Newsletter numero 85, 20 novembre 2005

L'odio si diffonde a macchia d'olio ed è odio di classe

La rivolta iniziata nelle periferie di Parigi si è estesa a macchia d'olio nei maggiori centri francesi fino a interessare più di 300 città. In Belgio, in Olanda e in Grecia vi sono stati episodi analoghi. Fin dall'inizio sono nate discussioni sulla natura di questa ondata di violenza: è solo dovuta a un sottoproletariato qualunquista e strafottente? O ha genuine radici di classe ed è quindi suscettibile di diventare qualcosa che va oltre ai roghi di automobili ed edifici? Perché il casseur non rivendica nulla e irride all'agognata "integrazione"? Perché, come si fa di solito, non presenta suoi interlocutori per una trattativa col nemico? Molti dei protagonisti sono figli di seconda e persino terza generazione di coloro che fecero il boom economico. Ora che il lavoro non c'è più, essi alimentano la sovrappopolazione relativa della quale il Capitale oggi non sa che farsene. Non c'entrano le spiegazioni "etniche": l'agglomerato urbano di Parigi ha 10 milioni di abitanti e solo 2 milioni abitano nella municipalità centrale. Non ci sono 8 milioni di "islamici" nelle banlieues parigine. Qui la disoccupazione è del 20,7%, e tocca il 40% nelle aree da cui è partita la rivolta (Zone Urbane Sensibili, le chiama lo Stato). Storcano pure il naso i benpensanti di destra e sinistra, ma questo è il "nuovo" proletariato senza riserve, precario, sottopagato, schiavizzato, che sa di non poter "rivendicare" un lavoro che non c'è. Le rivendicazioni le aveva già presentate quello "vecchio", una o due generazioni fa; le trattative erano già state intavolate; adesso quello nuovo ne vive le conseguenze nei ghetti che furono l'orgoglio del capitalismo costruttivo e integratore, nei quali è trattato come una bestia. Volete pure che gentilmente ringrazi?

1951: Avanti, barbari!

Perché distruggono le automobili?

Il principale bersaglio dell'ondata di violenza in Francia è costituito dalle automobili: 8.500 sono state incendiate in tre settimane di rivolta, ma negli ultimi mesi ne erano state distrutte 21.900, sistematicamente e senza baccano mediatico. Un furore che non è stato per niente "cieco", dato che si è manifestato contro uno dei simboli del consumo di massa dal quale gli abitanti delle periferie sono sistematicamente tagliati fuori: merce per eccellenza, locomotiva del PIL, prodotto dell'operaio tradizionale con posto fisso, nonché serial killer meccanico, quarta causa di morte dopo le cardiopatie, il cancro e la malasanità. La sociologia c'entra ben poco: quando i sanculotti, diseredati e disprezzati, assaltarono, aprirono, incendiarono e poi demolirono con rabbia la Bastiglia, non pensarono neppure per un attimo alla rivoluzione borghese di cui erano parte, lo fecero e basta. Quando le petroleuses della Comune del 1871, poi fucilate a decine dalla sbirraglia versagliese, incendiarono i palazzi del potere borghese, non pensarono affatto alla "società futura", lo fecero e basta. Come recitano i Fonky, rappers parigini: "Ci state strizzando/ Bene, adesso lo sapete/ Ci dovremo difendere/ E non cercate poi di capire".

