39. Il comunismo non è un'idea ma una forza materiale che anticipa il futuro (3)

3. Il comunismo non è un'idea ma una forza materiale che anticipa il futuro

I borghesi vanno proclamando ogni giorno, in ogni occasione, che il comunismo è morto e sepolto. Lo ripetono con un'insistenza tale che c'è da sospettare una specie di rito propiziatorio, una qualche sorta di esorcismo. Ma può morire il comunismo? E' davvero qualcosa che nasce, esiste e finisce come un'idea, un oggetto, un animale? E se il comunismo può morire, chi sono quei pazzi che ancora si richiamano ad esso, cioè a questa "cosa" che sarebbe morta, cioè non-esistente? E se invece il comunismo fosse altro, un processo che ha attinenza con i cicli vitali, certo anche di nascita e morte, ma nel senso del divenire materiale, nel senso del cambiamento di tutta la società umana e del mondo in cui è immersa? Quale sarebbe allora il senso dell'esistenza e dell'azione dei soprannominati pazzi che ci credono?

La sveglia e la bussola

Una delle cose più divertenti che ci capita di sentire sul nostro conto è l’accusa di attendismo. Non viene rivolta specificamente a noi, ma alla Sinistra comunista a cui ci rifacciamo, quindi in un certo senso è un'accusa che abbiamo ereditato col patrimonio dell'unico movimento rivoluzionario internazionale che, con la vecchia guardia bolscevica, sia stato genuinamente marxista.

Del resto le tradizioni conservatrici sono dure a morire in questo mondo che tenta disperatamente con tutti i mezzi di perpetuare sé stesso anche attraverso le infiltrazioni nel movimento rivoluzionario, dette da Lenin "opportunismo". La Sinistra non era ancora nata che già - stiamo parlando degli anni antecedenti la Prima Guerra Mondiale - si attirava le classiche accuse; figuriamoci se ci fa impressione sentircelo dire oggi, dopo ottant'anni e passa. Siamo sicuri che l'opportunismo, essendo invariante quanto il marxismo, ripeterà l'infamante accusa di attendismo (astrattismo, schematismo, settarismo ecc.) fino al momento stesso in cui le forze rivoluzionarie dimostreranno nei fatti che l'accusa di attendismo spetta invece di "diritto" a chi concepisce la rivoluzione come un atto esistenziale e non come un processo storico. Spetta agli opportunisti, appunto, che si "attendono" la rivoluzione da una serie di azioni e manovre che qualcuno dovrebbe fare e non si accorgono che la rivoluzione lavora già, senza aspettare che quel qualcuno maturi un sufficiente quoziente d'intelligenza marxista attraverso le sue proprie pensate. La rivoluzione non aspetta le cose impossibili.

Noi non abbiamo l'abitudine di respingere queste classiche accuse. Ci va bene: come abbiamo scritto nel titolo di una nostra Lettera, siamo astratti, schematici, rigidi, settari, come ci accusano di essere. Aggiungiamo pure attendisti. Le parole sono solo parole e possono essere usate nell'accezione che si vuole quando siano staccate dalla teoria. Con certi interlocutori ogni spiegazione sarebbe superflua e perciò suonerebbe come giustificazione ai loro orecchi e non è il caso di perdere tempo: il terreno di discussione non è quello del "confronto" ma quello della lotta, come sempre.

Marx, in pochissimi semplici concetti, che in parte sono stati ricordati prima, demolisce completamente le stupidaggini intorno alle concezioni soggettivistiche, quindi utopistiche, della rivoluzione. Nei suoi scritti giovanili, in parte buttati giù a quattro mani con Engels, fa a brandelli i residui di idealismo anche quando siano mascherati di materialismo e li riduce a tema di divertenti scherzi letterari. Smaschera le parole che non sono legate ad altro che al pensiero di chi le pronuncia, e dimostra che la scienza è un'altra cosa rispetto alla filosofia. La scienza deriva dalla produzione e riproduzione materiale della specie umana e vi ritorna cambiando il mondo, mentre la filosofia ne dà soltanto innumerevoli interpretazioni. Il guaio è che la realtà non è innumerevole. Da quando Marx ha scoperto questo tipo potente di approccio alla realtà, chi si dichiara marxista sa o dovrebbe sapere che il comunismo non è una cosa che verrà o sarà costruita, ma è il movimento effettivo, reale visibile, percepibile, del cambiamento. Per il marxismo "cambiamento" è un termine senza aggettivi. Non si tratta di cambiamento morale, economico, sociale, estetico, tecnologico, artistico, classista, ecc., ma cambiamento tout court. Gli aggettivi vengono dopo, quando dall'astratto e generale si passa al concreto e particolare.

Non si tratta, per essere in grado di vedere il comunismo come "attualità" (cioè non semplicemente come "potenzialità") di sviluppare organi speciali o progettare strumenti sopraffini; non si debbono investigare campi pieni di batteri o virus per i quali ci sia bisogno di microscopi elettronici, od onde o particelle invisibili per le quali occorra qualche tipo di rivelatore di radioattività.

La dinamica del comunismo la si vede semplicemente liberando l’organo della vista dalle incrostazioni che l’ideologia dominante vi ha deposto durante molte generazioni e molti cicli economici. Non siamo di fronte alla necessità di una operazione di tipo intellettuale o scientifico - cioè del tipo di scientismo per cui bisogna aver frequentato l'università per poter assimilare un qualche strumento conoscitivo speciale - siamo di fronte alla necessità di una banale operazione di pulizia. Bisognerebbe potersi togliere le proverbiali fette di salame dagli occhi, una cosa elementare e assolutamente compatibile con le capacità di tutti. Bisognerebbe avere questa possibilità. Ma dobbiamo sottolineare sia il condizionale che la parola "possibilità", perché a livello della patologia politica e ideologica imperante tale possibilità non è affatto scontata. E non vi sono ricette che si possano distribuire. Chi carica la sveglia? Chi distribuisce le bussole? Non c'è lo sportello apposito dove pagare il ticket per il diritto allo spettacolo. Nella giungla capitalistica la selezione dei militanti è ferocemente darwiniana, sopravvive il più adatto. Il quale prima non sa di esserlo.

Qualcuno potrebbe chiederci perché mai noi avremmo la pretesa di possedere una visione non patologica mentre tutto il resto del mondo sarebbe ammalato, affetto da questa grave oftalmia politica che impedisce di vedere i fenomeni alla luce marxista. Insomma, perché mai dovremmo essere più furbi degli altri. L'abbiamo appena detto. Neghiamo di aver trovato la ricetta. Neghiamo di avere a disposizione qualche strumento speciale che non sia a disposizione di tutti. E ovviamente non pensiamo affatto che il nostro QI sia diverso dalla media. Noi, come altri, siamo il frutto di una lotta che ha avuto episodi grandiosi e anche meschini. Come abbondantemente ricordato dalla Sinistra, nella storia del partito storico della rivoluzione non vi sono garanzie di ortodossia per nessuno. Nessun maestro può controllare i compiti altrui. Del resto la domanda è persino banale: chi controlla i controllori? La soluzione è nel lavoro, possibilmente a contatto col mondo. Olio di gomito, come dicono i meccanici, e a volte legnate, battaglie, unioni, separazioni. La rivoluzione non è un attimo della storia ma un lungo divenire, è un campo molto caotico e vitale e, come ogni altro campo in cui vi sia alto metabolismo, cioè molta vita, produce anche molta merda. Come dice De André: "dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior". Se vogliamo essere meno lirici, diciamo che è solo dal caos che può nascere nuova informazione, nuovo ordine. Forse in questi ultimi vent'anni il nostro raggruppamento ha vissuto un'esperienza che ci ha obbligato ad andare a leggere cose che nell’Ottocento tutti vedevano e che oggi non sono più visibili così facilmente. Chissà. Tutti sanno che durante una ricerca qualsiasi, se rileggiamo un libro, anche se già lo conosciamo bene, succede di trovarvi cose che non si erano viste e che a volte non ci sognavamo nemmeno. Testi come quelli di Marx, che si possono leggere a diversi livelli di contenuto e significato, giocano spesso scherzi del genere (5).

