro di classe. Che cos'era successo se non che l'invarianza dei meccanismi fondamentali si era unita ai profondi cambiamenti nella realtà? Può essere giudicato insignificante il raddoppio degli ascoltatori ad una nostra riunione, perché raddoppio significa comunque un numero ridicolo. Ma se succede è perché la sonda trova un ambiente in cui sondare. Non voglio dire che è la "nostra" riunione ad attirare più gente. Nei momenti di tensione tutte le riunioni risultano più affollate, tutti i volantini vengono più letti, tutti i periodici vengono distribuiti in maggior numero.

La stragrande maggioranza di coloro che oggi si occupano di scienza afferma che la dinamica dei fenomeni meteorologici, biologici, economici, sociali ecc. non è di tipo deterministico, quindi è imprevedibile qualsiasi accadimento futuro. La nostra asserzione di trarre da schemi astratti qualche indicazione per il movimento di classe li farebbe sorridere di compatimento. Per questa gente dire che un algoritmo, una formula, dà l'immediata sensazione di un rapporto di classe è una bestemmia. Eppure questa gente vive continuamente immersa in un mondo che Marx aveva descritto e previsto. Noi sappiamo oggi che la grande descrizione di Marx del mondo capitalistico è molto più somigliante al capitalismo attuale che non a quello dell'Ottocento. Lo sviluppo del credito, le società per azioni, l'intervento dello Stato, il debito pubblico sono fenomeni generalizzati, mentre al tempo di Marx per dare l'immagine di una società per azioni nel vero senso della parola, con azionisti che lasciavano la gestione diretta a funzionari salariati, non vi erano che le ferrovie.

La scienza della previsione in campo sociale ha dei limiti non perché non agiscano qui dei meccanismi deterministici, ma perché essi sono troppo complessi per farli rientrare in qualche formalizzazione conosciuta. Ciò non significa affatto che la previsione è impossibile. Se crolla il Muro di Berlino, come marxista posso ben dire che si apre una buona prospettiva per la rivoluzione, vicina o lontana che sia. Buona perché si mettono in moto dei meccanismi che portano a risultati prevedibili, come l'unificazione del proletariato tedesco, la perdita di importanza del bastione controrivoluzionario russo e, nel nostro piccolo, il fatto che gli stalinisti si tolgono dai piedi nelle fabbriche, perdendo la strapotenza che impediva a qualsiasi operaio di prendere la parola contro di essi.

Bel colpo, vecchia talpa

Quando scoppia una guerra come quella del Golfo posso ben prevedere, con gli strumenti della teoria marxista, che essa non darà i risultati di un atto di superforza americana, quel nuovo Ordine Mondiale previsto dai politici, bensì quelli di un atto di debolezza, che pone gli Stati Uniti nella necessità di difendersi attaccando. E parte della previsione riguarda il risultato sul campo, la sopravvivenza del regime di Hussein, la presenza militare diretta, l'eliminazione dell'importanza sproporzionata che Israele aveva nella zona grazie al servizio di polizia che conduceva contro pagamento di dollari sonanti. A che serve studiare il corso del capitalismo mondiale se non se ne ricava almeno queste indicazioni generali per una previsione minima, una verifica del lavoro passato, un tema per il lavoro successivo cui collettivamente i compagni si dedicheranno? Abbiamo visto (Tesi di Napoli) che per noi, e in generale per il Partito, crescita quantitativa e crescita qualitativa dell'organizzazione vanno di pari passo: se non si parte da questi presupposti non si giunge a nulla. E' pieno il mondo di giornali con articoli d'opinione e le nuove generazioni sanno già dove andarseli a cercare nel mondo borghese, se vogliono solo quello. Ci sono dei professionisti in gamba, riviste patinate, colorate, illustrate con tutti i crismi della tecnologia moderna. La nostra prospettiva è di captare coloro che di tutto ciò hanno nausea, ma non possiamo offrire brutte copie di ciò che esiste in abbondanza. Mettendoci sul mercato saremmo fregati dalle leggi del mercato. Guai ad avere questa concezione della propaganda e del proselitismo, concetti che in fondo significano coinvolgimento di chi è già alla ricerca di qualcosa, per materiale distacco da un mondo che non sopporta più, mentre, come dice Lenin, non è ancora visibile all'orizzonte l'alternativa.

Dieci anni sono lunghi, ma è un periodo insignificante in un mondo che si era pietrificato nella ricostruzione postbellica, i cui effetti sono durati ben più della ricostruzione stessa. La sintonia con i compagni, non solo francesi, è dovuta certamente a fatti materiali e non sveleremo certo un segreto se diciamo che dopo il crollo del Muro facemmo una riunione in cui prevedemmo la possibilità di un maggiore interesse per il lavoro comune, a cominciare dal nostro interno.

La cosa più importante è che la sintonia avviene su temi comuni e le discussioni a cui abbiamo partecipato lo dimostrano. Il bisogno di alcuni compagni di tagliare con il passato recente, nel senso già detto, dovrebbe essere il bisogno di tutti i compagni.

