38. Padania e dintorni (4)
Le manifestazioni politiche della piccola e media borghesia sulla spinta della riorganizzazione incessante del capitale

Le manifestazioni politiche odierne degli strati sociali di mezzo in Italia

Siccome vogliamo qui parlare soprattutto del fenomeno leghista, dovremo trattare il contesto padano in funzione del nostro obiettivo principale, anche se sarebbe interessante occuparci dell'intero arco sociale che rappresenta le spinte materiali subìte dalla piccola e media borghesia. Troviamo per esempio molto significativo l'attuale assetto parlamentare, che non corrisponde a nessuno schema che si possa disegnare con la teoria degli insiemi. Così come troviamo significativo lo schieramento di governo, il cui presidente del consiglio è l'incarnazione vivente del connubio fra il capitalismo padano-emiliano e quello social-nazionale, erede legittimo del fascismo sconfitto militarmente ma politicamente vittorioso. L'utilizzo socialdemocratico del governo da parte del gran partito corporativo della Padania rosé sarà quindi un argomento appena sfiorato, anche se il fenomeno esce abbondantemente dai confini padani.

Ormai della socialdemocrazia sappiamo tutto, dal suo tradimento storico nei confronti del movimento rivoluzionario, alle sue oggettive e soggettive responsabilità controrivoluzionarie. Oggettive, perché il fascismo, che dalla socialdemocrazia e dall'anarco-sindacalismo scaturisce, diventa il conseguente realizzatore dialettico di tutte le istanze riformiste; soggettive, perché i socialdemocratici, massacrando direttamente i proletari o disarmandoli politicamente, liberano la strada all'ascesa della controrivoluzione "fascista". Del resto il panorama europeo attuale è di per sé illuminante: la socialdemocrazia storica si è identificata in tutto e per tutto con la borghesia, abbandonando ogni parvenza della vecchia demagogia classista. E' al governo dappertutto e sta sbrigando per il Capitale compiti per i quali le destre, messe alla prova, si erano rivelate insufficienti, soprattutto per quanto riguarda la maledetta pace sociale.

Non insisteremo quindi sull'intossicazione democratica indotta in questo momento dal moderno fascismo europeo. Occorre però sottolineare che l'intermedismo di tipo "emiliano", legato allo sviluppo del piccolo industrialismo democratico e corporativo è il migliore alleato del grande capitale e dello Stato che lo rappresenta. Il suo sviluppo politico seguirà gli aspetti "sociali" che già furono tipici della politica fascista: sindacalismo interclassista, democrazia economica, antimonopolismo e, nello stesso tempo, alleanza con i grandi monopoli contro gli eventuali contestatori dell'ordine capitalistico consolidato. Insomma, difesa ad oltranza del cosiddetto Stato di diritto in funzione delle esigenze del Capitale contro quelle dei singoli capitalisti.

Tutto ciò non può che far esplodere contraddizioni, come nel caso del capitalista Berlusconi che si trova spinto a capo di uno strano movimento da lui evocato ma che evidentemente era nell'aria da tempo. Il fenomeno, che infiammò d'indignazione il cuore politico dello schieramento rosé, è l'altra faccia della medaglia leghista e non è spiegabile solo con l'intervento di Berlusconi in politica. Da una parte, non è materialisticamente sufficiente la spiegazione del ricorso alla televisione e ai soldi per la nascita di un partito che nel giro di due mesi si riempie di iscritti, raccoglie transfughi e prende la maggioranza dei voti alle elezioni. Dall'altra, il "fascismo" di Berlusconi non è materialisticamente sufficiente per spiegare come e perché forze politiche e sindacali che erano appena state prese a pietrate, bulloni e sputi dalle piazze inferocite, riuscissero a mobilitare le stesse piazze contro il nemico "fascista" e a loro favore. Tra una protesta in difesa delle pensioni minacciate, un 25 Aprile e un Primo Maggio, tali forze portarono in piazza tra i dieci e i quindici milioni di persone per volta.

Ibrido spontaneo senza troppa ingegneria genetica

Il capolavoro del Capitale è quello di saper utilizzare anche i proletari ai propri fini, ma il capolavoro della storia analizzata marxisticamente è quello di utilizzare il Capitale per la distruzione di sé stesso. Questa entità, ormai impersonale e anazionale dai tempi di Marx, non poteva sopportare incursioni di neoliberisti pasticcioni, di anacronistici capitalisti che parlano ancora in prima persona come se il capitale che hanno in tasca fosse figlio loro. Non a caso negli Stati Uniti, in Francia e in altri paesi i supermiliardari e i possessori di imperi televisivi avevano clamorosamente fatto fiasco in politica puntando sulla loro stessa persona. Nessuno di costoro poteva capire che possono esservi alti e bassi, ma il processo capitalistico è quello che porta alla massima socializzazione del lavoro e della produzione, e che quindi la persona del capitalista è morta da tempo come funzione sociale, così come è morto da tempo il capitale individuale, ridotto a mera frazione del capitale totale.

Il corporativismo, storicamente sicuro di sé, si era "svegliato una mattina trovando l'invasor" e non l'aveva digerito affatto. Questa volta non era il micidiale Tedesco ma un ometto che con un po' di soldi, un po' di fortuna, molto cemento e moltissimi intrallazzi politici, era riuscito a mettere insieme un razionale sistema di debiti che gli aveva permesso di capeggiare un impero finanziario. Su questo aveva fondato un impero mediatico parallelo ed ora era stato catapultato, chissà sull'onda di quali forze, al vertice del governo italiano (50). Per di più c'era riuscito alleandosi con i fascisti, con i leghisti e con un estemporaneo codazzo di radicali, cattolici e aspiranti politici.