Marx e la rivoluzione in permanenza

E' indubbio che nel periodo della degenerazione staliniana della Terza Internazionale, i testi di Marx venissero letti trovando cose diverse da quel che vi si trovava nel periodo rivoluzionario. Nella polemica li chiamiamo falsificatori, ma sappiamo che negli anni '30 i militanti della generazione bolscevica di mezzo non falsificavano affatto, leggevano proprio quel che i loro occhi filtrati permettevano di leggere. La falsificazione di stato era un'industria, ma si reggeva sul dato reale che milioni e milioni di persone non erano più toccate dal demone comunista. Non è che si adeguassero, erano proprio così.

Questo è un dato importante perché Marx aveva previsto che le rivoluzioni non si svolgono sempre tutte alla stessa maniera, e che ogni generazione autenticamente rivoluzionaria deve cogliere nei testi rivoluzionari il loro significato più profondo. Siccome il comunismo è un fatto reale presente in questa società, come abbiamo già detto, non solo non c’è bisogno di cercarlo tra le righe, ma è il comunismo stesso che si incarica di spostare sullo sfondo alcune cose che la storia dà per scontate, e di portare invece prepotentemente in primo piano gli elementi utili per la rivoluzione futura. Quando Marx stesso ci ricorda che alcuni punti del programma pubblicato nel Manifesto sono superati, ci invita nello stesso tempo ad approfondire tutti quegli altri, che magari sfuggivano ai lettori dell'800 ma che sono maledettamente importanti per la rivoluzione di oggi, quella che sta preparando l'assalto di domani.

Non c'è solo il Manifesto. Citiamo spesso alcuni punti fondamentali degli scritti di Marx per ricordare la necessità di leggere in profondità. Per esempio in Lotte di classe in Francia, proprio nella pagina introduttiva, Marx ricorda che non si può parlare di "disfatta della rivoluzione": chi soccombette alla disfatta non fu la rivoluzione, ma i fronzoli tradizionali prerivoluzionari. La rivoluzione non è mai sconfitta. Una ribellione, una rivolta, un'insurrezione, possono essere sconfitte, ma in questi casi la sconfitta del proletariato può essere la premessa della vittoria futura. Il partito rivoluzionario, dice Marx, era ancora prigioniero di vecchie concezioni vicine al mondo borghese, delle quali non si poteva liberare attraverso una vittoria ma piuttosto attraverso una serie di sconfitte. Come si vede, per Marx la sconfitta può essere la premessa necessaria per liberarsi dai "fronzoli" che impediscono al partito di imboccare la strada rivoluzionaria. Che altro ha mai detto la Sinistra Comunista quando invitava a trarre insegnamenti dalle disfatte, dalla controrivoluzione, per capire che il comunismo non può morire e che quindi controrivoluzione e rivoluzione sono termini complementari?

Marx nel testo citato è drastico: la rivoluzione non si fece strada con le "tragicomiche conquiste immediate" ma facendo sorgere una controrivoluzione potente, per combattere contro la quale non era più sufficiente un partito democratico qualsiasi ma era indispensabile un altrettanto potente partito insurrezionale rivoluzionario. Bene, la potente controrivoluzione attuale pretende come avversario un partito rivoluzionario che sia all'altezza del suo avversario mortale.

Se la questione sta in questi termini - e sta in questi termini perché non si tratta di interpretare, si tratta di leggere diligentemente - è evidente che il comunismo è presente nella società capitalistica di oggi non soltanto dal punto di vista della maturità strutturale, della forza produttiva sociale ecc., ma agisce anche dal punto di vista politico, pretendendo che la si smetta con i fronzoli dell'ultima rivoluzione, i rimasugli democratici, organizzativistici, antifascisti, umanistici e via dicendo. E, anche da questo punto di vista, che altro ha fatto la Sinistra Comunista quando ribadiva le sue tesi sull'organicità del partito, sul superamento delle concezioni e degli atti che furono tipici della controrivoluzione all'interno del movimento proletario?

Marx parla della rivoluzione nel suo corso, e tratteggia un'altra questione che è stata sempre sottovalutata: ogni rivoluzione tende ad avanzare inesorabilmente verso i suoi fini raggiungendo via via dei risultati lungo il suo percorso; ma guai se il partito della rivoluzione non vede nettamente il percorso ancora da fare e si ferma per difendere i risultati raggiunti a metà strada. A metà strada vi sono ancora i risultati che rappresentano un vantaggio per il sistema vigente e che esso, per vigliaccheria di classe o altro, non riesce a raggiungere. Una rivoluzione che non va fino in fondo, che non agisca "in permanenza", si ritorce contro sé stessa e salva l'avversario infondendogli nuovo ossigeno vitale. Tutto ciò non ha nulla a che fare con le note posizioni trotzkiste o maoiste, sulla rivoluzione permanente, che hanno significato ben diverso rispetto a quello di Marx (6).

Lenin ha fornito la migliore dimostrazione della necessità di portare fino in fondo la rivoluzione: in un paese dove era classica l'aspettativa di una fase democratica dopo l'abbattimento dell'autocrazia feudaloide zarista, il partito rivoluzionario raggiunse e superò d'un balzo il livello democratico, lanciandosi verso la dittatura del proletariato. La forza intrinseca della rivoluzione fu quindi utilizzata per intero a fini comunisti, contro la tendenza conservatrice che avrebbe imposto di fermarsi lungo il percorso, al governo provvisorio, alla democrazia rappresentativa, cioè a tutti quei fronzoli per liberarsi dai quali sarebbe stata necessaria un'altra rivoluzione chissà quando.

La rivoluzione bolscevica, per cause storiche, fu sconfitta. Non furono sconfitti i fronzoli democratici, che anzi, grandeggiarono con Stalin. La controrivoluzione, camuffata, impedì che un nuovo partito rivoluzionario potesse temprarsi contro di essa e dimostrarsi all'altezza del suo nuovo avversario. Solo in un paese all'epoca considerato marginale, come l'Italia, sorse un partito in grado di rappresentare una risposta teorica adeguata, ma venne meno la forza fisica dello slancio rivoluzionario in tutta Europa e in Asia.

Opportunisti contro il metodo

La Sinistra fu sconfitta definitivamente nel 1926 e da allora non ha più avuto modo di rappresentare una forza di una qualche consistenza all'interno del movimento operaio. Né all'interno né a margine di esso. La nostra non è una polemica è un'indagine. Anche per questo abbiamo sempre evitato di fare "dibattito" attraverso la nostra stampa, le nostre riunioni o le nostre conferenze pubbliche.

Uno degli strumenti utili alla pulizia degli organi della vista dell’osservatore politico è un metodo che da Marx in poi è stato chiamato scientifico. E' vero che, specialmente qui in Italia dove la tradizione socialista si è tinta di marcato positivismo, si è fatto un abuso del termine. Non c'era rivista socialista di fine Ottocento o inizio Novecento che non rimarcasse nel titolo o nelle manchette la scientificità del contenuto, anche se poi di scientifico non c'era proprio nulla, neanche dal punto di vista positivista, mentre c'era molta etica, molto umanesimo e anche molta spazzatura moraleggiante in senso quasi religioso. Fortunatamente al di sopra di questi miasmi svettavano rocce robuste che leggiamo ancora oggi volentieri. Abbiamo avuto occasione, per esempio, di parlare del vecchio Labriola, socialista italiano che tutti conoscono, personaggio che, pur facendo parte dell’Ottocento positivista, rappresenta una gigantesca figura di rivoluzionario in confronto a tanti politicantucoli con cui la Sinistra ha dovuto polemizzare in questo secolo. Roba vecchia direbbe un giovane di oggi. Tuttavia da non sottovalutare. Labriola era una colonna portante del socialismo nascente italiano e, sulla base di una comprensione non superficiale dei testi di Marx, rivendicava la scientificità del materialismo dialettico, unica via che permettesse di capire qualcosa del mondo. Leggendo Bordiga si capisce che quegli uomini, pur se fatti di acciai diversi, erano forgiati con lo stesso maglio.