La Lettera n. 20 che citiamo spesso, è sul nostro metodo di lavoro e aveva proprio il compito di dare un taglio con il passato, anche il nostro passato, in modo da metterci a lavorare serenamente. Erano passati sei anni dalla nostra espulsione, fin troppi rispetto alle necessità del lavoro di continuazione che ci eravamo prefissi. Quella lettera, più che un bilancio di ciò che era successo negli anni precedenti, era un piccolo programma di lavoro che partiva dall'esistente, si soffermava su quelli che erano stati chiamati "semilavorati", e cercava di impostare una prospettiva per ciò che era ancora da fare.

Sarà una coincidenza, ma questa decisione veniva presa mentre due avvenimenti molto importanti si verificavano: da un lato Gorbaciov lanciava con una serie di leggi la Perestroijka fino a quel momento rimasta in sordina, e dall'altro esplodeva il bloody monday il 19 ottobre a New York, il crollo borsistico che doveva cancellare in pochi giorni cinque milioni di miliardi di lire dalle borse mondiali.

La Perestroijka rappresentò di per sé una conferma importante del marxismo: da tempo ci aspettavamo che la "Grande Confessione" avvenisse senza veli e ora era sotto i nostri occhi con un drammatico incalzare degli avvenimenti. Ci chiedemmo se la nuova situazione potesse cambiare i rapporti esistenti, in particolare se l'immenso mercato potenziale russo avrebbe rappresentato una valvola di sfogo per il capitalismo asfittico d'Occidente.

La domanda era legittima od oziosa? Il mercato dell'Est europeo rappresenta mezzo miliardo di consumatori bisognosi di tutto ma con una struttura produttiva e sociale ben diversa da quella dei paesi più poveri dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina. La domanda era oziosa. Prima che crollasse il Muro avevamo raggiunto un certo grado di sicurezza sul fatto che l'Est, alla luce delle leggi dell'accumulazione, non rappresentava una valvola di sfogo, ma un problema in più per il capitalismo mondiale. I nostri tempi sono quello che sono, anche grazie ad una controrivoluzione che lavora pesantemente sulla disponibilità dei singoli e sul numero degli adepti di questa "strana" corrente marxista che sopravvive malgrado tutto. Nel 1989 brindammo (nel vero senso della parola, con calici, vino e tutto) al bestione tedesco che avrebbe marciato verso l'unificazione come in effetti fu. Trenta milioni di proletari tedeschi uniti in mezzo all'Europa, tra il malandato gigante reazionario russo e la malandata madre dell'aristocrazia operaia, l'Inghilterra. Bel colpo vecchia talpa.

Comunque eravamo quattro gatti isolati, peggio di adesso, con difficoltà di comunicazione verso l'esterno e poche possibilità di elaborazione interna, fatto sul quale torneremo specificamente. Abbiamo impiegato del tempo, ma nel '90, dopo una serie di riunioni e discussioni, avevamo pronto il nostro lavoretto sulla Russia, presentato in una riunione pubblica e ancora da pubblicare.

Crisi nella crisi

C'era un collegamento fra il crollo dell'Est europeo e il crollo in borsa, mondiale, che l'aveva preceduto? E su quale terreno era maturato un crollo che coinvolgeva quel mercato capitalistico chiuso di mezzo miliardo di persone? Quando viene cancellato capitale fittizio in quantità tali che si rivelano infine qualità, significa che sono in moto meccanismi importanti nei punti nevralgici dell'accumulazione. Sarebbe troppo lungo fare qui la storia della situazione che rese possibile il crack dell'87 (23), ma bastano alcuni accenni per dimostrare l'assoluta differenza con i meccanismi che misero in moto quello del '29.

L'economia americana era gonfiata dalla politica sedicente liberista di Reagan. L'apparente successo era dovuto al fatto che gli Stati Uniti erano ancora in grado di imporre al mondo la loro politica senza dover subìre ritorsioni. La stessa politica impostata da un paese in declino come l'Inghilterra non dava gli stessi risultati, anzi, si dimostrava catastrofica. Anche la politica americana si sarebbe dimostrata catastrofica, ma nell'87 non lo si sapeva ancora. O meglio, lo si sapeva ma sembrava che fosse sufficiente far pagare tale politica agli altri. L'importante era che non lo sapesse Reagan, che sorridesse agli americani e che sprizzasse ottimismo!

Un'economia debole si riflette nella sua moneta e il dollaro era forte in base ad accordi presi precedentemente (Vertice del Louvre, 22 febbraio 1987). Si erano stabilite segretamente delle strette fasce di oscillazione delle monete, gli Stati Uniti si erano impegnati a non far scivolare il dollaro per sostenere le proprie esportazioni, e Germania e Giappone si erano impegnati a sostenere le proprie economie interne in modo da mitigare la loro posizione di esportatori netti (e pericolosi). Il dollaro era riuscito a mantenere un cambio sostenuto, ma ciò perché Germania e Giappone avevano dovuto intervenire sui mercati dei cambi con pesanti acquisti (in tre mesi avevano dovuto, con gli altri paesi europei, riempirsi le riserve con una cinquantina di miliardi di dollari in più). Il dollaro è una moneta speciale e nel mercato fuori del suo paese natìo si moltiplica, si "crea". Acquistare dollari oltre la solita routine fu, per le banche centrali, come creare moneta con tensioni pericolose sui prezzi interni. Di qui una politica rigorosa sui tassi, specialmente da parte tedesca e quindi un utilizzo "freddo" (esente da spinte inflazionistiche) dei dollari accumulati, cosa che stimolava ancora di più le esportazioni.