Al canto di Bella ciao e con la discesa in campo di tutti gli orpelli resistenziali rispolverati per l'occasione, la piazza aveva protestato contro l'intrusione dell'atipico personaggio. Ma Berlusconi, che la piazza definiva "fascista", era stato democraticamente eletto dal popolo in quanto "liberale" prendendo persino un sacco di voti nelle cittadelle operaie del Nord. Tuttavia liberale non era proprio, dato che era figlio di un sistema finanziario selvaggio in fornicazione continua col potere statale antiliberista. Più che dalla piazza e dal "ribaltone" leghista, l'incauto Berlusconi fu sconfitto dalle contraddizioni che egli stesso rappresentava.

Non per nulla divenne prigioniero della sua stessa politica, che d'altronde ben rispecchia queste contraddizioni: come individuo, figlio sedicente liberale del capitalismo statale, è attratto dai due estremi statalisti e corporativi rappresentati da Fini e D'Alema; come capo di un partito delle classi di mezzo è attratto dalla Lega e dal suo populismo. Tutti i numeri dei giochi elettorali possibili gravitano intorno a questa doppiezza di Forza Italia e del suo capo. Lo strepitoso ingresso in politica di quest'ultimo e il suo trionfale assalto al governo non poteva che finire nella strepitosa caduta del '96: non poteva essere alleato degli ex fascisti, fare pateracchi con gli ex comunisti e nello stesso tempo stare a capo di un partito piccolo-borghese senza tenere in considerazione la vera forza piccolo-borghese che aveva con sé nella coalizione di governo.

Non poteva che cadere: Forza Italia è un partito artificioso, costruito più sul vuoto elettorale lasciato dai partiti della cosiddetta Prima Repubblica che su solide rappresentanze sociali. L'ascesa improvvisa di Berlusconi e l'affermarsi del "suo" partito era da leggere non tanto in chiave di politica liberale, che sarebbe stata del tutto anacronistica, ma in chiave piccolo-borghese, una classe che abbina la sua anarchia con il masochismo della sottommissione al capo. Il colore del nuovo partito non era stabilito dalla volontà del suo leader capitalista, ma dai voti che egli aveva preso per vincere. La Lega, sottovalutata come il parente povero del proverbio, era invece un partito che si presentava qual era, quindi in grado di avere una compagine meno sensibile alle oscillazioni della politica immediata. E in grado anche di vendicarsi. Qui stava la sua superiorità politica, e solo in quell'ottica, non nelle estemporanee dichiarazioni, si poteva leggere la forza di Bossi per metterla a confronto con la debolezza di Berlusconi. Nonostante la rozzezza antitelevisiva del primo e la patinata sicurezza fotogenica del secondo, è il primo che ha forza reale, mentre il secondo è un riflesso. Non per nulla Bossi può ostentare una pazienza (qualità rara in tempi come questi, in cui sono impazienti persino certi pretesi rappresentanti della società futura che giocano con il comunismo) che il secondo non può permettersi.

Superiorità del barbaro

L'appello elettorale del Berlusconi prima maniera era pieno di buon senso come la pubblicità di un detersivo, mentre quello della Lega aveva solo risvolti distruttivi. Berlusconi si era rivolto "ai cinque milioni di imprenditori", che in realtà erano in maggioranza titolari di disastrate partite IVA, mentre Bossi inveiva contro Roma Ladrona che i suoi sentivano proprio come tale. La promessa di Berlusconi era per "un milione di nuovi posti di lavoro", che per non essere pura fantasia, si sarebbero potuti ottenere solo portando le partite IVA dei sedicenti imprenditori a quattro milioni e spingendo, per decreto statale, gli ex giovani "imprenditori" verso i contratti di formazione, il part-time, i lavori socialmente utili, le attività no-profit, insomma, verso quel sistema ovattato che fa parte del ben collaudato Stato assistenziale e centralizzatore, con il quale hanno più dimestichezza Prodi e D'Alema. Bossi al contrario voleva la distruzione di quel sistema e non pensava affatto ai disoccupati e alla macroeconomia, dato che i suoi sponsor non trovavano un fresatore disoccupato a pagarlo oro e i fresatori occupati che votavano Lega si occupavano di cose più terrene. Bossi non doveva far altro che attendere, indipendentemente da ciò che poteva ottenere in parlamento. Per questo ottenne moltissimo: perché il vero movimento complessivo della piccola borghesia si era manifestato con la vittoria del Polo berlusconiano in cui l'elemento estraneo non era il leghista Bossi ma l'ex fascista Fini. Non aveva vinto una coalizione piuttosto artificiosa, ma un partito piccolo-borghese molto reale. Se si volesse tracciare il limite degli insiemi coerenti, bisognerebbe tagliar fuori dal polo di "destra" sia Berlusconi che Fini, ricollocarli con Prodi e lasciare alla Lega tutto lo spazio disponibile con l'elettorato di Forza Italia e di Alleanza Nazionale.

La prova che forze materiali dovevano necessariamente avere il sopravvento e far emergere tra le due tendenze il tentativo teorico di autogiustificazione del movimento piccolo borghese autonomistico, sta nello specifico comportamento dei rispettivi battilocchi: mentre l'abilità politica di Berlusconi si manifestava nell'assecondare e incanalare l'esistente, l'abilità di Bossi si manifestava nell'impersonare in qualche modo l'andamento futuro dei sintomi di malessere.