Scienza, scientifico, parole grosse. Comunque Labriola dice semplicemente di smetterla con le costruzioni e le polemiche basate sull’ideologia e sul pensiero degli uomini o, peggio, sulle idee dei singoli individui. Dice che occorre indagare il mondo fisico e sociale attraverso gli strumenti e metodi che anche la borghesia ormai ha dovuto far suoi per le esigenze del mondo produttivo. Dice che nell'epoca in cui la scienza positiva - e la distingue dalla filosofia del positivismo - ha raggiunto risultati antiteologici e antifilosofici universalmente riconosciuti, è assurdo continuare con il metodo idealistico.

Oggi vi sono correnti della filosofia che addirittura negano l'utilità di ogni metodo. Proprio l'anarchia della ricerca permetterebbe alla scienza e all'umanità di progredire attraverso prove ed errori e, dal caos della conoscenza, scaturirebbe il nuovo ed utile risultato. Queste posizioni non sono sostenute da stupidi, tutt'altro. Il fatto è che la conoscenza odierna ha capitolato notevolmente di fronte alle anticipazioni del marxismo, per cui vengono registrate verità parziali che a loro volta vengono immesse in un qualche schema teorico. E' vero che la scienza borghese procede in modo anarchico, ma non è detto che ciò sia il massimo dell'efficienza per conoscere.

Anche un non-schema è uno schema, ma quello che ci interessa è che solo nel generale quadro di riferimento della scienza marxista riusciamo a vedere che, come dicono i titoli di questa conferenza, il comunismo non è un'idea ma una forza del futuro che opera già nel presente. La nostra grande soddisfazione è di vedere ogni giorno quanto sia efficace quest'operare, e tutto ciò è certamente un antidoto al disappunto per la vittoria politica della borghesia sul proletariato.

Tutto ciò che è collegato al comunismo deve essere fatto derivare da questo tipo di impostazione. Il discorso sul partito si impantana in quisquilie formalistiche o ideali se non si capisce che esso è sempre lo strumento di un movimento reale e non una semplice organizzazione di uomini che vogliono ottenere qualcosa. I fondatori di partiti ovunque e comunque, nel senso di facitori, non sono comunisti. Ecco perché è così difficile farci capire quando parliamo di partito storico e partito formale, di organicità, di rifiuto degli espedienti organizzativi e missionari per la propaganda comunista. Ecco perché diventa un'impresa disperata comunicare a volte con certi nostri interlocutori sulle concezioni tattiche, fronte unico, questione nazionale o lavoro nelle organizzazioni immediate: ci accorgiamo subito quando la tendenza è quella di utilizzare parole in libertà, prese a prestito dai testi, cioè "scelte" secondo le proprie preferenze, ed assemblate senza un rapporto rigoroso con le condizioni materiali, che poi sono le condizioni di lavoro del comunismo in quanto movimento reale che cambia... ecc. Proviamo a chiederci se per caso questa non sia la spiegazione di quel muro di ostilità e poi di indifferenza che la Sinistra si trovò di fronte nell'Internazionale proprio sulle questioni tattiche. Non erano affatto cose da poco. Su quei temi si è giocata la vittoria della rivoluzione in Europa e nel mondo. Pensiamo al disastro dei fronti unici, pensiamo alla immensa tragedia cinese che ha catapultato l'Asia intera indietro di secoli.

Marxisti contro l'esistenzialismo

Ma come, ci si dice: saltate dalla scienza e dal metodo alle questioni tattiche, che sono poi le questioni di tutti i giorni, la vecchia Alleanza del lavoro, il fronte antifascista, il governo operaio, le alleanze tedesche al tempo di Brandler, la disputa Trotzky-Zinoviev su chi era più ortodosso nel 1917 ecc. ecc. E' vero, rispetto alla mentalità corrente sembrano esagerazioni. Sembra che la grande teoria sia una cosa molto distante dalla storia minuta del movimento politico comunista. Ma è proprio lasciando spazio a questa separazione fra teoria e tattica che l'Internazionale ha fallito i suoi compiti rivoluzionari. La grande e appassionata discussione in cui la Sinistra fu sconfitta non verteva affatto su che cosa era meglio fare in un determinato momento, ma sulla coerenza fra condizioni materiali del movimento e tattica. L'impostazione "scientifica" voleva che la tattica non fosse una fra diverse possibili ma quella determinata, unica, imposta dal grado di maturazione dello scontro sociale e delle forze produttive in diverse aree del mondo. Non aree topografiche, Londra, Parigi o, peggio, Torino e Napoli, ma aree geostoriche, interi continenti. Era in ballo la possibilità materiale di mettere in sintonia il partito della rivoluzione con la rivoluzione stessa, che si serviva di uomini, governi, partiti, strumenti fisici e biologici, energia cinetica liberata che andava indirizzata. Si trattava di individuare quale fosse il percorso che la rivoluzione stava percorrendo e mettersi alla testa di quest'ultima sulla sua strada, non di scegliersi la strada. Questo era il nocciolo del Manifesto, ma era stato dimenticato, e la Sinistra che vi si rifaceva caparbiamente fu cancellata con violente manifestazioni d'insofferenza.

Domanda: quale può essere la natura del lavoro da svolgere per essere all'altezza oggi di quelli che sono stati gli insegnamenti di ieri in modo che domani sia possibile la vittoria?

Nel testo che la compagna ha citato prima, Proprietà e Capitale, si dice molto chiaramente che la dinamica storica ci presenta già i tracciati da seguire. La rivoluzione è conosciuta dai comunisti non solo per il suo fine, ma soprattutto per le sue radici e per il suo percorso. Noi ci troviamo sempre in un punto della storia in cui una parte della strada è già percorsa e l’altra è ancora da percorrere. Il punto in cui siamo ci interessa solo in quanto transizione, ma il punto in quanto tale è zero, non è nulla. La nostra lotta contro l’esistenzialismo politico è la lotta contro lo zero.

Ora, quando siamo accusati di attendismo il nostro divertimento è massimo, perché l'immagine che ci facciamo mentalmente è quella del nostro interlocutore che, inchiodato sullo zero (oh, sì, la situazione concreta, la realtà presente, tutto quel che volete), conciona contro di noi che invece cerchiamo di farci interpreti della dinamica storica e ci sentiamo sul treno della rivoluzione che marcia sulle sue sicure rotaie.

Oggi è un po' calata la moda, ma qualche anno fa, a partire dal sessantotto, il mondo capitalistico si era riempito di personaggi molto creativi che applicavano alla lettera il famoso slogan "l'immaginazione al potere". Non è un caso che la pubblicità del consumismo si sia poi impadronita di questo genere di frasi. Il sessantotto fu un fenomeno importante, troppo sbrigativamente valutato dal Partito di allora. Purtroppo quel movimento fu seguito e ascoltato per ciò che diceva di sé stesso e non per ciò che rappresentava; con queste premesse non c'è da stupirsi che avesse via completamente libera nel rinforzare l'antica concezione del cambiamento come risultato della volontà degli uomini e delle loro organizzazioni. Invece di superare le concezioni non materialistiche e non dialettiche della storia, non si è fatto che rinforzarle, con grandissimo danno per quanto riguarda la possibilità di lavoro.

Non è certo questione di responsabilità di qualcuno, ma sta di fatto che si è persa la bussola proprio sul tema fondamentale di che cosa sia il comunismo, e non c'è da stupirsi che ciò abbia profonde conseguenze su tutto il resto. Quando osserviamo che non si fa che parlare di ogni cosa in termini soggettivi e immediati, quando vediamo che si pensa sempre di ottenere dei risultati che abbiano conseguenze subito, oggi, dal punto di vista quantitativo, del successo, è per noi evidente che si è di fronte ad una sopravvalutazione idealistica della potenza del pensiero individuale. Il verbo "creare", molto spesso utilizzato nell'ambiente del marxismo sopravvissuto e degenere, è oltremodo significativo: bisogna "creare" le condizioni per...; si "crea" una situazione per cui...; si ottiene questo e quest'altro nella misura in cui si "crea"... ecc.