La risposta degli Stati Uniti fu di lasciar cadere gli accordi del Louvre e iniziare una guerra monetaria e commerciale contro Germania e Giappone. Ostentando questa decisione in modo non ufficiale, gli Stati Uniti innescarono il processo di distruzione di capitale nelle borse mondiali a partire dalla propria, confidando nella maggiore automazione dei processi di controllo (24). Non andò proprio come previsto, ma, mentre Wall Street perdeva dopo un mese il 12-13%, le borse europee perdevano il doppio e molte borse asiatiche, tranne Tokyo, il triplo.

Questi non sono che aneddoti della sovrastruttura, ma servono per capire che siamo distanti anni luce dal 1929. Il crack borsistico non è più il prodotto di una crisi acuta del sistema bensì il prodotto incontrollabile della guerra che gli Stati combattono per navigare nella crisi cronica. Tra giganti economici come Germania, Giappone e Stati Uniti, gli altri paesi industrializzati si barcamenano come possono, ma i paesi più poveri, Russia ed Est europeo compresi, sono schiacciati senza pietà, ridotti alla fame e quindi alla violenza interna, fino alla guerra civile.

Nel 1929 la crisi si trasmette nel mondo e la recessione dura una decina d'anni, fino alla vigilia della guerra. Nel 1987 la crisi borsistica si inserisce in una crisi più grande che si trascina dal 1929 con la parentesi della guerra e della ricostruzione; dura poche settimane e viene superata senza traumi eccessivi.

Qual è la differenza sostanziale? Questa: nel 1929 la crisi è provocata da uno sconquasso nella profondità dei meccanismi di accumulazione, come abbiamo cercato di dimostrare nella nostra Lettera al riguardo, ma di una accumulazione che era al suo massimo; nel 1987 la crisi rappresenta un meccanismo di compensazione scatenato da cause contingenti (la guerra monetaria e dei tassi) su di un normale funzionamento a base di creazione continua di capitale fittizio, unica scappatoia ad una accumulazione asfittica.

Curatori fallimentari del Capitale

Abbiamo fatto questa breve panoramica per sottolineare il parallelismo tra i problemi del capitalismo "occidentale" e quelli del capitalismo "orientale". Crisi parallele, come sono parallele le due facce di una stessa medaglia. Non è stato troppo faticoso per noi, dopo, giungere alla conclusione che la medaglia che presentava queste facce era la spinta all'integrazione del mercato mondiale, spinta che si risolveva in una guerra non militare tra potenze "ricche" e in un disastro economico per le potenze "povere".

Nella citata Lettera n. 21 sul crack borsistico abbiamo scritto in conclusione che la nostra corrente è il prodotto di scontri giganteschi che, iniziati negli anni '20, oggi sono ancora in corso, e questo impone che per il lavoro dei rivoluzionari che a questa corrente si richiamano, non vi siano "scelte", ma una unica strada. Ci sembra abbastanza dimostrato. L'esigenza del capitale moderno sarebbe l'integrazione del mercato, ma le "nazioni" capitalistiche si fanno la guerra per ora monetaria e commerciale impedendolo. Questo vincolo è un vincolo storico che dovrà essere spezzato: non esiste capitalismo sovranazionale. Esiste è vero, un Capitale mondiale con basi fortemente nazionali; ma se la borghesia potesse essere sovranazionale non esisterebbe più concorrenza fra Stati e la guerra sarebbe inconcepibile. Invece la guerra diviene sostanza della società moderna, perché il gioco dell'accumulazione internazionale non può risolversi, come si risolve all'interno di un paese, con l'espropriazione di un capitalista da parte di un altro capitalista più forte. Tra Stati, al posto dell'espropriazione tipica del tempo di crisi, abbiamo il dominio politico, economico e militare del più forte sul più debole, oppure la guerra aperta.

Gorbaciov era il rappresentante di una società che stava (e sta) subendo fino in fondo questa situazione degenerata. Non si può dire che egli avesse capito la debolezza del mercato russo nel processo di integrazione mondiale su cui le borghesie nazionali occidentali stavano combattendo. Egli semplicemente prendeva atto di una situazione in cui la pressione del mercato interno contro gli antichi vincoli era insopportabile, in cui i capitali esterni premevano contro porte troppo chiuse rispetto alla situazione mondiale, in cui forze immense convergevano verso la distruzione dell'esistente. Gorbaciov era stato spinto dalle circostanze a sancire il dato di fatto. La Perestroijka non era un progetto di cambiamento sociale, era l'atto notarile che registrava legalmente il cambiamento avvenuto. Più Grande confessione di così...