Anche se la Lega dovesse avere meno voti e meno parlamentari, anche se addirittura fosse spazzata via con una campagna denigratoria, giudiziaria o altro, sarà sostituita da forze analoghe. Forza Italia rappresenta per ora, tra i due, il movimento che per la sua composizione ha avuto un consenso elettorale più vasto; Berlusconi ha avuto più attenzione da parte dei media quando è andato al governo (ovvio, in parte erano suoi), ma è stato fagocitato dal cretinismo parlamentare e si è obiettivamente alleato con le forze del corporativismo imperante, quindi non può né inglobare le forze rappresentate dalla Lega né vincerle e distruggerle incamerandone i voti. Bossi si è dimostrato invece un buon politico che sa anticipare i tempi, perché qualunque cosa succeda, le classi intermedie non potranno che esprimere una forza intermedia; essa dovrà rimanere distinta dalle forze di "destra" e di "sinistra", poiché, essendo entrambe eredi del capitalismo di stato, sono di fatto propugnatrici di quella politica.

Cinque o sei anni fa la Lega era praticamente inesistente. La sua marcia verso la "visibilità" pubblica e ufficiale è stata lunga; le sue teorie autogiustificanti non sono state inventate in tre mesi ma si sono formate nel tempo a partire da un disagio elementare diffuso. Mentre Berlusconi ha avuto un'ascesa fulminante al parlamento e alla presidenza del consiglio utilizzando in seguito quel trampolino per una diramazione verso il basso, la formazione della Lega, non a caso, è avvenuta invece a partire dal basso: per questo ha una base militante.

Scena delle rappresentanze non proletarie

La Lega è venuta alla ribalta politica molto tempo dopo che i suoi militanti avevano iniziato l'attività politica. E' risultata politicamente "visibile" in occasione di elezioni amministrative locali e solo tardi è riuscita ad assumere veste di partito vero e proprio. L'ingenuità infantile, poi riconosciuta da Bossi, moltiplicò il successo apparente tramite l'alleanza con Forza Italia, che permise un exploit governativo senza precedenti con la conquista di vari ministeri chiave e la presidenza della Camera, ma che segnò anche la fine del suo ciclo parlamentare allineato alle forze politiche esistenti. La Lega sopravviverà solo nella misura in cui rimarrà diversa da ogni altra forza politica. Ma ciò, e Bossi l'ha capito, significa crearsi tanti nemici.

Il tentativo di omologare le istanze leghiste è nato con la Lega come partito. Un grande capitalista come Agnelli preferisce senz'altro che si parli finché si vuole di federalismo e secessionismo ma che si faccia molto sulla base dei vecchi e consolidati binari sindacal-corporativi e statalisti che tanta soddisfazione gli hanno dato. In quest'ottica la fondazione Agnelli si diede da fare, in passato, per disegnare mappe regionalistiche da dare in pasto al "dibattito". Purché non venga meno il meccanismo di redistribuzione del reddito (plusvalore) che garantisce la vendita delle automobili e del resto. Tanto per fare un esempio, solo il decreto di rottamazione, grazioso regalo alla Fiat al quale nessun partito come la Lega avrebbe potuto pensare, vale qualcosa come il 20% dell'aumento del PIL di quest'anno. Niente male.

Di fronte alla situazione economica internazionale, questa alleanza d'acciaio tra la grande borghesia e una parte delle classi intermedie ha dato frutti non indifferenti. Nessun governo di "destra" avrebbe potuto abbassare la media dei salari reali, introdurre leggi liberalizzatrici del mercato del lavoro, ridimensionare le pensioni, ma soprattutto rastrellare dalla società un terzo del prodotto interno lordo in tre o quattro anni e redistribuirlo a sostegno dell'economia (51). Guardiamo agli atteggiamenti molto significativi dei capitalisti che rappresentano le categorie: Agnelli, grande capitalista, plaude al governo, mentre Fossa, rappresentante di tutti, quindi anche di una considerevole massa di piccoli e medi industriali, continua a lamentarsi. Ma di che cosa si lamenta, se tutti gli indicatori principali dell'economia capitalistica segnano punti per i capitalisti e per il migliore dei loro governi possibili? Sta di fatto che Fossa è il portavoce dell'istinto di conservazione di quella massa; egli sa che il piccolo industriale si agita perché ha paura della politica statale favorevole alla concentrazione capitalistica. Il processo è sotto i suoi occhi: non passa giorno che non ci siano fusioni, grandi ristrutturazioni organizzative, interventi di quantità di capitali da far rabbrividire i piccoli industriali senza accesso al grande mondo globale della finanza privata e pubblica. Il tutto concertato fra le "parti sociali", da cui il piccolo capitalista è assolutamente escluso.

Fossa naturalmente sbaglia sapendo di sbagliare ma non potendo fare altro che dichiarare quel che dichiara. Lo Stato non può eliminare del tutto meccanismi redistributivi e quindi utili alla produzione. La Cassa per il Mezzogiorno sarà stata eliminata, ma dovrà essere sostituita da qualche altro meccanismo di intervento se non si vuole che inizi una spirale di rivolta al Sud. Le varie mafie, che si sono arricchite a lato di simili strumenti, non influiscono sul discorso generale per la semplice ragione che ogni mafia moderna è funzionale alla ricollocazione del surplus. Quando non c'è valore da distribuire non può esistere chi vive esclusivamente sulla sua "rapina". Ma proprio a causa della loro ineluttabilità i meccanismi redistributivi provocheranno sintomi di ribellione nei loro confronti. La tendenza piccolo e medio borghese rosé deve quindi necessariamente entrare in conflitto con l'altra tendenza piccolo e medio borghese che, innalzata dagli eventi a paladina di interessi minacciati, diventa (per quel che possono contare gli aggettivi) populista, e quindi un po' casinista.