Persino nelle più apparentemente ortodosse affermazioni si nasconde la concezione idealistica della storia. Quando per esempio si parla della passività del proletariato, si dovrebbe anche spiegare che cosa dovrebbe essere invece la non-passività e da che cosa dovrebbe scaturire; quando si parla della ripresa della lotta di classe si dovrebbe anche spiegare perché adesso tale lotta di classe non ci sarebbe e come mai un giorno potrà esserci di nuovo; quando si parla di dominio della borghesia e del suo pensiero oggi e di comunismo domani, si dovrebbe anche spiegare quale tipo di creazione separa la vecchia società dalla nuova. La separazione tra due formazioni economico-sociali è totalmente arbitraria e falsa se non si intende l'evento catastrofico della rivoluzione come soluzione discontinua, qualitativa, dovuta all'avanzare continuo, quantitativo, della forza produttiva sociale. I due termini che si utilizzano normalmente, trasformazione e metamorfosi, termini utilizzati anche da Marx, indicano il passaggio oltre la forma, non come creazione, bensì attraverso il cambiamento da una forma all'altra. La grande scoperta di Marx è che non vi sono barriere qualitative e quantitative che separano le formazioni economico-sociali, bensì barriere politiche. E' questo che fa saltare ogni pretesa gradualistica e, nello stesso tempo, ogni pretesa volontaristica. La rivoluzione per Marx non è il passaggio alla costruzione del comunismo: è l'eliminazione politica delle barriere che impediscono alla nuova società comunista di esplodere in tutta la sua potenza. Il termine comunismo non è mai utilizzato da Marx per descrivere un futuro modello di società, bensì per descrivere le condizioni attraverso le quali la nuova società si forma, compresa la nascita e lo sviluppo degli strumenti necessari per spezzare le catene rappresentate dal vecchio modo di produzione.

Tutti coloro che hanno una concezione diversa da questa si sentono esistere in un punto della storia, l'oggi, lo zero di cui parlavamo prima, e immaginano che questa loro esistenza sia il motore della storia successiva. Vanno avanti così per decenni, con ammirevole testardaggine, senza badare al fatto che il loro empirismo è demolito dalla constatazione empirica del loro totale fallimento. Aveva ragione Sartre a dire che l'esistenzialismo è un umanesimo, mette cioè al centro di ogni cosa l'uomo, il suo pensiero, la sua dignità, i suoi diritti, le sue speranze. Fallisce chi, stando fermo sullo zero, si pone un obiettivo e, agendo in modo qualsiasi (con tattica indeterminata, improvvisazione, dilettantismo e altri bellissimi termini di Lenin), non lo raggiunge.

Il comunismo esiste

E' dall'epoca dell'antica scuola di Elea che i paradossi sullo zero e sul movimento impegnano filosofi e matematici. Noi lasciamo volentieri perdere i filosofi di adesso: il marxista non fallisce, perché individua il percorso che porta all'obiettivo e cammina, senza preoccuparsi se questo percorso è lungo o se il passo è più lento di quello che la sua speranza vorrebbe. Il bello è che tutti, tutti noi che cerchiamo di fare un certo lavoro, tutti quelli che si intestardiscono a volere il comunismo futuro, persino l'umanità intera che non pensa affatto al comunismo, stiamo camminando sulla strada verso l'obiettivo. C'è un bel po' di confusione su questa strada, un viavai avanti e indietro, gente che corre, gente che frena, gente che fa fotografie... e comunque il movimento è più avanti che indietro. Marx, nel Manifesto, dice che i comunisti hanno prima di tutto la consapevolezza di essere su questa strada; in secondo luogo che non si distinguono dalla restante massa dei proletari se non per il fatto che hanno questa consapevolezza e che sono davanti, vedono l'obiettivo. Lo vedono, non lo creano.

A questo proposito, se volete finalmente la definizione inappellabile di comunismo eccola: il comunismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà debba conformarsi; esso è la soluzione dell'enigma della storia (del casino che c'è sulla strada); è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente e le condizioni di questo movimento esistono nella società così com'è; è il momento necessario per il prossimo rivolgimento storico, la struttura necessaria e il principio propulsore del prossimo futuro ed è consapevole di esserlo. Ma per questo non è, in quanto tale, la struttura della prossima società. Se infatti noi non vedessimo già oggi, nascoste nella società in cui viviamo, le caratteristiche della società futura, ogni proposito di far saltare il capitalismo sarebbe una follia. Questo è il Marx dei Manoscritti e dell'Ideologia tedesca e dei Grundrisse (7). Più chiaro di così...

Come comunisti, ci dice dunque Marx, bisogna prima di tutto avere la consapevolezza di essere sulla strada. Forse ne abbiamo reso un'immagine un po' terra-terra, ma è la stessa che ricaviamo anche dai testi di Bordiga sul partito, sul rovesciamento della prassi, sulla tattica (Tesi di Roma), contro l'utopia, ecc. Poi bisogna che riusciamo (non perché decidiamo di... ma nel senso che le condizioni materiali ci permettano di... sennò siamo daccapo col volontarismo) ad essere quelli che anticipano il percorso, quelli che hanno la mappa, la bussola, il sestante per fare il punto e non perdersi. Però non siamo delle molecole isolate dal resto dell’umanità e quindi non pensiamo affatto di essere i soli ad essere in grado di manovrare bussole e sestanti. Nessuno può lavorare in vitro, neppure se lo vuole. Siamo per forza il prodotto delle relazioni con altri uomini, siamo continuamente in relazione con essi, siamo dunque costretti a valutare in continuazione queste relazioni e di conseguenza ad estenderle nel limite del possibile e dei rapporti reali di forza. Noi dobbiamo scoprire chi sono e dove sono gli altri uomini mossi dallo sviluppo materiale della società verso gli stessi risultati che abbiamo raggiunto noi.

Se ci fossimo inventato tutto saremmo semplicemente degli idealisti come tanti altri, ma ci siamo sforzati invece di prendere risultati già pronti, elaborati e collaudati da coloro che ci hanno preceduti e che abbiamo ritenuto più in gamba di noi nell'elaborazione teorica. Quello che abbiamo fatto di nuovo, se ci è permesso di esprimerci così senza spaventare nessuno, è di studiare il materiale cercando di individuare quali sono gli invarianti e quali sono invece le parti storiche; che cos'è che fa parte della dottrina in ogni tempo e che cosa invece fa parte della dottrina come esperienza, come storia della sua stessa formazione.

Paradossalmente (ma neppure troppo), ricollegandoci alla dottrina viva, ci siamo collegati al mondo reale e siamo diventati alieni rispetto a certi canoni politici che ormai troviamo del tutto sclerotizzati. Ci piacerebbe se fossimo riusciti a raggiungere una situazione simile, fatte le dovute proporzioni, a quella vissuta da Marx ed Engels nei confronti della Lega dei comunisti, o di Lenin nei confronti del gruppo originario socialdemocratico, o di Bordiga nei confronti dell'Internazionale. Ecco, noi vediamo nei vari gruppi che si richiamano al marxismo, anche nei casi meno sbracati, una non ancora superata matrice terzinternazionalista, quella stessa che la Sinistra Comunista aveva già superato a partire dal 1921.

Siamo perfettamente convinti che agli occhi di molti non solo siamo attendisti, ma addirittura fuori da ogni relazione col mondo, degli iperuranici, come ci hanno simpaticamente definiti in un articolo. In quanto alieni, di un'altra galassia, possiamo però vedere le cose un po' dal di fuori rispetto alle solite diatribe sulla "questione" tale o talaltra, che ci sottolineano quanto poco ci si sia staccati dalla preistoria umana per proiettarci verso la storia. Una volta Bordiga lesse la Bibbia per mezz'ora ad una riunione generale di partito, commentandola sulla base di un'ipotesi russa secondo la quale Sodoma e Gomorra furono distrutte dall'esplosione atomica provocata da un'astronave aliena (8). A parte le esplosioni, proviamo dunque a metterci davvero nei panni di alieni molto progrediti tecnicamente e socialmente.

