37. Utopia, scienza, azione (5)
Rapporti all'incontro tra compagni e lettori. Roma, 25-27 aprile 1997

Convulsioni di nazioni e classi al margine e al centro del capitalismo europeo nell'età della globalizzazione

Globalizzazione e materialismo storico

Il tronfio linguaggio della borghesia e di coloro che ne predicano ogni novità ha adottato da un po' di tempo a questa parte i termini mondializzazione e globalizzazione per indicare quella complessa rete di legami commerciali, produttivi, finanziari e politici che caratterizzano i rapporti di concorrenza tra imprese, economie, borghesie e stati (con tutto il loro apparato propagandistico, diplomatico e militare) su scala planetaria e che per i marxisti costituisce da sempre, da un lato, il normale svolgersi dello sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici nell'età dell'imperialismo e, dall'altra, una volta aggiuntivi i rapporti tra le classi e tra i diversi modi di produzione, quella monistica interrelazione tra i fatti sociali su scala allargata, nello spazio e nel tempo, su cui si fonda il materialismo storico.

Questo per spazzare subito via qualsiasi elemento di presunta novità con cui si voglia eventualmente confondere un serio lavoro di analisi degli attuali rapporti, contraddittori e conflittuali, per la spartizione del mercato mondiale (ma attenti anche a questa definizione perché questo già esisteva in potenza nel XVII secolo!) tra imperialisti grandi, medi e piccini. Peggio ancora poi se con tali termini si volessero avvallare presunte novità sul terreno dei rapporti tra le classi e nuovi svolgimenti degli stessi all'interno di novissimi ambiti di conflitto.

Ci basti ancora una volta Il Manifesto del Partito Comunista che, nel capitolo Borghesi e Proletari, così affermava:

"La scoperta dell'America, la circumnavigazione dell'Africa crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell'America, gli scambi con le colonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all'industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo all'elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione. (...) La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali.(...) Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti.(...) Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi all'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari.(...) Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi.(...) Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto a quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rurale.(...)La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione e ha concentrato in poche mani la proprietà. Ne è stata conseguenza necessaria la centralizzazione politica" (24).

Geopolitica o aree geostoriche?

Un altro termine tornato in gran voga, dopo decenni di oblio forzato, nel linguaggio giornalistico e politico è invece: Geopolitica.

Con questo termine, nato più o meno negli anni in cui si affermò il moderno imperialismo ovvero a cavallo tra il XIX e il XX secolo, si indica nel linguaggio politico, diplomatico e militare un'area di interessi strategici, sia dal punto di vista economico che militare, vitali per un determinato paese o, per dirla in termini più esatti, capitalismo nazionale.

Inutile ripercorrerne qui la storia e gli artefici, certo è che anche questa visione della dislocazione degli interessi, delle frontiere e delle alleanze nacque planetaria.

Portava ed era in sé, ieri come oggi, manifestazione della necessità di ogni singolo capitale e/o capitalismo nazionale ad espandersi il più possibile, concentrandosi e accentrandosi secondo linee storicamente date e a scapito di tutti i possibili concorrenti. Dal "Filo del Tempo" Il pianeta è piccolo val la pena di citare:

"È di moda una scienza che si dice recente, la Geopolitica. Essa vuole studiare la geografia del pianeta nei suoi incessanti mutamenti per effetto del soggiorno e dell'opera dell'uomo. È un ramo di scienza che ha capito che le leggi dei fatti storici non si scoprono nelle tracce che hanno lasciato nel cervello dell'individuo ma nella fisica reale degli oggetti ponderabili. Americani, russi, tedeschi, se la cucinano secondo gli ordini dei superiori, fanno tuttavia capo ad un maestro che ha scritto intorno al 1919, il geografo inglese Mackinder. 'Oggi - egli scrisse - la carta della terra è completamente disegnata, non vi sono più macchie bianche sul mappamondo. I fattori fisici, economici, politici e militari costituiscono ormai un sistema coordinato'. I borghesi imparano dal marxismo, i pretesi esponenti proletari lo gettano fuori! [evidenziato da noi]" (25).

Talvolta si preferisce il termine Geoeconomia, particolarmente usato in Italia dal brain trust della Fondazione Agnelli, ma poco cambia il significato di fondo e il fine del suo utilizzo.

Anche qui, una volta liberato dagli orpelli inutili e dagli imbellettamenti ideologici borghesi, i marxisti riconoscono, sotto altro termine, un concetto particolarmente importante del loro bagaglio teorico o, per i palati più raffinati, del loro "Dizionario filosofico": si sta parlando delle Aree Geostoriche ovvero di spazi territoriali in cui l'evoluzione delle forze produttive e dei rapporti di produzione che le sottendono ha creato le basi per una trasformazione rivoluzionaria unitaria che travalica gli angusti e meschini spazi e tempi dell'orbata concezione borghese dello stato nazionale.