Tra l'altro è dimostrato, sia in modo empirico che con simulazioni econometriche, che i meccanismi redistributivi e di sostegno alla produzione (detti anche keynesiani) sono altamente entropici, dunque i loro effetti sull'andamento dell'economia sono inversamente proporzionali al tempo durante il quale vengono impiegati e alla loro entità quantitativa (52). Vale a dire che i loro effetti diminuiscono col trascorrere del tempo e perdono efficacia proprio perché vengono applicati ad una situazione che è già il risultato di provvedimenti analoghi. Tra l'altro, l'inefficacia raggiunta da misure un tempo efficaci è uno dei motivi che spinge ciecamente l'economia politica verso un illusorio ritorno a meccanismi liberistici. Tutto ciò peggiora nettamente la situazione, perché (alla faccia del liberismo) l'intervento per drogare l'economia provoca assuefazione: proprio come nel caso della droga, più se ne consuma più se ne patisce la mancanza. E' ovvio e naturale che i Fossa o i Bossi, ognuno per la sua parte, non possano essere soddisfatti, dato che l'economia drogata è caratteristica peculiare dello Stato centralizzato moderno, erede di quello fascista.

Nutrire schiavi anziché esserne nutriti

Uno dei modi per drogare l'economia è anche quello di ripartire il plusvalore nella società in modo da mantenere l'esercito industriale di riserva a livelli di sussistenza. Offrendo una minima possibilità di consumo, non viene eliminato il benefico effetto della concorrenza fra proletari, si evita un crollo nelle vendite delle merci e, per sovrappiù, non si rischia neppure che una parte della popolazione sia trascinata alla lotta di classe. Man mano che il sistema si perfeziona, cioè si allarga la sua base di applicazione, il mantenimento dell'esercito industriale di riserva diventa mantenimento della sovrappopolazione relativa. Questo perché l'espulsione della forza-lavoro dalle fabbriche (o la fine della necessità che vi siano tante fabbriche) si tramuta in un dato permanente, e il numero complessivo di occupati (veri) diminuisce in rapporto alla popolazione. Diventa perciò assurdo pretendere che si industrializzino d'imperio intere regioni solo perché vi si spostano capitali come nel caso della Cassa per il Mezzogiorno. Ogni artificioso spostamento di capitali verrà divorato sul posto da forme di inefficienza organizzata (53).

Quando le fabbriche di regioni ristrette bastano e avanzano per produrre tutto ciò che serve ad un paese, non solo, ma ristrutturano limitando ancor più il numero degli operai in loco, il trasferimento di plusvalore diventa fine a sé stesso e intere popolazioni finiscono per basare la propria esistenza quotidiana proprio su questo dato di fatto. Questa è una contraddizione terribile: quando il capitalismo è costretto per ragioni sociali a mantenere i propri schiavi invece di farli lavorare e sfruttarli, vuol dire che la sua vitalità storica è scomparsa, che è una società morta (54). Se questa è una situazione poco piacevole per i capitalisti, è anche una fonte di degenerazione per le energie di classe. Infatti i capitalisti vi vedono solo una società smidollata senza "voglia di lavorare" cui saprebbero loro come dare la sveglia, ma i proletari che vivono di sussistenze, lavori precari, inutili o "socialmente utili" (che è lo stesso) conducono una vita senza senso, senza la possibilità di riconoscere il nemico, causa del loro disagio. La rabbia autonomistica delle regioni più industrializzate ha il suo opposto in una rabbia rivendicativa assistenziale verso lo Stato, come hanno dimostrato più volte le manifestazioni proletarie non solo al Sud. L'antica e sacrosanta parola d'ordine "salario ai disoccupati" diventa un'altra cosa di fronte ad una società che non ha più solo disoccupati ma un'intera popolazione in esubero. Che poi sia in esubero in relazione alle esigenze del Capitale questo non è percepibile né dai capitalisti arrabbiati né dai beneficiari di sussidi vari. Per questo tutti quanti appaiono, gli uni agli occhi degli altri, come affetti da puro e semplice egoismo. Essi sono il prodotto di potenziali esplosivi nelle pieghe di questa società, e si guardano in cagnesco rivendicando diritti che non solo sono contrastanti, ma che non possono essere salvaguardati.

Su questa percezione soggettiva della realtà si innescano sociologie spicciole che tentano di trovare spiegazioni teoriche su cui costruire programmi politici. Lo Stato pensa alla sovrapopolazione relativa, le mezze classi si sentono abbandonate e tradite; non è strano che i programmi esprimano forme esasperate.

Ci siamo: la teoria

Il più chiaro elemento di valutazione del fenomeno autonomistico ci viene dal periodo intermedio della Lega Nord, quello che, dopo anni di oscurità, aveva consolidato Umberto Bossi come leader politico e Gianfranco Miglio come portavoce di una specifica posizione politica, se non ideologica. Miglio (che non fa più parte della Lega anche se recentemente si è riavvicinato), tratteggiò all'epoca una fotografia, per noi molto significativa, delle presunte condizioni materiali che giustificavano l'esistenza del leghismo indipendentista.

Egli registrò per prima cosa un pensiero diffuso: lo Stato nazionale ha esaurito la sua funzione storica, è morto. Derivò questa constatazione dal fatto empirico che ormai i movimenti economici e finanziari non badano più alle vecchie frontiere nazionali. La giustificò poi teoricamente con il venir meno delle cause che resero necessario lo Stato moderno: la fine del medioevo e il consolidamento delle grandi monarchie avevano spinto all'unità territoriale; questa doveva essere posta sotto un'unica autorità e perciò l'autorità aveva del tutto arbitrariamente collegato il fattore essenziale della sua potenza (l'estensione territoriale e l'unità di potere) con il concetto di nazione. Mentre è esistita l'unità territoriale posta sotto un'unica autorità, la nazione in quanto tale non è mai esistita e non esisterà mai se per nazione si intende quel che si è inteso finora.