In quanto "marziani" che scrutano con occhio non influenzato né dalle ideologie né dalle politiche degli umani, per prima cosa troviamo che tecnicamente è un po' strano che vi siano i capitalisti, che non servono a nulla, dato che sono quasi dappertutto rimpiazzati da funzionari stipendiati. Da alieni progrediti, la sappiamo lunga sull'approccio scientifico ai problemi, perciò, prima ancora di andare a vedere che cosa sono quegli strani rapporti sociali che si chiamano di proprietà, notiamo che nei fatti essi potrebbero benissimo non esistere, dato che l'intera produzione e riproduzione di questa specie del terzo pianeta solare avviene senza che tali rapporti dimostrino la loro necessità. Per di più la proprietà, lo scambio, il denaro, in poche parole tutto ciò che si basa sul rapporto di valore, esiste solo al di fuori del mondo produttivo, perché all'interno di esso tutto viene già computato in quantità fisiche e non in segni di valore. In poche parole il mondo della produzione ha come uniche regole il progetto, l'organizzazione, l'esecuzione e il conteggio. L'autorità proviene dalla struttura di lavoro e non da un rapporto di proprietà, la politica non esiste, l'economia nemmeno, la democrazia, infine, è un totale non-senso (non si fa appello ad una maggioranza per organizzare un'officina). Vediamo subito che ciò potrebbe applicarsi benissimo a tutta la società, e che questo solo fatto renderebbe inutile non solo il capitalista, ma anche tutto l'apparato sociale che sta intorno alla produzione: dallo Stato alle banche, dalla polizia ai commercialisti e così via.

Sul momento saremmo portati a dire semplicemente: "come sono stupidi questi umani" ma, siccome siamo avanzatissimi, ci chiediamo quale sia il motivo materiale per cui esseri di buona intelligenza e di ottima tecnologia si tengano una forma sociale così inefficiente (naturalmente non sappiamo ancora nulla degli umani, ma sappiamo tutto sulle leggi fisiche, compresa la termodinamica, la dissipazione dell'energia ecc.). Vediamo allora che per trasformare le potenzialità non utilizzate in forza cinetica non basta affatto la concezione corrente per cui qualcuno dovrebbe lottare per costruire una società nuova, compito che neppure le antiche mitologie se la sentirono di assegnare a innumerevoli Titani. Ci vorrebbe un organismo che rendesse evidente la facilità del compito reale, non l'estrema difficoltà di un compito utopico.

Il partito del proletariato può nascere solo sulla base di questi presupposti, che significano distruzione della politica, non di vaghe riproposizioni della vecchia politica, quella tipica dell'ultimo stadio raggiunto dall'ultima rivoluzione. Ma ci si rende conto che, in un mondo connesso in rete, le cui relazioni sono molto più strette di quelle che già Lenin definiva del "capitalismo di transizione", in cui la socializzazione del lavoro integra l'intera popolazione mondiale, c'è gente che magari ritiene di essere più comunista di altri perché non ha smesso di discutere su centralismo democratico o centralismo organico? Ci si rende conto che c'è gente che discute su sindacato sì, sindacato no, come se dovessimo rispondere ai kaapedisti del 1920, gente che si fa un fegato così sulla questione nazionale e coloniale, come se fossimo a Baku, dove i capi dei clan sparacchiavano per contentezza sui soffitti dagli stucchi preziosi nei palazzi della nobiltà spodestata? Come se non ci avessero già pensato gli Stati Uniti, forza rivoluzionaria della forza produttiva borghese, ad eliminare per sempre tutte le colonie, addirittura tutte le "nazioni" (9). Non sono, questi, discorsi bizantini, perché certe concezioni finiscono per essere materia che determina l'azione in momenti cruciali: guai se i proletari insorti si facessero impelagare in certe paludi tattiche. Quelli sono gli orpelli che la rivoluzione spazzerà via.

Nessun messia deve venire

Noi dobbiamo distillare da tutto il patrimonio quella preziosa goccia di teoria invariante immersa in un mare di resoconti di lotte, di scontri, di vittorie e di sconfitte che copre migliaia e migliaia di pagine e che non si può fotocopiare a pezzi ed utilizzare come fa comodo. Dovremmo essere in grado, una volta assimilati gli invarianti e studiato l'esperienza viva, di fare il nostro lavoro senza neppure nominare Marx, Engels, Lenin, come il fisico non nomina tutte le volte Newton, Keplero o Galileo quando prepara e calcola il viaggio di una sonda fino ai confini del Sistema Solare. L'utilizzo dei grandi nomi per esprimere cose, situazioni e lavori è come ridurli a fronzoli inutili. Non è la prima volta che lo diciamo. Chi ha visto in queste nostre affermazioni la tendenza ad "innovare" vada pure al diavolo, dacché non ha capito né la Sinistra né Marx né altro. Il nostro principio elementare è quello di avere estrema diffidenza delle chiacchiere. Bisogna sempre tener presente che le parole sono simboli di comunicazione e che possono essere utilizzate, da sole, per dire tutto quel che si vuole con l'ineffabile comodità di non poter essere mai smentiti, per discutere all'infinito. Sono anni che cerchiamo di diffondere la sana abitudine alla relazione fra i concetti, al legame che deve esserci tra le parole e ciò che ad esse corrisponde sia nel mondo fisico che in quello dei fondamenti, i quali, a loro volta, derivano da un ben preciso quadro di riferimento teorico. Certo, neppure così si è garantiti contro la fesseria, ma in qualsiasi altro modo la fesseria è invece garantita.

Questo non è un lusso accademico. Questo è il metodo che ci hanno insegnato. Fuori da questo metodo c'è solo chiacchiera e sconfitta. Ecco perché ormai possiamo, dobbiamo, fare a meno dei fronzoli e dell'appello ai grandi nomi in veste di messia. Possiamo? Se abbiamo imparato a maneggiare la teoria la risposta deve essere: sì. Ciò non significa oscurare i nomi di Marx e degli altri. Oggi li abbiamo citati e continueremo a farlo. Quel che non dobbiamo fare è continuare lo scempio, la riduzione ad orpello inutile o, come diceva Lenin a icone inoffensive di qualche dio mitologico. Demoliamo la concezione religiosa del comunismo e cerchiamo di capire una buona volta che quelli che citiamo non erano inviati del cielo, ma portavoce di cose esistenti nella società così com'è, scienziati delle cose umane, che ci hanno fornito strumenti formidabili da usare, non parole da ripetere.

Nella relazione precedente è stato ricordato che Marx non ha scoperto le classi e la lotta di classe. In effetti egli non ha scoperto nemmeno una delle categorie che utilizza nella sua grande opera, a dimostrazione che non sono tanto importanti i singoli aspetti della realtà, quanto le relazioni che li legano tra loro. Marx non avrebbe potuto vedere le relazioni che rendono possibile la descrizione della società futura se esse non fossero state già presenti in questa. Così come uno scienziato del mondo fisico non potrebbe descrivere la natura, attraverso la scoperta di sempre nuove e più precise leggi, se la natura stessa non possedesse una dinamica ben individuabile, degli invarianti e degli stati differenti nel tempo. Insomma, continuando il discorso di Demoni pericolosi e Militanti delle rivoluzioni, vogliamo dimostrare che non è stato Marx a scoprire il comunismo, ma che è stato il comunismo a scoprire Marx (10).

Il ragazzo ha 19 anni quando, da studente a Berlino, nel 1837, scrive una "strana" lettera al padre, già da noi utilizzata per la sua importanza, in cui accenna al suo programma di ricerche. Non delinea solo un programma di studi scolastici ma comunica una svolta decisiva della sua vita. Proviamo ad analizzarla più da vicino:

"Vi sono momenti, nella vita, che, come segnali di confine, concludono un periodo ormai trascorso, ma al tempo stesso indicano con certezza una nuova direzione. In simili momenti di transizione sentiamo il bisogno di contemplare con l'occhio d'aquila del pensiero il passato e il presente, per giungere così alla coscienza della nostra reale situazione".