In Russia e rivoluzione nella teoria marxista troviamo:

"In molte precedenti trattazioni si è usato questo termine di aree, forse insufficiente, ma non se ne vede uno migliore. Area è un concetto solamente geometrico, per misurare una estensione di superficie racchiusa da un contorno; mal si usa come concetto geofisico, e meno che mai geoantropico. Non possiamo tuttavia usare il termine di nazione, perché i nostri campi possono comprendere più nazioni; non possiamo usare il termine di Stato, perché per noi Stato è definito solo per un fattore dal territorio, e per l'altro dai rapporti di classe, oltre che per la stessa ragione che i campi considerati sono anche di più stati. Oggi i diplomatici usano il termine regione nel senso non di parte di uno Stato ma di gruppo di Stati, quando parlano di accordi 'regionali'; ma al termine è troppo legato il senso di 'parte di una nazione'. non è adatto il termine paese, perché si usa per territori sia grandi che piccoli e piccolissimi. Quanto al termine zona, è adatto ad uso geofisico, poco ad uso geopolitico. Seguiteremo dunque ad usare il termine area che gli americani hanno introdotto per designare parti del mondo abitato in cui vige un'economia, una moneta, una influenza politica, se pure l'espressione 'campo storico' spiacerebbe meno. Trattasi infatti ogni volta di collegare un determinato perimetro geografico ad un determinato intervallo cronologico [Quest'ultima evidenziatura è nostra].(...) È chiaro che le aree rivoluzionarie non sono compartimenti stagni: al contrario, se una si muove, anche su postulati sociali suoi propri, scatena in genere moti rivoluzionari in tutte le altre anche se di diverso grado di sviluppo" (26).

Qui, si intenda, si sta parlando di tutti i modi di produzione, di tutte le rivoluzioni che si sono susseguite, anche con modalità e risultati diversi, sul globo terracqueo.

Meschina e ideologica è ancora la visione imperialista della geopolitica, stretta intorno all'interesse nazionale o di una cricca di gangster in doppio petto o divisa mimetica.

Sotto sotto però la vecchia talpa sta scavando e così, anche se le rivoluzioni politiche tardano a venire, si avvicinano territori lontani, si aboliscono barriere superate, si frantumano congreghe, classi e forme di produzione arcaiche e rese obsolete dai fatti, si infrangono idoli e si rovesciano altari cosicché ciò che agli occhi del piccolo borghese può sembrare un'irreparabile sconfitta agli occhi del rivoluzionario brillerà come un segno della futura vittoria.

La concentrazione "storica" del capitalismo

Queste premesse erano necessarie per introdurre la questione dello stato attuale dell'imperialismo mondiale e dei risvolti che le sue contraddizioni cominciano ad avere in aree centrali o prossime ad uno dei suoi centri.

Apparentemente la questione balcanica, così come è andata ridelineandosi a partire dal 1991 fino ai più recenti fatti d'Albania, e le manovre per accelerare o rallentare il processo di unificazione economica europea parrebbero appartenere a sfere diverse, in contatto tra di loro solo per motivi di propaganda o di strumentale fanfara "politichese" ed umanitaria.

In realtà, e questo si cercherà qui di dimostrare, le forze profonde che si muovono alle spalle di ciò sono strettamente intrecciate e destinate a costituire motivo di interesse, questo sì strategico, per i rivoluzionari. A patto, naturalmente, di respingere ogni tipo di paraocchi e di strumentazione non riconducibile all'armamentario marxista.

Per cominciare non si può fare a meno di definire la vasta area geostorica facente perno sull'asse renano ovvero su quella porzione di territorio europeo gravitante da Sud verso Nord sui territori limitrofi al corso del fiume Reno .

Qui, grosso modo dall'Italia centro-settentrionale fino ai Paesi Bassi, dal Mediterraneo al Mare del Nord e al Mar Baltico, tenendo conto non solo dei passi alpini e degli importanti assi di comunicazione trasversale costituiti dalla pianura padana o dai canali che uniscono il Reno al Danubio verso oriente e alla Marna e all'Atlantico verso occidente, ma anche della fitta rete di strade che ancora si snodano lungo gli antichi assi stradali romani, si è sviluppato e pulsa il cuore più antico del capitalismo e allo stesso tempo, tenendo conto della contiguità territoriale tra città e città, tra aree industriali e aree finanziarie e dell'immensa concentrazione di capitali e forza lavoro, si è formata la più vasta megalopoli del pianeta.

Quest'area geostorica che comprende in sé l'asse d'espansione sud-nord dell'impero romano e quello del medioevale Sacro romano impero, le aree di influenza di Genova, Venezia, Firenze e Milano dell'età eroica della borghesia comunale italiana, il territorio del contesissimo stato borgognone, dei centri tessili e mercantili delle Fiandre per cui già si scannarono per cent'anni i re di Francia e d'Inghilterra, le città tedesche della Lega Anseatica e la prima potenza oceanica pienamente borghese (quella dell'Olanda del Seicento), corrisponde grosso modo a ciò che viene comunemente definito come Europa Occidentale. I dati degli inizi degli anni novanta, in una classifica che suddivideva il mondo in dieci grandi pan-regioni (per noi aree geostoriche) ovvero Europa, Russia, Nord-America, America Latina, Brasile, Oceania, Asia orientale, Asia Meridionale, Mondo Islamico e Africa, la davano al primo posto della ricchezza prodotta.

Ciò significava il 33,6% del prodotto mondiale (pari a una media di 6.818 miliardi di dollari annui), contro il 29,5% del Nord America (5.900 miliardi di dollari) e il 20,4% dell'Asia Orientale (4.136 miliardi di dollari): nell'insieme l'83,5% del prodotto mondiale concentrato nei tre blocchi imperialistici che si contendono il pianeta!

Anche dal punto del commercio il primo posto spettava all'Europa poiché questa deteneva (sempre a dati di inizio decennio) il 28% delle esportazioni mondiali contro il 20% dell'area del Pacifico (Giappone, Asia del Sud-Est e Australia) e il 15,5% del Nord America (27).