Nel Migliopensiero anche uno "Stato nazionale come l'Italia è una finzione", così come lo sono gli altri Stati simili e concorrenti. Questa finzione serviva e rappresentava una potente molla nella storia, ma ha esaurito la sua carica. Anche una eventuale Europa intesa come unico Stato sarebbe un non-senso. E qui si dovrebbe vedere meglio l'inesistenza della nazione: come potrebbe essere infatti definita una "nazione" europea? Il fatto è che esisteva un tempo un Sistema-Europa, ma era fatto di Stati che si combattevano fingendo di essere nazioni e si facevano concorrenza sull'intero pianeta.

Anche il non-nazionalismo, secondo Miglio, è venuto a cadere. Infatti i programmi che furono alla base della vitalità dei movimenti socialisti e comunisti sono stati ormai inglobati nelle politiche statali del welfare e anche queste sono tramontate. Le aspirazioni dei vecchi movimenti sociali sono ormai routine degli uffici amministrativi dello Stato (carina questa), il quale ha battuto tutti in fatto di centralismo, totalitarismo e dittatura. Tant'è vero che le esperienze federali sperimentate non c'entrano per nulla con la pluralità del vero federalismo (che non bisognerebbe quindi più chiamare così): tutte le esperienze autonomistiche provate dall'umanità nell'epoca moderna sono state realizzate per ottenere l'unità dalla pluralità, mentre la vera aspirazione dovrebbe essere quella di realizzare la pluralità a partire dall'unità imposta dalla storia. In questo senso non ci sono modelli americani o tedeschi o catalani che tengano: un'Europa federata degli Stati, anche se non nel senso gollista, nel contesto storico dell'unità post-medioevale per Miglio sarebbe morta e sepolta:

"L'Europa di domani avrà tutt'altro aspetto. Sarà plasmata dai rapporti economici, l'unica parte vitale della costruzione europea. Sarà costituita da grandi regioni, o addirittura da grandi metropoli. Già oggi alcune aggregazioni di grandi città formano delle megalopoli che di fatto sostituiscono lo Stato, non essendo però più uno Stato di tipo tradizionale (vedi il Randstad Holland, formato dalle città olandesi di Rotterdam, Amsterdam, l'Aia e Utrecht, comunità del Nord della Ruhr, eccetera). E questo in fondo è un grande ritorno: basti pensare alle città dell'epoca di Althusius, che erano Stati" (55).

Ma, diciamo noi, se Giovanni Altusio esprimeva il massimo livello che un giurista del '500 poteva esprimere nell'epoca delle città-stato, oggi il "grande ritorno" può solo essere un rigurgito di aspirazioni localistiche in contrasto con la vera tendenza del capitale mondiale. Anche in questo caso abbiamo un ricorrente senso di déjà vu. Diceva un nostro testo:

"In questa fase [il periodo di crisi della Prima Internazionale] la proposta dei libertari è la non ben definita 'comune' rivoluzionaria locale, organo presentato volta a volta come forza in lotta contro il potere costituito, che afferma la sua autonomia rompendo ogni legame con lo Stato centrale, e come forma che gestisce una nuova economia. Non si trattava che di un ritorno alla prima forma capitalista dei Comuni autonomi della fine del Medioevo in Italia e nelle Fiandre tedesche ove una giovane borghesia lottava contro l'Impero; come sempre, era allora fatto rivoluzionario in riguardo allo sviluppo dell'economia produttiva, oggi è vuoto rigurgito ammantato di falso estremismo" (56).

Che lo propongano i proudhoniani di ogni specie, o Miglio, non cambia nulla. Il capitale mondiale, come abbiamo visto, ha assolutamente bisogno di territori altamente localizzati e strutturati sui quali fissarsi e riprodursi; ciò che è impossibile è che comunità produttive locali possano raggiungere una proudhoniana autonomia, un'indipendenza dei loro territori. La loro sorte sarà invece sempre più legata al movimento generale del Capitale e quindi, invece di essere modelli di indipendenza e libertà, saranno sempre più modelli di dipendenza e schiavitù.

Il federalismo leghista, almeno nell'accezione di Miglio, è quindi plasmato dalla realtà dei rapporti economici, esattamente come egli dice fosse plasmata la società all'epoca dell'invenzione dello Stato nazionale. E siccome la realtà economica plasma regioni altamente produttive e accumulatrici che convivono con altre più o meno disastrate, la sanzione giuridica di questo stato di fatto, dice Miglio, sarebbe cosa buona e giusta. Al posto di comunità bisognerebbe quindi usare il termine convivenza, che più si addice a gruppi sociali e regioni economiche, in rapporto tra loro sì, ma sulla base della diversità e non delle cose in comune. Che hanno mai fatto gli uomini, europei soprattutto, se non convivere facendosi guerra ogni tanto? In un futuro ridisegno dell'Europa, che prenda atto delle differenze e delle realtà economiche, si potranno regolare le questioni senza ricorrere alla guerra o al conflitto economico duro.

Geopolitica della bottega

Ovviamente non avrebbe senso da parte nostra fare un'analisi critica della teorizzazione politica di "una Europa organizzata dall'economia". Ci basta osservare come essa sia aderente all'effettivo svolgersi "darwiniano" dell'ulteriore accumulazione del Capitale: primo, la sopravvivenza del più adatto; secondo, la convivenza nella giungla. Chi ha mai sostenuto che il sistema capitalismo-giungla non possa giungere ad un equilibrio ecologico? Esso è già governato dall'economia: per questo spinge i cervelli leghisti al punto di ebollizione. Ma ecco il punto fondamentale: tra le varie regioni europee disegnate dall'economia,

"un'altra euroregione, ben più importante, sarà la Padania. I tedeschi sono assai consapevoli delle potenzialità padane e temono addirittura che alle porte di casa loro nasca un nuovo Giappone, in grado di reggere la concorrenza con le loro imprese"(57).