E' molto interessante questo aspetto sovrastrutturale del capitalismo moderno: i governi si adeguano ai fatti prendendone atto a posteriori; le variazioni storiche si caratterizzano per via di alcuni fenomeni che assumono subito importanza mondiale, si allargano a più paesi nel volgere di poco tempo, rappresentano una costante nelle economie e nei rapporti sociali. Il fascismo fece il suo esperimento in Italia, ma l'economia controllata accompagnata dal controllo sociale si estese in Germania, negli Stati Uniti, in Russia, con forme diverse ma con caratteristiche fondamentali uniche.

Caratteristica è l'attuale corsa alla cosiddetta deregulation che di primo acchito non si sa bene cosa voglia dire, visto che essa avviene a colpi di decreti statali. Il governo inglese della Tatcher e quello americano di Reagan hanno dato il via, ma tutti i paesi più importanti hanno imboccato questa strada: limiti allo Stato sociale, liberalizzazione delle regole interne al capitalismo, privatizzazioni ecc. Non poteva essere esente la Russia. Ma ciò che è importante è notare che non si tratta affatto di una vera deregolamentazione, bensì di una demolizione delle vecchie regole per stabilirne di nuove, a volte più rigide. Il parlamento russo sarà liberamente eletto, ma il governo che esso ha espresso prende provvedimenti a raffica a suon di decreti, senza passare attraverso la chiacchiera tradizionale delle democrazie. Sembra che questa sia una tendenza in rapido incremento.

Se non è una rivincita del fascismo questo! Se il processo di fascistizzazione della società è irreversibile dal primo dopoguerra, non deve stupire che il mondo attuale si adegui perfettamente a questa previsione della Sinistra. In Russia un colpo di Stato autoritario è stato organizzato per ripristinare l'ordine di fronte al caos, ma i suoi ideatori sono stati sconfitti perché il nuovo ordine più autoritario ancora si possa stabilizzare, poco importa con quale aspetto esteriore. Eltsin è il vero battilocchio spinto dalla storia a rappresentare il colpo di Stato vero. Non si torna indietro rispetto ad un dato storico acquisito. Persino uno come Mattei, presidente dell'ENI, negli anni del boom economico, si rendeva conto che la libertà di mercato avrebbe portato al monopolio e che era compito dello Stato ripristinarla con il suo intervento dall'alto. E' una bella contraddizione vedere uno Stato che interviene con le sue leggi e magari la sua magistratura e polizia per "rendere libero" un mercato che non riesce a rimanere tale per forza sua e rischia di morire.

La seconda guerra del Pacifico

Ma è nei fatti internazionali che si nota meglio quanto il libero mercato sia effettivamente nelle preoccupazioni degli Stati. Se i movimenti delle merci e dei capitali fossero lasciati veramente al di fuori di ogni controllo, il capitalismo non sopravviverebbe. Ne avevamo fatto un accenno a proposito della crisi borsistica dell'87.

Per dimostrare quale possa essere il significato delle manovre economiche ormai permanenti degli Stati (e anche per toccare con mano con quale disinvoltura si "creano" e distruggono masse monetarie immense), dovremo occuparci per qualche minuto di una storia di guerra economica. Prima del crack borsistico, nel 1985, vi fu il vertice economico e monetario del Plaza (un albergo di New York), in cui si tentò di regolamentare le politiche monetarie dei maggiori capitalismi. Fu imposto allo Yen di raddoppiare la propria parità con il dollaro in modo da limitare l'enorme surplus delle esportazioni giapponesi. Le merci giapponesi sarebbero costate il doppio sul mercato internazionale, che si svolge essenzialmente in dollari. Non sappiamo che cosa risposero i giapponesi a questa imposizione, sta di fatto che le misure vennero prese ed essi al Plaza incassarono il colpo. Non sappiamo neppure se quello che successe dopo fu il risultato di un calcolo meditato o fu il risultato spontaneo dell'economia giapponese. L'azione congiunta delle banche centrali, sui cambi e sui tassi d'interesse, portò effettivamente lo yen da un cambio di 250 per un dollaro a 140 in pochi mesi. Il surplus commerciale giapponese, però, allora di 56 miliardi di dollari, era sei anni dopo, cioè l'anno scorso, a circa cento miliardi. Gli investimenti diretti all'estero, da 83,6 miliardi di dollari salirono a 300 miliardi. Solo nel settore dell'automobile, nello stesso periodo, il Giappone, passava da una produzione all'estero di 855.000 unità, alle 2.485.000 di oggi, come se in sei anni fosse nata una Fiat in più. Nell'elettronica di consumo il Giappone ha sbaragliato definitivamente tutti i concorrenti eliminandoli dal mercato o riducendoli in nicchie insignificanti. Nel settore bancario il disastro della politica del Plaza si è dimostrato ancora più evidente: nel 1985 le attività totali delle prime sei banche del mondo assommavano a 822 miliardi di dollari e di questi 569 erano riferiti a banche giapponesi; nel 1990 le prime sei banche del mondo avevano attività totali per 2.440 miliardi di dollari ed erano tutte giapponesi. Sempre in quei cinque o sei anni il prodotto lordo giapponese è aumentato di una cifra pari all'intero prodotto lordo della Francia, che nella graduatoria mondiale del capitalismo è al quarto posto.