Per misurare meglio la concentrazione verticale economica e finanziaria che avviene poi in alcune aree chiave del pianeta è stato ideato dall'econometria borghese il gradiente di densità economica che mette in relazione il reddito pro-capite con la densità di popolazione di una certa area, area ancora una volta intesa non come nazione, ma come regione significativa di un continente o di uno stato. Con le dovute cautele tale misuratore può dare qualche significativo risultato. Tenendo conto di tale gradiente possiamo ottenere, considerato che la densità di popolamento sulla faccia della terra varia da oltre 1000 a meno di 1 ab. per km quadrato e che il reddito medio per ab. varia meno di 100 a più di 20.000 dollari, una gamma di variazione di distribuzione di ricchezza enorme. Avremo quindi da meno di 100 dollari per km quadrato per le regioni più povere e meno abitate fino a più di 100 milioni di dollari per km quadrato nelle grandi regioni urbane egemoni.

Le sei regioni urbane di Londra, Parigi, Anversa-Bruxelles, Ramstadt-Holland, Colonia-Ruhr e Milano costituiscono i vertici dell'organizzazione territoriale del cuore dell'Europa con 51 milioni di abitanti, 53.000 km quadrati, quasi 1000 abitanti per km quadrato. Il resto di quest'area forte è costituito da un tessuto connettivo di metropoli minori, regioni di industria diffusa, zone di agricoltura intensiva, zone turistiche. Complessivamente altri 135 milioni di abitanti, ma con una densità sei volte inferiore a quella delle maggiori regioni urbane.

Nelle regioni urbane d'Europa si arriva ad una densità di concentrazione economica pari a 21 milioni e 200 mila dollari per km quadrato e nelle regioni di forte tessuto connettivo a 3 milioni e 200 mila dollari per kmq.

Nell'equivalenti grandi regioni urbane degli USA si arriva ad una densità economica media di 11 milioni e 600 mila dollari per kmq e nelle aree di forte tessuto connettivo a 1 milione e 700 mila dollari per kmq. L'unica area che supera decisamente l'Europa delle grandi regioni urbane dal punto di vista del gradiente di densità economica è quella della megalopoli Tokio - Osaka, che arriva a 39 milioni di dollari per kmq. La scala territoriale è in questo caso però più ridotta.

Sospendiamo qui per ora un'elencazione di dati statistici (si ricordi che risalgono al 1990) che andrebbero comunque ancora aggiornati e ampliati in modo tale da travalicare i limiti di questo rapporto.

Quello che è importante intravedere è come sia verificabile una concentrazione economico-finanziaria che è progressiva e sottomette intere aree del globo a pochissimi centri, che si restringono sostanzialmente a tre e che si restringono a loro volta al loro interno in ristrette aree ben definite in cui finisce per concentrarsi gran parte della ricchezza mondiale.

Pochi dati ancora per intender meglio ciò che seguirà.

Nel 1990 nel mondo vi è stata una produzione complessiva di beni e servizi che è stata misurata in 20.300 miliardi di dollari (leggasi ventimilatrecento miliardi).

Il 16% di questo prodotto mondiale, ovvero 3.200 miliardi di dollari, è stato utilizzato all'esterno dei paesi produttori sotto forma di esportazione. Ne deriva che una gran parte del prodotto è stato consumato internamente.

Se però scindiamo questo prodotto complessivo tra i produttori, possiamo vedere che nel 1990:

- 6.000 miliardi di dollari sono stati prodotti del Nord America (USA e Canada);

- 335 miliardi di dollari nell'area oceanica di Australia e Nuova Zelanda;

- 3.140 miliardi di dollari nell'area dell'estremo oriente (sostanzialmente Giappone e Nuove tigri);

- 6.300 miliardi di dollari in Europa Occidentale;

- complessivamente, su 20.300 miliardi di dollari, 15.775 sono stati prodotti nei paesi dell'OCSE.

Vogliamo vedere ancora più in dettaglio?

- I soli Stati Uniti ne hanno prodotto 5.552 miliardi di dollari, il solo Giappone 2.939 e la sola Germania 1.559.

Se, in fine, volessimo fare i conti con i 3.200 miliardi di dollari di beni e servizi destinati all'esportazione nel 1990, potremmo ancora vedere come circa 1.100 miliardi di dollari siano stati esportati dai "soliti tre", nel seguente ordine: Germania 415 miliardi di dollari di merci esportate, Stati Uniti 394 miliardi di dollari e Giappone con 288 miliardi di dollari di esportazioni.

Fermiamoci qui, ricordando come concentrazione della ricchezza sia anche concentrazione della produzione.

Il "magnete" renano e l'imperialismo mondiale

Non abbiamo ancora sistemato, accanto ai precedenti (tratti principalmente da tre testi di Roberto Mainardi, docente di Geografia all'Università di Milano: Geografia Generale, Geografia Regionale e L'Europa Germanica, tutti editi da La Nuova Italia Scientifica), dati statistici più recenti ma, pur ammettendo qualche cambiamento nell'ordine dei valori esposti, il dato sostanziale rimane: in uno dei cuori del capitalismo mondiale con la riunificazione tedesca (3 ottobre 1990) qualcosa ha iniziato a muoversi e a marciare a passo di corsa. Ma la stessa unificazione è stata a sua volta il prodotto di avvenimenti più o meno lontani e recenti (tendenza all'unificazione dello spazio economico europeo, crollo dei regimi dell'Est) che solo parzialmente si riuscirà in questa occasione a toccare.

Certo è che il baricentro europeo per la terza volta in un secolo torna a spostarsi verso oriente, come la capitale tedesca da Bonn verso Berlino. Questo spostamento dell'asse non costituisce però un fenomeno geofisico, ma geoeconomico.