Marx parla di sé stesso, ma contemporaneamente del mondo e della storia. Nei passi successivi intreccia momenti della sua esperienza privata con la storia dell'universo. E' esuberante, eccessivo, senza limiti. La descrizione della sua crisi giovanile berlinese è un paradigma del romanticismo tedesco e i suoi turbamenti straziano un'anima che non aspettava altro se non di essere straziata. Ma i dolori del giovane non sono pene d'amore né di convivenza (né Werther né Törless) dato che, anzi, scrive di Jenny come di un'ancora di salvezza, e sappiamo che non disdegnava le baldorie. Se dapprima sembra non riconoscere i motivi del malessere, le sue ricerche sfociano poi in alcuni sprazzi che anticipano come, nel breve volgere di alcuni anni, avrebbe potuto esplodere la potenza del nuovo metodo. Gli scogli dell'esistenza non erano più aspri di quelli dei suoi sentimenti - così si mette a parlare - e le tavole delle trattorie non erano più sovraccariche e indigeste delle fantasie che si portava dentro. Per descrivere il suo stato d'animo a Berlino, quello che lo porterà a rompere tutti i legami con le persone conosciute e ad "immergersi nella scienza e nell'arte", spinge sull'iperbole. Scrive che avrebbe dovuto studiare giurisprudenza, ma che dovette fare i conti con l'arte e che finì per essere "spinto a lottare con la filosofia". Il romanticismo, ancora utilizzato nella forma, è criticato nella sostanza là dove egli tratta dei suoi esperimenti letterari come cosa passata, arcaica. Anche la filosofia non lo soddisfa. Trova "assai fastidioso" il procedimento metafisico e l'inversione di precedenza fra pensiero ed essere; anticipa la necessaria riunione oggetto-soggetto (che troverà in Hegel) con l'esempio della "forma non scientifica del dogmatismo matematico", in cui il triangolo, viene trattato in modo del tutto platonico, una forma ideale separata dalla realtà. E introduce il concetto secondo il quale "nell'espressione concreta del vivente mondo del pensiero" nulla debba essere separato e che l'oggetto debba essere "silenziosamente spiato nel suo sviluppo", in modo che ogni cosa si dimostri conflittuale "in sé" e possa quindi trovare "in sé" la sua propria unità.

Turbato dall'inconcludenza dei testi giuridici sul possesso, racconta al padre come aveva cercato di uscirne. Traccia perciò nella lettera uno schema che subito dopo definisce inutile ("a che scopo continuare a riempire altri fogli con cose che io stesso ho ripudiato?") perché si era accorto "dell'erroneità dell'insieme". Dice di aver scritto un trattatello, non pervenuto fino a noi (vedremo dopo il perché), in cui aveva cercato di delineare un nuovo "sistema di base del diritto privato materiale". Ma neanche questo lo soddisfa, e lo definisce assurdo, insieme con tutte le sue fatiche precedenti.

Marx e il Quarantotto maturano insieme

Ritorna alla poesia con poco successo letterario, ma attraverso l'arte, come con un colpo di bacchetta magica - dice - "il regno della vera poesia mi balenò davanti e tutte le mie creazioni si dissolsero nel nulla". Possiamo tranquillamente interpretare il passo non come inerente alla poesia in sé, bensì in riferimento alla nuova poesia, quella che è descritta nelle righe successive, quella che unisce arte e scienza, finora indebitamente separate. Qui, è qui che succede qualcosa. Marx, ragazzo fragile, si esaurisce. Va in campagna dietro suggerimento di un medico. Ritorna, per sua ammissione, uomo dal corpo saldo e robusto: "un sipario era caduto, nuovi dèi dovevano essere insediati". Abbandonato l'idealismo kantiano e fichtiano, che era stato per lui modello e alimento, declama:

"Giunsi a cercare l'idea nella realtà stessa. Se prima gli dèi avevano abitato al di là e al di sopra della Terra, ora ne erano divenuti il centro. Avevo letto frammenti della filosofia di Hegel, la cui grottesca melodia rocciosa non mi era piaciuta. Volli ancora una volta tuffarmi nel mare, ma con la ferma intenzione di trovare la natura spirituale altrettanto determinata, concreta, e saldamente conchiusa di quella fisica".

Durante la malattia aveva letto "dal principio alla fine" tutto Hegel. Al ritorno, scrive un dialogo, purtroppo anche questo perduto, intitolato Cleante, o del punto di partenza e del necessario svolgimento della filosofia, in cui riunisce arte e scienza che prima erano del tutto separate. Per questo lavoro deve impadronirsi di "una certa conoscenza della scienza della natura, di Schelling e della storia, che [gli] era costato una fatica infinita" (11). Questo lavoro finisce dove comincia la lettura di Hegel ed era scritto "in modo tale - poiché doveva essere propriamente una nuova logica - che adesso io stesso stento ad addentrarmici". E' di nuovo insoddisfatto, perché l'utilizzo delle categorie idealistiche lo stava riportando "tra le braccia del nemico". Si arrabbia talmente che per un po' di tempo non riesce neppure a pensare. Allora lascia da parte la filosofia e studia opere di scienza "positiva", compresa la storia attraverso il diritto, risalendo nei tempi fino alla corrispondenza fra i papi e i re franchi. Nel frattempo, a Berlino, conosce il circolo degli hegeliani, lo frequenta, si lega "sempre più saldamente all'attuale filosofia del mondo", ma è sempre peggio, perché ormai "ogni armonia era ammutolita" e la sola risposta che gli viene è una "smania d'ironia". Decide perciò di "mettersi al passo" con la contemporanea "concezione scientifica" scrivendo altre "brutte opere", anche queste andate perdute.

"Perdute" è un modo di dire. Gli appunti e "le brutte opere" non erano evidentemente degne, per l'autore, di passare ai posteri. Egli le brucia tutte, meno una che spedisce al padre, "nell'illusione di potersene distogliere", ma il fuoco non riesce a fargli raggiungere l'intento.

Il padre risponde rudemente richiamando il giovane alla disciplina (12). Ha forse dimenticato che bisogna provvedere "all'incantevole Jenny"? E allora si dia da fare per "bandire i cattivi spiriti" e trasformare "un giovane inselvatichito in un uomo ordinato, un genio negativo in un vero pensatore, un dissoluto capoccia di giovani dissoluti in un uomo socievole", insomma di far carriera presto e bene. Tra le "brutte opere", l'unica non bruciata che il giovane Karl aveva spedito al padre, riceve questo commento: "una folle abborracciatura che indica soltanto come tu sperperi le tue doti e vegli le tue notti soltanto per partorire mostri". Purtroppo anche l'ennesimo "mostro" finì bruciato o perso.

Fortunatamente il demone del comunismo era più forte del sermone paterno e la rivoluzione aveva ormai sequestrato, per i suoi fini e per sempre, il giovane "insensato" e la sua compagna, mentre da altre parti altri militi venivano reclutati all'insaputa l'uno dell'altro. Per il momento.

Era vero, aveva ragione il padre a dire che stavano per essere liberati dei mostri (che vuol dire cose eccezionali, fuori dell'ordinario) perché il mondo stava entrando, senza rendersi conto, in un'epoca di trasformazioni rivoluzionarie. Non nelle idee - questo sarebbe avvenuto dopo - ma nei fatti. Stava succedendo che la filosofia l'aveva finora interpretato, questo mondo, mentre invece la forza produttiva sociale lo stava cambiando e col cambiamento andavano in pezzi tante vecchie cose. Marx, e gli altri come lui, stavano entrando in sintonia col cambiamento materiale e di lì a poco l'avrebbero anticipato. Stava succedendo che la scienza entrava nel mondo della produzione e quest'ultimo dava impulso alla scienza, in un anello rivoluzionario. Engels, che non conosceva ancora Marx, conia il termine "rivoluzione industriale". E' l'epoca del carbone, del ferro, del cotone e del vapore; un intreccio micidiale. L'energia liberata dalla materia muove le prime macchine automatiche tessili, e si generalizzano nelle campagne quelle agricole. Trionfa la chimica e, sulla base del rammarico per l'ancora basso rendimento delle macchine (4-5%), si impongono le leggi della conservazione dell'energia. Nasce l'ingegneria moderna basata sulla scienza generalizzata e non sull'estro individuale, si sviluppa la rete delle ferrovie e del telegrafo che, come dice Marx, aumenta la densità relativa della popolazione, avvicinandone i componenti. Con Oken e Liebig in Germania e Babbage in Inghilterra, la scienza organizzata diventa definitivamente un fatto sociale e si impadronisce, per ultima ma alla grande, delle università. Ci vorrà una rivoluzione europea perché si possa parlare dell'evoluzione scombussolando le antiche concezioni sul mondo vivente.