Riduciamo le complesse manovre economiche più o meno coscienti della borghesia giapponese in termini marxisti. Nel primo anno, tra il 1986 e il 1987, ci fu crisi, con salari bloccati e riduzione dei profitti per sostenere comunque le esportazioni, che infatti aumentarono da 56 a 96 miliardi di dollari. Nel frattempo il governo sfruttò tre elementi della crisi: 1) la diminuita tensione sui prezzi dovuta ai sacrifici imposti al proletariato permise di abbassare i tassi d'interesse al minimo storico del 2,5%, cioè denaro quasi gratis all'industria, senza scatenare l'inflazione che, con quei tassi, avrebbe sconvolto qualsiasi altro paese; 2) l'aumentata parità yen-dollaro permise di abbassare il valore del capitale costante (essenzialmente materie prime ed energia che provengono totalmente dall'estero) importando più del solito tutto ciò che poteva entrare nel valore delle esportazioni; 3) il denaro a basso prezzo e abbondante offerto sul mercato finanziario non si tradusse tutto in investimenti immediati, data la crisi, ma in rendita.

Teoria e prassi (gialla) della rendita

Mentre i primi due punti sono evidenti, il terzo va commentato. Se il tasso ufficiale di sconto scende al di sotto del sovrapprofitto che si traduce in rendita, il denaro non passa più attraverso la produzione, ma va direttamente dallo Stato alla rendita attraverso la "speculazione" di ogni cittadino che possa accedere a un prestito. Può accedere a un prestito per esempio chi abbia un immobile, tramite il solito mutuo ipotecario. Se il tasso che pago è il 2,5% e la rendita è del 4 o 5% o più, lo "speculatore" può ipotecare un palazzo o un terreno per acquistarne un altro. Elementare. Il resto viene da sé. Se la rendita viene investita su sé stessa in un circolo vizioso il prezzo degli immobili si gonfierà, ma con il prezzo gonfiato il valore base per il mutuo gonfierà anch'esso. E quando il prezzo di un metro quadrato nel quartiere di Ginza a Tokyo incomincia a costare 450 milioni di lire, il circolo si chiude, perché l'anticipo necessario è consentito a pochi. Se con un immobile così quotato lo "speculatore", che nel frattempo è diventato un investitore virtuoso, si presenta in una banca qualsiasi a chiedere soldi perché vuole, poniamo, "diversificare" il suo investimento e rivolgersi alla Borsa (cioè passare dal mattone alle azioni), siamo certi che non gli si dirà di no. E infatti mentre scoppiava in Giappone il fenomeno dei prezzi immobiliari, scoppiava anche il boom della Borsa la cui capitalizzazione passava in quattro anni da 190 mila miliardi a 611 mila miliardi di yen che, per dare un'idea, rappresentano il Pil di Italia, Francia e Germania sommate.

Guarda caso, le azioni più ambìte furono quelle dei settori, come quello siderurgico, le cui aziende possedevano grandi patrimoni immobiliari in terreni vicino alle città. Finale fin troppo ovvio: finita la crisi, che in effetti durò solo un paio d'anni, un così gigantesco rastrellamento di denaro permise una iniezione di vitalità a tutto il sistema industriale. Tra il 1986 e il 1989 l'industria giapponese raccolse ex novo, tramite emissione di azioni e titoli vari, la bella somma di 60.000 miliardi di yen, quasi la metà dell'intero Prodotto lordo italiano di allora.

Con lo yen quasi raddoppiato rispetto al dollaro, non solo c'era un risparmio sulle materie prime e i semilavorati provenienti dall'estero, ma c'era margine abbondante per acquisti all'estero di fabbriche, gruppi editoriali, immobili, centri commerciali ecc. Ricordiamo che la Sony, da sola, ha costruito quattro nuovi stabilimenti in Giappone e una ventina all'estero, ha acquistato mezza Hollywood, il network Cbs ed ha una partecipazione nella Time-Warner, il più potente gruppo di informazione del mondo.

A noi non importa se la politica del governo giapponese è stata una risposta di guerra al governo americano dopo gli "accordi" del Plaza oppure l'aggiustamento spontaneo di un'economia strapotente. In un caso o nell'altro c'erano le basi materiali di quello e solo quello svolgimento dei fatti. Improvvisamente, però, qualcosa ha inceppato la ben lubrificata macchina industriale e finanziaria nipponica.