Gratta il filosofo e salta fuori la rana che compete con il bue gonfiandosi d'aria. Non basta una buona performance nel PIL pro-capite e neppure vagheggiare un potenziale economico in grado di offrire un futuro ancora più produttivo per fare della Padania un Giappone che preoccupi una Germania. Non basta neppure l'attuale produttività molto più alta di quella tedesca (58). Ci vuole massa, e soprattutto ci vorrebbe quel rendimento sistemico che fa dell'intera Germania un potenziale economico più grande di quanto non siano le sue parti sommate. Ma l'orgoglio leghista per l'alta produttività, in qualunque modo la si rigiri, si tramuta in spontanea rivendicazione: la ricchezza rimanga dov'è prodotta. Con tutte le varie sfumature sulla convivenza con i tedeschi e sulle macroregioni europee, al nocciolo del pensiero padano rimangono i volgarissimi soldi. In fondo siamo sempre al punto cruciale: gli uomini, come dice Marx, non vogliono rinunciare ai risultati raggiunti e i loro partiti più o meno brillantemente e coscientemente esprimono, se non sono in vista finalità più nobili, questa esigenza primordiale. Che l'economia dell'incerto territorio chiamato Padania sia una realtà solida è un fatto; che possa rappresentare un futuro Giappone nel cuore d'Europa è un'aspirazione che può essere legittimata, sulla carta, solo da cifre vere e da proiezioni fasulle; che tale futuro fatto di ricchezza e felicità sia, nella testa dei leghisti, impedito da Roma ladrona, è una convinzione che nessun ragionamento riuscirà a smuovere. Lo Stato centrale rimane per il leghista-tipo un distributore indebito di ricchezza altrui ai fannulloni, un portatore di "lacci e lacciuoli" su di una florida economia che dev'essere redenta.

Guido Carli, inventore di questa espressione riferita ai legami soffocanti dovuti a un'azione troppo diretta dello Stato sull'economia, non dimenticava però la funzione che lo stesso Stato doveva avere. In ambito interno doveva essere regolatore dell'anarchia capitalistica, mentre in ambito estero era l'unico difensore possibile delle istanze capitalistiche nazionali. Insomma, Carli non produceva teorie, faceva considerazioni di buon senso. Invece il leghismo ha bisogno di produrre una sua teoria per il suo popolo, come direbbe Bossi. Non ha nessuna importanza che abbia qualche rigore o anche solo credibilità. Un po' di calcoli, un po' di geopolitica e un po' di vocazione germanica sono sufficienti per impiantare teorie su di una libertà economica che non esiste e non è mai esistita. Viene il sospetto che se le merci vendute dai padani prendessero la via del Medio Oriente ci troveremmo di fronte a vocazioni islamiche, com'era effettivamente successo a una parte della borghesia italica quando i giochi sul petrolio erano più duri (59). Ma si vende a Nord, quindi Miglio registra le posizioni economiche e diplomatiche dei vari paesi, scatta la solita fotografia della realtà capitalistica e non vede né il movimento né le aree fuori dal bordo delle immagini, cioè quel contesto imperialistico in grado di sovvertire qualsiasi fotografia:

"E' chiaro che il grande asse di penetrazione tedesca è volto a Est. E' in quella direzione che i tedeschi guardano da sempre (...). Il Drang nach Osten [spinta verso Oriente] sarà questa volta per l'Europa un fattore, a un tempo, equilibrante e di espansione. Servirà a spostare verso oriente le frontiere della nostra civiltà. I confini orientali dell'Europa saranno molto mobili. Saranno dinamici, determinati di volta in volta dalla capacità dei tedeschi di organizzare lo spazio slavo, di colonizzare l'Est" (60).

Che in futuro l'Europa possa avere un assetto come quello del Sacro Romano Impero è già difficile da digerire, ma che la geopolitica odierna spinga la Germania a espandersi e fissarsi solo verso Oriente è sicuramente una fantasia. Miglio dice che le regioni alleate in un contratto geopolitico beneficeranno di questo spostarsi ad Est dell'asse tedesco, quasi che la Germania dovesse alleggerire della sua potenza economica una regione che la Padania può riempire, ma dimentica che lo scambio internazionale è per la maggior parte interscambio tra paesi capitalistici maturi. Che la Germania abbia sempre visto un suo spazio vitale ad Est è certamente vero oggi come ieri, ma ciò non rappresenta per nulla l'unico indirizzo che storicamente sia rimasto alla forza produttiva tedesca. Il Sacro Romano Impero con l'Est non ha combinato quasi nulla fino all'avanzare dei Turchi, mentre a Sud e a Ovest ha vissuto tutto intero il suo millennio, specialmente nei rapporti con l'Italia. L'asse viario che passava dal Brennero e dall'Adriatico era parte della sua struttura vitale e la Padania la sua dannazione, come sapevano bene il Barbarossa e suo nipote, quel Federico II che, risiedendo in Italia, non riuscì mai a rimanere in contatto stabile col Nord perché i Comuni padani gli bloccavano i valichi. Anche Engels fece notare (Po e Reno) che chi avesse controllato quei valichi da Nord non aveva bisogno di occupare militarmente la pianura a Sud, cosa che avrebbe reso nemica ai tedeschi l'intera popolazione italiana. Engels sapeva bene che merci ed eserciti hanno questo in comune: passano sempre dagli stessi posti.

Parassitismo o simbiosi?