Di lì a poco ci sarebbe stato il '48 e sarebbe uscito il Manifesto con la registrazione di questo semplice (ma a quanto pare difficilissimo da digerire) fatto: non erano gli uomini a costruire il partito comunista, ma era il partito storico del comunismo che si costituiva chiamando poi gli uomini a riempirlo, a dargli struttura formale. Chiunque abbia una visione diversa della formazione del partito è un avversario del marxismo.

Se il comunismo esiste, esiste anche il suo partito

Marx aveva appena incominciato a chiarirsi le idee che la lotta era già incominciata: il buon padre Heinrich, inconsapevole portavoce della società che si conserva, aveva detto bene: mostri. E la lotta sarebbe stata terribile. Occorreva, secondo la terna tratteggiata da Amadeo, utilizzare la filosofia, giungere al livello sufficiente per poterla criticare ed infine assistere, in una lotta in armonia con l'avanzare del mondo reale, della forza produttiva sociale e del proletariato con il suo partito storico, alla sua estinzione.

Marx ed Engels non intendevano affatto, col Manifesto, fondare un particolare partito operaio di fronte agli altri partiti operai. Lo dicono, lo ribadiscono, basta leggere. Eppure l'opuscolo è intitolato manifesto del partito comunista, non manifesto del comunismo, cioè di una particolare corrente filosofica. Il partito per essi non è un'organizzazione costituita allo scopo di riformare il mondo. D'altra parte, nell'opuscolo, la classe operaia è l'elemento determinante e risolutivo della prossima rivoluzione. Come si risolve questa apparente contraddizione - il partito comunista non è un partito operaio fra gli altri e nello stesso tempo è il partito della classe operaia - così indigesta per generazioni di militanti? Perché lo specifico partito della classe operaia dovrebbe ad un certo punto produrre un manifesto per dire che di partiti operai ce ne sono già abbastanza e non è il caso di aggiungerne un altro?

"Il Capitale" si legge nel Manifesto, "non è una potenza personale, è una potenza sociale". L'antitesi del capitale non è la classe operaia ma il comunismo. La classe operaia di per sé è una classe per il Capitale, lo vivifica con il suo lavoro, è il complemento della classe borghese nella produzione e riproduzione capitalistica. Quindi l'opuscolo di Marx ed Engels non è il manifesto di un partito operaio e neppure del partito operaio, ma il manifesto del partito comunista, del partito storico della rivoluzione in atto, di quel "movimento reale che demolisce lo stato di cose presente". Solo con la saldatura fra la classe operaia e il comunismo può realizzarsi la struttura formale, organizzata del partito, ma guai a concepire una storia senza partito storico, senza comunismo. Sarebbe come dire che il partito lo "costruirà" qualcuno un giorno, che il comunismo si "edificherà", come dicevano gli stalinisti scambiando gli obiettivi dell'umanità con i cantieri edili.

Ecco perché nel Manifesto si dice che i comunisti sono in mezzo agli altri uomini, proletari e non proletari, e non si distinguono dagli operai per la lotta o per le forme di questa lotta; non si distinguono nell'organizzazione immediata o per la forma organizzativa immediata che potrebbero suggerire. Lottano con gli "altri", lavorano per l’unificazione di tutte le forze indirizzate contro le condizioni esistenti, qualunque natura abbiano tali forze: che siano rivoluzionarie nazionali, anticoloniali, razziali, contadine, proletarie; qualunque movimento si riveli effettivamente distruttivo nei confronti dell’esistente i comunisti l'appoggiano. Occorre la citazione o siamo presi in parola? Comunque eccola: "i comunisti appoggiano dappertutto ogni moto rivoluzionario contro le condizioni sociali e politiche esistenti" (Manifesto).

Sembrerebbe chiaro e lo è, ma sono esattamente centocinquant'anni che i comunisti si scornano su che cos'è rivoluzionario e che cosa no, che cosa vada appoggiato e che cosa no. Per noi è evidente che la chiave sta nella seconda metà della citazione: quali sono le condizioni politiche e sociali esistenti contro cui i comunisti lottano sempre e ovunque? Per noi era chiaro che la Russia stalinista faceva parte delle condizioni politiche e sociali esistenti da combattere, ma allora non lo era quasi per nessuno. C'erano milioni di operai che credevano nel socialismo sovietico edificato e in marcia verso il comunismo. Adesso è chiaro a tutti, speriamo, che si trattava di un'immane mistificazione controrivoluzionaria. Questo risultato nella chiarezza dei rapporti non l'ha raggiunto un partito formale, ma il partito storico.

Se è vero, com'è vero, che i partiti e le rivoluzioni non si fanno, ma si dirigono, è anche vero che si dirige qualcosa che c'è e che non è più da "fare".

Il vecchio Labriola cui prima accennavamo, sarà stato un socialista dell'Ottocento, ma aveva capito bene questi temi che oggi si fatica così tanto a digerire. Nel manifesto del partito comunista non si rende pubblica una nuova ideologia di successo ma prende corpo l'esplosione della scienza e dell'industria che avanzano, del proletariato che si rafforza e si organizza. Bisognerà che un giorno o l'altro pubblichiamo lo scritto di Labriola in memoria del Manifesto. Egli capisce benissimo che l'opuscolo non è opera di Marx ed Engels, di due "autori", bensì di un sommovimento materiale nello sviluppo della forza produttiva sociale cui corrispondono già nuovi rapporti:

"Il nerbo, l'essenza, il carattere decisivo di questo scritto consistono del tutto nella nuova concezione storica che esso stesso in parte dichiara e sviluppa. Per questa concezione il comunismo, cessando dall'essere speranza, aspirazione, ricordo, congettura o ripiego, trovava per la prima volta la sua adeguata espressione nella coscienza della sua propria necessità; cioè nella coscienza di esser l'esito e la soluzione delle attuali lotte di classe. Né queste son quelle di ogni tempo e luogo, su le quali la storia del passato s'era esercitata e svolta; ma son quelle, invece, che tutte si riducono predominantemente nella lotta tra borghesia capitalistica e lavoratori fatalmente proletarizzati. Di questa lotta il Manifesto trova la genesi, determina il ritmo di evoluzione, e presagisce il finale effetto. Da questo punto in poi gli avversari teorici del socialismo non sono chiamati più a discutere della astratta possibilità della democratica socializzazione dei mezzi di produzione, come se di ciò s'avesse a far giudizio per illazioni tratte dalle generali e comunissime attitudini della così detta natura umana. Qui si tratta invece di riconoscere, o di non riconoscere, nel corso presente delle cose umane, una necessità, la quale trascende ogni nostra simpatia ed ogni nostro subiettivo assentimento. Trovasi o no la società d'essere ora così fatta, nei paesi più progrediti, da dovere essa riuscire al comunismo per le leggi immanenti al suo proprio divenire, data la sua attuale struttura economica, e dati gli attriti che questa da sé e in sé stessa necessariamente produce, fino a far crepaccio e dissolversi? Ecco il soggetto della disputa dopo che tale dottrina è apparsa. Ed ecco insiememente la regola di condotta che si impone ai partiti socialisti" (13).

Il Manifesto del partito comunista è il prodotto della scienza dell'industria e del proletariato che avanzano facendo grandeggiare e nello stesso tempo distruggendo capitalismo, è una finestra che rende possibile vedere non una idea che nasce ma un intero mondo di nuova energia che esplode. Su tante cose possiamo non essere d'accordo col vecchio Labriola, ma in tutto il suo scritto sentiamo l'effetto del partito storico che opera, nonostante che nel 1895, quando fu redatto questo opuscolo, gli opportunismi fossero già tutti nati e pasciuti di "innovative" tendenze e i partiti formali fossero già ben compenetrati nel tessuto sociale esistente. E' in questa situazione che il vecchio socialista richiama il neonato PSI, di cui è esponente, alle regole che si impongono per una lettura non riformista del Manifesto. E in quella veste egli rappresenta il partito storico, si fa portavoce del comunismo che esiste, che è descritto nel suo stesso monito.