Durante il crack del 1987, mentre il mercato azionario dell'Estremo Oriente, Hong Kong, Singapore e Australia crollava di circa il 40%, quello di Tokyo crollava "soltanto" del 14%, cifra pur sempre considerevole in assoluto, data la massa di capitali trattati nella Borsa giapponese, ma percentualmente bassa considerando che quel 14% in meno a novembre rispetto a ottobre, significava comunque un 20% in più rispetto a gennaio. La Borsa di Tokio aveva quindi sentito meno di tutte l'effetto del bloody monday (Francoforte, per esempio, aveva perso il 30% ma su di una situazione già poco brillante, forse la Borsa che in assoluto è stata danneggiata di più).

L'inceppamento del meccanismo crea-soldi che apparentemente viveva su sé stesso, fu invece inevitabile. Le nostre formulette ci insegnano che in primo luogo il plusvalore deve essere prodotto, in secondo luogo deve essere realizzato con vendita di merci contro denaro. Attraverso la rendita e la finanza c'è soltanto una distribuzione del plusvalore che può certamente ritornare utile agli stimoli artificiali dell'economia capitalistica, ma che alla fine non può risolvere il problema fondamentale: l'ulteriore espansione della produzione e del mercato. Il Giappone, non potendosi espandere più di così all'estero e non potendo lasciare scatenare all'interno un'inflazione pari alla enorme quantità di moneta "creata", incominciò con il "distruggerla" attraverso il disinvestimento in Borsa e quindi il sistematico ribasso dei titoli, accompagnato dall'intervento della Banca Centrale che quasi triplicò il tasso di sconto per raffreddare l'economia surriscaldata.

Questa misura l'avevamo già analizzata per quanto riguarda la Germania nella Lettera a proposito del crollo del Muro (25). "Creazione" oppure "offerta" di moneta significa in soldoni risvolto monetario dei consumi, siano essi pubblici o privati, dovuti a politica monetaria o a pura anarchia del mercato. In altre parole, c'è creazione monetaria anche quando c'è sostegno artificiale dei consumi da parte dello Stato o c'è troppa domanda privata di consumo immediato solvibile in futuro (vendita a rate). Sembra che non esista una teoria soddisfacente (per gli stessi borghesi) sui sistemi emettitori di moneta (26). Questa "variabile politica delle teorie monetarie", come la chiamano alcuni, provoca effetti obbligati in un sistema economico i cui nodi (Stati) dipendono uno dall'altro e si combattono proprio per questo. Effetti obbligati che consistono in un controllo centrale di tutte le variabili che contribuiscono alla catena dell'offerta, specialmente l'inflazione. Se ogni paese è legato all'altro da scambi di merci e capitali, oltre che da accordi monetari, è evidente che ogni decisione centrale in campo monetario da parte di un paese forte, non fa che riversare all'esterno, sui paesi più deboli, i problemi di creazione monetaria. Così hanno sempre fatto gli Stati Uniti, così fa la Germania per pagarsi il costo enorme dell'unificazione, così fece il Giappone dopo gli accordi del Plaza.

Accanimento terapeutico sul malato terminale

Mentre facciamo questa escursione in fatti di cronaca economica, bisogna che si tenga ben presente perché lo facciamo. I fatti ci dimostrano che i meccanismi sono sempre gli stessi analizzati da Marx, non c'è da cambiare neppure una virgola rispetto al Capitale; nello stesso tempo l'aspetto quantitativo dei fenomeni è tale che la realtà stessa ci evidenzia un capitalismo che è in grado di sopravvivere in questo stato comatoso soltanto con dosi massicce di medicinali. Non si possono staccare le "flebo" neanche per pochi minuti.

Ovviamente non tutti i paesi erano contenti degli effetti che le politiche americane, giapponesi e tedesche provocavano nel mondo, specialmente quelli che si vedevano bruciare qualsiasi possibilità di "partecipare" ai meccanismi di salvaguardia dell'economia e le cui popolazioni morivano letteralmente di fame. Ma anche e soprattutto i grandi lupi dell'economia mondiale non erano per nulla contenti l'uno della politica dell'altro. La Germania aveva l'alibi dell'unificazione e si preparava un futuro da superpotenza. Stati Uniti e Giappone erano ai ferri corti per via dell'invasione delle merci giapponesi ora fabbricate per gli americani addirittura in casa loro. I quali videro come una sfida peggio di quella tedesca l'alzarsi repentino dei tassi giapponesi, che oltretutto provocava il rientro dei capitali abbondantemente investiti nei buoni del tesoro americani. Vi fu la minaccia americana di intervenire pesantemente sull'andamento dei lavori del GATT, minaccia che fa sempre paura perché il mercato americano fa a tutti più gola di quanto tutti i mercati del mondo facciano gola agli americani.

Il capitalismo giapponese dovette darsi una regolata, anche per non scoppiare. Si trattò di un aggiustamento in parte automatico e in parte voluto dal governo, come la manovra sui tassi. Il risultato fu che regolarmente e sistematicamente la Borsa per un paio di anni vide abbassare i prezzi dei titoli fino a perdere complessivamente 2 milioni 300.000 miliardi di lire; tanto per dare un'idea, una cifra pari alla metà della sua capitalizzazione e pari all'intera capitalizzazione di Wall Street, quasi il doppio del PIL italiano. All'inizio del 1992 i fallimenti facevano registrare insolvenze per 6.000 miliardi di lire al mese. Altro che crack dell'87.