Per ragioni di tempo non è possibile svolgere in questa sede una più dettagliata relazione sullo sviluppo della storia tedesca e del ruolo che ha avuto in essa e nei paesi limitrofi (soprattutto verso Est) il crescere e il maturare del capitalismo.

Argomento già svolto in altra occasione, sulla traccia dei testi di Marx, Engels e della Sinistra, e tema di un futuro rapporto o lettera.

Certo è che con il ridefinirsi di uno spazio europeo i cui cardini si trovano tra Berlino, i Paesi Bassi, Parigi e la Pianura Padana ci si trova di fronte ad un problema di unificazione politica, economica e militare che già attanagliò Federico II di Svevia, Carlo V, Luigi XIV, Napoleone e Hitler. Sia però chiaro che qui i nomi dei battilocchi sono usati esattamente con segno contrario da quello borghese: non sono le loro belle pensate, o dei loro governi, a decidere del corso degli avvenimenti, ma è quest'ultimo che una volta avviato deve trovare, non importa se in una stirpe reale o in un caporale austriaco, il suo vettore.

Quale fu il problema che attanagliò in modi, forme e tempi diversi questi burattini della storia? Il mantenimento di una rete centralizzata e la compiuta realizzazione di funzioni economiche e politiche unificate tra le aree economiche del Centro Europa con le aree economiche rivierasche (verso l'Atlantico, il Mare del Nord, il Baltico e il Mediterraneo): base essenziale, almeno a partire da Luigi XIV, per controbattere al predominio delle potenze oceaniche (Olanda nel XVII secolo, Inghilterra nel XVIII e XIX secolo e Stati Uniti nel XX).

Corollario comune a tutti questi tentativi di controllo dell'asse est-ovest e nord-sud sul territorio europeo fu quello del superamento del limes romano (sostanzialmente lungo il corso del Reno) che correndo a mo' di frontiera dal Mare del Nord alle Alpi separa "strategicamente" le pianure e gli altipiani del centro dalle rotte di comunicazione atlantiche e del Mediterraneo Occidentale. Ovvero l'asse renano è il cuore dell'antico capitalismo, ma per continuare a prosperare non deve costituire un limite per sé stesso.

Se poi qualcuno pensa che linee aeree e reti informatiche abbiano reso obsoleto il problema, provi a spostar materie prime e manufatti destinati alla produzione lungo le stesse!

Nella Lettera n. 35 è stato affrontato parzialmente il problema del trattato di Maastricht e della sua difficile, se non impossibile, realizzazione poiché tale accordo programmatico sicuramente è scaturito dalle esigenze di vario ordine sopra elencate, ma sembra appunto ancora rispondere più alle esigenze interne di ogni singola nazione del mosaico europeo o a quella più generale di "crescere senza avvantaggiare i soci" piuttosto che a quelle di una centralistica unità di comando e direzione che sostituisca i battilocchi prima citati. Certo le banche centrali, e in particolare la Bundesbank, sembrano più avvicinarsi alla bisogna di quanto non facciano invece i ciarlataneschi organismi politici comunitari (tipo parlamento di Strasburgo), con il loro multiforme pigolio.

D'altra parte se nel 1994 le contrattazioni su valute hanno raggiunto una cifra pari a dieci volte il prodotto mondiale, ovvero 300.000 miliardi di dollari (contro i 2.000 miliardi di dollari del 1970 e i 35.000 miliardi, sempre di dollari del 1984) pari a 900 miliardi al giorno e a venticinque volte il commercio di beni e servizi, ciò vuol dire che obbligatoriamente in età di imperialismo finanziario lo scettro deve passare alle banche centrali. E così mentre si leva il piagnisteo dei borghesucci sulla fine dell'autonomia del politico, i marxisti vedono pienamente confermate le loro tesi sul predominio del capitale finanziario!

Ma allora dal 1916, anno di pubblicazione dell'Imperialismo di Lenin, proprio nulla è cambiato?

Di fatto dal 1919 Wall Street sostituisce la City di Londra come centro di intermediazione finanziaria più importante e dal 1944, con i trattati di Bretton Woods la sterlina viene sostituita dal dollaro come mezzo di scambio e di pagamento internazionale (insomma due guerre mondiali hanno spostato l'asse finanziario mondiale dalla pallida Albione a Uncle Sam).

Gli Stati Uniti uscirono già dalla Prima Guerra Mondiale come principale nazione creditrice.

"Mentre fra il 1870 e il 1913 e poi negli anni Venti i flussi di capitali erano costituiti essenzialmente da fondi privati, dopo la seconda guerra mondiale assunsero un ruolo rilevante gli aiuti ufficiali all'estero. Attraverso il Piano Marshall, gli Stati Uniti dal 1949 al 1952 fornirono all'Europa occidentale aiuti pari al 4,5% del prodotto nazionale lordo USA (per un equivalente, in dollari 1991, di 250 miliardi" (28).

Citiamo ancora dal testo di Mainardi a pag. 212:

"Nel 1913 la Gran Bretagna, potenza egemone dell'economia mondiale, aveva investimenti all'estero di importo superiore ad una annualità del suo PNL, che fruttavano redditi da capitale pari al 9% del reddito nazionale. I redditi da capitale compensavano il deficit della bilancia commerciale". Dall'economista Geminello Alvi prendiamo invece a prestito le seguenti considerazioni: "Nel 1993 il deficit in conto merci degli Stati Uniti ammonta al 2,5% del Prodotto interno lordo; il Regno Unito reggeva nel 1913 un deficit in c/merci pari al 6,7% del suo PNL. Ma mentre i redditieri dell'Isola del Tesoro avevano accumulato nel 1913 un patrimonio di attività sull'estero pari al 158% del prodotto interno lordo, quello USA ammonta ottant'anni dopo solo a poco più del 40% del prodotto interno netto.(...) Gli Stati Uniti sono in effetti, come era una volta il Regno Unito, i più grandi importatori di merci in assoluto del mondo. Ancora come gli inglesi nel 1913, sono la nazione più ricca. Ma in confronto all'Inghilterra di una volta hanno una bilancia dei pagamenti in c/capitali innaturale e attività sull'estero esigue" (29).