2002: Evitare il traffico inutile

Risveglio dal torpore della libertà borghese

In Australia lo sciopero diventa illegale. Il governo potrà di fatto interrompere ogni sciopero ritenuto in contrasto con gli interessi economici della nazione. Vi sarà libertà di licenziamento e ai sindacati sarà vietato entrare nelle nuove aziende. L'esperimento è condotto nell'appartata Australia ma apre la strada ad ogni paese che intenda restare competitivo sul mercato globale. La vecchia talpa continua a scavare… costringendo i borghesi all'esplicita ammissione che non può esserci compatibilità fra gli interessi del Capitale e quelli dei proletari. Molto bene: invece della poltiglia interclassista, cui s'era abituato il proletariato d'Occidente grazie alle briciole raccolte sotto il tavolo imbandito della ricostruzione postbellica, avremo un netto e salutare antagonismo di classe. Dopo anni di immobilismo, i proletari australiani, pur incanalati nelle vecchie Unions che li avevano portati a questa situazione, sono scesi in piazza, 200.000 a Melbourne, mezzo milione in tutto il paese. La polarizzazione sociale non poteva rimanere prerogativa della borghesia: ovunque il nuovo proletariato incomincia ad accettare questo terreno di scontro diretto, senza compromessi e trattative da parlamentini. Per ora timidamente; o, come nelle periferie delle metropoli europee, con manifestazioni di rabbia pura. Ma da entrambe le parti avanza un'autentica contrapposizione, un risultato chiarissimo del movimento reale, "anonimo e tremendo", negatore dello stato di cose presente.

1949: Il marxismo e la questione sindacale

Schiavizzante sottoccupazione giovanile

Gli ultimi risultati di una ricerca del Censis, fatta per conto del Ministero del Welfare, mostrano una diminuzione del lavoro sommerso nelle aziende italiane: le imprese irregolari scendono dal 22,3% del 2002 al 9,7% del 2005. E' ovvio: la legge Biagi inizia a funzionare, rendendo legale ciò che prima non lo era. Nel frattenpo la nerissima disoccupazione diventa schiavistica sottoccupazione, tempo di lavoro parzialmente non pagato. L'eufemismo "lavoro flessibile" nasconde in realtà il tentativo di utilizzare comunque, anche a costo di ritornare a forme inusitate di sfruttamento assoluto, una popolazione in esubero rispetto ai posti di lavoro esistenti. Infatti il lavoratore precario è per definizione a basso rendimento, nonostante sacrifichi la propria vita nella costante ricerca del lavoro, o nel mantenere quel poco che ha. Egli però incomincia a comprendere che questa non-vita è ormai condizione irreversibile, e non si tornerà mai più al tran-tran sindacale di una volta. Sente che la legge Biagi si limita a rendere ufficiale la dinamica spontanea del mercato, che perciò è inutile contrapporle la solita riformistica "creazione" di posti di lavoro, la quale ricorda più la Bibbia che non la scienza sociale: non è la legge che ha prodotto il cambiamento, è il cambiamento che ha prodotto la legge. Altra soluzione? Semplicemente, entro questa società non c'è.

2003: La legge Biagi o il riformismo illogico del Capitale-zombie

Che cosa sta succedendo veramente in Val di Susa?

La questione della linea ferrovaria ad alta velocità Torino-Lione è vecchia di 15 anni. Si tratta di aggiungere all'esistente strada ferrata, all'autostrada, a due strade statali e alla rete di strade locali del fondovalle (dove c'è anche un fiume) una nuova linea dedicata esclusivamente ai treni veloci. Di per sé essa non serve a niente, così come non servono a niente tutte le consorelle superveloci, sono keynesismo puro. Ma questo non spiega l'enorme impatto che la questione ha provocato in chi nella valle ci abita e lavora. E neppure la grande mobilitazione si spiega con la rovina dell'ambiente, con anni e anni di cantieri aperti, con le tracce di amianto e persino di uranio rilevate dalle sonde: la popolazione italiana ha sopportato ben altro a questo proposito, ed è vissuta collaborando attivamente allo scempio. Non si tratta infatti di acquisita sensibilità ecologica ma di soglia di sopportazione oltre la quale un qualsiasi motivo può rappresentare l'elemento catalizzatore di una lotta. La Valle di Susa era un'area fittamente punteggiata di fabbriche, dal tessile al siderurgico, dalla meccanica fine all'elettrotecnica, con una tradizione industriale che risaliva addirittura al 1200 e che aveva da secoli posto in secondo piano l'agricoltura. Tutto questo è finito, le fabbriche sono chiuse ed è ancora visibile la locale "cintura della ruggine", cioè degli impianti industriali abbandonati. I cinquantamila della manifestazione del 9 novembre erano la maggior parte degli abitanti della valle, uomini, donne, bambini, vecchi. Non era una manifestazione sindacale e neppure politico-frontista, nonostante le autorità in testa e i rappresentanti dei partiti. Era la protesta esasperata di chi vuole soltanto conservare ciò che ha già ottenuto e sta per perdere, una situazione che per Marx è la base non cosciente di ogni cambiamento sociale.