Tutto questo con il solo strascico moralistico di qualche migliaio di "disonesti" banchieri, trafficanti e politici in galera e un taglio modesto dei salari attraverso gli incentivi legati all'andamento del fatturato. Quasi nessun aumento della disoccupazione ufficiale, nessun trauma sociale, insignificante il numero dei suicidi da bancarotta. Un rimescolamento di governo e via.

Siamo ancora una volta alla dimostrazione del nostro assunto di partenza. La dinamica capitalistica non è quella del ripetersi sempre uguale a sé stesso delle crisi periodiche. Vi è quella che abbiamo chiamato "freccia del tempo" della crisi e anche dei rapporti sociali. Questa è anche una buona risposta a chi piange sempre sulla "crisi" aspettandosi da essa una ripresa automatica della lotta di classe. In uno dei nostri testi fondamentali si afferma chiaramente che di fronte al disastro teorico, organizzativo, pratico dell'azione rivoluzionaria nostra e del proletariato non si può fare assegnamento sulla progressiva caduta del capitalismo in una crisi sempre peggiore. La curva del capitalismo non conosce tratti discendenti ma sempre ascendenti, è questa la sua fregatura anche se per il momento è anche la nostra. La concezione della curva discendente del capitalismo porta alla falsa domanda di cui abbiamo parlato all'inizio: come mai, mentre il capitalismo declina, la curva rivoluzionaria non si impenna? In questo importante scritto è mostrato con uno schema, esattamente nello stesso spirito con cui abbiamo lavorato agli schemi sull'accumulazione, come scatti la dinamica rivoluzionaria nel rovesciamento della prassi rappresentato dal partito "27). Vale la pena di ricordarlo: non sembri strano che questa riunione, in cui si nomina così poco il partito, questa entità idolatrata anche se non compresa dai nostalgici degli anni peggiori del nostra organizzazione, sia invece proprio una riunione sul partito in senso lato.

Toppe, minacce, rappresaglie e "liberismo"

Ma torniamo al Giappone. Secondo le norme di una buona economia borghese, il surplus commerciale dovrebbe essere bilanciato da un deficit corrispondente nei flussi di capitale all'estero, cosa che fino ad un certo punto è avvenuta, come abbiamo ricordato. Ora, risulta che in Giappone fino all'anno scorso fossero bloccati circa un milione di miliardi di lire in obbligazioni convertibili, warrants (28), crediti a interesse differito, crediti ad alto rischio del settore non bancario (per esempio leasing) ecc., tutti strumenti un po' misteriosi della nuova finanza, serviti da veicolo all'esplosione precedente. Ora basta dare un'occhiata al lavoro presentato nella precedente relazione per vedere che in un sistema economico non si può vendere merce, ricavarne capitale e poi tenersi questo capitale. In un sistema chiuso è un controsenso, ma alla lunga anche in un sistema aperto fra più nazioni, un paese non può semplicemente esportare merci senza esportare capitali, a meno che questi capitali non siano investiti direttamente all'interno, cosa che certamente il Giappone ha fatto, ma che non può durare. Quel milione di miliardi, nel gioco dei bussolotti della finanza che non produce valore, li possiamo mettere in conto perdite per coprire il buco del disastro borsistico. Tra l'altro vediamo dalle cifre che non coprono neppure la metà del totale.

Prima gli Stati Uniti, poi la Germania, ora il Giappone. Gli Stati Uniti esportano poche merci e importano capitali tramite titoli di Stato che servono a coprire un deficit crescente. La Germania idem per via del costo dell'unificazione e della sua politica verso l'Est europeo. Il Giappone non è ancora diventato importatore di capitali ma ha incominciato a vendere titoli americani ed europei, oltre che ad agire sull'euromercato come compratore.

Non stiamo parlando del Lussemburgo o di Haiti, stiamo parlando delle tre maggiori economie del pianeta, tra l'altro in lotta permanente tra loro, come ben dimostrato da una lettura marxista della Guerra del Golfo, per esempio. Il perché di questo rovesciamento dovrebbe trovare una risposta ragionata con la prosecuzione del nostro lavoro sul mercato mondiale, lo spostamento dei capitali e i conflitti che ne derivano.

Tratteggiato questo scenario, è facile rendersi conto del perché prevediamo che non ci sarà nessun nuovo Piano Marshall verso la Russia e del perché i paesi più poveri e arretrati sono condannati al disastro, alla fame e alla violenza.

L'anarchia della produzione e della distribuzione capitalistica ha questo effetto. A posteriori si prendono provvedimenti, ma ciò che succede prima è assolutamente inaspettato, così che la politica economica borghese è una continua e frenetica rincorsa a mettere pezze che provocano più guai di quelli che si sarebbe voluto scongiurare. Gli accordi del Plaza, quelli del Louvre, la Perestroijka, la stessa Guerra del Golfo, sono provvedimenti insieme di rappezzo, di minaccia o di rappresaglia, secondo i casi. Altro che libero mercato.