Scusate, ma alla faccia del "liberismo trionfante"!

Nel 1981 gli USA erano ancora il principale paese creditore. La posizione creditrice netta era valutata in 141 miliardi di dollari, il 4% del loro PNL. Il reddito da investimenti esteri forniva l'1% del PNL.

In soli cinque anni gli USA diventano debitori netti per un totale di 264 miliardi di dollari nel 1986. Nel 1990 la bilancia dei pagamenti in c/capitale diviene negativa e la posizione debitrice netta sale a 700 miliardi di dollari (pari quell'anno al 15% del PNL). Non era mai accaduto precedentemente che la principale potenza economica fosse anche il principale debitore.

Ogni aumento della vulnerabilità della economia statunitense ad eventi esterni ( maggior competitività, posizioni di vantaggio acquisite, maggior produttività e minor costo della forza lavoro) è destinata a indebolire il ruolo del dollaro sul mercato internazionale. Esso è così sceso da una quota dell'80% al 60% nelle riserve valutarie mondiali, mentre la quota del marco è cresciuta dal 2% al 14% e quello dello yen da quasi zero al 7%.

Ancora da Mainardi:

"Il Giappone è divenuto negli anni ottanta il principale creditore: 220 miliardi di dollari nel 1986, 500 miliardi nel 1990. Lo yen è già la seconda moneta nei mercati internazionali dei capitali. Ma il Giappone è riluttante a favorire un maggior impiego dello yen come valuta internazionale: sono fatturate in yen solo il 40% delle esportazioni giapponesi e un modestissimo 10% delle importazioni. Con il declino (relativo) del dollaro tendono a formarsi tre spazi monetari: il sistema monetario europeo, dominato dal marco (...); la regione Asia-Pacifico; le Americhe" (30).

Ecco a cosa si voleva giungere attraverso l'uso dell'arido dato: la teoria marxista dell'imperialismo non esce minimamente scalfita da un excursus ottantennale. La lotta a coltello per la concentrazione finanziaria rimane, le difficoltà progressive di accumulazione e valorizzazione pure.

Ce lo conferma il francese Alain Minc, dalle pagine del Corriere della sera del 6 novembre 1996:

"Nei prossimi anni ci sarà un conflitto duro ed obiettivo: sarà il conflitto fra il dollaro e l'Euro. La nascita della moneta unica europea sarà il colpo più violento mai portato alla posizione dominante degli Stati Uniti".

Ah!... la Grandeur spesso fa' però dimenticare che è proprio il difficile accordo sul peso e il ruolo delle diverse monete nazionali europee (leggi economie) all'interno della moneta unica a frenare questo colpo formidabile.

Acciaio, monete e spintoni

I diktat di Theo Waigel e della Bundesbank; le lamentatio del governatore della Banca d'Italia, Fazio, quando dichiara davanti al Parlamento europeo (il 25 settembre del 1995) che la difficoltà dell'Europa nel mettere in pratica il trattato di Maastricht sta tutta nel non poter usufruire di un governo centrale unico come quello degli Stati Uniti per un territorio di pari dimensioni, ma con quasi 300 milioni di abitanti; tutto conferma ciò che per la Sinistra è sempre stato chiarissimo: la rigida centralizzazione economica e politica è una necessità ineludibile per il capitalismo.

E allora avanti con le manovre sui tassi d'interesse, con gli spintoni per non rimanere fuori dal pranzo di gala... ma con l'attenzione a far fare brutta figura al vicino di tavolata, affinché sia cacciato o se ne vada spontaneamente, come nella migliore tradizione di Versailles!

Ma questo capitale concentrato, centralizzato, accumulato deve tornare ad essere quello che è nella sua più intima essenza: valore in processo. Ovvero non può fermarsi mai, può magari tentare gli escamotage della speculazione finanziaria, ma più il denaro, non trovando via d'uscita alla valorizzazione nel processo di produzione, diventa capitale in sé più avvicina i tempi della sua scomparsa. Deve quindi trovare e ritrovare i tempi, i modi e le forme della propria valorizzazione .

Il drammaturgo Yukio Mishima, nella sua opera teatrale Il mio amico Hitler, fa dire a Gustav Krupp:

"(...) la ditta Krupp non è guidata dalla volontà del suo presidente, agisce in ossequio alla volontà dell'acciaio, ai desideri dell'acciaio, al sogno - mi ascolti bene - concepito dall'acciaio.(...) La famiglia Krupp deve realizzare a qualsiasi costo i sogni dell'acciaio" (31).

Sua maestà l'acciaio si intitola un "Filo del Tempo", in cui questo frutto della fusione di minerali né rari né nobili è preso come parametro e motore dello sviluppo del capitalismo e delle contraddizioni tra gli imperialismi.