L'attrattore a Est per la Germania esiste certamente, ma in primo luogo esso tende storicamente a Sud, fino a Baghdad, attraverso i Balcani e la Turchia, la cui porta naturale, per terra e per mare, è sempre stata tra Vienna e Trieste. In secondo luogo, anche se i traffici nell'ex Jugoslavia, da Lubiana a Belgrado, si misurano oggi in marchi (e un fiume di marchi in rimesse scorre tra la Germania e la Turchia che ha fornito milioni di proletari all'industria tedesca), non uno dei paesi considerati "Est" da Miglio figura tra gli importatori di un qualche peso delle merci tedesche. Esse sono assorbite nell'ordine da Francia, Italia, Inghilterra, Olanda, Belgio, Stati Uniti, Svizzera, Austria, Svezia, Danimarca, Sudafrica, Spagna e... Russia. Seguono a distanza Giappone, Norvegia, Canada, Brasile, Iran. Altri paesi non sono neppure riportati dalle statistiche (61).

In realtà le teorie geopolitiche leghiste sono il prodotto di una materiale contrapposizione tra i diversi blocchi capitalistici. Essa produce anche un fronte "atlantico" che taglia l'Europa da Nord a Sud, e quindi in Italia non divide tanto la Padania dall'Etruria quanto il versante tirrenico da quello adriatico. Questa era la stessa disposizione dei traffici anche nel passato, e il cosiddetto asse germanico si identifica con il versante Est dal Baltico alla Turchia e oltre, comprendendo quella che fu la linea dei traffici della Repubblica di Venezia. Non è un caso che gli indicatori economici delle Marche, degli Abruzzi e della Puglia siano in controtendenza rispetto a quelli dell'intero Sud italiano. Non è un caso che sia scoppiata la Jugoslavia e che l'Albania sia diventato un naturale problema "italiano". L'unificazione economica europea contiene in sé contraddizioni esplosive, perché essa non potrà non proiettarsi a Sud e ad Est, quindi coinvolgere il Mediterraneo e i Balcani producendo un terremoto mondiale per quanto riguarda gli equilibri interimperialistici. Mai gli Stati Uniti permetterebbero una simile espansione.

Comunque la Lega non si spinge così lontano. Com'è ovvio aspettarsi, riesce ad universalizzare solo sé stessa, e la sua teoria è conseguente. Il leghismo ha già trovato i suoi alleati nella futura politica internazionale padana operando delle elementari analogie:

"C'è poi il caso specifico della ex Jugoslavia, della quale credo che solo Slovenia e Croazia possano aspirare a entrare stabilmente nel nuovo spazio europeo. Non per caso la Lega ha subito appoggiato la loro lotta di liberazione dalla Serbia: abbiamo visto l'analogia fra gli Stati operosi e produttivi del Nord contro i parassiti del Sud, in questo caso i Serbi" (62).

Belgrado come Roma ladrona. Ma anche i "parassiti" mangiano e bevono, abitano case, vanno in automobile, si ammalano e vanno all'ospedale, consumano. Allo stesso modo dei virtuosi produttori, mettono in moto tutti gli elementi della crescita del divinizzato Prodotto Interno Lordo; insomma, sono utili ai fondamentali dell'economia capitalistica, a condizione che questa sia abbastanza matura da permettersi di mantenere parassiti al suo interno. Anzi, più che di parassita (una specie che vive a danno dell'altra) occorrerebbe parlare di elemento simbiotico (due specie che convivono con reciproco vantaggio) indispensabile al capitalismo d'oggi. Qui cade il parallelo tra Italia e Jugoslavia, e si dimostra che ogni teoria piccolo-borghese non ha bisogno di basarsi su dati reali, le basta l'opinione di chi la sforna.

Facciamo uno scherzo al leghista, cioè un calcolo banale sui "parassiti". Il leghista medio dice che deve pagare le tasse anche per il Sud eccetera. Egli dice che il Nord, con 26 milioni di abitanti, cioè il 45% degli abitanti, paga il 55% delle imposte totali. Ma un differenziale di 10 punti sarebbe più che normale se si tiene conto della differenza di reddito per cui entra in gioco la progressività fiscale. Vediamo perciò come stanno le cose dal punto di vista del reddito. In base alla sua distribuzione regionale, al Nord il fisco ne incamera mediamente il 26,7%, al Centro il 25,7 e al Sud il 24,1. Il solo dato fiscale dimostra quindi che il leghista, pur guadagnando molto di più dell'italiano meridionale, paga quasi la stessa percentuale d'imposta diretta sul reddito.

Il trasferimento di valore dal Nord al Sud esiste, ma si basa su parametri un po' più complicati rispetto a quello rappresentato dalle tasche del signor Brambilla, e che coinvolgono l'intero sistema di produzione, realizzazione e ripartizione del plusvalore. Tuttavia il trasferimento di valore produce un'utilità di ritorno, dato che privati e aziende settentrionali hanno un vantaggio derivante dall'impegno dei loro soldi nel keynesiano sostegno al consumo. In più hanno un vantaggio sfacciato in forma di interesse sul sovrappiù che guadagnano e che, nell'attesa di spendere o investire nell'industria, parcheggiano sotto forma di titoli del debito pubblico. Nel 1991 i titoli pubblici in mano ai settentrionali erano il 72% del totale, in mano agli abitanti dell'Italia centrale il 16% e in mano a quelli del Mezzogiorno il 12%. Ciò significa, nelle condizioni odierne di tassi al minimo, che gli abitanti del Nord si beccano di ritorno dal Ministero del Tesoro 72.000 miliardi all'anno di interessi sul prestito (72% x due milioni di miliardi x 5% di interesse medio). Ciò significa pure che il loro deposito fruttifero è pur sempre di 1.440.000 miliardi e che se vogliono possono riprenderselo (beh, non tutti insieme) (63).