1950: Imprese economiche di Pantalone

Disumano brulichio capitalistico e futura dimora dell'uomo

Il World Urban Forum del 2006 si terrà a Vancouver. Per l'occasione, il governo canadese, l'ONU e la IBM organizzeranno un dibattito in rete sul tema della sostenibilità urbana (1-3 dicembre 2005). Il Forum Urbano Mondiale è organizzato ogni due anni da UN-Habitat, un organismo dell'ONU, per discutere sullo "sviluppo sostenibile" delle megalopoli. Cosa ci possa essere di sostenibile nell'attuale crescita di mostruosi centri urbani è difficile immaginare (il dibattito si chiamerà "Habitat Jam"; to jam vuol dire comprimere e jam è marmellata). Oggi 2,86 miliardi di persone vivono in aree urbane congestionate e, con l'attuale incremento, saranno 4,98 miliardi entro il 2030. Un miliardo vivono nelle baraccopoli. Queste mostruosità urbane, del tutto spontanee, dove regna l'anarchia, la violenza, la malattia spesso epidemica avranno il doppio di abitanti alla stessa data. La scorsa edizione del Forum fu proprio dedicata ad esse e all'incontrollabile esplosione demografica che le alimenta. Con il capitalismo e la crescita della popolazione inutile alla produzione il fenomeno è irrefrenabile. Alcune città asiatiche raddoppiano gli abitanti ogni dieci anni, distruggendo il territorio circostante. Come è già successo a quelle occidentali, il loro futuro sarà deindustrializzazione, cacciata degli abitanti dai centri verso le periferie, conseguente crisi dei trasporti, inquinamento esponenziale, costi sempre più alti degli immobili, tensioni sociali. Il rifiuto verso questo stato di cose non può essere né il riformismo né il fantasticare intorno a un idilliaco regresso allo "stato naturale". L'uomo, mettendo a frutto la sua tendenza alla vita comune, che agli albori della civiltà fu pienamente urbana, vivrà nel rispetto di un più completo rapporto con la natura sfruttando al massimo le conoscenze tecnolgiche. Non abiterà più "in città" o "in campagna", perché le abitazioni, le aree agricole, le fabbriche e le zone vergini si compenetreranno armonicamente.

2002: La dimora dell'uomo

L'insensata produzione e distribuzione capitalistica di alimenti

Adesso c'è l'allarme per l'influenza dei volatili, ma non sono così remoti gli allarmi per gli estrogeni nella carne, per la mucca pazza, per il mercurio nel pesce, ecc. ecc. Del resto, a parte le emergenze, è un fatto quotidiano e "normale" ingurgitare porcherie. L'alimentazione rappresenta uno degli esempi più evidenti dell'antitesi tra il modo di produzione capitalistico e i bisogni umani. Non a caso un testo della Sinistra Comunista "italiana" s'intitolava "Mai la merce sfamerà l'uomo", per sottolinearlo, anche in senso metaforico. Tutti sanno dei gravi problemi alimentari nel mondo nonostante le enormi quantità di cibo in endemica sovrapproduzione che finiscono distrutti per mancanza di denaro da parte dei consumatori. Tutti sanno che un'enorme quantità di cibo viene sottratta all'alimentazione umana e dirottata verso quella animale, che vi è una folle produzione di cereali per mangimi e che si costringono le povere bestie ad un cannibalismo contro natura riciclando i residui della macellazione. Diventa fin troppo agevole correlare la crescente diffusione di malattie degenerative, con la irreversibile degenerazione anti-umana di un sistema sociale in decomposizione che ci alimenta secondo le sue proprie esigenze e non secondo quelle della nostra specie.

1954: Mai la merce sfamerà l'uomo; cap. VIII Grandiosa non commestibile civiltà
2001: L'uomo e il lavoro del sole

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