Questo moto vorticoso del capitale, nel suo tentativo di trovare nuovi impulsi alla propria valorizzazione e sbocchi commerciali ai risultati dei processi di produzione però non causa solo movimenti, cambiamenti e contraddizioni ai suoi vertici e nel suo centro, ma anche alla sua periferia e, per forza di cose se no non saremo qui a discuterne, tra le compagini di coloro che col proprio lavoro tale valorizzazione devono trasfondere al capitale stesso. Ciò che succede ed è successo in tal senso nel cuore o ai margini del magnete renano ci servirà ancora d'esempio e schema d'interpretazione.

Regioni economiche ed egemonia tedesca

Walter Christaller è il nome di un geografo tedesco che a partire dai primi anni trenta, con un'opera intitolata Le località centrali della Germania meridionale (32), diede impulso ad una particolare branca della geografia detta funzionale. Tale scienza studia il territorio a partire dalla capacità di attrazione che alcune aree centrali, di solito centri urbani grandi e medi, hanno sul territorio circostante in qualità di polarizzatori delle attività economiche e amministrative. Da questo punto di vista lo spazio geografico diventa un tessuto più o meno intricato di aree che si influenzano reciprocamente tra di loro, subendo ora il maggior peso funzionale di alcuni centri oppure entrando in competizione per affermare la propria centralità. È una visione che presuppone un certo grado di urbanizzazione e non è un caso che il "case study" iniziale fosse basato su un area particolarmente inurbata come quella della Germania meridionale.

Non si tema: non ci si è innamorati del Calendario Atlante della De Agostini, né si sta facendo accademia. Né, tanto meno, ci interessa far le pulci a Christaller per capire se fosse o meno pan-germanista.

Quello che ai marxisti è dato di cogliere nello studio funzionale degli insediamenti urbani è che la centralizzazione economica e politica del capitalismo è materialmente verificabile sul territorio, non solo attraverso le frontiere nazionali, ma al di qua e al di là delle stesse, attraverso l'influenza che poli finanziari e industriali di diverso ordine gerarchico hanno sulle aree circostanti su dimensioni che vanno dalle poche decine di km percorsi quotidianamente dai lavoratori pendolari o dai "frontalieri" fino ai 100 mila km quadrati su cui si esercita oggi, in media, l'influenza delle metropoli più importanti. Non è forse una magnifica riprova di ciò che si diceva all'inizio attraverso le pagine del Manifesto del Partito Comunista?

La scienza geografica ha già dovuto prender atto di ciò di cui la visione politica nazionalista e piccolo borghese si rifiuta di discutere. I concetti di Regione (nel senso illustrato prima dalle citazioni dal "Filo del Tempo") e di Pan-regione, scavalcando i tabù localistici e nazionalistici, pongono all'ordine del giorno la fine di relazioni sociali basate sull'idea dello Stato nazionale o, ancor peggio, dell'etnia e rivelano più trasparentemente che sono i modi e i rapporti di produzione a determinare le forme di organizzazione e di aggregazione delle società.

Proviamo ora a trasferire questa impostazione "geografica" sulla carta dell'Europa continentale e proviamo ad immaginare i rapporti di conflitto tra economie e classi che si intrecciano o potrebbero intrecciarsi all'interno di un tale reticolo di reciproche influenze e attrazioni.

Quando Budapest era la seconda capitale dell'Impero Austro-Ungarico esercitava la propria attrazione su un'area di circa 130 mila kmq. Si parla della fine del secolo scorso.

Si immagini oggi, senza toccare qui il problema delle reti telematiche e delle "autostrade" informatiche, quale possa essere l'area di attrazione non di città come Berlino, Francoforte, Amburgo, Amsterdam, Parigi o Milano sulle aree limitrofe, ma dell'intero territorio racchiuso e compreso tra questi poli e il resto del continente. Si stabilisca un'immaginaria linea che, dopo i fatti del 1989 e la riunificazione tedesca, delimiti verso oriente quest'area: inizia da Amburgo-Lubecca, scende verso Berlino, prosegue toccando Praga, Budapest, Vienna e Trieste. Last but not least, non si dimentichi l'elevatissimo tasso di urbanizzazione e inurbamento presente a occidente di questa linea.

Le domande da formulare a questo punto sono due.

I) È o non è lecito parlare di area periferica, ma non distaccata, a proposito del territorio europeo che si estende oltre questa linea verso oriente fino ai confini dell'ex-URSS e verso sud nei Balcani?

II) La ripresa delle "guerre balcaniche", a cui si è assistito a partire dal 1991, è da considerarsi un prodotto della storia locale e delle manovre di un super-imperialismo oppure le secessioni, gli scontri militari, gli schieramenti sul campo e, fin ultimo, i fatti di Albania non sono altro che la risposta in superficie dei profondi movimenti tellurici che in campo economico e finanziario si sono trasmessi dal centro del capitalismo verso la sua periferia?

Se la risposta corretta alla prima domanda è sì e se per l'altra è corretta la seconda ipotesi, che senso ha allora una parola d'ordine come: "Fuori l'imperialismo dai Balcani"?!

Chi la propone oggi, pur magari proclamandosi marxista, non ha letto nemmeno l'ABC di nonno Lenin che, sempre in quel testo del 1916, già affermava:

"(...) la politica coloniale dei paesi capitalistici ha condotto a termine l'arraffamento di terre non occupate sul nostro pianeta. Il mondo per la prima volta appare completamente ripartito, sicché in avvenire sarà possibile soltanto una nuova spartizione, cioè il passaggio da un padrone a un altro" (33).

Ciò perché, sempre secondo Lenin, è in atto:

"la tendenza del capitale finanziario ad allargare il proprio territorio economico, e anche il proprio territorio in generale" (34).