Non risulta che vi fosse un rapporto del genere fra Sloveni e Serbi: se un presunto parassitismo viene messo alla base di spinte secessioniste, non bastano secessioni avvenute per dimostrare che la teoria del parassitismo è giusta. Ma questo è il metodo esistenzialista della piccola borghesia, e non c'è niente da fare.

Note

(50) Cfr. Proprietà e Capitale, dove si dimostra che esistono capitali senza capitalisti e capitalisti senza capitale. Berlusconi da questo punto di vista rappresenta la sintesi suprema del capitalismo maturo: è un capitalista senza capitali che è riuscito a raccogliere per sé capitali senza capitalisti. La sua azienda è strutturata in un modo che rispecchia magnificamente la sua natura, è cioè composta da una ventina di holding incastrate come scatole cinesi, senza alcun nome ma identificate con numeri romani progressivi. La contraddizione esplosiva del personaggio consiste anche nell'invadenza spropositata del suo Io in una struttura capitalistica modellata invece dal capitale anonimo.

(51) Un abbassamento della spesa corrente e un aumento delle entrate significa impedire al debito pubblico di aumentare e quindi liberare risorse per una politica economica "positiva", quella per esempio prevista nel Protocollo d'Intesa con i sindacati del 23 luglio 1993 e mai pienamente realizzata salvo che per la diminuzione del salario reale (cfr. "Come un logaritmo giallo" nella nostra Lettera n. 29). In più, la politica deflazionistica ha prodotto un abbassamento dei tassi passivi per lo Stato e quindi un ulteriore taglio delle uscite per la gestione del debito.

(52) Cfr. E. Bennati, Il metodo di Montecarlo nell'analisi economica, a cura del CNEL. Nel saggio si dimostra, con l'uso di un modello stocastico al calcolatore, che un sistema non casuale di distribuzione del reddito nella società ha una sua entropia; vale a dire che più si tenta di migliorarlo, più esso diventa insensibile agli interventi.

(53) Bucharin, in uno studio sul tema, elenca più che altro fenomeni di burocrazia e di perdita di efficienza dei sistemi centralizzati con grande inerzia (H. Bente, N. Bucharin, Inefficienza economica organizzata, Einaudi). La Sinistra Comunista affrontò invece scientificamente il problema con una teoria dello sciupìo capitalistico a partire dagli schemi di Marx (Scienza economica marxista come programma rivoluzionario, ed. Quad. Int.).

(54) Marx nel Manifesto dice esattamente che la borghesia "non è capace di garantire l'esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, invece di esser da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo".

(55) G. Miglio, "Ex uno plures", Limes n. 4 del 1993.

(56) Da I fondamenti del comunismo rivoluzionario, ed. Quad. Int.

(57) Da Ex uno plures cit.

(58) Se dividiamo il PIL della Germania (1.700 mld $) per la sua popolazione attiva (40 milioni) otteniamo 42.500 $ pro-capite. Se facciamo lo stesso calcolo per l'Italia (1.000 mld $ / 20 milioni) otteniamo 50.000 dollari pro-capite (dati The Economist arrotondati). La produttività degli occupati italiani è quindi del 17,6% più alta di quelli tedeschi. Il confronto però dovrebbe essere fatto in unità d'acquisto (come si fa realmente in ambito CEE) e quindi la produttività italiana risulterebbe ancora più alta, dato che con un dollaro in Italia si compra più che con la stessa moneta in Germania. Se poi facessimo un confronto dividendo il PIL tra i soli lavoratori produttivi il divario sarebbe enorme.

(59) Le giustificazioni teoriche si trovano sempre, i "serenissimi" potrebbero benissimo rifarsi all'espansione veneziana del '400, con la conquista di possedimenti che andavano dal confine occidentale sulla linea Bergamo-Cremona fino a Cipro e i cui interessi coinvolgevano il Mediterraneo e la Cina. L'eterogeneo sistema di alleanze europee leghiste auspicato oggi è indicato in "La politica estera della Lega", Limes n. 2 del 1997.

(60) Da Ex uno plures cit.

(61) Vi sono almeno due linee di espansione verso Est. Da una parte la Germania e i paesi dell'area del marco; dall'altra la Francia e l'Italia con gli altri paesi del Sud Europa. Queste due linee si intersecano a Budapest e non mancheranno di scontrarsi all'interno dell'Europa pseudo-unita. Come un tempo le ferrovie erano lo specchio dell'espansione capitalistica, oggi gli assi autostradali sono rivelatori degli accordi internazionali per il movimento delle merci. Il traffico mercantile dalla Germania verso i Balcani segue la direttrice autoferroviaria, completata nel 1996, Monaco-Salisburgo-Vienna- Budapest-Bucarest-Istambul; una variante per Belgrado-Sofia è in costruzione. Tale direttrice, che volge a Sud, è tagliata in Ungheria dall'asse autostradale proveniente dalla Francia, il quale fa perno sul nuovo gigantesco smistamento merci di Torino- Orbassano e, attraverso tutta la Padania, volge a Nord, giungendo a Budapest via Trieste e Lubiana (entro il 1.999) per proseguire verso Kiev (entro il 2.000). Il complemento naturale di ferrovie e autostrade è la via d'acqua adriatica che, attraverso i soli porti di Trieste e Venezia, contenderà ai porti del Nord Europa fino a 14 milioni di tonnellate di traffico, escluso il petrolio (cfr. "La guerra degli assi e gli interessi italiani nel nuovo Adriatico", Limes n. 2 del 1996).

(62) Da Ex uno plures cit.

(63) Nostre elaborazioni su dati tratti da "Conviene alla Padania la secessione?", Limes n. 1 del 1996.

Lettere ai compagni