Note

(15) Il potere contrattuale è stato effettivamente sancito con il Protocollo del 23.7.93 tra Stato, sindacati e Confindustria.

(16) Tutti i testi citati sono disponibili presso di noi.

(17) Per noi comunisti i proletari non hanno nulla da rivendicare in questa società, ma essi, nella vita di fabbrica, avanzano rivendicazioni a salvaguardia delle loro condizioni immediate. D'altronde l'opposizione proletario-capitalista è all'origine della lotta di classe e noi siamo per l'estendersi di essa. Siamo quindi per l'estendersi del rivendicazionismo? Questa apparente contraddizione ha fatto cortocircuitare parecchi cervelli. Alcuni gruppi pongono la lotta sindacale nel loro programma politico. Altri gruppi rifiutano di partecipare alla lotta sindacale in quanto tale. In una ben conosciuta polemica tra Bordiga e Damen la questione è posta in maniera inequivocabile. Bordiga pone una questione di principio: "Senza organismi operai intermedi tra partito e classe non vi è possibilità rivoluzionaria"; noi svolgiamo lavoro sindacale per questo. Damen sostiene invece che è impossibile esercitare qualsiasi influenza sulla vita sindacale e, pur non rinnegando la necessità della lotta economica, ritiene che lo svolgimento rivoluzionario "avverrà attraverso nuovi organismi di massa, consigli di fabbrica [quelli tedeschi degli anni '20], soviet o altro" e non attraverso organismi economici. Marx e Bordiga affrontano la questione dal punto di vista pratico: i risultati sono effimeri, ma con la lotta economica il proletariato si organizza e si abitua all'organizzazione. Damen pone la questione dal punto di vista metafisico: gli organismi politici sono "strutturalmente e politicamente più idonei del sindacato a sentire in concreto, sotto la guida del partito, i problemi del potere". La rivolta economica, dice Marx, ha un'anima universale perché nasce dalla realtà dei rapporti economici, mentre la rivolta politica ha un'anima angusta perché nasce dalla volontà di chi la organizza.

(18) Scienza economica marxista come programma rivoluzionario, ed. Quad. Int. pag. 81.

(19) Saggio di plusvalore = p/v; saggio di profitto = p/(c+v); la contraddizione sta nel fatto che più aumenta la forza produttiva sociale, più diminuisce il saggio di profitto, cioè il parametro di "vitalità" del capitalismo.

(20) Imperialismo e concorrenza militare, opuscolo, Torino, aprile 1983. In ristampa con l'aggiunta di altri testi e con il titolo Guerre stellari e fantaccini terrestri.

(21) Citazione dal Quaderno n. 1, La crisi storica del capitalismo senile. Nel testo era riportato il diagramma degli incrementi percentuali della produzione industriale dei sei paesi più industrializzati. Gli incrementi sempre più bassi e la sincronia crescente fra i paesi fornivano un effetto visivo di perduta vitalità del capitalismo.

(22) Nel secondo dopoguerra ci sono stati ovviamente scontri molto più violenti contro le forze borghesi, con decine di caduti proletari; qui ci si riferisce però alla tensione che incomincia a manifestarsi anche contro l'opportunismo. I "fatti di Piazza Statuto" avvennero nel 1962 durante uno sciopero dei 250.000 metalmeccanici torinesi e la UIL tentò di rompere la lotta con un accordo separato, provocando una manifestazione violentissima sotto la sua sede; dal 7 al 10 luglio vi furono scontri durissimi tra dimostranti e polizia in diversi quartieri con epicentro la grande piazza. Per venti giorni furono arrestati migliaia di dimostranti anche davanti ai cancelli delle fabbriche. La Fiat licenziò per rappresaglia 84 operai provocando una nuova ondata di scioperi.

(23) Cfr. Lettera ai compagni n. 21 cit.

(24) L'allora segretario di Stato degli Stati Uniti Baker dichiarò ad una rete televisiva a diffusione nazionale: "In questo paese non ce ne staremo seduti tranquilli a guardare i paesi in surplus che spediscono in alto i loro tassi d'interesse e schiacciano la crescita dell'economia nel mondo intero". James Baker fu accusato in ambienti economici di aver scatenato una guerra economica contro la Germania. Con quale arma? fu chiesto. "Bombardando la propria moneta" rispose l'economista americano Pierre Rinfret.

(25) Lettera ai compagni n. 22: "Era ora: con il Muro di Berlino crollano miseramente gli avanzi della lunga mistificazione staliniana".

(26) Cfr. Suzanne de Brunhoff, Politica ed economia nella moneta, Moizzi Editore, 1977.

(27) Il testo è "Teoria e azione nella dottrina marxista", aprile 1951, ora in Partito e classe, ediz. Programma comunista.

(28) Diritto di acquistare un titolo a un prezzo definito entro una scadenza stabilita o anche a tempo indeterminato.

Lettere ai compagni