In fine, per evitare qualsiasi mistificazione, precisa ancora:

"È caratteristica dell'imperialismo appunto la sua smania non soltanto di conquistare territori agrari, ma di metter mano anche su paesi fortemente industriali, giacché in primo luogo il fatto che la terra è già spartita costringe, quando è in corso una nuova spartizione, ad allungare le mani su paesi di qualsiasi genere, e, in secondo luogo, per l'imperialismo è la gara di alcune grandi potenze in lotta per l'egemonia, cioè per la conquista di terre, diretta non tanto al proprio beneficio quanto a indebolire l'avversario e a minare la sua egemonia" (35).

Costituiranno il tema di un prossimo lavoro, i cui risultati sono stati già presentati ai compagni di Torino, gli investimenti occidentali e, in particolare, tedeschi nell'Europa Centro Orientale e Balcanica; per ora basti osservare che dal 1936 al 1986 la Germania è stata il principale partner commerciale di Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia (solo in quest'ultimo caso, e solo per il 1936, fu seconda alla Gran Bretagna), mentre dopo il 1990 ne è diventato il primo partner commerciale in assoluto (36). I dati già raccolti confermano questo trend anche per gli altri paesi dell'Europa Orientale e Balcanica. Tranne che per l'Albania dove il primo partner commerciale e primo paese investitore è l'Italietta...

Allora: quale sarà la potenza egemone in quest'area "periferica"?

E che appetiti può avere il capitale finanziario internazionale nei confronti di una città come Budapest, in cui si concentra più del 30% dell'intera popolazione dell'Ungheria?

E se, infine, si scopre che già nel 23 dopo Cristo, per chiudere il centro dell'Europa ed isolarlo dal mare, 8 legioni erano schierate sul Reno e 5 tra la pianura pannonica (l'attuale Ungheria) e il basso corso del Danubio, cosa si può pensare dello schieramento di truppe "occidentali" che si sta srotolando tra la Bosnia e l'Albania?

Non c'è scampo: i kalashnikov hanno recitato le loro nenie e le eliche del Vittorio Veneto hanno arato i fondali della rada di Valona per pulsazioni che giungono, da quell'antico cuore del capitalismo di cui all'inizio si parlava, attraverso le arterie che pompano denaro di privati e di stati, tutti ugualmente a caccia di nuove occasioni e di migliori condizioni di investimento. L'Imperialismo del 1916 serve ancora nel 1997.

Siamo al fotofinish? Per quanto riguarda le convulsioni della periferia e dell'imperialismo di "italica stirpe", al momento, sì.

Per quanto riguarda le "conseguenze" di tutto ciò per il proletariato e i comunisti, non ancora.

Unificazione monetaria e classi sociali

Se le aree "periferiche" sono destinate in qualche modo ad essere contemporaneamente attratte nel vortice dell'attività finanziaria di quelle "centrali" e ad essere il campo di gioco momentaneo per una partita di ripartizione delle risorse, della ricchezza e delle posizioni di forza di nemici che non si sono ancora apertamente dichiarati come tali, al centro la vasta opera di risistemazione della spesa, ridestinazione degli investimenti e ridefinizione delle priorità degli Stati comincia a sua volta a rianimare il corpo sociale.

Uno dei prerequisiti dati per fondamentali per la ripresa di un ciclo di lotte di classe, ovvero la rovina delle mezze classi pare si sia decisamente avviato.

Se gli Stati europei, sia come alleati tra di loro che come reciproci concorrenti, devono avviare un programma di ristrutturazione delle loro attività, porre le basi per una ripresa della competitività e della modernizzazione dei loro cicli produttivi, destinare fondi e attenzione alla riorganizzazione dei propri apparati militari, ciò deve per forza riflettersi in un peggioramento delle condizioni di esistenza delle mezze classi.

Nella miglior tradizione keynesiana occorre ridurre il risparmio privato, obbligarlo a tornare sui mercati sotto forma di investimenti borsistici a rischio o sotto forma di semplice acquisto di merci e servizi. Il ribassamento del tasso di sconto richiesto continuamente dagli imprenditori per una ripresa degli investimenti industriali è inversamente proporzionale all'interesse che i piccoli e medi e risparmiatori hanno al mantenimento di alti tassi che garantiscano i loro depositi. Il taglio delle pensioni baby o di "anzianità limitata" ritrasforma impiegati statali e operai qualificati che già si credevano al sicuro con pensione e, magari, secondo lavoro, in semplici proletari con poche o nulle riserve.

L'ingresso dell'automazione e dell'elettronica in ogni settore dei servizi e delle attività amministrative riduce il numero dei dipendenti necessari e riconduce quelli che non perdono il posto allo svolgimento di operazioni dalla disciplina e tempistica sempre più simili a quelle della fabbrica.

Il "travet", ma talvolta anche l'aspirante manager, si guarda allo specchio e si riconosce, volente o nolente, proletario.

Da qui gli strepiti, le proteste, i tentativi di mantenere il proprio status, per non cadere nella bolgia della classe da cui si pensava di essersi per sempre distinti.

Le forme della protesta in questo caso sono varie, cieche, spesso nazionalistiche o localistiche: dalla serrata dei piccoli commercianti, alle marce generiche dei pensionati, alle proteste contro gli immigrati o contro le mafie.

Queste lotte e le forme organizzative che potrebbero assumere possono essere sintomatiche, come lo fu il movimento dannunziano nel primo dopoguerra, ma non surrogare un autentico scontro tra le classi.