Per i borghesi il comunismo è invece morto e sepolto. Che cosa secondo loro è morto? Ma ovvio: l'idea che loro avevano del comunismo, dato che credevano fermamente che questo consistesse in una utopia o in qualche specie di dottrina finalista. Invece di essere un cadavere, il comunismo è più arzillo che mai. Ma da dove arriva? Sono esistiti, nella storia dell'umanità, esempi di comunismo? Oppure vi è un momento a partire dal quale possiamo cominciare a parlare di comunismo? Se accettiamo la definizione che ne dà Marx, quella secondo cui il comunismo è un movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, esso è il movimento dell'intera storia dell'umanità dalle origini fino... possiamo dire fino alla sua realizzazione completa? Ma forse è vero, nel termine "realizzazione" c'è ancora un po' di utopismo. Vediamo se ci riesce di essere precisi.

Note

(5) Non è da molti anni che le teorie della comunicazione sono finalmente riuscite a influenzare l'analisi critica in ogni campo. Oggi sarebbe assurdo, come per esempio nel caso delle vecchie esegesi sul testo dantesco, parlare di livelli di significato (letterale, allegorico, morale, anagogico ecc.). In ogni testo il contenuto è inscindibile dall'interazione che si stabilisce con il lettore, ovvero dai diversi livelli di comunicazione fra il testo e ciò che viene suscitato, messo in movimento, nelle conoscenze o nelle aspettative del lettore stesso. Per questo si possono conoscere a memoria i testi di Marx e non sapere un fico secco di ciò che Marx ha detto veramente. Riportiamo un passo da una lettera di Bordiga sulla difficoltà di comprendere i testi: "Dunque i lavoratori non devono far corsi di filosofia o di altro, ma devono solo combattere per la propria classe. Mi ricordo che allora, al solito sfiorando sottigliezze nell'uso dei termini esatti, si disse che io contrapponevo alla cultura di Tasca la "fede" e il "sentimento" socialista. In un certo senso è così: ma sarebbe altro grave errore vedere in questo uno slittamento fuori del sano materialismo. Quello che volentieri derido è la "coscienza" chiesta ad ogni singolo combattente di classe: vedi riunione di Roma e relativi schemi della praxis marxista. Prima agire da rivoluzionari poi capire e dissertare: perciò al posto dell'individuo (soldato o maresciallo) abbiamo il partito di classe" (Lettera a Salvador, 23 novembre 1952).

(6) Trotzky aveva una sua "teoria della rivoluzione permanente", con aspetti contraddittori: da un lato la corretta impostazione, che era la stessa di Lenin per i paesi arretrati, sulla dittatura politica del proletariato, la saldatura con i contadini e la soluzione totalitaria dei compiti arretrati, cioè capitalistici. Dall'altro, dicendo che "la rivoluzione democratica si trasforma direttamente, nel corso del suo sviluppo, in rivoluzione socialista", invertiva, rispetto a Marx, i termini della questione . Per quest'ultimo è la rivoluzione proletaria che spazza via i residui democratici, mentre per Trotzky (e lo dimostrerà con le sue capitolazioni di fronte alla democrazia nei paesi "maturi") il proletariato può essere "forza dirigente della rivoluzione democratica" e, una volta conquistato il potere, fare "incursioni profonde nel diritto borghese della proprietà" (cfr. L. Trotzky, La rivoluzione permanente, Einaudi, pagg. 125-129). Questa confusione in Mao non c'era: per lui "portare la rivoluzione fino in fondo" in Cina, significava semplicemente portare a compimento la rivoluzione democratica borghese in quanto tale (cfr. Mao Tse Tung, La rivoluzione fino in fondo, Edizioni Oriente, pag. 115-126).

(7) La definizione è un insieme di passi, citati a memoria, che si trovano in: Manoscritti, Marx-Engels, Opere Complete vol. III. Editori Riuniti, pagg. 324 e 334; Ideologia tedesca, vol. V, pag. 34; Grundrisse, Einaudi, vol. I pag. 91. Vedere anche l'articolo chiarissimo di Engels I comunisti e Karl Heinzen, in Opere Complete, Editori Riuniti, vol. VI pag. 321.

(8) Si tratta dei capitoli 18 e 19 della Genesi; fu confrontato il testo biblico con le ipotesi di un fisico-matematico pubblicate sulla Literaturnaja Gazeta.

(9) La borghesia ha bisogno di differenziarsi secondo il territorio e trovate come quella del "villaggio globale" di McLuhan ci lasciano indifferenti. Il Capitale e il proletariato, invece, anche se dipendono entrambi dagli attuali rapporti di proprietà borghesi, non hanno patria. La contraddizione è risolta con la forza. Vedere per esempio Il proletariato e Trieste, dove si rileva, già nel 1950, la perdita d'indipendenza degli Stati imperialistici minori rispetto allo scacchiere strategico che impegnava le due grandi potenze di allora. Oppure Patria economica, dove si afferma, a proposito della Persia di Mossadeq con la sua rivendicazione d'indipendenza economica, che è rivoluzionario il "diritto" di sfruttare il petrolio da parte di chi lo adopera, cioè da parte dei paesi capitalistici, e non da parte di chi ne rivendica solo la proprietà (i due testi sono in Fattori di razza e nazione, ed. Quaderni Internaz.).

(10) Cfr. le nostre Lettere ai compagni nn. 31 e 33. La lettera di Marx studente citata subito dopo è in K. Marx, Lettera al padre a Treviri, in Opere Complete, Editori Riuniti, vol. I pag. 8.

(11) Cleante è un filosofo della scuola stoica; ne prese la direzione abbandonando l'indirizzo cinico-pratico del fondatore a favore di una visione teoretica e speculativa. L'influenza di Schelling su Marx è generalmente sottovalutata, forse perché sono ben conosciuti gli attacchi successivi di quest'ultimo nei confronti del vecchio filosofo. Al tempo degli studi del giovane Marx a Berlino, Schelling era ormai portatore di una visione trascendentale ed aveva anche una pratica funzione reazionaria nel mondo della filosofia. Viene per esempio chiamato all'università di Berlino per raffreddare i bollenti spiriti degli hegeliani. Marx, in una lettera del 3 ottobre 1843, lo chiama "pallone gonfiato" e chiede a Feuerbach se non possa scrivere qualcosa di organico contro di lui. Mehring, nella sua biografia di Marx, non si cura di Schelling, passando subito ad Hegel e ai suoi allievi; egli parla poco della lettera di Marx al padre mentre si diffonde sulla reazione di quest'ultimo, preoccupato per il "demone" che aveva preso il giovane Karl. Eppure nel brano da noi citato è espresso chiaramente il tributo a Schelling: nelle sue opere evidentemente Marx trova conferma della necessità di un legame fra la filosofia e le scienze della natura. Se Marx non "inventa" ma opera relazioni nuove, anche Schelling non si sottrae a questa determinazione; egli è attratto dalle scoperte che precedettero la rivoluzione industriale, come quella dell'ossigeno da parte di Priestley, dell'inesistenza del flogisto da parte di Lavoisier, dell'elettricità da parte di Galvani e Volta. E' il mondo scientifico che permette a Schelling di trovarvi una struttura specifica della conoscenza, e nello stesso tempo di delineare una concezione "monistica" e dinamica della natura, nella quale risulta estranea l'antica antitesi fra mondo organico e inorganico. Di questo è tributario Marx, anche se Schelling rimane un filosofo idealista con venature mistico-religiose, specie nell'ultimo periodo della sua vita (quello della "rivelazione", come dice Marx).

(12) Il 17 novembre e il 9 dicembre del 1837, Op. compl. cit. pagg. 782 e 784.

(13) Antonio Labriola, In memoria del Manifesto dei comunisti, Edizioni Avanti!, pag. 29.

Lettere ai compagni