In un recente articolo pubblicato sulla rivista Il Mulino, Giulio Tremonti ha affermato che con la globalizzazione: "la povertà dell'Est è entrata nelle buste paga dell'Ovest" (37). Per la classe operaia europea l'affermazione ha un fondo di verità, nel senso che si cominciano a far sentire non solo i colpi delle ristrutturazioni tecnologiche e produttive delle aziende (riduzione dei posti di lavoro, maggior flessibilità), ma anche le condizioni di lavoro e di vita del proletariato cominciano ad uniformarsi in tutto il continente.

Si è detto: iniziano e non che già sono.

Le risposte sono ancora frammentarie e arcaiche.

Sono di difesa del posto di lavoro, di rivendicazione di legalismi e diritti (come quello al lavoro appunto) che il capitale sembra inventare apposta per poi spazzar via come fole, quali in effetti sono.

Eppure quando tra il Belgio e la Ruhr, come in quest'ultimo periodo, riprendono le manifestazioni a componente operaia, con scontri di piazza, oppure timidamente la classe cerca di riconquistarsi uno spazio di espressione al di fuori di quelli rappresentati dall'intermediazione sindacale o della rappresentanza politica parlamentare, il campanello della lotta di classe può tornare a trillare.

Non a caso sono qui citati Belgio e Ruhr, si sarebbe potuto citare forse qualche altro episodio: ma lì si è, per parafrasare un romanziere americano "nel cuore del cuore del continente" (38).

Un continente in cui la classe operaia, numerosa come in nessuna altra area, è stata divisa, dal dopoguerra fino a pochi anni fa, non solo dai confini delle nazioni ma anche dalla divisione fittizia tra Est e Ovest.

Una classe operaia, quella europea, che soprattutto al centro del continente ha richiesto, con un capitalismo memore del primo dopoguerra, la presenza di corpi d'armata russi e americani per il suo controllo, oltre a quelli già disponibili presso tutti i governi "democratici".

Una classe operaia che, anche nelle condizioni di più stretta dipendenza all'opportunismo e allo stalinismo, da Mirafiori nel 1969, a Flins nel 1968, a Budapest nel 1956, a Berlino Est nel 1953, a Danzica, Stettino e Varsavia tra il 1970 e il 1980, ha saputo dare prove di irriducibile combattività.

In una possibile ripresa della lotta di classe, ciò che gioca a favore del proletariato europeo è la sua concentrazione, la sua vicinanza che potrebbe trasformarsi, come in altri periodi, in un fattore di rapida propagazione delle lotte e dell'organizzazione. E ciò che importa anche per i proletari dei continenti vicini è che un gran numero di immigrati dal Vicino Oriente, dal sub-continente indiano, dall'Africa e dalle aree più disastrate dell'Est potrebbe trarre una preziosa lezione dal contatto con tali eventuali esperienze. E riportarle a casa propria.

E allora avanti signori governatori delle banche centrali, avanti tecnocrati, avanti unificatori d'Europa, a colpi di trattati o di cannone fa lo stesso! Fate il vostro dovere: tagliate, abbattete, riunite e concentrate!

Riappropriatevi anche del piatto di lenticchie con cui per decenni avete comperato la pace sociale! Contribuite ad abolire i residui di classi divenute obsolete che per decenni hanno strenuamente difeso la propria esistenza attraverso la salvaguardia dei vostri governi!

Fate il vostro dovere: unificate la classe operaia mondiale e contribuite a preparare le condizioni per la scomparsa definitiva del capitalismo e della schiavitù salariale.

Note

(24) K. Marx - F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, ed. Oscar Mondadori, pp.101-106.

(25) A. Bordiga, "Il pianeta è piccolo", ora in O rivoluzione o guerra, Quaderni Internazionalisti, pp. 96-97.

(26) A. Bordiga, Russia e rivoluzione nella teoria marxista, ed. Il Programma Comunista, pp. 40-41.

(27) A conferma dei processi storici di centralizzazione e sviluppo delle economie, occorre tener presente che già nel 1937 Europa continentale, Inghilterra, Stati Uniti e Giappone rappresentavano insieme il 62% di tutte le importazioni mondiali e il 54% di tutte le esportazioni. Cfr. League of Nations-Economic Intelligence Service, The Network of World Trade. A Companion Volume to "Europe's Trade", Génève 1942, pp. 27-28 citato in L. Paggi, Un secolo spezzato. La politica e le guerre, in '900 I tempi della storia, Donzelli 1997, pag. 89.

(28) R. Mainardi, Geografia generale, ed. La Nuova Italia, 1995, pag. 206.

(29) G. Alvi, L'economia internazionale oggi: i conti esteri negli USA e il bilancio storico, Associazione Borsisti Marco Fano, Roma 1996, citato in D. Archibugi - G. Imperatori, Economia globale e innovazione, Donzelli 1997, pag. 25.

(30) R. Mainardi, op. cit. pag. 212.

(31) Y. Mishima, Il mio amico Hitler, Guanda 1983, pag. 29.

(32) L'edizione italiana del libro, basata su una successiva revisione del testo, è uscita presso l'editore Franco Angeli nel 1980.

(33) Lenin, L'imperialismo fase suprema del capitalismo, Edizioni Rinascita, 1948, pag. 73.

(34) Lenin, op. cit. pag. 79.

(35) Lenin, op. cit. pag. 86.

(36) Si confrontino a questo proposito i dati espressi nelle tabelle presenti alle pagg. 655 e 656 di T. Garton Ash, In nome dell'Europa, Mondadori, 1994.

(37) G. Tremonti, La guerra "civile", Il Mulino n° 5, settembre/ottobre 1996, pag. 850.

(38) W. H. Gass, Nel cuore del cuore del paese, Einaudi 1980.

Lettere ai compagni